Co2 e covid-19, l’aria pulita è stata solo un’illusione

Prima la buona notizia. “Con il lockdown abbiamo registrato un calo delle emissioni di CO2 fino al 35%, cioè il target previsto per il 2030”, racconta Andrea Barbabella, responsabile Clima ed Energia della Fondazione Sviluppo Sostenibile. Poi la cattiva notizia: “Se per raggiungere gli obiettivi futuri abbiamo dovuto chiudere mezzo Paese, questo ci dimostra quanto lavoro abbiamo ancora da fare”. In questi mesi il virus ha dato una mano all’ambiente. Ma già ieri, come ha scritto il Guardian, secondo l’osservatorio di Mauna Loa (Florida) siamo tornati a picchi di 417,2 parti per milione di diossido di carbonio, addirittura 2,4 in più rispetto al maggio 2019.

Ecco la vera sfida, dobbiamo lavorare subito perché questo tesoro non sia dissipato quando a settembre la vita riprenderà il suo ritmo.

Ma partiamo con una nota di ottimismo: le statistiche elaborate dal Nature Climate Change sostengono che dal primo gennaio al 20 aprile le emissioni globali di C02 siano calate del 9%, con vette del 17. Non accadeva dalla Seconda Guerra Mondiale. In alcuni paesi siamo arrivati a -35%. Lo studio Carbon Brief ricorda che siamo tornati ai livelli di emissioni del 2006, insomma abbiamo guadagnato quindici anni in tre mesi. Numeri che, però, devono essere letti attentamente: nei giorni presi in esame l’89% dei paesi responsabili delle maggiori emissioni erano in lockdown. Ma c’è di più: il 17% di riduzione delle emissioni globali va letto anche al contrario. Cioè: eliminando gran parte dei comportamenti viziosi – in primis l’uso delle auto – resta un 83% di emissioni. Quindi, ricorda Natura Climate Change, servono cambiamenti strutturali. Su tutti i settori che contribuiscono alla produzione di C02: energia e riscaldamento (44%), industrie (22,4), trasporti di superficie (20,6), case (5,6), uffici e commercio (4,2) e aviazione (2,8).

E non c’è soltanto l’anidride carbonica (C02), ci sono altri inquinanti: “C’è il diossido di azoto e ci sono le polveri sottili come il Pm10 e il pm2,5”, ci tiene a sottolineare Giorgio Cattani ricercatore dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale). Aggiunge: “Per il diossido di azoto, prodotto da qualsiasi forma di combustione, abbiamo registrato cali rilevanti. Si va dal 10-15% addirittura al 70-80%”. Un toccasana per il sistema cardiovascolare di chi vive nelle regioni più inquinate, come la Pianura Padana. “Per le polveri sottili – ricorda però Cattani – le riduzioni sono meno rilevanti, perché dipendono da molti fattori”.

Cambiare subito. Sennò a settembre saremo da capo e la riduzione delle emissioni su base annua grazie al Covid scenderà al 4%. Ecco, invece di tirare i remi in barca bisognerebbe addirittura alzare l’asticella, porsi obiettivi più ambiziosi: nel mondo tra il 1961 e il 1990 si è registrato un aumento di temperatura di 0,98 gradi, ma in Italia siamo a 1,71. Ricorda Mariagrazia Midulla, responsabile Clima ed Energia del Wwf: “Sembra poco, ma anche nelle persone un grado cambia tutto: con 37 si sta bene, mentre con 38 vai a letto. Se ci si pongono obiettivi minimi non si dà un impulso a industria e ricerca”.

