Documentare il virus lascia “Senza respiro”

“Fare scelte come in un campo di battaglia: chi cercare di far vivere e chi lasciare al proprio destino”. Non tutti hanno accettato la metafora o l’analogia bellica per inquadrare il Covid-19, ma anche i più scettici si dovranno ricredere di fronte a Senza respiro, il documentario realizzato dalla Rai, con il contributo di Arte e Pbs, che verrà trasmesso giovedì 11 giugno in prima serata su Rai Due.

Girato tra Cremona, Piacenza, Bergamo e Codogno, riguadagna immagini tanto strazianti quanto preziose alla sciagura invisibile che la pandemia è stata nella fase più virulenta e crudele. Ci sono i caduti, i feriti, i sopravvissuti, gli eroi, e ci sono anche i militi ignoti, giacché uno scampato con le lacrime agli occhi ritorna ai pensieri spalancati sull’orlo dell’abisso: “La morte ti rende anonimo, che senso ha la vita quando muori così? Non sei servito a niente”.

La commozione non è un valore assoluto, ancor più nell’audiovisivo, eppure ha ragione Duilio Giammaria, che dalla direzione di Rai Documentari ha voluto e supervisionato il progetto, quando rivendica a Senza respiro “la capacità di entrare dentro la sofferenza umana come le news da sole non sanno fare: è una sintesi tra informazione e cinema, lavora sulla percezione”.

Lo stanno facendo in molti, in Europa e altrove: la Bbc ha seguito pazienti e medici al Royal Free London per un Coronavirus Special in due episodi; la radiotelevisione belga francofona (Rtbf), in collaborazione con Look e France Télévisions, ha realizzato Cvid-19: 23 jours au cœur d’un hôpital; Arte ha proposto il collage Viral, ovvero un tg della pandemia nel mondo; Netflix ha risposto con Coronavirus, Explained.

Ma l’Italia, per una volta, non segna il passo: Senza respiro nasce dalla sinergia tra Rai Documentari, la trasmissione Petrolio e, appunto, la franco-tedesca Arte, con i contributi di Francesca Tosarelli da Bergamo, e l’americana Pbs, con il reportage di Sasha Joelle Achilli che ha passato quattro settimane in un ospedale Covid a Cremona.

Dai primi contagi ai decessi in solitudine, il lessico è quello ormai tristemente familiare di una tragedia inedita: “Uno tsunami inaspettato”, “tre passi dalla morte”, “io pensavo di essere in guerra”. Mentre l’Italia già si scopre imbecille, ovvero permeabile al complottismo e al negazionismo, il doc restituisce la verità dei fatti, indagando il pronto soccorso, interrogando allettati, ascoltando medici, interpellando reduci. Non solo la cronistoria delle “Tac tutte uguali e brutte”, le degenze a “pancia in giù, tubo in gola e gola tagliata”, il forno crematorio di Piacenza che a inizio aprile deve rimanere attivo 24 ore su 24, Senza respiro prova a imbastire un’educazione sentimentale alla pandemia: il tè preso ai due lati della porta tappezzata di messaggi affettuosi che separa una donna contagiata dal marito e dal figlio; l’accompagnamento verso la morte delle infermiere: “Non c’era più alcuna possibilità, prima di somministrare la morfina, ci fermavamo un attimo”; il “Sei stato un vero eroe, sono fiera di te” in videochiamata della madre e il “Sei la nostra vittoria, lo sai?” della caposala al diciottenne Mattia, dato per spacciato; il “Sebastian, non ce la faccio, ho paura” di una trentenne con tre figli a cui viene diagnosticata la malattia.

Come vuole il titolo, il basso continuo è il respiro, che affannoso contrappunta persino le immagini di Papa Francesco solo in piazza San Pietro e del presidente Mattarella solo all’altare della Patria, ma l’ossigeno non è unicamente sinonimo di vita, bensì di sofferenza: il casco respiratorio, che “tremavo, sono impazzito”, che è “prova di ghigliottina, ti separa la testa dal corpo”, che lascerà una cicatrice sul collo. Se va bene, perché la valigia sul letto è quella del più lungo viaggio, “hanno spostato il cadavere dal lettino e mi ci hanno messo”, il mantra in corsia irriferibile: “Non possiamo salvare tutti”, lo spettro di Caronte: “Ero un’anima in fila per attraversare il fiume e vedevo quelli che andavano di là”.

