“Raggi, che vuoi mettere in strada 20 famiglie italiane, ti ricordo che fra un anno l’attenzione mediatica e la scorta spariranno e tu tornerai a essere la nullità che eri, ma il tuo nome resterà scritto in eterno nel libro nero dei camerati”. Sono intimidazioni come queste – ricevute dopo il sequestro preventivo, chiesto dai pm, della sede di CasaPound a Roma – che preoccupano maggiormente. La sindaca Virginia Raggi ha già una scorta, ma le nuove minacce potrebbero essere presto analizzate dal Comitato di ordine e sicurezza pubblica. Di sicuro se ne dovrà occupare la magistratura: l’avvocato Alessandro Mancori ha infatti già ricevuto mandato dalla sindaca di sporgere querela. Nella denuncia, che verrà depositata la prossima settimana, ci sono finiti molti tweet. Come quello di un tale (account che ora risulta cancellato) che fissa con la sindaca un appuntamento per la fine del mandato, quando non avrà più la scorta. “Arriverà anche per te la resa dei conti”, scrive invece un altro utente. Frasi sulle quali dovrà indagare la Procura.
Il decreto Esami e precari, oggi il voto
Non c’è pace per il decreto Scuola: dopo lunghe trattative sui precari e aver ottenuto la fiducia alla Camera, ora affronta gli ultimi ostacoli che hanno la forma di un centrodestra che – per fortuna – fallisce nella sua stessa strategia. Il decreto, che deve essere approvato entro la mezzanotte, sarà votato stamattina dopo una giornata di bagarre in Parlamento. Ieri si erano iscritti a parlare in 172 per la dichiarazione di voto, soprattutto i deputati di Forza italia e Lega, ognuno con 10 minuti a disposizione. Una copertura di più di 28 ore (a cui aggiungere le tre ore di stop per la sanificazione dell’aula), un ostruzionismo spinto culminato nell’esposizione di uno striscione con scritto “Azzolina bocciata”. Salvo poi accorgersi che se fosse saltato il decreto sarebbe saltato anche l’esame di maturità semplifcato. Il vice capogruppo di Fdi, Tommaso Foti, in Aula, ha preso le distanze dalla linea dura della Lega (“Se avessimo voluto fare ostruzionismo ora saremmo ancora alla discussione generale”), sollevando però il tema di un decreto rimasto per 53 giorni in Senato e che la Camera si è trovata a dover ratificare in poche ore. Critica mossa anche da diversi esponenti della maggioranza durante l’esame in Commissione.
Sfide per il rientro: “In 33 per aula” e “piani inagibili”
Dal personale all’edilizia scolastica alle classe pollaio. A settembre si tornerà in aula. Come? Il plexiglass è il simbolo più drammaticamente azzeccato di una riapertura che non ha ancora risolto l’accumulo dei troppi problemi che la pandemia ha solo cristallizzato. Le storie non mancano.
Classi pollaio. Sarà difficile rispettare il distanziamento se non si cancellerà il piano avviato nel settembre 2018 che prevede l’istituzione di 20 mila classi con più di 30 iscritti. A Roma, riporta il sito Tecnica della scuola, “si è arrivati ad accorpare due classi intermedie di un istituto superiore, creandone una da 34 alunni. Situazione simile al liceo Scientifico Laurana di Urbino: è stata formata “una classe con 32 ragazzi, tra cui un portatore di handicap”. In un liceo calabrese si arriva a 33 alunni.
Personale. A poco più di due settimane dagli esami di maturità la nomina dei presidenti delle commissioni resta problematica. Secondo la Cisl scuola “mancano circa 1.500 presidenti di cui oltre 700 in Lombardia”, dove i professori temono il contagio. Criticità si registrano anche nel Lazio, in Toscana, Veneto e Piemonte. L’Associazione nazionale presidi (Anp) stima che manchino poco meno del 10% dei presidenti e individua tra le Regioni con più difficoltà anche l’Emilia-Romagna.
Didattica a distanza. A Roma, lunedì 8 giugno avrebbe dovuto essere l’ultimo giorno di lezione. Per questo la rete “Apriti scuola”, che riunisce numerosi istituti della Capitale, ha organizzato una giornata di mobilitazioni, per dimostrare che la didattica in presenza (e in sicurezza) si può fare. E che questa crisi può diventare l’occasione per “trasformare la scuola in meglio, anziché impoverirla ancora di più”. Al di là delle necessarie linee guida, tutto dipenderà da come istituti ed enti locali saranno in grado di declinarle: dirigenti più o meno coraggiosi, amministratori più o meno disponibili. Serve, scrivono le associazioni e i comitati dei genitori, “un nuovo patto di corresponsabilità da parte di tutta la comunità educante” perché “i tempi sono strettissimi e forte è il timore che vengano recepite solo le indicazioni più facili e restrittive”. Resta l’insoluta questione della possibile esclusione dalle video-lezioni degli studenti perlopiù per mancanza di device, inadeguata connessione e condizioni familiari difficili. Secondo Cittadinanzattiva, all’istituto Pitagora di Policoro (Matera) ne sono rimasti esclusi quasi 8 alunni su 10. Non si sono collegati il 75% delle classi al Nevio-Cinquegrana di Napoli, il 50% al De Franchis di Benevento e al Vivaldi di Torino.