I dati che arrivano dalla Florida sono un campanello d’allarme. Servono soluzioni di lungo periodo, ma altre possono essere avviate in tempi medio-brevi. L’Italia, in fondo, non è messa così male: è al terzo posto nella classifica europea per l’economia circolare. Siamo al 17,7% nella produzione di energia da fonti rinnovabili. Ancora Barbabella: “Se non si coinvolgono le imprese, non si va lontano. Lo Stato sta mettendo sul tavolo centinaia di miliardi, ma non può sbagliare. Non si possono dare soldi a pioggia ad attività che tra cinque anni dovranno chiudere. Così si sposta soltanto avanti il problema e si perde tempo”. Quindi? “Si deve puntare sulle industrie a basso impatto ambientale, si devono preferire le autostrade digitali alle strade di asfalto”. E gli altri? “I settori pesanti devono essere aiutati a riposizionarsi. Se aiuto l’industria dell’acciaio devo essere certo che segua percorsi precisi. E devo anche pensare a riconvertire i lavoratori”. L’occasione, sono convinti tutti, è irripetibile: “Oggi – conclude Barbabella – dare soldi all’ambiente significa dare impulso anche al lavoro, perché le misure green hanno moltiplicatori maggiori in termine di impiego e di redditività”. Aggiunge Midulla del Wwf: “Bisogna fare in modo che il problema diventi parte della soluzione. Penso alle imprese ‘prosumer’ che oltre a consumare energia sono capaci di produrne. Si può agire in termini di incentivi, ma c’è anche un vantaggio di immagine”. E poi c’è l’altra grande battaglia: il traffico. Anna Donati, oggi responsabile Mobilità per il Kyoto Club, è uno dei massimi esperti del settore: “In Italia abbiamo ancora 630 auto ogni mille abitanti”. Nel rapporto Mobilitaria ha avanzato proposte precise e attuabili in tempi non biblici: “Ci sono lo smart working, una delle eredità che ci lascerà il Covid, e i servizi di prossimità. Bisogna far sì che i cittadini possano trovare ciò che serve senza dover viaggiare da una parte all’altra della città. Occorre poi intervenire sugli orari della città”. Sì, scaglionare l’ingresso al lavoro, perfino a scuola, ma anche, per dire, lo shopping e le visite negli ospedali. Insomma, se gli spostamenti sono spalmati nell’arco della giornata i cittadini potranno far ricorso più facilmente ai mezzi pubblici. Magari gratuiti, come si sta sperimentando in Lussemburgo. Non solo: “Bisogna puntare sugli spostamenti in bici e a piedi. A Zurigo, per esempio, il 75% dei bambini vanno a scuola da soli, spesso a piedi, seguendo percorsi dedicati”, ipotizza Donati e conclude: “E ci sono i mezzi di trasporto elettrici, non solo bus e auto, ma anche scooter, bici e monopattini”.

Una rivoluzione è possibile solo se è vantaggiosa. Anche economicamente. E per la prima volta l’ambiente conviene: porta lavoro e finanziamenti. Conviene anche alle famiglie che hanno a disposizione incentivi per gli interventi edilizi e risparmierebbero su una voce decisiva del loro bilancio: i trasporti.

Sarraj canta vittoria e vola da Erdogan

In un giorno, dopo l’aeroporto di Tripoli, le forze del governo di Accordo Nazionale (Gna) guidate dal premier riconosciuto dall’Onu Fayez al-Sarraj, sono riuscite a riguadagnare anche il controllo di tutta la capitale. E mentre gli ultimi mercenari del “Generale rinnegato” Haftar lasciavano la periferia della cittá, Sarraj era giá volato al cospetto del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il suo più strenuo alleato per ringraziarlo del dirimente aiuto. Erdogan ha promesso al premier libico di volerlo aumentare ancora. Due giorni fa invece il vice di Sarraj, Ahmed Maiteeg, era volato a Mosca per incontrare le autorità del Cremlino artefici della rimonta nel 2019 di Haftar, oggi sconfitto.

L’assedio di Tripoli – cominciato nell’aprile dello scorso anno – da parte delle milizie di Haftar, ribattezzato “il rais della Cirenaica”, è dunque terminato. Per ora. E probabilmente ancora per un po’, ossia fino a quando Russia e Turchia, i due attori principali di questo conflitto civile diventato una guerra per procura, decideranno cosa fare, non solo in Libia ma anche in Siria. È da qui che Mosca e Ankara hanno cominciato a preparare, apparentemente da sponde opposte come in Libia – in realtá con una sorta di alleanza per escludere gli altri pretendenti dal futuro tavolo per la spartizione della ricostruzione – la ricchissima torta di appalti che viene cucinata verso la fine di ogni conflitto per poi essere divorata nell’alba post bellica.

Il ritiro delle milizie di Haftar dalla capitale è iniziato a metá maggio. Le forze del rais di Bengazi hanno di giorno in giorno perso le città principali e le basi militari fino al confine con la Tunisia sottratte a Sarraj. Ora manca solo la roccaforte di Haftar nell’ovest: Tarouna. La situazione sul campo è mutata dall’inizio dell’anno con l’arrivo degli istruttori, dei mercenari e dei droni armati di Ankara a sostegno di Sarraj. Grazie a questi “giocattoli” volanti armati, peraltro costruiti dal genero del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, le forze (un insieme di milizie) del Gna sono riuscite a salire allo stesso livello di quelle nemiche anche in ambito aereo. Dieci giorni fa, l’arrivo in Libia da una base militare di Damasco di numerosi jet militari di fabbricazione russa e di nuovi mercenari della società di sicurezza privata russa Wagner (di proprietá di un oligarca amico del presidente Vladimir Putin) aveva provocato la reazione assai preoccupata di Nazioni Unite, Stati Uniti e Gran Bretagna. Ex post, a quanto pare, questa flessione di muscoli non dissimulata è stata un escamotage dello Zar allo scopo di alzare la posta in occasione delle imminenti trattative, essendo la palla tornata nel campo avversario. Le sorti di Haftar e Sarraj sono nelle mani anche di altri alleati: con Haftar oltre alla Russia ci sono l’Egitto e gli Emirati Arabi. Entrambi si sono affrettati a esprimere il proprio favore circa la ripresa dei negoziati.