Giammaria vuole fare di Rai Documentari “la start-up dell’eccellenza”, punta alla cooperazione internazionale (Pbs per The Choice, France Télévisions) e alla razionalizzazione della filiera nazionale, e Senza respiro è un lusinghiero biglietto da visita. I suoi trascorsi di reporter di guerra hanno calibrato la metafora bellica, ma sul fronte più cruento del Covid il doc invero non ha combattuto: le Rsa, le case di riposo. “Le norme aziendali ce l’hanno impedito, ma l’emergenza richiede emergenza: in certi casi serve il coraggio di osare”. Già, a quando?

 

Per un vero rilancio il bonus vada a tutte le auto

Le parole contano, ma i fatti di più. Nella contrapposizione politica tra favorevoli e contrari all’allargamento degli incentivi ai motori a combustione di ultima generazione, è ora di affidarsi al buon senso. Ognuno degli schieramenti ha le sue ragioni. Chi preme su sostegno e svolta decisa verso l’elettromobilità ha a cuore l’aria pulita: nobile intento la cui realizzazione non dipende solo dal traffico, come il lockdown ha dimostrato. Di contro, quella che viviamo non è solo un’emergenza sanitaria ma sociale: la tempesta perfetta tra coronavirus e crisi economica sta fiaccando un settore che è il primo contribuente alle casse dello Stato, tra gettito iva e accise varie. E che vale un quarto del Pil nazionale, considerando occupazione e indotto.

E allora, quelle 400 mila auto benzina e diesel Euro 6 che giacciono nei piazzali invendute, che a fine anno se continua così potrebbero più che raddoppiare, vanno viste anche come il mezzo di sostentamento di oltre un milione di famiglie che lavorano in Italia nell’automotive. Se resteranno lì il mercato verrà dimezzato, e lo saranno pure i posti di lavoro.

E allora, perché oltre al giusto Ecobonus per le vetture elettrificate non introdurre una misura alternativa di sostegno anche per auto nuove che avrebbero un basso impatto ambientale? Magari per un tempo limitato, legato alla contingenza di un momento difficile. Un bonus per l’emergenza in grado di tamponare la crisi. Solo così il Rilancio che il decreto auspica sarà per tutti.

Santa Fe, è molto più di un restyling

Sono strani da decifrare, i coreani dell’auto. Se non fosse per la loro aggressività commerciale in tutte le parti del mondo, verrebbe quasi da dire che con la Hyundai Santa Fe sono stati pure modesti. Di solito, un restyling è più che altro fuffa: una calandra diversa, due cromature qua e là, gruppi ottici di altre forme, qualche cavallo in più nel motore e interni un tantino rivisti. E tanto basta ai cervelloni degli uffici marketing per definire “nuovo” quel che in realtà viene semplicemente aggiornato. In genere non prima di tre anni.

Ne sono passati appena due da quando l’ultima versione del big suv di casa Hyundai ha debuttato, e in realtà già siamo alle prese con qualcosa di parecchio diverso. Innanzitutto perché la Santa Fe che arriverà in commercio il prossimo ottobre nasce su un’inedita piattaforma globale di terza generazione, e sarà la prima Hyundai costruita lì a sbarcare nel vecchio continente. Dopo di che, e non è da poco, nel parco motori debutteranno powertrain elettrificati, sia ibridi “full” che alla spina, ovvero quei plug-in collegabili anche alla presa di corrente (ma meglio una colonnina o una wall-box) che usufruiscono anche dell’Ecobonus recentemente rifinanziato dal governo. Per i dettagli tecnici sulle motorizzazioni, tipo potenza, consumi ed emissioni, bisognerà tuttavia aspettare ancora un po’.

Sappiamo invece con certezza che sull’estetica è stata messa mano con decisione, disegnando superfici meno tondeggianti e più di carattere. A partire dal frontale, dove campeggia la grossa calandra con trama simil-3D che agevola l’ingresso di ampi flussi d’aria nel vano motore per il raffreddamento, e sfocia lateralmente su gruppi ottici dalla forma stravagante che cattura l’attenzione. Sulle fiancate spiccano poi gli ampi passaruota, mentre il posteriore conferma l’imponenza del tutto.