Edilizia scolastica. Sempre a Roma, nel plesso della scuola Giulio Cesare – quasi 500 bambini tra materna ed elementari – c’è un intero piano di aule chiuso da anni, due giardini da ristrutturare, un cortile inagibile. Tradotto, una marea di spazi che si potrebbero utilizzare per favorire il distanziamento sociale e la didattica all’aperto. Ma i cantieri sono fermi, nonostante i progetti siano avviati e ci siano perfino una parte dei fondi stanziati. A Napoli, denuncia la Cgil, “negli ultimi due anni solo su 29 edifici sono stati effettuati interventi di messa in sicurezza”. Nelle scuole restano banchi e sedie rotte, palestre fatiscenti e cortili che fungono da deposito merci. Ora arriverà il plexiglass.
Non basta il plexiglass alle ferite della scuola
Il plexiglass tra i banchi: ieri la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, ha parlato della possibilità che a settembre si torni in classe tra le lastre di vetro sintetico per aiutare gli studenti a mantenere il distanziamento sociale. C’è la giusta necessità di ricominciare e di farlo in sicurezza, c’è la necessità che la scuola pubblica sia il primo presidio di prevenzione e protezione per evitare nuovi focolai di Covid-19 tra gli studenti ma soprattutto tra i loro familiari. I paragoni con la partita di calcio o i giochi al parco non reggono. La scuola, almeno fino a una certa età, è un obbligo e deve fornire tutte le garanzie necessarie. L’istruzione è un diritto, tutelato dalla Costituzione, come la salute. Si guarda al plexiglass, ma i guai della scuola sono ben peggiori.
“Prendiamo atto che la ministra Azzolina ha confermato ciò che noi affermiamo da tempo – ha detto Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi – Nei giorni scorsi abbiamo espresso parere contrario al dimezzamento delle classi e ai doppi turni (all’idea di tenere in aula metà classe alla volta, ndr). È ora essenziale che gli Enti Locali reperiscano nuovi spazi che siano adeguati e disponibili in maniera continuativa”. Dietro al plexiglass c’è l’impossibilità di un cambiamento strutturale dell’istruzione che inizi dal dimezzamento – o almeno dalla riduzione – del numero di studenti per classe, e di un ripensamento totale degli spazi. Per sopperire ai nuovi bisogni serve un reclutamento che a oggi appare imposssibile.
Partiamo dalle classi. Oggi le sezioni della scuola primaria possono avere un numero minimo di 15 e un massimo di 26 alunni. “Eventuali iscritti in eccedenza – si legge sul sito del ministero dell’Istruzione – dovranno essere ridistribuiti tra le diverse sezioni, senza superare i 27 alunni per sezione”. Per le medie si prevede un minimo di 18 e un massimo di 28 alunni per classe e “si procede alla formazione di un’unica classe quando il numero degli iscritti non supera le 30 unità”. Per le superiori, le classi possono diventare ancora più affollate. Si va da un minimo di 27 alunni ad un massimo di 30. Elaborando i dati sul sito del ministero (aggiornati al 2018) si scopre che in media le scuole primarie hanno 19 alunni per classe, alle scuole medie ce ne sono 21 così come alle superiori. Ma sono numeri su carta, rappresentano una media che non tiene conto della presenza di disabili e alunni con bisogni speciali (dunque di classi che sempre su carta dovrebbero essere meno numerose), della presenza degli insegnanti di sostegno, delle differenze tra le scuole di città e quelle dei piccoli paesi dove, oltretutto, il distanziamento e le alleanze con gli enti locali potrebbero rivelarsi molto più semplici grazie alla maggiore contiguità e collaborazione tra scuola e territorio.
Il Covid-19 e l’emergenza avrebbero potuto mettere in moto un totale ripensamento della scuola, dove un minor numero di alunni per classe avrebbe determinato anche un miglioramento nella qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento, dunque lato studenti e insegnanti. “Lo sciopero dell’8 giugno ha l’obiettivo di sollecitare il governo a fare le scelte necessarie non solo per la riapertura a settembre nella massima sicurezza ma per rimettere la scuola al centro delle priorità del Paese. Servono quindi risorse immediate per assunzioni straordinarie al fine di garantire la riduzione degli alunni per classe, obiettivo che non riguarda solo il distanziamento ma la qualità della scuola”, ha detto il segretario della Flc Cgil, Francesco Sinopoli, annunciando la protesta proclamata per l’8 giugno con le altre sigle. Più classi, infatti, significa più docenti (o maggior numero di ore di lavoro a docente) e più docenti significa che servono più soldi per pagarli.
