Prima la buona notizia. “Con il lockdown abbiamo registrato un calo delle emissioni di CO2 fino al 35%, cioè il target previsto per il 2030”, racconta Andrea Barbabella, responsabile Clima ed Energia della Fondazione Sviluppo Sostenibile. Poi la cattiva notizia: “Se per raggiungere gli obiettivi futuri abbiamo dovuto chiudere mezzo Paese, questo ci dimostra quanto lavoro abbiamo ancora da fare”. In questi mesi il virus ha dato una mano all’ambiente. Ma già ieri, come ha scritto il Guardian, secondo l’osservatorio di Mauna Loa (Florida) siamo tornati a picchi di 417,2 parti per milione di diossido di carbonio, addirittura 2,4 in più rispetto al maggio 2019.
Ecco la vera sfida, dobbiamo lavorare subito perché questo tesoro non sia dissipato quando a settembre la vita riprenderà il suo ritmo.
Ma partiamo con una nota di ottimismo: le statistiche elaborate dal Nature Climate Change sostengono che dal primo gennaio al 20 aprile le emissioni globali di C02 siano calate del 9%, con vette del 17. Non accadeva dalla Seconda Guerra Mondiale. In alcuni paesi siamo arrivati a -35%. Lo studio Carbon Brief ricorda che siamo tornati ai livelli di emissioni del 2006, insomma abbiamo guadagnato quindici anni in tre mesi. Numeri che, però, devono essere letti attentamente: nei giorni presi in esame l’89% dei paesi responsabili delle maggiori emissioni erano in lockdown. Ma c’è di più: il 17% di riduzione delle emissioni globali va letto anche al contrario. Cioè: eliminando gran parte dei comportamenti viziosi – in primis l’uso delle auto – resta un 83% di emissioni. Quindi, ricorda Natura Climate Change, servono cambiamenti strutturali. Su tutti i settori che contribuiscono alla produzione di C02: energia e riscaldamento (44%), industrie (22,4), trasporti di superficie (20,6), case (5,6), uffici e commercio (4,2) e aviazione (2,8).
E non c’è soltanto l’anidride carbonica (C02), ci sono altri inquinanti: “C’è il diossido di azoto e ci sono le polveri sottili come il Pm10 e il pm2,5”, ci tiene a sottolineare Giorgio Cattani ricercatore dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale). Aggiunge: “Per il diossido di azoto, prodotto da qualsiasi forma di combustione, abbiamo registrato cali rilevanti. Si va dal 10-15% addirittura al 70-80%”. Un toccasana per il sistema cardiovascolare di chi vive nelle regioni più inquinate, come la Pianura Padana. “Per le polveri sottili – ricorda però Cattani – le riduzioni sono meno rilevanti, perché dipendono da molti fattori”.
Cambiare subito. Sennò a settembre saremo da capo e la riduzione delle emissioni su base annua grazie al Covid scenderà al 4%. Ecco, invece di tirare i remi in barca bisognerebbe addirittura alzare l’asticella, porsi obiettivi più ambiziosi: nel mondo tra il 1961 e il 1990 si è registrato un aumento di temperatura di 0,98 gradi, ma in Italia siamo a 1,71. Ricorda Mariagrazia Midulla, responsabile Clima ed Energia del Wwf: “Sembra poco, ma anche nelle persone un grado cambia tutto: con 37 si sta bene, mentre con 38 vai a letto. Se ci si pongono obiettivi minimi non si dà un impulso a industria e ricerca”.
I dati che arrivano dalla Florida sono un campanello d’allarme. Servono soluzioni di lungo periodo, ma altre possono essere avviate in tempi medio-brevi. L’Italia, in fondo, non è messa così male: è al terzo posto nella classifica europea per l’economia circolare. Siamo al 17,7% nella produzione di energia da fonti rinnovabili. Ancora Barbabella: “Se non si coinvolgono le imprese, non si va lontano. Lo Stato sta mettendo sul tavolo centinaia di miliardi, ma non può sbagliare. Non si possono dare soldi a pioggia ad attività che tra cinque anni dovranno chiudere. Così si sposta soltanto avanti il problema e si perde tempo”. Quindi? “Si deve puntare sulle industrie a basso impatto ambientale, si devono preferire le autostrade digitali alle strade di asfalto”. E gli altri? “I settori pesanti devono essere aiutati a riposizionarsi. Se aiuto l’industria dell’acciaio devo essere certo che segua percorsi precisi. E devo anche pensare a riconvertire i lavoratori”. L’occasione, sono convinti tutti, è irripetibile: “Oggi – conclude Barbabella – dare soldi all’ambiente significa dare impulso anche al lavoro, perché le misure green hanno moltiplicatori maggiori in termine di impiego e di redditività”. Aggiunge Midulla del Wwf: “Bisogna fare in modo che il problema diventi parte della soluzione. Penso alle imprese ‘prosumer’ che oltre a consumare energia sono capaci di produrne. Si può agire in termini di incentivi, ma c’è anche un vantaggio di immagine”. E poi c’è l’altra grande battaglia: il traffico. Anna Donati, oggi responsabile Mobilità per il Kyoto Club, è uno dei massimi esperti del settore: “In Italia abbiamo ancora 630 auto ogni mille abitanti”. Nel rapporto Mobilitaria ha avanzato proposte precise e attuabili in tempi non biblici: “Ci sono lo smart working, una delle eredità che ci lascerà il Covid, e i servizi di prossimità. Bisogna far sì che i cittadini possano trovare ciò che serve senza dover viaggiare da una parte all’altra della città. Occorre poi intervenire sugli orari della città”. Sì, scaglionare l’ingresso al lavoro, perfino a scuola, ma anche, per dire, lo shopping e le visite negli ospedali. Insomma, se gli spostamenti sono spalmati nell’arco della giornata i cittadini potranno far ricorso più facilmente ai mezzi pubblici. Magari gratuiti, come si sta sperimentando in Lussemburgo. Non solo: “Bisogna puntare sugli spostamenti in bici e a piedi. A Zurigo, per esempio, il 75% dei bambini vanno a scuola da soli, spesso a piedi, seguendo percorsi dedicati”, ipotizza Donati e conclude: “E ci sono i mezzi di trasporto elettrici, non solo bus e auto, ma anche scooter, bici e monopattini”.
Una rivoluzione è possibile solo se è vantaggiosa. Anche economicamente. E per la prima volta l’ambiente conviene: porta lavoro e finanziamenti. Conviene anche alle famiglie che hanno a disposizione incentivi per gli interventi edilizi e risparmierebbero su una voce decisiva del loro bilancio: i trasporti.