 

Cisgiordania, per i coloni l’annessione è troppo soft

La data “irrinunciabile” del 1° luglio per l’annessione del 30% della Cisgiordania annunciata dal premier israeliano Benjamin Netanyahu non appare più così “irrinunciabile”. Il premier non pensava di avere il nemico “in casa”, ma adesso i principali oppositori al Piano Trump – l’annessione del 30% della Cisgiordania e della Valle del Giordano – sono israeliani e di destra. David Elhayani, capo del Consiglio dei sindaci della Cisgiordania di Yesha, e leader riconosciuto di tutti i settler in Cisgiordania, denuncia il Piano Trump. Perché prevede a determinate condizioni – che la leadership palestinese ha già respinto – la creazione di un mini-Stato palestinese su ciò che resta. Uno Stato che comunque non avrebbe esercito, né controllo delle sue frontiere e i cui accordi bilaterali con altri Stati dovrebbero prima avere il placet di Usa e Israele. La sola idea che Trump – e suo genero Jared Kushner – abbiano concepito un’idea del genere li iscrive per Elhayani direttamente nella lista degli anti-semiti.

Ieri pomeriggio intervistato dalla Radio dell’Esercito ha moderato le sue affermazioni, ma ha ribadito che “chi pensa a uno Stato palestinese non è un amico di Israele”. Il presidente Trump ha fatto cose buone per Israele – ha detto Elhayani – “ma adesso si preoccupa solo delle elezioni di novembre e non della sicurezza israeliana e i coloni sempre più a disagio per la prospettiva di uno Stato palestinese, nonostante le promesse”. La decisione è comunque divisiva nel Paese, il 50% degli israeliani sostiene l’annessione, la metà soltanto con il sostegno degli Stati Uniti, secondo un sondaggio pubblicato ieri dall’Israel Democracy Institute. Il 31% si oppone all’annessione, mentre il resto è indeciso. Più chiari gli schieramenti nella Knesset dove il governo conta su una solida maggioranza. L’opposizione di sinistra e partiti arabi – che denunciano la prossima apartheid – non sono nelle possibilità di bloccare le decisioni dell’esecutivo. L’Anp di Abu Mazen è contro le decisioni di Netanyahu e Trump ma non sembra in grado di impedire nulla. Incombe lo spettro di una violenza diffusa in tutte le aree palestinesi ma governo israeliano e IDF sono convinti di tenerla sotto controllo. Le cose a destra – come invece sperava Netanyahu – non stanno filando lisce. La riprovazione dell’Ue, della Russia, della Cina e di una sfilza di altri Stati – compresi quelli arabi sunniti con i quali ha un solido dialogo “sotterraneo” che si sono detti contrari – non preoccupa più di tanto Netanyahu, ma il “fronte interno” invece sì. Parla del 1° luglio come una data “imperdibile”, ma non illustrerà come intende estendere la sovranità israeliana. E intanto i coloni sono divisi, tra loro tra coloro che sono ansiosi che Netanyahu segua il Piano Trump, e quelli che sono preoccupati per la componente “Stato palestinese” nel “Deal of the Century”.

Non si deve dimenticare che anche se Netanyahu e i coloni possono essere alleati politici, tra loro rimangono notevoli divari. Quello del premier è un progetto politico-personale dedicato a perpetuare la sua presa sul potere. L’ideologia dei coloni di tornare e aggrapparsi ad ogni angolo della terra santa, adempiendo un comandamento divino, di solito funziona in tandem con la convinzione di Netanyahu “nel rinnovamento e rafforzamento della sovranità nazionale ebraica nella patria storica”. Ma le priorità e gli accenti non sono sempre gli stessi. I coloni vedono i palestinesi a ovest della Giordania come il principale rivale per la terra e un ostacolo che deve essere superato a tutti i costi. Per loro, il resto del mondo, le nazioni arabe e le proteste della comunità internazionale sono poco più che l’eco di un fastidio lontano che può essere tranquillamente ignorato.

