“Attenti ai collegi per il Csm: penalizzano gli indipendenti”

La riforma del Consiglio superiore della magistratura, proposta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, arriva come tentativo di bloccare le degenerazioni correntizie emerse in maniera clamorosa con l’inchiesta sull’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara.

Che giudizio ne da Sebastiano Ardita, membro del Csm ed esponente di Autonomia e indipendenza?

È stato annunciato un testo che contiene diverse iniziative. Alcune importanti, come quelle che prevedono la separazione tra vita politica e attività giudiziaria. Altre utili. Qualcun’altra potrebbe tradire le finalità che si ripropone.

Cerca di sanare le storture rese palesi dal caso Palamara?

Una riforma del Csm che segnasse un confine tra magistratura e politica era comunque indispensabile. Intanto il caso Palmara ha già prodotto qualche piccolo effetto: tutti stanno più attenti a non ricadere negli errori del passato. I gruppi organizzati agiscono e votano spesso come un sol uomo e questo non giova alla coerenza delle scelte. Nel Csm non dovrebbero esistere sigle o gruppi, anche se per essere eletti ci si è riconosciuti in un programma comune. E poi occorrerebbe tutelare chi non è sostenuto da alcun gruppo. Con gli eletti di Autonomia e indipendenza e Nino di Matteo abbiano provato a fare questo, votando spesso in modo difforme tra di noi, proprio in nome della autonomia delle scelte.

La riforma propone di votare i membri del Csm in venti piccoli collegi.

Questo rischia di far sparire i candidati indipendenti e anche una realtà come la nostra che raccoglie il consenso sparso di chi non condivide il sistema delle correnti. Forse il ministro non sa che alcune correnti hanno reti locali che prendono in carico i magistrati dal loro ingresso in magistratura e li accompagnano fino alla pensione. Più ristretto è il collegio e più facile è intercettare il voto. Nessun magistrato, se non sostenuto da un gruppo, verrebbe mai eletto. Falcone non fu eletto quando si presentò in un piccolo collegio di Palermo. Oggi non sarebbe al Csm Nino di Matteo. Una riforma così rafforzerebbe la logica dei gruppi più forti e farebbe sparire le minoranze.

La riforma prevede un doppio turno, con la seconda votazione dopo 24 ore, per impedire accordi di corrente.

Una disposizione inutile, perché le grosse correnti prevedono già tutto. E sanno in partenza chi andrà al ballottaggio.

Se passa una riforma così avranno la magistratura nelle mani e non sarà un gran servizio per la giustizia. E poi non dite che non l’avevamo detto… La politica avrebbe invece tutto il tempo per varare una riforma, anche costituzionale, che preveda una forma di sorteggio che preceda l’elezione. Prima ero scettico, ma adesso non più. È ciò che auspica la maggioranza dei magistrati italiani e che fa paura a molti esponenti importanti dei gruppi che puntano solo alla propria autoriproduzione. Come ulteriore proposta ci sarebbe la possibilità di prevedere, dopo un rigoroso vaglio di idoneità, la rotazione di alcuni incarichi semidirettivi. Anche questo potrebbe togliere spazio al meccanismo che alimenta il sistema clientelare.

Il nucleo della riforma sembra essere il blocco delle porte girevoli tra magistratura e politica.

Penso che per i magistrati che scelgono la strada della politica non sia giusto tornare indietro.

Prevede che i “laici” del Csm non possano essere scelti tra i politici eletti in Parlamento.

Quando i “laici” sono espressione dell’Accademia o dell’avvocatura la loro indipendenza è certamente maggiore. Pero il nuovo sistema renderà più forti le correnti, anche perche prevede poteri più penetranti del Csm rispetto ai capi degli uffici, attraverso gli strumenti di organizzazione (tabelle, criteri di assegnazione, deleghe) con tanto di responsabilità disciplinare dei magistrati che non si adeguano. Questo strumenti, se applicati in modo burocratico nelle Procure, rischiano di essere un freno alla competenza e alle iniziative dei singoli magistrati. La magistratura verrebbe ulteriormente gerarchizzata e controllata. Non penso che qualcuno potrà mai più avere l’autonomia che ebbero negli uffici Giovanni Falcone o Paolo Borsellino.

“Non voglio picconare il governo: l’unità nazionale è peggio”

Un libro sull’Islam sul tavolo, il pc aperto su un testo a cui lavora. “Non mi interesso alle poltrone, mi dedico ad altro”, giura Alessandro Di Battista, l’ex parlamentare del M5S che potrebbe rientrare in gioco, chissà se, come e quando. Nell’attesa, ha molto da dire.

Fuori e anche dentro il M5S tanti sono convinti che lei vorrebbe far cascare il governo di Conte. Hanno ragione?

Ho fatto i complimenti a Conte per come ha gestito l’emergenza del coronavirus. Ora però si apre un’altra partita, quella per ricostruire il Paese. Se il premier porterà avanti idee come l’ecobonus e la legge sul conflitto d’interessi avrà il mio sostegno. Qualora dovesse invece portare avanti idee come il Ponte sullo Stretto di Messina e non essere duro come aveva detto di voler essere sulla revoca della concessione ad Autostrade, dirò pubblicamente che sono in disaccordo con lui. Ma ciò non significa che io intenda picconare il governo.

Non è che vuole cambiare premier e magari maggioranza?

Non è un segreto che io non volessi il governo con il Pd. Ma in questa fase è necessario un esecutivo politico: la cosa peggiore che ci possa capitare sarebbe un esecutivo tecnico o di unità nazionale. Io voglio aumentare il potere contrattuale del M5S nel governo, perché ritengo che quello attuale non sia proporzionato al 33 per cento preso alle Politiche 2018.

