Il Covid e la voce del padrone

L’irruzione di una nuova malattia comporta incertezza e paura, soprattutto se facciamo parte delle categorie più vulnerabili. A seconda dell’accessibilità di dispositivi medici e della nostra possibilità di proteggerci, la minaccia tocca diversamente il nostro modo di comprenderla e di proporre soluzioni.

Vogliamo qui approfondire una caratteristica specifica della minaccia virale: potremmo definirla la sua “capacità di rivelare”. Il Covid-19, tra i suoi tanti connotati, si presenta come un silenzioso rivelatore di molte realtà che spesso rimangono nascoste nella quotidianità dei sistemi economici, politici, sociali e culturali. Superando frontiere irrigidite e vigilate, ha denunciato politiche xenofobe e nazionaliste, i cui discorsi ha reso inconsistenti. Si accanisce ad accusare i sistemi sanitari di quei Paesi che, avendo trascurato di investire nella salute pubblica o avendone consegnato l’amministrazione al settore privato, oggi non hanno altra alternativa se non riconoscere il valore di un sistema sanitario di qualità e accessibile a tutti. Il virus mette in risalto le preoccupazioni dei ricercatori scientifici e delle grandi aziende farmaceutiche che li finanziano. Pone in evidenza la voracità di un mercato globale che si sfrega le mani con l’unguento della speculazione. Questo agente infettivo tradisce la ricerca di un silenzio complice da parte del sistema economico, che mette il capitale al di sopra dell’essere umano. Per utilizzare un’immagine, il Covid-19 si potrebbe considerare l’accusatore più efficace e profetico dei nostri tempi; ma per svolgere il suo compito ha utilizzato un metodo crudele: la morte di migliaia di persone. Forse a questo si riferiva Albert Camus, quando affermava che “il flagello ama il segreto delle tane”.

Osserviamo ora alcune reazioni alla pandemia da parte del mondo intellettuale. Il filosofo Giorgio Agamben non ha esitato a denunciare qualcosa che è sempre stato un suo tema di ricerca: lo stato di eccezione eletto a metodologia normale di governo. A partire da questo egli ha definito sproporzionate le misure di isolamento e si è riferito all’epidemia come a un’invenzione pretestuosa, tesa a limitare uno dei valori più importanti dell’Occidente: la libertà. Slavoj Žižek, uno dei sociologi più provocatori del momento, si è affrettato a proclamare i colpi mortali inferti al capitalismo e la reinvenzione del comunismo come conseguenze che sorgerebbero dalla pandemia. Egli osserva che il virus ha messo in luce pandemie già esistenti nelle nostre società: le fake news e le teorie paranoiche del complotto, così come le manifestazioni di razzismo e xenofobia. D’altra parte, esso offre la possibilità contagiosa e virtuosa di sognare una società alternativa. Su queste basi Žižek si spinge a immaginare una trasformazione radicale del sistema economico mondiale basata sulla brusca riscoperta di una vulnerabilità biologica ed ecologica condivisa. La sua proposta consiste nell’adottare il comunismo come sistema politico ed economico, non però alla maniera antica, bensì come comunismo della solidarietà, della fiducia, della scienza e dell’impegno; il tutto governato da un organismo regolatorio economico globale. Byung-Chul Han2, filosofo coreano residente a Berlino, meno ottimista di Žižek, ritiene che il capitalismo non soltanto seguirà il suo corso, ma vedrà la Cina nel ruolo di vigilante e accaparratrice della produzione mondiale. Il capitalismo continuerà, secondo lui, perché la sua sparizione significherebbe un cambiamento radicale di stili di vita ben consolidati, e anche perché, affinché questo accada, sarebbe necessaria la volontà di trasformare i poteri economici mondiali, che invece in queste circostanze continuano ad accumulare profitti. La filosofa Judith Butler, nel contesto sociopolitico degli Stati Uniti, ha insistito sul fatto che il virus non fa discriminazioni, mentre non si può dire lo stesso di noi esseri umani. Ne deriva, secondo lei, il legame tra nazionalismo, razzismo e capitalismo nel modellare le relazioni discriminatorie che la pandemia può suscitare, con il nefasto risultato che alcune vite vengono valutate più degne di altre. Butler asserisce che la disuguaglianza imperante consente al virus di fare discriminazioni sull’accesso alle cure mediche e, in futuro, all’assunzione del vaccino tanto atteso. Ma le discriminazioni non sono da attribuirsi al virus: la denuncia va convogliata sui responsabili dei sistemi politici, sociali ed economici, che classificano le persone per categorie a seconda del potere di acquisto e dell’origine etnica, facendo sì che esse vengano percepite e trattate come esseri umani di seconda categoria.