Minneapolis, il sindaco piange dinanzi alla salma di Floyd

Dinanzi alla salma di George Floyd, l’afroamericano ucciso senza motivo da un poliziotto bianco, il sindaco di Minneapolis, Jacob Frey è scoppiato in lacrime. Uno dei tanti momenti carichi di emozione che si sono registrati ieri durante la cerimonia funebre che si è svolta nella chiesa dell’università del Minnesota. Prima del sindaco, aveva reso omaggio a Floyd il reverendo Jesse Jackson, leader da anni del movimento per i diritti civili – spesso violati – della comunità afroamericana. Per un altro reverendo, Al Sharpton, anche lui personaggio di primo piano del movimento per i diritti civili a New York, le proteste di questi giorni, che durano ormai da più di una settimana, non sono state solo vuote manifestazioni di violenza: “Ho visto molti americani di razze ed età differenti marciare insieme e alzare la loro voce insieme, siamo ad un punto di svolta”. Il ricordo di Floyd ha avuto altri momenti toccanti, con la partecipazione dei suoi insegnanti che hanno ricordato quando il giovane afroamericano esprimeva le sue aspirazioni nei compiti scritti: “Voleva diventare un giudice della corte suprema”, ha raccontato una professoressa, proprio per punire le ingiustizie. I cortei proseguono ma, almeno in apparenza, la carica di violenza ha perso, per fortuna, la sua carica. Forse la decisione dei procuratori di aggravare l’imputazione di Derek Chauvin – il poliziotto che per nove minuti ha premuto le sue ginocchia sul collo e la schiena della vittima – da omicidio colposo a omicidio volontario e ordinato l’arresto dei suoi tre colleghi accusandoli di complicità, ha determinato nella piazza un senso di giustizia che fino a ora era mancato. I tre agenti compariranno presto dinanzi ai magistrati. Gli arresti sono giunti a 10 mila ma ieri gli scontri si sono affievoliti e anche il Senato mostra di volere passare a vie di fatto, accogliendo quello che era stato il suggerimento del governatore di New York, Cuomo, ovvero abolire la stretta al collo come pratica diffusa per la polizia dei vari stati americani, allo scopo di immobilizzare un sospetto.

Il tributo a Floyd non si è concluso con la cerimonia di ieri: oggi la salma sarà portata a Raeford, nel North Carolina, suo luogo di nascita, per una camera ardente e una cerimonia privata. La stessa cosa è prevista lunedì prossimo in Texas, a Houston, dove Floyd aveva vissuto per molti anni prima di trasferirsi, cinque anni addietro, in Minnesota, a Minneapolis.

Il cane pazzo dei marines va contro Trump: divide gli Usa

Con i generali, Donald Trump non è stato felice nelle scelte: se n’è circondato, ma li ha persi tutti per strada, uno sbattuto in prigione e poi prosciolto per il Russiagate, gli altri cacciati perché non eseguivano a bacchetta gli ordini del ‘comandante in capo’. La prova che pure gente adusa alla disciplina patisce l’imprevedibilità del presidente. Adesso, il pezzo più pregiato della sua collezione di stellette, James ‘Jim cane pazzo’ Mattis, gli si ritorce contro: rifiuta l’idea d’impiegare l’esercito contro i manifestanti anti-razzisti, mentre la violenza delle proteste dopo l’uccisione a Minneapolis di un afroamericano a opera della polizia s’attenua e nuovi sondaggi confermano che il candidato democratico Joe Biden è in vantaggio su Trump, almeno nelle intenzioni di voto nazionali.

Mattis se ne andò – dimessosi o cacciato, le due versioni si sono sempre intrecciate – poco prima del Natale del 2018, dopo le elezioni di midterm perse dai repubblicani. In disaccordo con Trump sull’Iran, sulla Siria, sull’Afghanistan, la sua uscita di scena avevano lasciato l’Amministrazione senza generali: i tre altri che c’erano stati – i consiglieri per la sicurezza nazionale Michael Flynn e H.R. McMaster e il capo dello staff della Casa Bianca John Kelly – erano già fuori. Il presidente la prese male: ne chiosò su Twitter la lettera di dimissioni, scrivendo che Mattis andava “in pensione”: dagli anfibi direttamente alle pantofole. Il generale, oggi quasi 70 anni, un marine per 40 anni, già comandante del Comando Centrale che, da Tampa in Florida, sovrintende a tutte le operazioni militari americane in Medio Oriente e Golfo, venne sostituito da Esper, un cadetto di West Point, in Iraq con la 101° Airborne Division dell’Esercito, ma fermatosi al grado di colonnello per votarsi all’Amministrazione e alla politica.

Su The Atlantic, settimanale liberal di cui Trump ha recentemente cantato il de profundis, Mattis giudica “un abuso di potere esecutivo” lo sgombero della folla davanti alla Casa Bianca, lunedì 3, per consentire al presidente una “bizzarra photo-op” davanti alla chiesa di St. John, Bibbia in mano; e invita a “richiamare alle proprie responsabilità chi ha cariche e deride la nostra Costituzione.” “Trump – scrive il generale – è il primo presidente nella mia vita che non tenta d’unire gli americani e neppure finge di farlo. Invece, tenta di dividerci”. “Siamo di fronte – prosegue – alle conseguenze di tre anni di questo sforzo deliberato, di tre anni senza una leadership matura. Possiamo unirci senza di lui, attingendo alla forza interna alla nostra società civile… Quando entrai nell’esercito, circa 50 anni fa, giurai di sostenere e difendere la Costituzione. Non avrei mai pensato che soldati che hanno fatto il mio stesso giuramento ricevessero l’ordine di violare i diritti costituzionali – a manifestare ed a protestare, ndr – dei loro concittadini…”.