La politica è anche compromesso: e da soli non si governa.

D’accordo. Ma nei tavoli che contano, quelli europei, il Pd, pur avendo subito la più pesante sconfitta della sua storia nel 2018, ha il ministro dell’Economia, quello agli Affari europei e il commissario agli Affari economici. Il M5S non ha nessuno, ed è la prova che non ha fatto pesare adeguatamente la sua forza contrattuale. Ma è falso che io voglia far cadere Conte. Sono grillino, non stupido.

Vede molti che invece vogliono abbattere Conte?

Certo: Renzi, Calenda, una parte del Pd e gli Elkann. Cioè l’establishment, e io sono anti-establishment.

Quale sarebbe l’establishment?

I Benetton, il presidente di Confindustria Bonomi, gli Elkann e il loro accentramento di potere mediatico, Giovanni Malagò.

Il M5S è stato prono o combattivo con questi mondi?

Si vedrà sulla revoca della concessione ad Autostrade.

Conte ha ribadito che c’è una trattativa in corso. Se Autostrade abbassasse molto le tariffe non sarebbe un ottimo risultato?

No. Come il M5S e Conte hanno ripetuto per due anni, i Benetton non devono più toccare quelle concessioni. Ci sono 43 morti che vanno onorati.

Lei dice no al Ponte sullo Stretto. Ma anche alcuni 5Stelle hanno aperto all’idea. E Max Bugani, a lei vicino, ha commentato: “Così diventiamo come Ncd”.

Max ama il M5S ed è preoccupato per il crollo nei consensi in questi due anni. Come lui, penso che sia necessario dare nuove idee al Movimento per un’agenda per i prossimi dieci anni. Se si indebolisce, cancelleranno il Reddito di cittadinanza e la legge anticorruzione.

Lei ha lanciato il servizio ambientale per impiegare fino a 200mila giovani all’anno in interventi per la salvaguardia del territorio. Ma quanti soldi ci vorrebbero?

Dai 3 ai 6 miliardi: costerebbe molto meno del ponte sullo Stretto e farebbe risparmiare decine di miliardi, tenendo conto dei danni ingenti del dissesto idrogeologico.

Conte e parte del M5S vogliono lo Sblocca cantieri: lei?

Dico sì a investimenti pubblici. Ma tenendo conto del fatto che quasi ogni due anni abbiamo un terremoto grave, dobbiamo adoperarli per tutelare il nostro patrimonio artistico e pubblico da eventi sismici.

Sostiene che lo Stato debba dare lavoro. Assistenzialismo puro, no?

Io ho destinato alle imprese private 210mila euro del mio stipendio. Ma in una fase di recessione lo Stato deve dare più lavoro. E c’è bisogno di un istituto per la trasformazione industriale, con cui aiutare le aziende a riconvertirsi. Sto lavorando anche a questa proposta.

Per riprendere la guida del M5S, giusto?

Non sono interessato a poltrone. Mi interessa il futuro del Paese.

Hanno sospeso Ignazio Corrao con altri due eurodeputati. “Lo fanno per isolare Di Battista”, dice Barbara Lezzi.

Mi auguro vivamente che non sia così. Stimo moltissimo Ignazio, come gli altri due eurodeputati: mi auguro che ritorni presto a fare il facilitatore degli enti locali.

Le fanno la guerra?

Non mi dovrebbero temere. Ho aiutato il M5S a prendere il 33% nel 2018, poi mi sono fatto da parte. Avere paura di me è sciocco.

Il vincolo dei due mandati va cancellato?

Meglio chiederlo a chi è in scadenza con il secondo mandato. Non devo parlarne io, che ne ho fatto solo uno.

Punta a fare il capo politico, lo dica.

Sono disposto a dare una mano a determinate condizioni, che riguardano idee e atteggiamento. Non cerco ruoli.

La Bce “francese” schiaffeggia Berlino: gli acquisti raddoppiano

La Bce a guida francese non lascia, anzi (quasi) raddoppia. Il Consiglio dei governatori non ha alcuna intenzione di piegarsi alla spigolosa sentenza di inizio maggio della Corte costituzionale tedesca sul Quantitative easing che poteva azzopparla e, al termine della riunione di ieri, ha annunciato che il programma anti-pandemia “Pepp” (acquisti di titoli pubblici e privati sul mercato) sarà aumentato nella portata ed esteso nel tempo: oltre ai 750 miliardi già annunciati, la Banca centrale comprerà per altri 600 miliardi e almeno fino al 30 giugno 2021 (anziché fermarsi a fine anno). Non solo: i titoli in portafoglio saranno rinnovati alla scadenza almeno per tutto il 2022.

La Bce, in buona sostanza, rende inutile il Mes (il famigerato ex fondo salva-Stati), che a Francoforte hanno sempre ritenuto “inadeguato” e – in quanto strumento di controllo sui bilanci degli Stati – vero oggetto dello scontro in atto tra la Banca centrale europea e un bel pezzo dell’establishment tedesco fin dai tempi di Draghi. Insomma, quello di ieri è uno schiaffone.

Karlsruhe Per “Christine”, è un problema di Merkel & C.

La sfida della presidente Christine Lagarde al sistema Germania è apparsa ancor più chiara in conferenza stampa: i giudici tedeschi le chiedono, riassumendo molto, di limitare la quantità degli acquisti sul mercato e di effettuarli, comunque, sulla base della cosiddetta capital key, cioè rispettando la proporzione di ogni Paese nel capitale della banca. Questo limiterebbe molto la capacità d’azione della Bce, che non intende adeguarsi: l’andamento del Pil e dell’inflazione (entrambi in picchiata) segnalano una “forte e urgente necessità” di deviare dalla capital key per evitare i “rischi di frammentazione” dell’Eurozona (ad esempio spread troppo alti) e questa flessibilità “sarà mantenuta per tutta la durata del Pepp”.