Come esito di questa dinamica, i politici propongono soluzioni alla pandemia che cerchino di mantenere intatto il sistema economico che genera una spirale di disuguaglianza e di fame nel mondo. Tra i pensatori contemporanei predomina la preoccupazione per le dimensioni politiche, economiche e sociali che potrebbero minacciare la libertà dei cittadini. Alcuni ne traggono proposte dalla sinistra, altri dalla destra intellettuale. Noi riteniamo che le preoccupazioni della classe intellettuale siano più legate a un comodo immaginario che a uno sguardo profondo sulla realtà che la gente vive. Chi cerca con cura, nei tanti articoli che si susseguono, parole come “povertà” o “esclusione sociale”, noterà come esse risultino le grandi assenti dalle riflessioni di questi giorni. Sorprende infatti che la parola “vulnerabile” venga pronunciata soltanto in relazione a coloro che potrebbero subire maggiori conseguenze dal virus, vale a dire in un’unica accezione: “vulnerabilità biologica”. Se guardassimo la realtà solo a partire da dove abitiamo e dalle nostre possibilità, il maggiore inconveniente potrebbe essere per molti di noi solo quello di non poterci muovere liberamente all’esterno. Ma constatiamo anche che proprio attorno a noi, ci sono persone senza tetto che se la passano molto male. In molti angoli del mondo i lavoratori immigrati e le popolazioni vittime di discriminazione razziale sono i più colpiti dal virus. Questa realtà è per lo più assente da molte delle considerazioni fatte e scritte.

Per questo, se ci è concesso di immaginare una trasformazione globale, essa deve sorgere dall’integrazione degli esclusi. Perché questo accada, la classe intellettuale dovrà associarsi alla funzione rivelatrice e accusatoria del Covid-19, oppure tutto si limiterà a un mero appoggio al ristabilimento dell’ordine precedente. Se il virus sta mostrando la vulnerabilità dei Paesi ricchi e la loro suscettibilità alla morte, non dobbiamo ignorare che tale situazione non è affatto nuova per quanti in questo mondo si trovano nella povertà estrema, anche prima e senza il coronavirus. Non c’è dubbio che le riflessioni sulla biopolitica o la sorveglianza informatica, sulla farmacopornografia o la psicopolitica siano interessanti, e nemmeno metteremo in discussione l’attualità del filosofo Michel Foucault; ma dobbiamo essere consapevoli del fatto che questi temi sono importanti per una minoranza degli esseri umani. La fame, il mancato accesso all’acqua potabile, la violenza di ogni tipo, l’insicurezza sociale e sanitaria, la corruzione, la scarsa qualità dei sistemi educativi, la precarietà lavorativa e così via costituiscono la quotidianità di oltre la metà dell’umanità. Il Covid-19 mette tutto questo in piena evidenza. Dato che la pandemia ha toccato duramente i Paesi più ricchi, le preoccupazioni del mondo intellettuale cambieranno, ora che è quanto mai chiaro che siamo tutti uguali? Crediamo che qualsiasi possibile trasformazione culturale del mondo come frutto dell’irruzione della vulnerabilità biologica condivisa sarà efficace solo se riconosceremo che il miglioramento delle condizioni di vita di tutti andrà a beneficio dell’intera umanità.