Ad oggi, gli insegnanti, tra tempo determinato e indeterminato, sono 872.268, la spesa per i loro stipendi ammonta a poco meno di 40 miliardi all’anno, cifra che sale fino a circa 50 miliardi se si considera la quota per tutto il personale e la galassia dell’istruzione. Parliamo di numeri enormi, ben oltre i tre miliardi in più che chiedono i sindacati, oltre i 4 miliardi che il ministero dell’Azzolina sta movimentando per l’emergenza, ben oltre il miliardo chiesto dall’ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti (che poi si è dimesso). Cifre sulle quali bisogna iniziare a ragionare seriamente, in modo chiaro e con una lunga prospettiva temporale. Nel frattempo, si può intervenire in modo laterale per “portare a casa” quanto possibile: il Movimento 5 Stelle ha presentato un emendamento al decreto rilancio che prevede il dimezzamento degli alunni per classe almeno nelle zone più colpite dal Covid-19 e nelle classi in cui ci sia un disabile. L’altro fronte è attendista, aspetta che il calo della natalità colmi il gap strutturale lasciando il presente in un limbo (aggravato dall’emergenza) e il futuro in balia di un problema più grosso.
Ammesso però che le classi e i docenti aumentino, dunque che aumentino i soldi, dove metteranno gli alunni? L’edilizia scolastica è l’altra grande incognita delle scuole. Secondo la Fondazione Agnelli, che ha elaborato l’ultimo rapporto sull’edilizia scolastica, le aule italiane hanno una dimensione media di circa 45 metri quadri, pochissime superano i 60 metri quadri. L’8,6 per cento degli edifici ha almeno un problema di tipo strutturale (circa 3.100, censiti nel 2016). “Fra gli investimenti pubblici in infrastrutture, quelli sull’edilizia scolastica devono assumere un ruolo centrale – si leggeva nella relazione, scritta a fine 2019 –. Per rinnovare circa 40mila edifici attivi servirebbero 220 miliardi di euro, pari all’11 per cento del Pil. Un impegno enorme che richiede programmazione nel tempo (ma da subito), selezione accurata degli interventi prioritari, continuità di volontà politica dei governi”.
Negli anni, gli investimenti sull’edilizia scolastica non sono mancati: la programmazione nazionale triennale di cui ci siamo dotati nel 2015 prevedeva interventi per 3,7 miliardi di euro con mutui agevolati per gli enti locali titolari delle scuole e a carico dei fondi Bei. E ancora 400 milioni del programma Scuole Sicure, 250 milioni per Scuole Nuove e adesso 510 milioni per il piano triennale 2018-2020 destinati a Regioni ed enti locali, con altri 320 per finanziare nuovi interventi. Soldi che nascono con l’obiettivo di rinnovare le scuole dalle fondamenta ma che non sono stati spesi, arenati su una burocrazia recentemente snellita e che ha messo a dura prova funzionari amministrativi poco formati. Ora, nelle ultime tranche, saranno utilizzati per trovare soluzioni rapide per rispondere al distanziamento sociale, incluse tensostrutture e interventi definiti di “edilizia leggera”. “Le risorse per gli enti locali – ha spiegato il presidente dell’Anci, Antonio Decaro – non sono sufficienti”. La stima dell’Anci è che considerando un costo medio di 20 mila euro per questi interventi leggeri nei 28 mila edifici, serviranno 620 milioni complessivi. Pochi, molti: dipende dalla prospettiva. Si guarda a settembre, ma il problema è più lontano, tanto nel passato quanto nel futuro.
“Una lista Conte oggi vale il 14%”
Quanto vale il partito del premier? Il primo sondaggio sulla consistenza politica di un’eventuale lista Conte l’ha realizzato YouTrend per SkyTg 24. Oggi un partito guidato dal presidente del Consiglio potrebbe uscire dalle urne con il 14,3%. Togliendo oltre 5 punti a testa al Pd e al Movimento Cinque Stelle.
I numeri di Quorum/YouTrend sono suggestivi, ma vanno presi con estrema cautela. Ricordate la parabola di Mario Monti? Alla fine del suo mandato a Palazzo Chigi, quando il professore decise di correre alla guida di una sua lista politica, i sondaggi gli attribuivano percentuali importantissime: secondo il Sole 24 Ore la futura Scelta civica poteva valere il 23%, le ipotesi più sobrie di altri istituti la collocavano tra il 10 e il 15 per cento. Alla fine prese l’8,3.
Il sondaggio di YouTrend è comunque utile per misurare il consenso di cui gode il premier “in uscita” – speriamo – dalla fase peggiore della pandemia. E la stima del 14,3% è un tesoretto (virtuale) significativo per un uomo che fino a due anni fa era sconosciuto all’opinione pubblica.