Quanto alla sentenza di Karlsruhe, per Lagarde se la vedessero tra loro i tedeschi: “Abbiamo certamente preso nota di quel giudizio, che è diretto al Parlamento e al governo tedesco. E siamo fiduciosi che verrà trovata una soluzione che non comprometterà l’indipendenza della Bce, la legge europea e la sentenza della Corte Ue”, che ha giudicato il Quantitative easing “in linea col nostro mandato”.

Il risultatoUna boccata d’ossigeno per Roma e Parigi

Finora, unendo i programmi attivi (Pepp e il Qe2 resuscitato nel 2019), i Paesi più beneficiati dalla “flessibilità” della Bce sono Italia, Francia e Spagna: non a caso ieri pomeriggio i rendimenti dei loro titoli di Stato sono calati. E qui veniamo agli effetti “politici” della decisione. Il primo, come detto, è che Angela Merkel, il governatore della Bundesbank Jens Weidmann e il Parlamento tedesco ora sono in un bel pasticcio: la Bce non si piega ai diktat in arrivo da Karlsruhe, ma per loro sarà difficile far finta che la Corte costituzionale non abbia parlato (in teoria, se la Bce non dimostra di rispettare le regole dettate dai giudici tedeschi, la Buba dovrebbe uscire dai programmi della Banca centrale europea). Il secondo effetto è il grosso aiuto che ai Paesi più in difficoltà arriva dalla scelta di Lagarde e soci: a questi ritmi, di fatto la Bce sta monetizzando il deficit degli Stati (il che sarebbe vietato dai Trattati) e rendendo obsoleti gli strumenti del passato, Mes in testa. Il Pepp consente all’Italia di andare sui mercati a tassi vantaggiosi; senza condizionalità aggiuntive; per necessità individuate dal governo evitando maratone burocratiche a Bruxelles o “scontrini” che giustifichino le spese. Niente timore infine di “effetti stigma”, cioè che i mercati pensino che siamo alla canna del gas.

I conti della serva Perché il Salva-stati non conviene più

La presunta convenienza economica del Mes (e anche di altri tipi di prestiti “eccezionali”) si scontra – a non voler entrare nel tecnico, trattandosi di strumenti finanziari differenti (il fondo salva-Stati è un creditore “privilegiato”) – con un effetto secondario, ma decisivo, degli acquisti della Bce: i titoli vengono tenuti fino a scadenza e gli interessi “retrocessi” allo Stato. Insomma, quei soldi tornano al Tesoro via Banca d’Italia (per l’80% del totale dei titoli) e pro-quota per il resto anche dalla Bce. A Francoforte hanno calcolato che dal 2015 al 2019, tra i vari programmi, al Tesoro sono stati retrocessi interessi per oltre 23 miliardi ed è una cifra che andrà crescendo negli anni.

Un volume di fuoco che, insieme al Qe-2 residuo, somma a 1.500 miliardi di euro (ma molti pensano verrà aumentato a settembre): la quota italiana sarebbe di circa 250-260 miliardi, ma se la Bce continuasse a deviare dalla capital key al ritmo tenuto negli ultimi due mesi saremmo ben oltre i 300 miliardi, una cifra che metterebbe al sicuro il rinnovo del debito circolante e anche l’extra-deficit di cui l’Italia avrà bisogno, il tutto ridando indietro gli interessi al Tesoro. Una cosetta di cui tener conto quando ci si avventura nei “conti della serva” sulla convenienza dei 36 miliardi del Mes.

Memory non deve morire

Se un giorno gli storici dovranno battezzare l’epoca che stiamo vivendo, la chiameranno l’Era del Mitomane e dello Smemorato. Del resto fra mitomania e smemoratezza c’è un preciso nesso causale: se conservassimo un po’ di memoria, non saremmo infestati da tanti mitomani di successo.

Prendete l’Innominabile. A 45 anni non si ricorda più chi era. Come Alberto Sordi nel film Troppo forte di Carlo Verdone, nei panni dell’avvocato Giangiacomo Pignacorelli in Selci, che un bel mattino si sveglia ballerino e coreografo, indossa una tutina aderente e improvvisa una danza sull’aria di Oci Ciornie davanti ai clienti disperati, mentre le anziane sorelle ricordano “quando faceva il dentista e cavò tre denti al fruttivendolo che gli fece causa perché erano tutti sani”. Ora l’Innominabile si crede garantista e, nel tentativo di promuovere quella ciofeca del suo nuovo libro, strilla contro Piercamillo Davigo, reo di ricordare che la responsabilità politica e morale, diversamente da quella penale, può essere accertata e sanzionata prima delle sentenze. “Parole gravissime, enormi, incredibili!”, bercia lo statista rignanese:

“Dire che non bisogna aspettare le sentenze va contro la civiltà giuridica europea! Mi sorprende che un membro del Csm non distingua giustizia e giustizialismo!”.