Nell’abitacolo, curato sia nei materiali che nelle finiture, spicca la console centrale con schermo touch da 10,25 pollici, sotto il quale parte un tunnel centrale largo ai limiti dell’ipertrofia, pieno zeppo di bottoni e comandi vari. Perché se c’è una cosa che non manca a questa nuova Santa Fe è la tecnologia, dall’infotainment fino ai sistemi di sicurezza attiva e passiva. Al punto da non invidiare nulla ai marchi premium.

Compass, dal Messico a Melfi: il “best-seller” ora parla l’italiano

È un segnale di impegno concreto quello che Fca ha preso con la fabbrica di Melfi, in Basilicata: da pochi giorni lo stabilimento lucano, che già sforna Jeep Renegade e Fiat 500X, si occupa della produzione delle Compass destinate al mercato europeo. Dal 2017 a oggi, invece, gli esemplari arrivavano dall’impianto di Toluca, in Messico. Giova ricordare che la Compass è assemblata anche in Brasile, Cina e India: la sua importanza strategica per il brand americano è sottolineata dal fatto che si tratta del modello più venduto della marca a livello globale e che nel 2019 ha rappresentato il 40% delle vendite europee, spinte anche dalla più piccola Renegade, con cui Compass condivide piattaforma e meccanica.

Il maggiore impiego delle catene di montaggio lucane, nelle intenzioni dell’aziende, giustificherebbe i cinque miliardi di euro che Fca ha stanziato per le sue fabbriche italiane. E, probabilmente, serve anche a giustificarsi con il governo italiano per il maxi prestito da 6,3 miliardi che l’azienda italoamericana ha chiesto a Banca Intesa Sanpaolo, giudicato “conforme ai termini del decreto” da Sace.

Le Compass “made in Italy” avranno una diversa messa a punto di sterzo e sospensioni – grazie ai nuovi ammortizzatori, il suv promette un minore rollio in curva e un assetto più stabile – e servizi connessi aggiornati per il controllo di alcune funzionalità dell’auto da remoto. Al vertice della gamma ci saranno le versioni con powertrain ibrido plug-in, in arrivo nella seconda metà dell’anno. Nel frattempo, la Compass prodotta a Melfi sarà ordinabile col motore turbobenzina da 1,3 litri di cilindrata, in grado di erogare 130 o 150 cavalli di potenza (rispettivamente con cambio manuale a sei marce e automatico a doppia frizione), e col diesel MultiJet II da 1,6 litri e 120 Cv. Il sopracitato propulsore a benzina verrà utilizzato, in abbinamento a un’unità motrice elettrica, anche sulla Compass ibrida ricaricabile alla spina, con 190 e 240 Cv e trazione integrale. La fabbricazione italiana coincide col lancio di sei diversi design dei cerchi e una gamma colori rinnovata. All’interno, invece, spicca il sistema di infotainment da 7” e da 8,4”. Il corredo dedicato alla sicurezza include frenata automatica di emergenza, avviso di superamento della propria corsia di marcia. A richiesta il cruise control adattivo che mantiene autonomamente velocità e distanza di sicurezza preimpostate.

Quattro gli allestimenti – Longitude, Night Eagle, Limited e S –, con listino prezzi a partire da 28.750 euro per gli esemplari equipaggiati con motore 1.3 benzina da 130 CV in allestimento Longitude, fino ai 36.500 euro della versione S con motorizzazione diesel.

Quanto è usurante l’ultima prova del cavallo morente

“Ero l’uomo più potente d’Italia, non lo sono più”. Sarebbe bastato lanciare questo epitaffio politico – o tweet, come lo chiamerebbe il suo autore – nel grande mare delle Lettere, e si sarebbe dato a esse lo stesso contributo; invece no: intorno a questa scabra ed esaustiva verità si sviluppano 214 pagine di “interventi concreti”, un vero “patto tra le generazioni”, anzi “un appello a non disperdere energie”. Le abbiamo lette tutte. Non saremo certo noi a negargli un seggio in Parnaso, ma siamo un po’ delusi da questo La Mossa del cavallo (Marsilio), titolo-calco del best-seller di Camilleri (hai visto mai i commessi delle librerie, opportunamente riaperte dopo il lockdown come l’autore chiedeva da tempo, rifilino questo ai clienti, invece dell’omonimo), nonché di un racconto di Viktor Šklovskij (che narra di quando, siccome a San Pietroburgo i gabinetti gelavano, nei giorni feriali le focacce si cuocevano su feci umane, la domenica, invece, su quelle di cavallo).