Nel sondaggio ci sono altri numeri interessanti. Con l’attuale equilibrio politico (cioè senza Conte in campo) la situazione sarebbe la seguente: la Lega al 26,2%, il Pd al 21,6%, il M5S al 15,5% e FdI al 15%. Con la lista Conte (14,3%) le percentuali degli altri partiti cambierebbero così: Lega al 26,3% (+0,1), Pd al 16,5% (-5,1), M5S al 9,7% (-5,8), FdI al 15,4% (+0,4).
A pagare il dazio più pesante sarebbero Pd e M5S quasi in egual misura. A dimostrazione del fatto che Conte, portato al governo dai Cinque Stelle, è ormai percepito come una figura equidistante dai due principali partiti della sua maggioranza. La nascita del partito del premier sarebbe una mazzata tremenda soprattutto per i grillini, che scenderebbero sotto la soglia del 10%, a quasi 5 punti dalla stessa lista Conte. Il resto del consenso che viene attribuito al premier sarebbe aspirato da Italia Viva (che passa dal 3,1 all’1,8%), da Azione! di Calenda (dal 2,4 all’1,7%), da Forza Italia (dal 6,5 al 5,7%) e dagli altri cespugli moderati.
C’è anche un terzo scenario ipotizzato da YouTrend: cosa succederebbe se invece Conte si presentasse alle elezioni alla guida del Movimento Cinque Stelle? In quel caso a beneficiarne sarebbero i grillini, che salirebbero dall’attuale 15,5 al 19,9% (+4,4 punti). Ma riprenderebbe fiato anche la Lega di Salvini (27,9%, +1,7), mentre il Pd potrebbe cedere quasi tre punti percentuali (18,9%).
Per Conte sono ancora positivi anche i numeri del consenso personale: la sua fiducia è al 57,1%. Meglio di lui solo Mario Draghi: 59,3%. L’ex Governatore della Bce è l’unico personaggio pubblico italiano con un apprezzamento superiore al 50% in tutti i campi politici (90,7% nel centrosinistra, 59,4% nel centrodestra, 59,9% tra i Cinque Stelle).
Sul Mes tutti contro i 5Stelle. Ma nell’Ue nessuno lo vuole
Quando si dice il tempismo. Non è bastata la decisione della Bce di aumentare il programma di acquisti di titoli di debito a frenare il dibattito sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Francoforte alza il bazooka di 600 miliardi, portando gli acquisti di titoli italiani ad almeno 260 miliardi nel 2020, più di metà del fabbisogno annuale del nostro Paese. Poco importa anche che nessun paese Ue intenda usare l’ex fondo Salva Stati: ieri è ripartito il fuoco incrociato per spingere il governo, o meglio il premier Giuseppe Conte, a superare il no dei 5 Stelle e usare le line di credito “sanitarie” del Mes. L’affondo arriva da Confindustria, pezzi di estabilishment e della stessa maggioranza, Pd in testa.
Breve premessa: l’accordo raggiunto all’Eurogruppo mette a diposizione i prestiti del Mes con la condizionalità di usarli per le spese sanitarie “dirette e indirette” legate al Covid; valgono il 2 per cento del Pil di ogni Paese (36 miliardi per l’Italia), vengono erogati in 2 anni, vanno rimborsati entro 10 e sono a tassi assai bassi.
Ieri, mentre le Borse e lo spread festeggiavano la decisione della Bce, il segretario del Pd Nicola Zingaretti ha scritto una lettera al Sole 24 Ore per chiedere di ricorrere al Mes: “36 miliardi senza condizioni a tassi bassissimi ci permetterebbero di fare un grande salto nella qualità della sanità pubblica”. Il segretario dem spiega che il risparmio per l’Italia, evitando di chiedere prestiti per 36 miliardi sul mercato, è di 580 milioni l’anno. Peccato che li calcoli sull’asta di Btp chiusa il giorno prima della decisione della Bce, che ha ridotto ancora i tassi dei titoli italiani (ed è probabile che interverrà ancora in autunno). Zingaretti non è però il solo. Anche il presidente della Toscana, Enrico Rossi – i cui tagli alla sanità regionale si sono fatti sentire – si è fatto intervistare da Repubblica per dire che “i soldi del Mes potrebbero finanziare un gigantesco piano di investimenti in sanità”, mentre il ministro della Salute Roberto Speranza fa sapere di essere pronto a usarli. Italia Viva, ça va sans dire, ci punta da sempre.
Vale la pena di notare, però, che è un dibattito esistente solo in Italia. Ieri, per dire, il ministro delle finanze greco Christos Staikouras ha spiegato che Atene – Paese assai più indebitato dell’Italia e che il Mes modello Troika l’ha sperimentato – “non ha bisogno di ricorrervi”. La Francia ha già fatto sapere che non lo userà. “Il Mes può servire in caso di difficoltà a ottenere finanziamenti sui mercati finanziari. Non è la nostra situazione”, ha detto il ministro Bruno Le Maire.