Eppure qualche anno fa c’era un presidente del Consiglio ipergiustizialista che, insensibile alla civiltà giuridica europea, predicava il dovere di non attendere le sentenze per licenziare i presunti assenteisti dalla PA. Dovevate sentirlo come ululava, lanciando la riforma Madia: “Per i furbetti del cartellino è finita la pacchia! È una legge cattiva ma giusta. D’ora in poi si va subito a casa!” (15.6.2016). “Chi fa il furbo col cartellino viene licenziato in 48 ore!” (29.11.2017). Cioè senza aspettare non solo le sentenze, ma pure le indagini. E molti gli diedero retta, pensando che prima non si potesse licenziare un assenteista dalla PA: invece si poteva, ma non in 48 ore, bensì in 4 mesi, per consentire all’accusato di difendersi. Infatti la Consulta rase al suolo la sua boiata e lui si rimise a strillare: “La Corte ci impedisce di licenziare i furbetti del cartellino”. Era una balla, ma molti se la bevvero perché lui era il capo del governo. E con la spensierata (in senso etimologico) Madia aveva lanciato il licenziamento in 48 ore al teatro Ariston di Sanremo per fare demagogia sul vigile lì filmato e arrestato perché timbrava in mutande o in tuta, additato al pubblico ludibrio e poi licenziato dal Comune senza uno straccio di condanna e né di rinvio a giudizio. Come voleva il premier giustizialista. La sentenza è poi arrivata sei mesi fa.

E ha assolto il vigile “perché il fatto non sussiste”: l’imputato spacciato per simbolo dell’assenteismo lavorava più degli altri e “la timbratura in abiti succinti non costituisce neppure un indizio di illiceità penale e ha una spiegazione logica” (una disposizione del comandante che imponeva al vigile incriminato, in funzione di custode, di timbrare il cartellino in abiti borghesi dopo aver aperto all’alba il mercato municipale). Resta da precisare il nome di quel premier giustizialista che non voleva attendere le sentenze e nemmeno le indagini: Matteo Pignacorelli in Renzi. Lo stesso che ora accusa Davigo di essere un aguzzino incivile per aver detto molto meno di quel che diceva lui.

Dicevamo della smemoratezza e mitomania. Ieri tal Bruno Astorre, nientemeno che senatore e segretario del Pd nel Lazio, ha molto rosicato perché Virginia Raggi ha vinto la sua battaglia solitaria per lo sgombero degli occupanti abusivi di Casa Pound dopo 17 anni e 4,5 milioni di danni erariali. Così ha pensato bene di negarla, ringraziando “la Procura di Roma” (non si sa mai) e “la Questura”, ma anche “i cittadini che hanno sempre portato avanti questa battaglia di legalità” e attaccando la sindaca “che al solito ha assistito dal balcone del suo Facebook”. In realtà la Raggi, dopo aver sollecitato infinite volte lo sgombero al Demanio (ministero dell’Economia) padrone dello stabile, contro i rinvii della Prefettura pidina e salviniana, si era recata personalmente lì sotto per far scalpellare l’insegna di Casa Pound e metterci la faccia, buscandosi qualche simpatica minaccia di morte, in aggiunta a quelle seguite all’abbattimento dei villini del clan Casamonica. Non sappiamo su quale balcone fosse quel giorno l’Astorre. Sappiamo però chi era sindaco nel 2003 quando Casa Pound occupò il Palazzo: Veltroni. Poi Alemanno e Marino, ma anche lì zero sgomberi (a parte quello di Marino per mano del Pd). Al Mef si susseguivano i ministri (anche il Pd Padoan), ma nessuno pareva interessato a riprendersi lo stabile. Quindi, per favore: astenersi smemorati e mitomani.

A proposito: leggiamo sul Corriere che Zingaretti dice sì a “un’anima patriottica” comune con B. e sul Foglio che il capo dei senatori Pd Marcucci iscrive B. e tutta FI in “un approdo liberale e fortemente europeista”. Parole pronunciate nel giorno dell’ennesimo arresto di Sergio De Gregorio, che una sentenza definitiva definisce “corrotto” da B. con 3 milioni in cambio del suo passaggio dall’Italia dei Valori a FI per rovesciare il governo Prodi-2. Ma lo sanno Zinga e Marcucci che il B. “patriota” e “liberale” è lo stesso corruttore che comprava senatori per rovesciare il loro ultimo governo? O serve un disegnino?

Da Antigone a Ippolito. “Le porte del mito” si spalancano sulle tragedie. Divine

Maria Grazia Ciani, filologa classica, è soprattutto grecista. Le sue traduzioni di Omero sono conosciutissime, e sono apprezzate per la limpidezza che scioglie le difficoltà in apparente semplicità.

L’anno scorso ha pubblicato un breve e intensissimo romanzo, La morte di Penelope (Marsilio). È una coraggiosa variante del finale dell’Odissea; Ulisse è duro e spietato, tanto che sembra corrisponder più alla poesia di Virgilio che a quella di Omero. Penelope non ha mai, durante la lunga attesa, tradito lo sposo; pure ha scambiato un paio di sguardi con Antinoo, il più bello e volitivo dei Proci. Forse lo desidera in un segreto che tace anche a se stessa. Per Odisseo è già colpevole di tradimento; e quando tende l’arco nel mégaron e si rivela al fatale banchetto, Penelope muore per prima. Omero con un’elegantissima aggiunta dell’inconscio, ch’egli stesso non sospettava esistere.

Adesso, sempre per la Marsilio, la Ciani pubblica un altro piccolo libro, Le porte del mito. È una raccolta di saggi coordinati fra loro, non una silloge di articoli già scritti. Coniuga ancora una volta, questo libro, la limpidezza e la semplicità con la profondità e la difficoltà. Perché quanto più breve, tanto più difficile è tentare il racconto della civiltà greca, del suo senso, di quel che ha lasciato al mondo. Eppure di quante cose questo libro è ricco, tanto che occorre leggerlo più volte per afferrarlo. L’inizio, ossia l’apertura, è dedicato al tema della porta, ossia delle sette di Tebe e della settima, l’inviolata, ove si uccidono Eteocle e Polinice. E all’azione di Antigone, contro la legge: ma una legge ingiusta. Qui principia la coscienza moderna o, se altri vuole, l’idea del diritto naturale.

