L’irruzione di una nuova malattia comporta incertezza e paura, soprattutto se facciamo parte delle categorie più vulnerabili. A seconda dell’accessibilità di dispositivi medici e della nostra possibilità di proteggerci, la minaccia tocca diversamente il nostro modo di comprenderla e di proporre soluzioni.
Vogliamo qui approfondire una caratteristica specifica della minaccia virale: potremmo definirla la sua “capacità di rivelare”. Il Covid-19, tra i suoi tanti connotati, si presenta come un silenzioso rivelatore di molte realtà che spesso rimangono nascoste nella quotidianità dei sistemi economici, politici, sociali e culturali. Superando frontiere irrigidite e vigilate, ha denunciato politiche xenofobe e nazionaliste, i cui discorsi ha reso inconsistenti. Si accanisce ad accusare i sistemi sanitari di quei Paesi che, avendo trascurato di investire nella salute pubblica o avendone consegnato l’amministrazione al settore privato, oggi non hanno altra alternativa se non riconoscere il valore di un sistema sanitario di qualità e accessibile a tutti. Il virus mette in risalto le preoccupazioni dei ricercatori scientifici e delle grandi aziende farmaceutiche che li finanziano. Pone in evidenza la voracità di un mercato globale che si sfrega le mani con l’unguento della speculazione. Questo agente infettivo tradisce la ricerca di un silenzio complice da parte del sistema economico, che mette il capitale al di sopra dell’essere umano. Per utilizzare un’immagine, il Covid-19 si potrebbe considerare l’accusatore più efficace e profetico dei nostri tempi; ma per svolgere il suo compito ha utilizzato un metodo crudele: la morte di migliaia di persone. Forse a questo si riferiva Albert Camus, quando affermava che “il flagello ama il segreto delle tane”.
Osserviamo ora alcune reazioni alla pandemia da parte del mondo intellettuale. Il filosofo Giorgio Agamben non ha esitato a denunciare qualcosa che è sempre stato un suo tema di ricerca: lo stato di eccezione eletto a metodologia normale di governo. A partire da questo egli ha definito sproporzionate le misure di isolamento e si è riferito all’epidemia come a un’invenzione pretestuosa, tesa a limitare uno dei valori più importanti dell’Occidente: la libertà. Slavoj Žižek, uno dei sociologi più provocatori del momento, si è affrettato a proclamare i colpi mortali inferti al capitalismo e la reinvenzione del comunismo come conseguenze che sorgerebbero dalla pandemia. Egli osserva che il virus ha messo in luce pandemie già esistenti nelle nostre società: le fake news e le teorie paranoiche del complotto, così come le manifestazioni di razzismo e xenofobia. D’altra parte, esso offre la possibilità contagiosa e virtuosa di sognare una società alternativa. Su queste basi Žižek si spinge a immaginare una trasformazione radicale del sistema economico mondiale basata sulla brusca riscoperta di una vulnerabilità biologica ed ecologica condivisa. La sua proposta consiste nell’adottare il comunismo come sistema politico ed economico, non però alla maniera antica, bensì come comunismo della solidarietà, della fiducia, della scienza e dell’impegno; il tutto governato da un organismo regolatorio economico globale. Byung-Chul Han2, filosofo coreano residente a Berlino, meno ottimista di Žižek, ritiene che il capitalismo non soltanto seguirà il suo corso, ma vedrà la Cina nel ruolo di vigilante e accaparratrice della produzione mondiale. Il capitalismo continuerà, secondo lui, perché la sua sparizione significherebbe un cambiamento radicale di stili di vita ben consolidati, e anche perché, affinché questo accada, sarebbe necessaria la volontà di trasformare i poteri economici mondiali, che invece in queste circostanze continuano ad accumulare profitti. La filosofa Judith Butler, nel contesto sociopolitico degli Stati Uniti, ha insistito sul fatto che il virus non fa discriminazioni, mentre non si può dire lo stesso di noi esseri umani. Ne deriva, secondo lei, il legame tra nazionalismo, razzismo e capitalismo nel modellare le relazioni discriminatorie che la pandemia può suscitare, con il nefasto risultato che alcune vite vengono valutate più degne di altre. Butler asserisce che la disuguaglianza imperante consente al virus di fare discriminazioni sull’accesso alle cure mediche e, in futuro, all’assunzione del vaccino tanto atteso. Ma le discriminazioni non sono da attribuirsi al virus: la denuncia va convogliata sui responsabili dei sistemi politici, sociali ed economici, che classificano le persone per categorie a seconda del potere di acquisto e dell’origine etnica, facendo sì che esse vengano percepite e trattate come esseri umani di seconda categoria.