L’ex fondo salva stati, infatti, è stato istituito nel 2012 per aiutare i Paesi che non riescono più a finanziarsi sul mercato (è una sorta di un banca partecipata dai 19 Stati dell’euro). Un Paese che vi ricorre può lanciare un segnale pericoloso agli investitori (“effetto stigma”) e far salire il costo sul resto del debito da emettere. È per questo che anche Spagna e Portogallo non hanno intenzione di usarlo. Lisbona esprime anche il presidente dell’Eurogruppo, il ministro delle finanze Mario Centeno. Dal suo entourage filtra che “lo scopo del prestito del Mes era di dire ai mercati che l’Ue aveva un bazooka nel cassetto, pronto a essere usato in caso di bisogno”. Insomma serviva più dare un segnale che usarlo davvero. Cosa che finora ha ventilato di fare solo Cipro, che però è già sotto un programma Mes, salvo poi chiarire che “i fondi sembrano insufficienti per giustificare tale azione”.
Il dibattito pubblico, insomma, esiste solo in Italia. È il motivo è più politico che economico: legare il Paese a un’istituzione che è tenuta a monitorare la sostenibilità delle finanze del Paese debitore per potersi assicurare il rimborso dei prestiti.
Effetto virus: De Luca gongola. Liti a destra su Fitto e Toscana
Anche per le elezioni regionali c’è un prima e un dopo-Covid. L’emergenza ha cambiato tutto: qualcuno, come Vincenzo De Luca in Campania, era in bilico e ora è saldo alla guida di una super-coalizione; altri, come Susanna Ceccardi in Toscana, sono passati dalla candidatura certa al rischio di rimanere a casa. Con in più l’incognita Val d’Aosta, dove si voterà dopo il commissariamento (ma lì i partiti locali sono più forti di quelli nazionali).
Puglia. Pur di far la voce grossa con gli alleati, Salvini ha rotto con i leghisti locali. Lo sfidante di Michele Emiliano (sostenuto pure da Nichi Vendola) sarebbe dovuto essere Raffaele Fitto di FdI. Ma la Lega ancora non si è arresa e vuole almeno una candidatura tra Campania e Puglia. Così Salvini ha proposto Nuccio Altieri, per l’ira dei leghisti pugliesi: 108 esponenti del Carroccio hanno scritto all’ex ministro accusandolo di averli esclusi da ogni dibattito.
Campania.Alla fine sarà ancora Vincenzo De Luca. Star mediatica dell’emergenza, ha ottenuto l’appoggio di una coalizione larghissima (ma senza i 5 Stelle) che va dall’area di Sandro Ruotolo a Clemente Mastella, fino a tre giorni fa in Forza Italia. Più intricata la questione a destra perché i berlusconiani pensano a Stefano Caldoro, ma Salvini ieri ha iniziato la campagna elettorale e ha ribadito di pensare a ben altro, tanto più che pure all’interno di FI Mara Carfagna non è convinta e sponsorizza il pm Catello Maresca.
Toscana. Secondo Noto Sondaggi, il centrosinistra è in vantaggio sul centrodestra di un paio di punti. Ma se il Pd e i suoi alleati hanno scelto Eugenio Giani, a destra si litiga. La Lega dà per certa Susanna Ceccardi, il resto della coalizione non è convinto: “Il Covid ha cambiato tutto – ha detto il forzista Stefano Mugnai – possono cambiare anche le candidature”. Un’ipotesi è il deputato di FI Maurizio Carrara, ma anche FdI potrebbe avanzare pretese. C’è poi il M5S di Irene Galletti, disponibile all’alleanza con il Pd in caso di passo indietro di Giani. Inutile ora avventurarsi in convivenze forzate, anche perché qui è previsto il ballottaggio e i 5 Stelle, anche senza intesa formale, potrebbero poi aiutare il centrosinistra.
Veneto. Durante l’emergenza, Luca Zaia ha aumentato il proprio consenso personale tanto da spingere per le elezioni già a luglio. A sinistra probabilmente si punterà ancora sul candidato pre-Covid, il vicesindaco di Padova Arturo Lorenzoni. Profilo lontano, anche per effetto mediatico, dal leghista. Motivo per cui a fine maggio lo stesso Lorenzoni si era lasciato scappare una suggestione: “Se Andrea Crisanti volesse candidarsi gli lascerei volentieri il posto”. Difficile. Il M5S, intanto, su Rousseau ha scelto l’ex senatore Enrico Cappelletti.
Liguria. Giovanni Toti è ancora in testa ai sondaggi, ma la recente gestione della pandemia potrebbe costargli qualcosa: insieme alla Lombardia e alla Valle d’Aosta, da aprile la Liguria ha il peggior rapporto tra decessi e numero di abitanti. E ieri il Tar ha pure bocciato la gara per l’affidamento ai privati della gestione di due ospedali. Ieri notte 5 Stelle e Pd hanno provato per l’ennesima volta a trovare l’intesa sul candidato: oltre a Ferruccio Sansa c’è Ariel Dello Strologo, con Aristide Massardo più dietro. Alice Salvatore, in inverno scelta come candidata grillina, ha lasciato il M5S e ha creato una sua lista.