“Eppure ho fatto il presidente del Consiglio dei ministri a 39 anni, il più giovane nella storia d’Italia”. Sì, lo sappiamo, più giovane anche di Mussolini, che aveva 39 anni e 3 mesi, mentre il narratore li aveva compiuti da un mese soltanto (perciò #enricostaisereno, sennò gli scattava la quota Benito).

Stiamo temporeggiando. In realtà non si sa da dove cominciare. Il menù è quello turistico: un secondo Jobs Act, “perché il primo ha funzionato”; il “Piano Shock”, nome croccante per il vecchio Sblocca Italia; un nuovo “Rinascimento” affidato a Italia Viva (lui, Rosato e Marattin al posto di Lorenzo il Magnifico, Poliziano e Pico della Mirandola), ma stavolta c’è una pietanza in più: il condono sui contanti. Infatti, pare, l’Italia ha “cento miliardi di contante dormiente nelle cassette di sicurezza e sotto i materassi”, su cui si potrebbe agevolmente metter mano con una tassa del 10 o 15%. È un’idea geniale: finora, quando si parlava di condono sul nero, si pensava al rientro dei capitali esotici dall’estero (format di Berlusconi, Tremonti, lo stesso Renzi e l’anno scorso pure Salvini). Mai nessuno aveva pensato di regolarizzare “quei centomila euro che il nonno – carpentiere o ristoratore – ha lasciato in eredità al nipote e che sono stati frutto di pagamenti in nero”, nonno che magari è pure spirato sotto Covid. Ebbene, “sblocchiamoli. È inutile perseverare con i giudizi moralistici su ciò che è avvenuto magari vent’anni fa”, e qui si riconosce il marchio di fabbrica: la confusione tra moralismo e essere morali, e va da sé che nella nuova cashless society, in questa Italia senza contanti dove si paga tutto via smartphone mentre i materassi eiettano banconote (ministro delle Finanze sarà Fabrizio Corona?), bisogna essere garantisti, non giustizialisti. Ecco il conticino: “Cento miliardi di liquidità che finiscono direttamente nelle banche”, che poi naturalmente faranno i prestiti ai nipoti dei carpentieri, questo nel caso le mamme dei vostri amici non siano disposte a prestarvi 700 mila euro sull’unghia per comprarvi la villa. Questo Rinascimento voluntary disclosure è propagandato in forza di citazioni di Machiavelli, Seneca, Hannah Arendt, Shakespeare, Goethe e finanche del povero Kafka, che se fosse in vita riscriverebbe Il Processo intorno a un’accusa di fatture false.

Quindi: dalla pandemia e dalla crisi che ne segue, come non fossero disgrazie abbastanza grandi, nasce la mossa del cavallo (morente): l’autore, condottiero del 2%, si sente chiamato alla Rinascita d’Italia. A questo punto si registra un divertente cortocircuito epistemologico. Come alla Leopolda – che è per i renziani ciò che è la Sala del Regno per i testimoni di Geova – Renzi si “intesta” la Scienza, nelle persone dei virologi Burioni e Capua, vittime dei novaxcinquestellegiustizialisti, ma al contempo deve tenere accesa la fiamma sotto le terga del governo che in teoria sostiene e che si rifiutava di riaprire tutto quando diceva lui. Come conciliare il vitalismo dannunziano dalle sfumature bergsoniane con la prudenza del Comitato scientifico? Facile, attaccando gli epidemiologi, i nuovi professoroni: “Nel momento in cui scrivo il contagio è sceso sotto le mille unità in terapia intensiva (questa frase non vuol dire niente, ndr). Sostenere dunque (?,ndr) che in virtù di un’apertura generalizzata e senza protezioni… si possa arrivare a oltre 150 mila casi da terapia intensiva, è matematicamente falso. Ma serve perfettamente allo scopo: a diffondere ansia e paura” (come vedete, si passa da Goethe a una citazione apocrifa del generale Pappalardo).