Come esito di questa dinamica, i politici propongono soluzioni alla pandemia che cerchino di mantenere intatto il sistema economico che genera una spirale di disuguaglianza e di fame nel mondo. Tra i pensatori contemporanei predomina la preoccupazione per le dimensioni politiche, economiche e sociali che potrebbero minacciare la libertà dei cittadini. Alcuni ne traggono proposte dalla sinistra, altri dalla destra intellettuale. Noi riteniamo che le preoccupazioni della classe intellettuale siano più legate a un comodo immaginario che a uno sguardo profondo sulla realtà che la gente vive. Chi cerca con cura, nei tanti articoli che si susseguono, parole come “povertà” o “esclusione sociale”, noterà come esse risultino le grandi assenti dalle riflessioni di questi giorni. Sorprende infatti che la parola “vulnerabile” venga pronunciata soltanto in relazione a coloro che potrebbero subire maggiori conseguenze dal virus, vale a dire in un’unica accezione: “vulnerabilità biologica”. Se guardassimo la realtà solo a partire da dove abitiamo e dalle nostre possibilità, il maggiore inconveniente potrebbe essere per molti di noi solo quello di non poterci muovere liberamente all’esterno. Ma constatiamo anche che proprio attorno a noi, ci sono persone senza tetto che se la passano molto male. In molti angoli del mondo i lavoratori immigrati e le popolazioni vittime di discriminazione razziale sono i più colpiti dal virus. Questa realtà è per lo più assente da molte delle considerazioni fatte e scritte.
Per questo, se ci è concesso di immaginare una trasformazione globale, essa deve sorgere dall’integrazione degli esclusi. Perché questo accada, la classe intellettuale dovrà associarsi alla funzione rivelatrice e accusatoria del Covid-19, oppure tutto si limiterà a un mero appoggio al ristabilimento dell’ordine precedente. Se il virus sta mostrando la vulnerabilità dei Paesi ricchi e la loro suscettibilità alla morte, non dobbiamo ignorare che tale situazione non è affatto nuova per quanti in questo mondo si trovano nella povertà estrema, anche prima e senza il coronavirus. Non c’è dubbio che le riflessioni sulla biopolitica o la sorveglianza informatica, sulla farmacopornografia o la psicopolitica siano interessanti, e nemmeno metteremo in discussione l’attualità del filosofo Michel Foucault; ma dobbiamo essere consapevoli del fatto che questi temi sono importanti per una minoranza degli esseri umani. La fame, il mancato accesso all’acqua potabile, la violenza di ogni tipo, l’insicurezza sociale e sanitaria, la corruzione, la scarsa qualità dei sistemi educativi, la precarietà lavorativa e così via costituiscono la quotidianità di oltre la metà dell’umanità. Il Covid-19 mette tutto questo in piena evidenza. Dato che la pandemia ha toccato duramente i Paesi più ricchi, le preoccupazioni del mondo intellettuale cambieranno, ora che è quanto mai chiaro che siamo tutti uguali? Crediamo che qualsiasi possibile trasformazione culturale del mondo come frutto dell’irruzione della vulnerabilità biologica condivisa sarà efficace solo se riconosceremo che il miglioramento delle condizioni di vita di tutti andrà a beneficio dell’intera umanità.