Marche.Il Pd va ancora su Maurizio Mangialardi nonostante alcuni esponenti locali vogliano rivalutare la posizione del governatore uscente Luca Ceriscioli, indotto al passo indietro prima della pandemia. I 5 Stelle, i cui vertici marchigiani erano favorevoli all’accordo prima del niet di Di Maio, hanno poi virato su Gian Mario Mercorelli. Ma è a destra la vera incognita: il nome sarebbe dovuto essere Francesco Acquaroli di FdI. Nel domino delle Regioni, però, un cambiamento altrove potrebbe avere conseguenze pure qui.
Ora Camera e Senato si fanno la clinica anti-Covid: 5 milioni
Per ora, toccando ferro, è andato tutto bene o quasi. Ma a Palazzo ancora serpeggia a tal punto la paura del virus che si è deciso di mettere mano alla cassa per fare di più. Perché va bene riorganizzare la logistica del Parlamento per assicurare le giuste distanze imposte dall’emergenza e procedere ai controlli a tappetto agli ingressi. O, come è accaduto al Senato, assicurarsi per tempo tutto il necessario per fare tamponi e test sierologici. Anche se il peggio sembra ormai alle spalle, ora Montecitorio e Palazzo Madama hanno deciso di dotarsi di un presidio ospedaliero interno riservato ai loro inquilini. E per questo sono pronti a spendere 5 milioni di euro (Iva esclusa) per reclutare il personale sanitario necessario a garantire la massima assistenza contro ogni rischio futuro. Che si tratti sempre di coronavirus (molti esperti del settore sono disponibili ad accettare scommesse su un altro picco epidemico in autunno) o di un’emergenza nuova di pacca: l’ordine categorico è sicurezza.
Certo la speranza, naturalmente, è che non debba servire, come è successo per le due “astronavi” realizzate in Fiera a Milano e a Civitanova Marche da Guido Bertolaso, con annesse polemiche sui costi. Ma la prudenza, anche alle latitudini romane, non pare mai troppa. Il virus ha infatti inoculato la convinzione che il Parlamento, cuore pulsante della democrazia, sia un focolaio naturale. Perché gli eletti, di qualunque colore politico, hanno un fattore comune: si ritrovano tutti insieme appassionatamente nella Capitale provenendo da tutto lo Stivale (isole comprese).
Ne sa qualcosa il salernitano Edmondo Cirielli di Fratelli d’Italia, che probabilmente ha preso il virus proprio alla Camera, dove è nel collegio dei questori che hanno avuto il loro bel daffare per cercare di evitare che il contagio costringesse Montecitorio ad alzare bandiera bianca e a chiudere.
Sono state adottate contromisure mai viste, a partire dalla logistica: ora anche il Transatlantico è stato allestito con postazioni di voto per consentire agli onorevoli di stare più larghi, gli accessi per gli estranei sono contingentati, all’entrata sono state imposte le forche caudine dei termoscanner. Il Senato non è stato certo da meno: la prima mossa è stata accaparrarsi la consulenza del direttore dello Spallanzani, Giuseppe Ippolito, uno dei principali esperti reclutati dal governo per fronteggiare l’emergenza nel Paese. E poi gel disinfettante come piovesse, dispositivi di protezione a non finire. Ed esami a tappeto: prima tamponi e poi anche i test sierologici (quelli che con tanta difficoltà sono accessibili ai cittadini comuni), affidati all’Istituto di microbiologia del Gemelli. Risultato? La presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati è giustamente orgogliosa, oltreché di azzeccare sempre la mascherina intonata alla mise di giornata, anche del fatto che l’amministrazione che guida è rimasta praticamente Covid-free.
Ma chi garantisce per il futuro? E così è stato attivato il protocollo in modo che “presso la Camera e il Senato della Repubblica venga allestito un Servizio di assistenza medica e infermieristica” ad hoc per la gestione delle emergenze sanitarie. Reclutando “un numero stabile di medici specializzati” in cardiologia e in medicina di urgenza e emergenza, oltre che anestesisti e rianimatori. Ma sarà garantito anche un certo numero di infermieri e di servizi accessori in regime ambulatoriale. Insomma tutto il pacchetto completo e di altissima qualità.
Perché come recita il bando comune pubblicato dalle due amministrazioni “il prezzo non è il solo criterio di aggiudicazione”. Peserà, eccome, il pedigree tecnico e professionale di chi si farà avanti: si pensa a operatori della sanità di un certo rilievo perché uno dei requisiti indispensabili è quello che abbiano a disposizione “un Dipartimento d’emergenza e accettazione (Dea) di primo o secondo livello pienamente operativo”. Non si sa molto più di perché l’accesso ai documenti del bando in questione è limitato: maggiori informazioni saranno riservate agli operatori interessati che potranno consultare la documentazione di gara. E solo quelli ammessi a presentare l’offerta potranno effettuare un sopralluogo nei locali candidati dalle amministrazioni della Camera e del Senato per accogliere il loro onorevole pronto soccorso.