Del resto, questo è “un libro di cuore, non è un libro del cavolo”, ha asserito l’autore, che con l’organo apposito disprezza il reddito di cittadinanza e tesse l’elogio di Berlusconi, “un grandissimo innovatore nel settore televisivo, nel calcio, nell’edilizia, persino nell’organizzazione politica” che aveva solo un difetto: “Ha sempre preferito una linea più di compromesso, perdendo una storica opportunità di rivoluzionare l’Italia”, ma proprio a volergliene trovare uno.

Infine, il topos letterario dell’opera omnia renziana, ciò che è la masturbazione per Philip Roth: la stigmatizzazione dell’“invidia per chi ha successo” (chi non desidera essere ultimo nei consensi dopo Crimi e Mattia Santori delle Sardine?), stante ovviamente la visione del mondo che la sostiene, quella neo-liberista (perpetrata dal suo governo) grazie alla quale quando arriva una pandemia ci si trova senza terapie intensive, senza medici, con otto milioni di poveri.

PS: siccome l’autore lamenta di essere vittima di “un’inedita ferocia”, tanto da chiedersi “quanta paura devo fare perché mi trattino così?”, ci teniamo a dire che il nostro giudizio non è ascrivibile alla paura che abbiamo di lui, ma alla fatica improba di prendere sul serio quello che scrive (anzi, stiamo vedendo con Travaglio se si può fare qualcosa affinché l’Inps, insieme ai lavori in galleria, cava, miniera, nelle fonderie di seconda fusione e nell’asportazione di amianto, riconosca la qualifica di “lavoro usurante” anche alla lettura dei nuovi libri di Matteo Renzi).

Bonomi, a Confindustria l’aiuto statale va benissimo

L’affondo a un “governo e a una politica che sono più dannosi del Covid” è stato perentorio. Per Carlo Bonomi, neo presidente di Confindustria, è tutto da rifare. Basta con i soldi a pioggia, stop alla spesa pubblica; più produttività, contratti nazionali da riscrivere e un piano di investimenti in grandi opere infrastrutturali da “sbloccare”. In fondo una ricetta buona per tutte le stagioni, che dimentica l’urgenza e l’eccezionalità della crisi sanitaria ed economica. Ma mentre l’esponente di spicco dell’imprenditoria italiana, elargisce alla politica la sua lezione, dovrebbe al contempo guardare in casa propria.

Il neo capo di Confindustria è nei fatti un imprenditore sui generis. Più scafato finanziere che industriale. Possiede la sua Synopo attraverso un complicato giro di scatole societarie che gli consentono di governare la società con solo il 4,5% del capitale. Con soli 31 mila euro di investimento personale in Ocean srl, scende a cascata via Marsupium, fino a Synopo, garantendosi la guida con un investimento personale di rischio risibile. È lo schema delle cosiddette scatole cinesi tanto caro in anni lontani ai vari Tronchetti Provera, ai De Benedetti agli Agnelli, a cui evidentemente Bonomi deve essersi ispirato. È un modello comodo, si controlla una società con il minimo delle quote e con un uso astuto della leva finanziaria che abbatte il rischio personale. Il vero business industriale però non è neanche in Synopo. Occorre scendere a valle nella Sidam, azienda controllata al 90% da Synopo che opera nel biomedicale. Di stanza nel cuore del distretto del biomedicale a Mirandola (Emilia), Sidam non spicca certo per dimensioni. Il bilancio 2018 conta ricavi per soli 13,8 milioni di euro con un utile netto di 2 milioni. Profittevole certo, ma piccola piccola con i suoi 70 dipendenti. Sidam nel 2017 si è comprata il 75% di Btc, sempre biomedicale, ma anche qui il fatturato è da piccola impresa. A conti fatti in questo ginepraio di scatole una sull’altra, Bonomi fa l’imprenditore avendo in portafoglio poco meno del 4% di una società, la Sidam che fattura poco più di 10 milioni di euro. Non certo un esempio fulgido di imprenditoria che mette sul piatto il suo capitale di rischio.

Ma Bonomi nel suo ricettario liberista anti-crisi, che vede lo Stato in pista solo quando serve, cioè quando le cose vanno male, salvo poi lasciare strada spianata al laissez faire, omette il disimpegno di quegli imprenditori che da anni staccano fior di dividendi all’estero. Un caso eclatante sono i fratelli Rocca, tra i suoi grandi sponsor nell’elezione a capo di Assolombarda prima e poi degli imprenditori italiani. I Rocca, via Tenaris domiciliata in Lussemburgo, si sono dati oltre 3 miliardi di euro in dividendi tra il 2014 e il 2018. Sono in buona compagnia con gli Agnelli, i Ferrero e altri campioni dell’imprenditoria italiana che hanno munto dividendi tra Olanda e Lussemburgo per oltre 8 miliardi negli ultimi anni. Soldi che escono dal sistema Italia, per non farvi più ritorno.