La croce di Gesù venduta alla porsche per 1.000 euro

Qual è il prezzo della croce di Cristo? San Paolo dice che è un prezzo caro, al quale tutti gli uomini sono stati ricomprati dalla morte e dal peccato. Evidentemente la Caritas italiana di oggi non è d’accordo, e cede a un prezzo vilissimo quella croce (che è anche il suo simbolo) perché venga stampata in imbarazzanti pubblicità della Porsche. Vi si legge che “acquistando l’auto dei tuoi sogni combatti insieme a Porsche la povertà alimentare ed educativa nel tuo territorio” perché “Porsche Italia e i concessionari italiani aiuteranno attraverso Caritas 40 famiglie o 10 ragazzi”.

In pratica, per ogni auto venduta da qui al 10 agosto andranno alla Caritas 1.000 euro sui 60.000-300.000 euro e più. E gli acquirenti potranno anche decidere se preferiscono aiutare le famiglie o i ragazzi, in una specie di reality della povertà. Ora, nessuno pensa che Caritas non debba accettare un’elemosina della Porsche (che nel 2019 ha fatto ricavi per 28,5 miliardi di euro…), fatta evangelicamente, cioè senza suonare le trombe. Diverso è associare il proprio simbolo al logo di un simile bene di lusso, legittimando così le mostruose diseguaglianze che sfigurano il mondo.

Aggiungiamo che Porsche appartiene a Volkswagen, già condannata a pagare qualcosa come 30 miliardi di euro per le emissioni truccate nel 2015: possibile che la Caritas legittimi quella distruzione del creato che la Laudato si’

di papa Francesco condanna senza appello? Nei giorni scorsi Caritas Roma ha presentato un progetto con cui Amazon dona a cento famiglie tablet e connessioni per seguire la didattica online. Un altro colosso che lava la sua immagine a un prezzo irrisorio. Chiedere giustizia (per esempio tasse progressive e patrimoniali) è il lavoro di una sinistra politica (che non c’è), ma la Caritas una cosa dovrebbe ricordarla: non si può servire a due padroni. E qua è fin troppo chiaro che è la Croce a servire a Porsche e ad Amazon, non il contrario.

Mail box

 

Il “Fatto economico” ha traslocato sul Lunedì

Complimenti per il nuovo Fatto e per l’arrivo di rinforzi di qualità: tra gli altri, Gad Lerner, di cui ho apprezzato il focus dedicato agli ultimi e al lavoro-schiavo. Avanti dunque con approfondimenti e inchieste, di cui siete maestri, soprattutto perché liberi. Unico neo: è sparita la pagina dedicata all’Economia (solitamente il mercoledì); mi auguro che non sia una scelta definitiva, sarebbe un errore. Vi ringrazio per offrire nel desolante panorama italiano un Fatto frizzante, radicale: un raro presidio in difesa della nostra Costituzione, spesso declamata, quasi mai applicata, perché “troppo sovietica” (JP Morgan dixit).
Andrea Pinna

Caro Andrea, l’inserto economico, curato dal nostro Carlo Di Foggia e dagli altri redattori e collaboratori, non è sparito: è stato anticipato al lunedì.
M. Trav.

 

Il mio sogno è fondare il giornale scolastico

Caro direttore, le scrivo per due motivi: 1) Da maggio ho scoperto la bellezza di recarsi in edicola per comprare il giornale e riportarlo sotto il braccio verso casa. Credo che il profumo della carta e il rumore delle pagine sfogliate siano una delle più belle esperienze che un uomo possa provare. C’è però un problema: molti commettono il grave delitto di gettare nell’immondizia i giornali o di usarli per pulire i vetri. Io preferisco raccoglierli insieme senza pieghe. Ora le chiedo: per mantenerli intatti ed evitare che si scoloriscano come posso conservarli? 2) Ancora non ne ho la certezza, ma molto probabilmente fonderò il giornale scolastico. Ho deciso, con il consiglio di mio padre, di dare vita inizialmente a un giornale online così da cercare di coinvolgere il maggior numero di miei coetanei, dei quali pochi purtroppo apprezzano la carta stampata. L’idea è quella di sondare nel tempo l’opinione scolastica e cercare di capire in quanti sarebbero disposti ad acquistare l’edizione cartacea. Sicuramente dovrò formare una redazione, cercare di coordinare gli articoli, trovare spunti di riflessione non solo sulla scuola ma soprattutto sulla politica. Avrebbe consigli da darmi su come gestire il giornale e come trovare spunti per scrivere gli editoriali?
Andrea Campanelli

Caro Andrea, il giornale scolastico è un’ottima idea. L’unico consiglio che posso darti è di documentarti bene e di ancorare i commenti a fatti accertati oltre ogni dubbio. Tienici aggiornati dei progressi tuoi e della tua redazione!
M. Trav.