Regionali, voto a settembre “prima del rientro a scuola”
Non è solo una questione di preferenze, liste da comporre e firme da raccogliere. La decisione sulla data per le elezioni regionali e il referendum sul taglio dei parlamentari posticipati all’autunno si intreccia con un altro tema caldo: la riapertura delle scuole. Votare il 20 e 21 settembre, domenica e lunedì, porterebbe a un effetto paradossale che in pochi sembrano aver preso in considerazione: se le scuole dovessero riaprire lunedì 14, il rischio è che dopo soli cinque giorni siano costrette a chiudere per allestire i seggi elettorali in sette regioni. E non solo per le date del voto: di prassi le scuole vengono chiuse il giorno prima e il giorno dopo (da sabato a martedì, in questo caso) ma la sospensione delle lezioni potrebbe durare più a lungo considerando la sanificazione che comporterebbe il passaggio di centinaia di persone per ogni scuola. A questo va aggiunto, ma solo per la Toscana, l’eventuale ballottaggio che moltiplicherebbe i giorni di chiusura. Per questo, alla vigilia della settimana in cui il Parlamento convertirà il decreto legge del governo (lunedì il voto), ieri il Presidente della Conferenza delle Regioni Stefano Bonaccini (Emilia-Romagna) e il ligure Giovanni Toti hanno vergato un comunicato per invitare il governo a votare entro la metà di settembre “così da consentire sia una normale ripresa dell’anno scolastico che il rispetto di una importante scadenza elettorale”. Entrambi gli appuntamenti, dicono, “sono molto sentiti dai cittadini, perché si tratta del futuro sia dei ragazzi che del governo dei loro territori”: “Per troppo tempo ormai abbiamo interrotto sia il normale corso democratico che il processo educativo dei nostri ragazzi” concludono Toti e Bonaccini.
Al momento, nel governo si naviga a vista. Il 20 e il 21 settembre restano le date più probabili come soluzione di compromesso tra le richieste delle regioni e quelle dell’opposizione, ma nella maggioranza ammettono che il problema della riapertura delle scuole esiste: “I presidenti sollevano un tema vero – dice al Fatto il deputato Pd, Stefano Ceccanti – vedremo nelle prossime ore”. Per questo cinque governatori uscenti delle sette regioni in cui si voterà in autunno – De Luca (Campania), Zaia (Veneto), Emiliano (Puglia), Ceriscioli (Marche) e Toti (Liguria) – una settimana fa avevano scritto a Mattarella per chiedere le elezioni a inizio settembre o addirittura a fine luglio. Votare sotto l’ombrellone ormai sembra escluso, mentre l’idea del 6 o al limite del 13 settembre servirebbe proprio a evitare l’accavallamento con il nuovo anno scolastico. Anche questa soluzione però avrebbe i suoi contro: significherebbe raccogliere le firme e comporre le liste entro inizio agosto. “Per noi è un grosso problema – commenta il deputato e segretario della Lega in Toscana, Daniele Belotti – come facciamo a fare la campagna elettorale in spiaggia con i problemi sanitari che conosciamo?”.
Se in Commissione Affari costituzionali è stato approvato l’emendamento di Italia Viva che riduce a un terzo le firme necessarie per correre alle elezioni, è impraticabile la proposta – che piaceva a dem, leghisti e ad alcuni governatori – di eliminare per decreto le preferenze. Solo un’idea, mai concretizzata, anche perché le leggi elettorali regionali sono materia concorrente: il governo può stabilire dei principi, ma poi sono le regioni a decidere. Il vero scontro politico resta sulla data: con lo spettro che i presidenti “rompano” l’election day e convochino le urne il 6, andando allo scontro con l’esecutivo.
Con-te partirò
Se i set dei film e delle fiction non si decidono a riaprire alla svelta, rischiano di vedersi rubare il mestiere dai giornali. Cioè da quegli oggetti cartacei che un tempo contenevano notizie e ora fabbricano invenzioni. Le più in voga, negli ultimi tempi, sono tre: escogitare alibi (ovviamente falsi) per salvare le chiappe agli sgovernanti della Lombardia prima che passino alla storia come i più terrificanti (e al contempo comici) serial killer mai visti sull’orbe terracqueo; trovare il modo di scongiurare la scomparsa di due specie in via d’estinzione, i renziani e i calendiani; propiziare la nascita di un nuovo governo, possibilmente presieduto da Mario Draghi (senza peraltro domandargli se sia minimamente interessato) e sostenuto da tutti i vecchi partiti, previo dirottamento di Giuseppe Conte su un qualche strapuntino di consolazione (senza peraltro domandargli se sia minimamente interessato). La terza missione, la più improba, vede impegnatissime le principali testate e i loro signorini grandi firme, che studiano per il premier nuovi mestieri alternativi (come se non fosse già un prof e un avvocato).