Nell’afflato polemico contro il governo, Bonomi dimentica anche il vizietto antico di molta classe imprenditoriale di bussare allo Stato, quando si mette male. L’esempio ce l’ha in casa. Il Sole 24 Ore, il quotidiano edito dalla Confindustria, chiederà l’ennesimo stato di crisi a carico dello Stato. Il costo del lavoro dei giornalisti va tagliato del 25% per far fronte alla crisi. Quindi l’ennesimo giro di cassa integrazione, e/o solidarietà e ammortizzatori pubblici. Non solo, il giornale di Confindustria chiederà di usufruire del decreto Liquidità per avere la garanzia pubblica Sace sui prestiti bancari, che evidentemente non rientrano tra i tanto esecrati aiuti “a pioggia”. Peccato che Bonomi non dica che in pancia a Confindustria ci sono ben 14 milioni di liquidità investiti in polizze e ben 50 milioni di riserve. Anziché chiedere l’aiuto pubblico, Confindustria potrebbe usare la sua liquidità per supportare il suo giornale in crisi. Quanto ai debiti non pagati della Pubblica amministrazione verso le imprese, altro cavallo di battaglia degli imprenditori, anche qui un po’ di compiti a casa non guasterebbero. Il Sole ha debiti commerciali scaduti per 5,9 milioni. Pagare i fornitori potrebbe essere un buon esempio. Non solo, Confindustria non spicca per coerenza quando c’è da far di conto. Il Sole 24 Ore è iscritto nel bilancio dell’associazione a 89 milioni di euro, come se fosse normale per un giornale che va in rosso già a livello di margine lordo, che ha patrimonio per soli 31 milioni e che capitalizza in Borsa solo 25 milioni di euro.

Quando c’è da far di conto sui propri asset, Confindustria è di manica larga. Salvo poi alzare il ditino e impartire lezioni a tutto campo.

Sgombero CasaPound: conto alla rovescia I pm: “Là dentro si istiga all’odio razziale”

L’occupazione di CasaPound nel centro di Roma ha i giorni contati. Ieri mattina il gip, a un anno dalla richiesta della Procura, ha disposto il sequestro dell’immobile di via Napoleone III, nel rione Esquilino, sede nazionale del movimento di estrema destra. L’atto era stato preannunciato la sera prima da alcuni agenti di polizia in una riunione coi militanti: in poche ore è arrivata prima la smentita e poi la conferma da parte dei vertici della questura. Ora la palla passa alla prefetta Gerarda Pantalone, che dovrà coordinarsi con i magistrati su tempi e modi. “Vogliamo restare, siamo pronti a fare ricorso. È un attacco politico di un magistrato di sinistra, il successore di Palamara”, ha detto il portavoce della tartaruga, Simone Di Stefano.

Le ipotesi di reato formulate dal pm Eugenio Albamonte, sono piuttosto gravi. I reati contestati a 16 persone sono di associazione a delinquere finalizzata all’istigazione all’odio razziale e di occupazione abusiva di immobile. Indagati i vertici di CasaPound. Il movimento è guidato dal presidente Gianluca Iannone, dai vice Andrea Antonini e Marco Clemente, oltre al portavoce Di Stefano. Il primo reato recepisce l’esposto presentato dal vicepresidente dell’Anpi, l’avvocato Emilio Ricci, che ha elencato una ventina di episodi di “istigazione al razzismo” avvenuti in tutta Italia. Si va dalle violente proteste di maggio 2019 a Torre Maura e Casal Bruciato, quadrante di est di Roma, contro alcune famiglie rom; all’aggressione, avvenuta nell’ottobre 2019 a Trastevere, nei confronti di alcuni ragazzi con indosso la maglia del Cinema America. Per l’occupazione abusiva si fa riferimento alle denunce del ministero dell’Economia – proprietario dello stabile – e all’informativa della Guardia di finanza che ha spinto la Corte dei conti del Lazio a contestare un danno erariale di circa 4,6 milioni di euro. Nel palazzo vivono 18 famiglie, diversi dipendenti di Comune e Regione Lazio e una proprio del Mef, oltre a quella di Iannone. Per gli inquirenti è una “occupazione ideologica” e priva “necessità sociali”, come dimostrano i redditi degli occupanti. Nello stabile verrebbe definita la “linea politica” che “istiga all’odio”: il sequestro è definito “urgente”.