Militarizzare la risposta alla frustrazione per l’uccisione di George Floyd, com’è stato fatto a Washington, per Mattis “crea un conflitto, un falso conflitto, tra l’esercito e la società civile… Ed erode le fondamenta morali che garantiscono un legame fiduciario tra uomini e donne in uniforme e la società che hanno giurato di proteggere e di cui sono parte… Mantenere l’ordine pubblico spetta ai leader civili statali e locali che meglio capiscono le loro comunità”, aggiunge. Tra Mattis ed Esper non corre buon sangue. Ma neppure Esper intende invocare l’Insurrection Act del 1807 contro le proteste, che la Casa Bianca etichetta come “terrorismo interno”. Trump non risponde a Esper, ma la portavoce della Casa Bianca Kayleigh McEnany afferma: “Per il momento. Esper è ancora segretario alla Difesa… Se il presidente perde fiducia in lui ve lo faremo sapere”.

Trump, invece, replica su Twitter a Mattis: “Probabilmente l’unica cosa che io e Barack Obama abbiamo in comune è che entrambi abbiamo avuto l’onore di licenziare Mattis, il generale più sovrastimato del mondo. Chiesi le sue dimissioni e mi sentii benissimo… Il suo punto di forza non era militare, ma piuttosto le pubbliche relazioni. Gli diedi una nuova vita, cose da fare, battaglie da vincere, ma raramente ‘portava a casa il risultato’… Felice che se ne sia andato”.

Secondo Politico, Trump s’è ormai chiuso in un suo bunker elettorale, da dove fa campagna come Richard Nixon e George Wallace alla fine degli anni Sessanta.

“Ma in realtà è come Lyndon Johnson, cioè un uomo che ha perso il controllo della macchina”.

Gli indulgenti e i disponibili con i fascisti del 3° millennio

L’esposto presentato il 25 giugno 2019 dall’Associazione nazionale partigiani d’Italia alla Procura della Repubblica di Roma ha portato finalmente ieri al sequestro preventivo dello stabile occupato abusivamente nel 2003 da CasaPound nel pieno centro della Capitale. La sindaca Virginia Raggi invano ne ha sollecitato da tempo lo sgombero che ora, finalmente, è all’ordine del giorno.

Impressiona la prolungata acquiescenza di cui i “fascisti del Terzo millennio” hanno goduto in una città letteralmente imbrattata di scritte e manifesti inneggianti al regime dittatoriale di cui prima la XII disposizione finale della Costituzione, e poi le leggi Scelba e Mancino, vietano espressamente l’apologia.

Nel corso di questi 17 anni non solo in troppi ci hanno fatto il callo, fingendo di non vedere. Ma gli esponenti di CasaPound sono stati ospitati in quanto firme “eretiche” su giornali liberali come Il Foglio, hanno organizzato nella sede di via Napoleone III dibattiti con giornalisti disponibili (Mentana, Formigli, Porro) e una loro esponente è stata opinionista fissa in una trasmissione di Michele Santoro.

Un’indulgenza plenaria figlia dei tempi, riservata a militanti che hanno fatto dell’intimidazione xenofoba il loro biglietto da visita, presentandosi come fautori – cito – di “un’Italia sociale e nazionale, secondo la visione risorgimentale, mazziniana, corridoniana, futurista, dannunziana, gentiliana, pavoliniana e mussoliniana”.

C’è voluto l’impegno della buona vecchia Anpi per rimediare l’inadempienza di più giunte di centrosinistra. E, va riconosciuto, l’impegno diretto di Virginia Raggi. Speriamo che sia la volta buona. Tollerare la presenza di una sede illegale preposta alla diffusione dell’ideologia fascista è uno sfregio che, nelle condizioni di grave disagio in cui versa, un Paese come il nostro non può permettersi.

Le due fan e i “consigli spirituali” di Ramadan

Pensiamo a un autorevole studioso del cattolicesimo come Alberto Melloni, o dell’ebraismo come Haim Baharier: se un giornalista scrivesse che dicono delle cose giuste e condivisibili, ma non le pensano, cosa gli capiterebbe subito tra capo e collo? Una visita psichiatrica, una querela, una qualifica di imbecille?… Ebbene, una frase simile l’ho letta sui giornali anni fa, riferita ripetutamente e impunemente alla persona di Tariq Ramadan. L’autorevole studioso dell’islam sempre definito “controverso”, “discusso”, “ambiguo”.

Se un giornalista si permette con lui quello che non ci si potrebbe permettere con nessuno, perché nessuno legge il pensiero degli altri, c’è da domandarsi se non ci sia una qualche forma di disprezzo, oppure un complesso di superiorità nei confronti dei musulmani.