L’estate scorsa, caduto il suo primo governo, tutti scrivevano che sarebbe andato certamente al ministero degli Esteri o a Bruxelles come commissario Ue (infatti restò premier). L’altro giorno Il Tempo e Il Dubbio (mica pizza e fichi) lo davano sicuro candidato di Pd e 5Stelle a sindaco di Roma (dove peraltro il M5S ricandida la Raggi e i dem, come sempre, uno a caso da buttar giù alla prima occasione). Ieri il sempre attendibile Claudio Tito, su Repubblica, lo dipingeva molto “tentato” dall’appassionante sfida di candidarsi a senatore alle elezioni suppletive a Sassari (gnamm!) per “blindare il governo” (qualunque cosa voglia dire) e diventare “il primo candidato ‘giallorosso’”, un “laboratorio” vivente della prossima “fusione Pd-M5S” (ovviamente mai pensata da alcuno). L’idea che uno che fa il presidente del Consiglio con consensi intorno al 60%, fra i più alti in Europa, non stia nella pelle di fare il senatore di Sassari o il sindaco di Roma, rende perfino più credibile la notizia ripetuta per la quarantesima volta da Libero: “Giuseppi confida nel virus per rimanere in sella e sogna il Quirinale”. E mentre briga per il Campidoglio, per il seggio sassarese e per il Quirinale e nei ritagli di tempo governa, ha ancora parecchio tempo libero. Infatti ha “pronto il suo partito”. Lo scrive un’altra firma di provata credibilità: Stefano Zurlo del Giornale. Dunque dev’essere vero. L’aveva già scritto ai primi d’aprile il piduista Bisignani su Libero: “Il partito di Conte è pronto. Dovrebbe chiamarsi ‘Insieme con Conte’. Il piano segreto del premier”.
Talmente segreto che non ne sapevano nulla né Conte né gli altri congiurati: Andrea Scanzi, il sottoscritto, un certo Gianluca Rospi (ha “un ufficio in via della Pigna”, e ho detto tutto) e un “fidatissimo collaboratore, Gerardo Capozza”. Senza dimenticare “i gruppi vicini alla figura di San Francesco d’Assisi” (santa Chiara, il lupo di Gubbio e alcuni uccelli), “i ciellini di Giorgio Vittadini, il volontariato, la Comunità di Sant’Egidio e gli intransigenti di Civiltà Cattolica”. Quando lessi la bisignanata, ci scherzai sopra sul Fatto e proposi per il Pochette Party un nome più accattivante del noiosissimo “Insieme con Conte”, ma soprattutto più diretto e subliminale: “Con-te”. Voi non ci crederete ma l’altroieri l’autorevole Zurlo ha trasformato la mia battuta in una notizia: “‘Con-te’: un gioco di parole per un partito che cerca strada” ma è “pronto”: “Un contenitore a immagine e somiglianza” di Conte, il quale “cospira con due mani: in una ci sono diversi soggetti della diaspora grillina, nell’altra prototipi democristiani”. Peccato non ne abbia una terza, di mano, perché ci sono pure “una decina di circoli in gestazione, embrione del movimento”.
Se poi ne avesse una quarta, potrebbe pilotare “alcuni nomi” che lavorano con lui notte e giorno al partito: Bruno Tabacci, ex Dc, ex Ccd, ex Udc, ex Pd, ex giunta Pisapia, ex Più Europa (lui, antiabortista, con l’abortista Emma Bonino); “il comandante Gregorio De Falco”, quello che tentò di rimandare a bordo Schettino, poi salì a bordo del M5S, poi ne scese in piena èra giallo-verde e riuscì a votare persino la mozione Bonino pro Tav essendo stato eletto col movimento più No Tav della storia; Lorenzo Fioramonti, quello che pensava di fare il ministro dell’Istruzione dal Sudafrica e diede le dimissioni un mese dopo, ma solo perché non credeva che Conte le accettasse e ora guida “Eco”, movimento ambientalista monozigote a chilometro zero, impatto zero e soprattutto voti zero. Insomma, tutta gente a posto e soprattutto coerente. Poi c’è Angelo Sanza, uno che era già sottosegretario di Andreotti e amico di Cossiga: un tenero virgulto. E tal “Alessandro Fusacchia, a suo tempo ghostwriter della Bonino”. Un parterre de roi da paura, un trust di cervelli e trascinatori di folle che – assicura Zurlo – “va avanti con provette e alambicchi”. Intanto nelle redazioni si rincorrono le voci sul marchio già depositato del nuovo partito e si commissionano sondaggi: l’ultimo è di ieri e dà il Con-te Party, prim’ancora che nasca, già al 14%, quarto in assoluto dietro a Lega, Pd e FdI. Numeri che si spiegano in un modo solo: il campione interpellato deve aver saputo di Rospi e Capozza, forse anche di Fusacchia.