Nel 2007 la Procura archiviò una prima denuncia del ministero dell’Istruzione – ex proprietario – con la giustificazione che “l’immobile pubblico non era destinato all’esercizio delle funzioni istituzionali”. Il Miur non si costituì parte civile: i funzionari dell’epoca dichiararono che “non conoscevamo le generalità dei soggetti occupanti”. Eppure già campeggiava sulla facciata dell’edificio la scritta “CasaPound”, fatta rimuovere dal Campidoglio pochi mesi fa.

Il Tar sospende la multa Agcom a Viale Mazzini

P er il momento ha ragione la Rai. Ed è soprattutto una vittoria per il Tg2 di Gennaro Sangiuliano. Ieri, infatti, il Tar del Lazio ha sospeso la sanzione e la maximulta di 1,5 milioni di euro decisa da Agcom per mancanza di pluralismo e contraddittorio nell’informazione della tv pubblica. Provvedimento che era stato deciso per diversi servizi del Tg2 ma non solo: nel mirino dell’Autorità erano finite anche Cartabianca di Bianca Berlinguer, L’approdo di Gad Lerner, la Tgr, Unomattina, La vita in diretta e Reality. “Violati i principi d’indipendenza, imparzialità e pluralismo”, diceva la sentenza del febbraio scorso. Ora, invece, è tutto ribaltato, con il Tar che blocca la sanzione e rimanda il merito della questione all’11 gennaio 2021, accogliendo il ricorso presentato dal Viale Mazzini. Il Tar sostiene che “possa ritenersi configurabile un fumus di fondatezza dei motivi inerenti la violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa, in ragione del fatto che il provvedimento sanzionatorio appare fondato su contestazioni diverse e ulteriori rispetto a quanto esposto all’avvio dell’istruttoria”.

In particolare, per il Tg2, nel mirino erano finiti un servizio su Boris Johnson, un’inchiesta sul fallimento dell’integrazione in Svezia, un Tg2 Post con ospite il leghista Claudio Borghi (ma pure Francesco Boccia) e un servizio sulla morte del carabiniere Mario Cerciello Rega. “Bisogna avere rispetto delle autorità di garanzia, ma anche dell’articolo 21 della Costituzione sulla libertà di stampa”, osserva il direttore Sangiuliano. E con lui esulta un po’ tutto il centrodestra. “Il presidente di Agcom Cardani dovrebbe chiedere scusa!”, attacca il leghista Massimiliano Capitanio. Mentre Maurizio Gasparri (FI) ricorda come “in una surreale audizione in Vigilanza lo stesso Cardani ammise che i singoli episodi non erano sanzionabili”.

Verona, inchiesta su ’ndrine e destra: è indagato (per peculato) anche Tosi

Avrebbe indotto il presidente della società dei rifiuti di Verona a pagargli un’attività di investigazione privata di interesse personale (per “una somma non inferiore a 5mila euro”) durante le elezioni comunali in cui nel 2017 era impegnata la sua compagna, Patrizia Bisinella. C’è anche l’ex sindaco di Verona Flavio Tosi tra gli indagati nell’inchiesta antimafia di Venezia condotta da Sco e Anticrimine della polizia sulla ’ndrangheta nella provincia scaligera: 26 arresti 16 dei quali per associazione mafiosa nei confronti della famiglia Giardino di Isola Capo Rizzuto (Crotone), considerata vicina alla cosca Arena-Nicoscia, e di imprenditori e dirigenti d’azienda accusati di reati contro la pubblica amministrazione. A Tosi è contestato solo il concorso in peculato insieme al neofascista Andrea Miglioranzi, ex presidente di Amia (l’azienda pubblica di igiene ambientale) finito ai domiciliari, e alla titolare di un’agenzia di investigazioni. “Non ne so nulla, ne uscirò totalmente estraneo, come in tutte le altre occasioni” ha dichiarato Tosi respingendo ogni accusa.