Anni fa Ramadan era un uomo di potere e aveva incarichi prestigiosi. Poi è arrivato il #MeToo, con tanto di gogna mediatica a vendicare le violentate che di colpo, dopo anni, decenni, lustri, mezzi secoli, hanno ritrovato la memoria delle violenze subite. Dentro questa perfetta rete per pesci grossi (i piccoli sono stati subito dimenticati) è finito anche lui, insieme a molte altre vittime: dal precursore Strauss-Khan, quasi in diretta, ai vari Weinstein, Domingo, Freeman, e ai soliti Allen e Polanski, sempre più in differita.

Ramadan sarà processato il 24 giugno. Mi domando: quelle due donne che hanno accettato di entrare nella sua camera da letto, presumibilmente giovani, belle e molto affascinate da quell’uomo molto affascinante, che cosa si aspettavano che succedesse lì? Di ricevere i suoi “consigli spirituali” sopra il letto? Ingenue o sprovvedute fino a questo punto? Non lo credo. Forse semplicemente si aspettavano un amplesso di loro gusto, alla loro misura, forse tutto dolcezza e tenerezza; ma ognuno gode a modo suo, lo si sa, e non è stato così, forse è stato l’opposto, e sono rimaste deluse o traumatizzate. Ma è colpa di Ramadan? Non ha forse fatto quello che facciamo tutti?: seguire gli impulsi del proprio personale avvicinamento al piacere. E credo anche che (ma forse ho visto troppe puntate di The Mentalist in questo periodo di reclusione), prestando più attenzione ai dettagli, si possa capire molto di una persona e prevederne a occhio e croce anche il comportamento erotico.

Ero a Torino Spiritualità il 26 settembre 2013; l’ho visto entrare al ristorante e, col cucchiaio di minestra in mano, ho quasi gridato “Tariq!” gettando nello sconcerto i miei commensali. A lui è venuto da ridere. Mi sono fatta presentare e ho visto i suoi occhi da vicino: sfolgoravano di un profondo fuoco spirituale.

La “zero burocrazia” urlata da Salvini (forse) è per scusarsi

Nella maxi-ressa di via del Corso di sabato, il senatore Salvini ha declamato davanti alle telecamere le slide della sua ricetta politica, tra le quali “zero burocrazia”. Sorgono alcune domande. La prima riguarda l’uso dello “zero” che riporta all’espressione “tolleranza zero” coniata da Rudolph Giuliani quando era sindaco di New York. Il richiamo allo zero risente di un certo massimalismo, tutt’altro che velleitario nel caso di Giuliani che nello slogan aveva concentrato un messaggio assolutamente positivo, cioè la lotta senza quartiere al crimine. Lo “zero” di Salvini è di segno esclusivamente negativo. Se si è ben capito, la proposta si prefigge di eliminare ogni forma di controllo e di modulazione delle scelte di tipo amministrativo a vantaggio del libero attivismo dei cittadini, soprattutto di quelli impegnati nella produzione economica. L’esempio della ricostruzione del ponte Morandi è il cavallo di battaglia di questa impostazione, che non tiene conto della natura tutta particolare di quella vicenda, esposta al giudizio di un pubblico non solo italiano. Ma siamo sicuri che, in situazioni meno drammatiche di quella genovese, potrebbero valere le stesse regole e lo stesso generoso impulso della collettività a partire dal progettista Renzo Piano? Più facilmente prevarrebbero altre logiche, come quando si affidavano alla Protezione civile di Bertolaso attività di ricostruzione o di preparazione di eventi, talora con lo scudo del segreto di Stato e la liberazione da lacci e lacciuoli procedimentali unita a un uso spesso non parsimonioso del danaro pubblico. La verità è che sia la totale mancanza di regole sia un’asfissiante mole di quelle rendono difficile qualsiasi attività, non solo di tipo imprenditoriale. In entrambi i casi, seppure con diversa tecnica, si aprono spazi a scelte incongrue o dissennate, mentre una corretta azione politica deve contemperare con saggezza misure idonee con tempi e procedure improntati a celerità e snellezza. La seconda domanda riguarda i soggetti con i quali il senatore Salvini intende sostituire l’apparato decisorio della burocrazia. Compressa o eliminata quest’ultima, è evidente che la relazione si instaura direttamente tra i detentori del potere politico e il mondo variegato delle imprese, magari senza più pretendere i certificati antimafia delle Prefetture. Per non parlare della possibilità per i cittadini ansiosi di edificare alla “come mi pare” di poter costruire senza che un’orda di burocrati cerchi di porre dei freni… Un sogno per qualche politico, ma certo un incubo per la comunità. In mancanza di regole procedimentali verrebbe meno pure la giurisdizione amministrativa, la cui cognizione è legittimata dall’esercizio di pubbliche potestà e non avrebbe ragione d’essere per affidamenti e atti di tipo privatistico. Residuerebbero invero alcune difficoltà nel giustificare l’eliminazione della giustizia amministrativa per gli appalti sopra soglia, soggetti alla disciplina europea, per la quale il senatore, forse anche per questo, manifesta insofferenza. Le decisioni dei giudici amministrativi, per quanto non sempre condivisibili e “giuste”, costituiscono un pilastro dello Stato di diritto dal quale non si può prescindere. La terza domanda riguarda la genesi della proposta del capo della Lega, che da ministro dell’interno si è occupato di immigrazione, ma non si è speso per ridurre, con proposte choc come l’attuale, gli apparati della burocrazia, anche quando la comunità ne lamentava l’irragionevole peso. Fattore scatenante, probabilmente, è stata la consapevolezza delle gravissime difficoltà incontrate dal sistema sanitario lombardo ordinato in modo cervelloticamente burocratico e per questo rivelatosi poco idoneo a contrastare l’epidemia. Cioè, per dare una spiegazione psicologica, un mal riuscito tentativo di autocritica da parte del senatore Matteo Salvini.