La storia della lingua greca, che incomincia – per noi –, dopo Creta e Micene, con Omero. Intraducibile perché troppo più sottile di noi, afferma Foscolo. Eppure proprio a lui si debbono meravigliosi frammenti dell’Iliade, ampi e meditati, sorti dalle angosce del periodo londinese, l’ultimo. Dall’epica nasce il Dramma, o Tragedia: nella lingua e nelle rimodellate forme. Anche su questo la Ciani scrive assai acutamente, sì che il rapporto di filiazione e contrapposizione tra questi due mari è forse il centro del libro. Un bellissimo capitolo è dedicato alle isole epiche all’interno del Dramma, ossia il racconto del Messaggero. A partire dai Persiani di Eschilo è difficile trovare nella poesia qualcosa che lo pareggi.

Mi ha colpito molto il capitolo sulla nascita della medicina moderna: da esercizio del sacro, con Esculapio, a esercizio della scienza, con Ippocrate – Galeno è giustamente considerato più filosofo che medico. Non dimentichiamo che Asclepio venne ucciso dagli dèi per aver risuscitato Ippolito, il quale si trasferì presso il lago di Nemi, sacro a Diana, venendo venerato col nome di Virbius, ossia “uomo due volte”. Dal Corpus Ippocraticum la Ciani estrae e traduce, pur avanzando tutte le riserve del caso, una cartella clinica, relativa a un giovane di vent’anni che muore in una settimana di un morbo forse contagioso. Non vi sono preghiere, ma osservazioni sulle urine, le feci, la temperatura, il comportamento dell’ammalato. Le porte del mito si aprono anche alla scienza moderna.

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Alla Cannes del gas: pochi big, tanti “bollini”, zero italiani

La montagna di Cannes ha partorito un topolino di selezione. Il delegato generale Thierry Frémaux, in compagnia del riconfermato presidente Pierre Lescure, ha scoperto le carte del 73° festival, originariamente previsto dal 12 al 23 maggio, quindi spostato da fine giugno a inizio luglio, dunque cancellato nella sua versione fisica, infine ridotto a bollinificio, con l’etichetta “Sélection officielle” appiccicata ai titoli che avremmo dovuto vedere al Palais in Concorso, Un Certain Regard eccetera.

In mezzo al Covid-19, che ha stravolto anche il mondo del cinema: due mesi e mezzo senza mettere piede nelle sale francesi, quasi tre da noi, mentre i cinghiali conquistavano la Croisette. Fremaux ha ricevuto sostegno e solidarietà urbi et orbi e ci ha marciato: questi film li vedrete altrove, ma li avreste visti prima da noi, il suo assunto. Ma che festival sarebbe stato? Detto che i 56 titoli annunciati, e distillati dal totale mai prima raggiunto di 2.067 visionati, sono quelli che troveranno il buio direttamente in sala o in festival non belligeranti di qui a dicembre, lo squittio è nettamente percepibile.

Pochi i soliti noti: Wes Anderson con The French Dispatch; il francese François Ozon con Éte 85; la giapponese per palati fini Naomi Kawase con True Mothers; Steve McQueen, quello di Shame e 12 anni schiavo, con la doppietta Mangrove e Lovers Rock, sulla comunità nera e la violenza poliziesca; il danese Thomas Vinterberg (Festen) con Another Round; il documentarista americano di Mondovino Jonathan Nossiter con Last Words, una produzione italo-francese con Nick Nolte, Charlotte Rampling e Alba Rohrwacher; la francese Maïwenn con Adn; il sudcoreano Im Sang-soo con Heaven; lo spagnolo Fernando Trueba con El olvido que seremos; Lucas Belvaux con Des hommes; Yeon Sang-Ho con il sequel di Train to Busan, Peninsula.

Già, nessun regista italiano, né tra questi illustri, né tra le nuove proposte: Frémaux elude la domanda e si rifugia dal lituano Sharunas Bartas (In the Dusk), ovvero “ci sono film di nazionalità che di solito non ci sono”. Si erano fatti i nomi di Lacci di Daniele Luchetti, da Domenico Starnone, Il buco di Michelangelo Frammartino e, più veneziani ab origine, Le sorelle Macaluso di Emma Dante e Miss Marx di Susanna Nichiarelli. Chissà quanti di questi troveremo davvero al Lido, però il più atteso potrebbe saltare l’anno e uscire la prossima primavera per un approdo a Cannes 74: Nanni Moretti, Tre piani. Non ogni riserva è sciolta, ma pare la destinazione più probabile per l’adattamento da Eshkol Nevo: la mancata bollinatura, comunque, lo rimanderebbe al 2021.

A marcar visita virtuale altri papabili di grido quali Annette di Leos Carax e On the Rocks di Sofia Coppola, tocca accontentarsi dell’animazione Disney-Pixar Soul e al più dell’esordio alla regia di Viggo Mortensen, Falling.

Resta da chiedersi quanto l’imprimatur “Sélection officielle Cannes 2020” potrà sortire al box office: a parte l’exploit dell’ultimo Parasite, oltre cinque milioni e mezzo di euro rastrellati da Trieste in giù, nel quinquennio 2014-2028 i film Palma d’Oro da noi non sono arrivati in media nemmeno a un milione (918.707 euro) di incasso. Dunque, di che parliamo quando parliamo di questo bollino peraltro indifferenziato, forse del nulla?

 

Siamo tutti diventati Sordi. Troppi libri su Albertone

Tutta da ridere la vita di Alberto Sordi, tutta da stampare. A cento anni dalla nascita di Alberto Sordi (il 15 giugno) si moltiplicano i libri a lui dedicati.