“Bonifiche più veloci. E ora servono più soldi per la mobilità”

“Semplificazione, sburocratizzazione, velocizzazione”: il ministro dell’Ambiente Sergio Costa sembra in linea con la stessa necessità del premier di far ripartire l’Italia il più velocemente possibile. Su di lui, una responsabilità in più: unire all’efficienza dello sblocco di cantieri e grandi opere la tutela dell’ambiente.

Ministro, il premier Conte ha parlato di transizione energetica e della necessità di dar vita a un sistema che tenga conto dell’ambiente e della sua tutela: sul piano pratico come si tradurranno queste intenzioni?

C’è un dato iniziale da sottolineare: per la prima volta il Def, il documento di programmazione economica e finanziaria, a pagina 16, parla di sostenibilità e di economia circolare. È un documento che impronterà la vita economica del Paese e quindi non stiamo parlando di dichiarazioni di intenti, ma di fatti. Ci sono due provvedimenti nel dl Rilancio che indicano un percorso: l’ecobonus al 110% e il bonus mobilità. Si integrano e offrono una visione differente per la ripartenza, che si basa su un cambio di paradigma ambientale spingendo sulla rigenerazione energetica del patrimonio edilizio, e quindi stop al nuovo cemento, per quanto riguarda la mobilità, punta sull’integrazione con il trasporto pubblico elettrico e sostenibile. E per questo abbiamo dato come ministero ai Comuni anche fondi per poter intervenire sulla sicurezza dei ciclisti e sulla viabilità stradale. Sono solo due tasselli di una visione complessiva che, per quanto mi riguarda, comprende il progetto di Italia Paese Parco: ovvero creare nel Paese Zone economiche ambientali, le Zea, che corrispondono ai Parchi nazionali, dove ambiente ed economia camminano insieme. E nel dl Rilancio abbiamo appostato 40 milioni di euro proprio per questo.

Anche gli interventi sull’ambiente hanno bisogno di efficienza?

Semplificazione, sburocratizzazione, velocizzazione: sono le direttrici nelle quali ci stiamo muovendo e il dl Semplificazione sarà un tassello importantissimo.

Perché?

Per fare un esempio, proponiamo una norma per far sì che installare le colonnine elettriche non richieda più i 18 permessi amministrativi attuali ma al massimo due. Senza dimenticare il tasto dolente dell’ambiente: l’inquinamento e le bonifiche dei Sin (siti inquinati di interesse nazionale). Ho calcolato che in due anni sono state effettuate più di 1.500 conferenze di servizio senza arrivare ad alcuna bonifica. Questo non posso più consentirlo. È ora che i cittadini abbiano risposte certe e in tempi stabiliti. Semplificheremo la burocrazia del sistema di bonifica senza fare passi indietro sul fronte della tutela ambientale.

Torniamo alla mobilità: circolano notizie di grande entusiasmo…

Lo dico sinceramente: non mi aspettavo la risposta ottenuta dal bonus bici. A migliaia hanno preso d’assalto i rivenditori. Abbiamo scritto il decreto attuativo in tempi record, adesso è in concertazione, e ci siamo resi conto che il fondo di 120 milioni – fondi del ministero dell’Ambiente, provenienti dalle aste verdi, quindi secondo il principio del chi inquina paga – non sarebbe bastato. Abbiamo reperito altri 70 milioni di euro, ma lancio un appello al Parlamento: in conversione finanziate ulteriormente la norma, perchè noi fondi non ne abbiamo più.

Che fine ha fatto la plastic tax e come è cambiata la sua percezione in questa fase?

Durante il lockdown è stata necessaria una riflessione: la tassa che avrebbe gravato sia sulle tasche dei cittadini sia sul processo produttivo di aziende già gravate dall’emergenza. Per questo è stata spostata a gennaio.

L’emergenza ha cambiato qualcosa nel “comparto ambiente”?

Abbiamo visto la natura riprendersi i suoi spazi durante il Covid e poi, con la ripresa, sono ricominciati gli episodi di inquinamento. Ebbene, tantissimi cittadini non hanno sopportato questo ritorno al passato e sono diventati ancora più attivi nel denunciare. Anche grazie a loro siamo riusciti a ripristinare la legalità con l’azione incessante dei Noe, del Cufa, su input proprio del ministero. Ecco: continuate a segnalare e a non arrendervi agli ecocriminali.