 

Passato il Covid-19, il “capitale” sopravvive e noi ci estinguiamo

È arrivato il caldo e ciascuno di noi, dal più prudente al più audace, si augura che a risolvere il caso Covid ci pensi l’estate. Finiamo sempre con l’aspettare che intervenga qualcosa dall’alto, il caso, il destino, un deus ex machina qualunque che ci sollevi dal peso della decisione. Gustavo Zagrebelsky su Repubblica constata amaro come il darwinismo sociale stia avendo la meglio in molte parti del mondo, dove le vite non hanno tutte lo stesso valore. Richiama alla Costituzione, in cui la vita e la salute sono valori primari che valgono per tutti. E auspica che sia la Costituzione a farci capire che “lo Stato sociale non può sacrificarsi a nessun idolo produttivistico”. Ma nella realtà, malgrado sia triste ammetterlo, quanta vita e quanta salute andranno sacrificate dipenderà più dal clima che dallo Stato sociale. In questi mesi abbiamo preconizzato cambiamenti socio-politici epocali, sicuri che l’essere umano, col suo corpo e le sue necessità primarie, sarebbe tornato al centro della scena, mettendo in ombra i bisogni indotti di una società capitalistica talmente accelerata da aver perso la destinazione. E invece, da come si stanno mettendo le cose, sembra che si possa fare a meno di tutto fuorché del superfluo, per dirla con Oscar Wilde. Diritto alla salute, valore della vita, etica e compassione restano subalterni alla produttività. Anzi adesso la dura legge del capitale ha tutte le ragioni per alzare la voce, facendosi scudo delle attività che non riaprono, delle famiglie che non arrivano a fine mese, del “non si muore solo di coronavirus”. Il capitalismo diventa il paladino dei molti contro i pochi, di chi vorrebbe rimboccarsi le maniche contro chi non fa altro che appesantire lo Stato con le sue richieste. La difesa dei più fragili è derubricata ad assistenzialismo; chi rischia di ammalarsi e ci costringe a rallentare i giri del motore è come chi vive sulle spalle della collettività col Reddito di cittadinanza: un problema, un peso. Mai come oggi le ragioni della sopravvivenza economica si sono mescolate a quelle del profitto, finendo col nobilitarle; mai come oggi i grandi gruppi industriali hanno potuto beneficiare delle proteste dei piccoli artigiani o delle botteghe che rischiano di non riaprire; mai come oggi la difesa delle libertà individuali è stata funzionale al ritorno in strada dei consumatori. Dei consumatori, non dei cittadini. Sì, perché la ripresa della socialità non è che un effetto collaterale del ritorno a consumare: se si potesse sorseggiare spritz senza riunirsi ad esempio, o mangiar fuori senza incontrarsi, state pur certi che molti cantori della libertà personali avrebbero riposto la cetra. Dicono che Dio è morto e Marx è morto. La globalizzazione è in stato confusionale, il sovranismo è ferito, ma il capitale – per quanto non si senta tanto bene – è il più determinato a sopravvivere. L’unico che a oggi pare avere gli anticorpi contro il coronavirus. E noi, specie bambina, incapace di qualsivoglia maturazione, ci avviamo a grandi falcate verso la nostra fine, con una determinazione che lascerebbe pensare a un suicidio premeditato e invece è solo l’ultima declinazione della ubris: la tracotanza dell’incuria. Ci estingueremo perché siamo troppo fichi per cambiare direzione, ontologicamente cazzoni. “Non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento”: in questa citazione erroneamente attribuita a Darwin c’è il destino della specie umana. Troppo presuntuosi per adattarsi al cambiamento, gli uomini si preparano a essere i nuovi dinosauri. Da quando morse la mela solo perché era stato ammonito a non farlo, l’uomo ha continuato a ripetere in sequenza la stessa scena nei diversi contesti, mordendo tutto ciò che sapeva di non dover mordere. Credere che un virus cambiasse la nostra natura è stato un peccato d’ingenuità.