Ecco per esempio Alberto, una vita da ridere di Italo Moscati (Castelvecchi editore), ma sono già cento gli altri titoli su Sordi nel motore di ricerca di Ibs, ben 166 se ne trovano su Amazon, e c’è tutta una vertigine di carta e colla dedicata al Dottor Tersilli, medico della mutua, che ad accatastarla ne viene una scultura di carta tutta di aneddotica, di saggistica e di semiotica. Si erge, insomma, un monumento a cavallo sul centenario del Borghese piccolo piccolo, e tale è questa biblioteca monotematica, come neppure Ettore Petrolini – nel suo essere un vero Molière della scena – ha mai potuto avere.

Sordi ma non muti, è il caso di dire. Tutti, dunque, parlano dell’Albertone nazionale. La sua Storia di un italiano è, appunto, la storia di tutti ma la qualità artistica di Sordi, come ha spiegato nel suo saggio Alberto Anile – Alberto Sordi, edito dal Centro Sperimentale di Cinematografia (con prefazione di Carlo Verdone) – si conferma attraverso le sue bugie e le sue verità, che sono proprie di un genio che va oltre la maschera di se stesso per fare da maschera a tutti.

C’è un Albertone attore e c’è un Sordi autore. La sua filmografia coincide con l’identità profonda d’Italia. Il critico televisivo Italo Moscati, appunto, analizza lo studio minuzioso che Sordi soleva fare dei suoi personaggi, frutto sempre di una osservazione sistematica, minuziosa dell’altro, il vicino, il passante di quella folla anonima che si divertiva a guardare dalle finestre di casa già da bambino a Trastevere.

Sordi è un incomparabile attore comico rimasto per sempre vivo nella nostalgia di chi gli è stato contemporaneo e di chi potrà conoscerlo studiandolo ma il suo talento non si è fermato a quel che portava sul set, nel suo presente.

I suoi esordi, la sua carriera e la sua popolarità si specchiano nelle locandine, nei singoli fotogrammi e nei ritornelli musicali – per non dire nei tormentoni – per raccontare, nel riflesso di questo sabba editoriale, gli anni italiani dal fascismo al dopoguerra, dal boom industriale agli anni bui del terrorismo, fino ai difficili Anni 80 quando gli sceneggiatori, volendo affrontare il Caso Gladio, pensano a un ruolo per Sordi.

La riedizione dell’opera di Giancarlo Governi edita da Fandango Libri in uscita oggi, racconta anche un sodalizio umano, quello che legò l’autore a Sordi, con il quale collaborò per circa due anni all’avventura televisiva di grande successo, Storia di un italiano. Governi ha visionato centinaia di film dell’attore per conservarli nel museo sordiano ubicato all’interno della famosa villa Sordi, dimora privata e accessibile solo agli amici più cari e fidati, una sorta di “Vittoriale” di cimeli, ambientazione e memorie.

Nulla si butta di Sordi e c’è La Roma di Alberto Sordi di Valeria Arnaldai, editrice Olmata: un viaggio nei quartieri della città da cui Sordi non volle mai allontanarsi, eccetto la breve parentesi milanese della sua giovinezza (un vero e proprio mistero, questo del soggiorno a Milano). Con Nicola Manuppelli c’è ancora un A Roma con Alberto Sordi, di Giulio Perrone editore che, come i precedenti titoli, è un lavoro di prossima uscita in libreria, anticipati nel mese di maggio da un Alberto Sordi segreto, amori nascosti, manie, rimpianti, maldicenze di Igor Righetti, edizioni Rubbettino, che si avventura a indagare la vita privata di cui l’attore, riservatissimo, era molto geloso, e da un Alberto racconta Sordi, confidenze inedite sull’amore, arte e altri rimpianti di Maria Antonietta Schiavina, edizione Mondi, chiacchiere registrate con l’attore e trascritte.

Attore, capace solo lui di svelarsi livido sotto il belletto; autore – artefice di vero cinema – ma anche un personaggio perfetto per diventare letteratura, questo è Sordi. Tutto da ridere, Sordi. Tutto da leggere. Il prossimo libro su di lui, uno di pura letteratura.

“Non si tratta di una falla: il razzismo è il sistema”

“Sotto nessun regime, tranne che esso sia razzista, la polizia si può inginocchiare per otto minuti e 46 secondi sul collo di un uomo già ammanettato, spacciando questo abuso criminale per un adeguato tentativo di trascinare in commissariato una persona sospettata di aver usato una banconota da 20 dollari contraffatta”.

È un’accusa definitiva, senza mezzi termini, quella che risuona nell’appello, pubblicato anche sul Guardian, di Derrick Johnson. Questo uomo di origini afroamericane come George Floyd, è il presidente dell’Associazione nazionale per lo sviluppo e integrazione delle persone di colore negli Stati Uniti (Naacp). Nel testo dell’appello, Johnson si rivolge “a tutte le persone con una coscienza, giuste ed empatiche” e chiede loro “un gesto semplice ma fondamentale: andate a votare! Le nostre vite dipendono da chi votate!”. Il testo che precede l’appello descrive la situazione in cui versa la maggioranza della popolazione di colore nella democratica America e ricorda che già cinque anni fa, la polizia di New York soffocò a morte Eric Garner per aver venduto sigarette di contrabbando a 1 dollaro l’una.