 

Caso Palamara, basta con i politici nel Csm

Dopo la nuova tornata di intercettazioni relative al caso Palamara, la magistratura è sotto tiro. La sua credibilità ne esce incrinata. Giustamente, da essa, si pretende una sollecita e profonda revisione di regole e comportamenti. Ma anche la politica ne esce male, anch’essa dovrebbe fare la propria parte per emendarsi. Sul punto, mi sia permessa una riflessione originata dalla mia personale non breve esperienza parlamentare. Profondo disagio mi hanno sempre procurato le pronunzie delle Camere in materia paragiudiziaria, tipo le autorizzazioni a procedere a carico dei parlamentari, ove quasi sempre è la ragion politica a prevalere. Di regola, ciascuno difende i suoi. Mostrando come il parlamento è il più inattendibile dei “tribunali” anche in tema di fumus persecutionis. Altrettanto disagio provavo nella elezione, da parte delle Camere, dei membri laici degli organi di garanzia, a cominciare dal Csm. Per il metodo: la scelta dei nomi è per intero affidata a opachi negoziati tra i vertici di partito; la precedono lunghe ed estenuanti transazioni che, quasi sempre, si trascinano per mesi, impegnando un gran numero di sedute (a vuoto) delle Camere riunite e reiterando così un vulnus al plenum di quegli organi; i gruppi parlamentari semplicemente recepiscono il risultato di quelle intese prettamente politiche; a singoli deputati e senatori, all’ultimo minuto, i gruppi consegnano un pizzino con stampati i nomi da votare neppure accompagnato da un loro stringato curriculum. Ma anche per il merito, ove più che la qualificazione conta la contiguità politica. Spesso designando ex politici o addirittura politici in carica.

In non pochi casi, l’epilogo di quel braccio di ferro è all’insegna di un accordo che sortisce personalità non di prima fila che si segnalano per opposto spirito partigiano. Talvolta con scambi al ribasso o addirittura indecenti, immettendo in nel Csm politici-legali di fiducia di questo o quel leader. Berlusconi su tutti. Quante nomine imbarazzanti seppellite dalla nostra smemoratezza. Circa l’insensibilità sino all’ostilità della destra nostrana al principio dell’autonomia dell’ordine giudiziario è inutile spendere parole, da quando (oltre venticinque anni) il Cavaliere le ha impresso il suo sigillo. Snaturando la cultura della destra che ci si immaginerebbe custode dell’ordine e della legalità. Ma che dire della sinistra? Ho sempre pensato (e sostenuto, puntualmente inascoltato) che, ancorché la cosa non sia preclusa in via formale, utile sarebbe un patto tra i gruppi che li impegnasse a non indicare politici. Vero è che, nella Prima Repubblica, ai vertici del Csm abbiamo avuto figure dotate di un profilo politico e che non hanno sfigurato. Ma, attenzione, con due decisive differenze: di autorevolezza soggettiva e di contesto politico, al tempo non altrettanto polarizzato tra destra e sinistra. Personalità equilibrate, per lo più ascrivibili al centro politico versato per la mediazione (Bachelet, Galloni, sino a Rognoni). Ora leggo che finalmente si sta ragionando di una regola che escluda i politici, ma che ancora il Pd vi si oppone.

Se non ora quando, dopo le inquietanti (ma non sorprendenti) intercettazioni relative al caso Palamara? Decidendo finalmente di eleggere membri laici non politici, ma professori e operatori del diritto indipendenti e di chiara fama, si garantirebbe, a monte, che il vicepresidente, non togato per norma costituzionale, fosse figura non sospettabile di spirito di parte (politica). Così non si metterebbe in oggettivo imbarazzo il presidente del Csm, cioè il capo dello Stato.

Retrospettivamente, va riconosciuto: non è stato opportuno scegliere Ermini, deputato legato a Renzi (dominus politico della legislatura appena conclusa e con rapporti, diciamo così, non facili con la magistratura) e responsabile giustizia del Pd; né che, nella consiliatura precedente, si sia eletto Legnini, passato direttamente dal governo al vertice del Csm e, scaduto da poco, candidato Pd alla presidenza della Regione Abruzzo. A proposito di ciò che compete alla politica, va notata una differenza: le intercettazioni dello scorso anno quantomeno portarono alle dimissioni di sei magistrati del Csm perché non ne fosse compromessa irreversibilmente la dignità dell’istituzione. Non una piega invece da parte dei due politici, Lotti e Ferri, beccati a tramare senza averne titolo e mossi da evidenti interessi personali e di gruppo. Di loro dimissioni neppure l’ombra. Dai loro partiti nessuna sanzione. Merita chiedersi: forse si pensa che il parlamento, a differenza del Csm, non debba difendere la sua dignità? O che, peggio, non vi sia speranza di restituirgliela?