“Attraverso questa aritmetica cupa, si capisce esattamente quanto vale la vita dei neri per la polizia americana”, sottolinea ancora Johnson. Ogni anno, oltre 1.000 civili a livello nazionale vengono uccisi in media dalla polizia, e i neri hanno una probabilità tre volte maggiore di essere uccisi rispetto ai bianchi, nonostante abbiano anche maggiori probabilità di essere disarmati. Solo l’1% di questi agenti e ufficiali di polizia è stato però accusato. Ma i neri muoiono molto più dei bianchi anche se non vengono uccisi dal ginocchio o dalle pallottole di un poliziotto che se vede da lontano un ragazzino nero con qualcosa in mano, pensa sia una pistola carica e gli spara. “Moriamo quando i medici sottostimano i nostri attacchi di cuore negli ospedali pubblici e respingono le nostre richieste di aiuto. Moriamo perché siamo sovra-rappresentati dove si sta male, come il carcere, e sotto-rappresentati dove ci servirebbe, come nell’istruzione superiore, nella magistratura federale e nelle cariche pubbliche federali. Moriamo per molte cause, ma una si distingue da tutte le altre: il razzismo. Siamo fatti per morire o, per lo meno, non siamo fatti per essere protetti, per essere rispettati, per essere considerati pienamente umani”, denuncia ancora Johnson. E infatti non è un caso che siano soprattutto gli afroamericani a svolgere i lavori meno pagati e a vivere in comunità dove l’acqua non è sicura da bere e l’aria è molto inquinata, dove le scuole sono prive di risorse, dove spazi verdi o addirittura un negozio di alimentari può essere difficile da trovare. I dati lo confermano: “Abbiamo 3,5 volte più probabilità di morire di Covid-19 rispetto ai bianchi. Sebbene negli Usa i neri siano solo il 13% della popolazione, noi siamo stati colpiti dal Coronavirus per il doppio di questa percentuale. Questo non è perché il coronavirus odi il colore della nostra pelle bensì perché soffriamo di una condizione miserevole preesistente, a partire dalla salute”. Insomma il razzismo si manifesta nella mancanza di opportunità, nella disuguaglianza, nell’assenza di assistenza sanitaria, in un sistema di giustizia penale distorto e nella carcerazione di massa. “La sacrificabilità delle vite nere non è un difetto nel sistema; è il sistema”, conclude Johnson. “Di’ il suo nome: razzismo!”.

Non è solo per solidarietà. I francesi temono gli agenti

Un francese su tre sostiene di non sentirsi al sicuro in presenza di un poliziotto, stando a un sondaggio YouGov di ieri. In Francia i flic non godono di buona reputazione. “Ci sono decine di George Floyd ogni anno in Francia”, scandivano i manifestanti martedì sera davanti al Tribunale di Parigi: 20 mila persone che, a dispetto dei divieti e della crisi sanitaria, sono andati a chiedere giustizia per Adama Traoré. La vicenda di Adama ricorda quella dell’afroamericano morto asfissiato sotto il ginocchio di un poliziotto a Minneapolis il 25 maggio. La morte di Adama risale già al 19 luglio 2016, giorno del suo 24º compleanno: il giovane di origini maliane è stato immobilizzato a terra da due gendarmi durante un banale controllo di identità a Beaumont-sur-Oise, nella banlieue di Parigi. “Non posso più respirare”, ripeteva. È morto in commissariato poche ore dopo. L’ultima perizia chiesta dalla famiglia accerta, diversamente da altri pareri medici che hanno scagionato i gendarmi, che il giovane è morto per asfissia.

L’affaire Traoré è diventato il simbolo delle violenze della polizia in Francia e la recente protesta scoppiata negli Stati Uniti risveglia anche qui una rabbia di lunga data. I casi sono tanti. Il 17 giugno 2007, Lamine Dieng, un franco-senegalese di 25 anni, viene fermato in un quartiere popolare di Parigi e muore poco dopo in un veicolo della polizia per una “placcatura ventrale”, una tecnica che resta autorizzata in Francia, mentre è vietata per esempio in Belgio e Svizzera. Allo stesso modo sono morti anche Hakim Ajimi (2008), Mohamed Boukrourou (2009), Abdelhak Goradia (2011), Amadou Koumé (2015). Ma non serve andare così lontano. Il 3 gennaio 2020, Cédric Chouviat, 42 anni, viene fermato nel centro di Parigi mentre guidava lo scooter col telefonino in mano. Dai diversi video si vedono tre agenti che lo bloccano faccia a terra premendo. L’uomo è morto in ospedale con una frattura alla laringe. Dei fatti di cronaca come questi scuotono regolarmente l’opinione pubblica in Francia. Anche il militante ecologista Remy Fraisse, 21 anni, era morto nel 2014, quella volta colpito da una “granata offensiva” sparata da un agente, arma all’epoca ancora in uso dalla polizia francese, poi ritirata. Più di recente, 2019, Steve, 24 anni, è morto affogato nella Loira a Nantes, dopo un controllo di identità finito male durante la Festa della Musica. Il giovane Théo, 22 anni, di Aulnay-sous-Bois, non è morto ma conserverà a vita gli strascichi della sodomia subita con un manganello nel 2017. E non si sa se Gabriel, 14 anni, di Bondy, perderà o no l’occhio dopo essere stato preso a calci in faccia da due flic perché tentava di rubare uno scooter. È successo il 25 maggio scorso, lo stesso giorno in cui moriva George Floyd. Le vittime di queste violenze sono in molti casi quelle che nell’ottobre 2005 Nicolas Sarkozy, allora ministro degli Interni, aveva definito la “feccia” delle banlieue, giovani spesso figli di immigrati, spesso giudicati delinquenti a prescindere. Pochi giorni dopo, la morte di due ragazzini a Clichy-sous-Bois, mentre fuggivano da una pattuglia della polizia, fece scoppiare settimane di proteste.

Ogni nuovo caso torna a infiammare i quartieri più difficili, senza che cambi mai nulla davvero. Ma i recenti cortei dei Gilet gialli hanno mostrato che degli incidenti gravi con la polizia possono scoppiare anche lontano dalle banlieue. Almeno 17 Gilet gialli avrebbero perso un occhio colpiti da una pallottola di gomma. Più di 200 inchieste per violenze poliziesche sono state aperte. Ieri la portavoce del governo, Sibeth Ndiaye ha detto che “non c’è violenza di Stato” in Francia. Secondo il docente Jacques de Maillard, vicedirettore del Centro di ricerche sul diritto e le istituzioni penali (Cesdip), sentito da France Inter, ogni paragone con gli Usa risulterebbe del resto azzardato: “In Francia circa 20 persone muoiono ogni anno durante un intervento della polizia. Negli Usa più di mille all’anno muoiono solo per colpi di arma da fuoco da poliziotti. In Francia questi sono tra 5 e 10”. Ieri il ministro dell’Interno Castaner ha promesso che “ogni gesto o parola razzista” commessa da un poliziotto sarà d’ora in poi sanzionata.

I “guardiani” dei diritti fanno scudo a Trump

Il Lincoln Memorial è un tempio della democrazia americana, eretto in onore del massimo martire dell’abolizione della schiavitù negli Usa: sui suoi gradini, il 28 agosto 1963, Martin Luther King pronunciò, davanti a una marea di folla fino all’obelisco del Washington Memorial, il suo discorso più famoso, I have a dream. E, l’anno prima, la Guardia Nazionale mobilitata dai Kennedy (John, il presidente, e Robert, il ministro della Giustizia) fu determinante per consentire l’ingresso all’Università del Mississippi di James Meredith, il primo studente nero a varcarne la soglia. Vedere, l’altra sera, una manifestazione pacifica di anti-razzisti, neri e bianchi insieme, sfilare davanti al Lincoln Memorial presidiato da reparti della Guardia Nazionale in assetto di guerra, mobilitati dal magnate presidente Donald Trump, è suonato doppio insulto: alla memoria di Lincoln e a quella di Mlk. E così è stato percepito da decine di milioni di neri e di americani: un’immagine da Santiago del Cile 1963.

In un colpo solo, Trump ha cancellato la memoria e riscritto la storia. E il presidente, incurante di aizzare con i suoi atteggiamenti, proteste e violenze, insiste: “New York chiami la Guardia Nazionale. I farabutti e i perdenti vi stanno facendo a pezzi. Dovete agire in fretta! Non fate lo stesso tremendo e mortale errore che avete fatto con le case di riposo”, scrive, mischiando manifestazioni anti-razziste ed emergenza coronavirus e inserendosi nella polemica interna al Partito democratico tra il governatore di New York Andrew Cuomo, più incline a un giro di vite e il sindaco della Grande Mela, Bill de Blasio, più lassista. Trump non si accontenta della Guardia Nazionale, una forza militare di riservisti operativa in tutti gli Stati dell’Unione, le cui origini risalgono ai tempi delle Colonie, prima, cioè, della Guerra d’Indipendenza, ma il cui atto di nascita legislativo è del 1903. Con unità di stanza in ogni Stato e pure nei Territori dell’Unione, la Guardia Nazionale risponde ai governatori, che sovente vi fanno ricorso per emergenze di protezione civile. Molti presidenti – 18 su 44 – hanno servito nella Guardia Nazionale: l’ultimo fu George W. Bush, che s’arruolò nell’aeronautica per sottrarsi alla guerra del Vietnam. Contro i manifestanti ulcerati dal brutale omicidio di George Floyd, un nero di Minneapolis, Trump vorrebbe persino schierare l’esercito, riesumando i poteri datigli da una legge del 1803, l’Insurrection Act. Il Pentagono ha già spostato 1.600 uomini nell’area del Distretto di Columbia, a cavallo del Potomac tra Maryland e Virginia, dove sorge Washington: le truppe sono pronte a fornire appoggio, se richieste dalle autorità locali, e sono ospitate in basi militari nell’area della capitale, ma non in città.

Il capo del Pentagono Mark Esper fa però sapere di non essere incline a invocare l’Insurrection Act contro le proteste, che la Casa Bianca etichetta come “terrorismo interno”. Esper vuole evitare che le forze amate siano strumentalizzate a fini politici; e rileva che non è stata la Guardia Nazionale, lunedì sera, a sparare lacrimogeni e proiettili di gomma per sgomberare manifestanti pacifici dall’area antistante la Casa Bianca, lasciando intendere che li hanno usati altre forze dell’ordine. Con una mossa inconsueta, Esper prende le distanze da Trump pure per la criticatissima passeggiata di lunedì sera dalla Casa Bianca alla chiesa di St. John. “Sapevo che andavamo a St. John, non sapevo della foto e della Bibbia”, dice ora il capo del Pentagono. Com’era già avvenuto nell’estate 2017 con simboli confederati, dopo gli incidenti di Charlottesville, quest’ondata di proteste per i diritti civili sta facendo sparire dalle città americane simboli razzisti: così, a Filadelfia, la statua di bronzo dell’ex sindaco e capo della polizia Franck Rizzo, presa di mira dai manifestanti e danneggiata, è stata rimossa da davanti al Municipio. Capo della polizia e sindaco dal 1968 al 1980, l’italo-americano era un uomo ‘Law&Order’, ma attuò discriminazioni contro la gente di colore.

La notte tra martedì e mercoledì è stata ancora teatro di proteste in decine di città, sfidando coprifuoco e sicurezza, ma con livelli di violenza inferiori ai giorni precedenti. Oggi, si svolgono a Houston i funerali di Floyd, con il candidato dem alla Casa Bianca, Joe Biden. Contro gli atteggiamenti divisivi del presidente Trump, s’è schierato l’ex presidente George W. Bush: “Per l’America è il momento di esaminare i suoi tragici fallimenti… come quello che tanti afro-americani, soprattutto giovani, siano tormentati e minacciati nel loro Paese”, ha detto Bush, “addolorato” per Floyd.