 

Il maestro Manzi citato a sproposito dai docenti

Sono un insegnante di scuola primaria e in questi giorni di bilancio della didattica a distanza leggo sempre più spesso di numerose proteste e iniziative, anche a firma di colleghi, contro le pagelle che ci stiamo apprestando a compilare: in particolare, contro i voti numerici, bollati come male assoluto. Per farlo viene scomodato nientepopodimeno che il popolarissimo maestro Alberto Manzi, protagonista di un atto di disobbedienza agli inizi degli anni 80, per il quale fu perfino sospeso dall’insegnamento. Eppure quella vicenda, tanto citata, è palesemente distorta: intanto il maestro Manzi non era affatto contrario alla didattica a distanza, anzi ne fu un pioniere in Rai con Non è mai troppo tardi. Né era contrario ai voti, ma a quella parte della valutazione che riguardava il comportamento, la personalità dell’alunno e i suoi livelli di maturazione: proprio ciò che oggi costituisce buona parte del nostro giudizio globale. Mi chiedo allora come mai sia possibile stravolgere la vicenda di un volto così popolare della pedagogia, della didattica e anche della tv, senza che nessuno si alzi in piedi per ripristinare un minimo di verità storica?!?
Antonio Ruggiero

 

Confindustria: capitalisti ma coi soldi dello Stato

Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, dice che “le risorse dovrebbero andare alle politiche attive anziché annegarle nel Reddito di cittadinanza”. Prosegue: “Soldi a pioggia, senza mai guardare al futuro. Il decreto non ha messo liquidità nelle casse delle aziende ecc.”. Nel 2007, su L’Unità, Oreste Pivetta scriveva: “Se nelle tasche di chi lavora arriva qualche moneta Confindustria grida allo scandalo e invoca riforme”. Sono passati 13 anni, ma l’approccio di Confindustria non è cambiato. A parole sono iper-liberisti, auspicano il libero mercato con le sue dure leggi economiche, poi nei fatti si rivelano seguaci di un capitalismo accattone che pretende a gran voce soldi e protezione da quello stesso Stato che a loro fa tanto schifo e che dovrebbe tenersi alla larga dalle imprese.

Guido Bertolino

 

I presidenti di Regione non sono “governatori”

Sempre più di frequente giornalisti, politici e commentatori vari, quando parlano o scrivono della figura del presidente di Regione, la definiscono “governatore”. Nel nostro ordinamento politico/istituzionale la figura del governatore non esiste, fatta eccezione per il governatore della Banca d’Italia. Non è smania di polemica, ma rispetto per la Carta.
Enrico Spinelli

Paolo Fabbri. Addio al grande semiologo dall’ironia contagiosa

Buongiorno, ho letto che è morto Paolo Fabbri, un grande intellettuale. È doveroso ricordarlo.

Enza Martello

 

Paolo Fabbri (se ne è appena andato e già si sente il silenzio) era intelligenza artificiale impiantata su un uomo instancabile nel suo continuo andata-e-ritorno fra tutto ciò che è cultura (nel senso di conoscenza del prima e del dopo, del già accaduto e del probabile evento a venire) con una dose molto alta, e solo apparentemente fredda, di umorismo. Passato nelle migliori università del mondo, il suo umorismo era rimasto di un tipo giovane, liceale, con quel tanto di inammissibile che faceva convivere l’accademico illustre col ragazzo. Capobranco di questo tipo di allegria giovane e di battuta feroce, istantanea e benevola, era stato per tanti anni Umberto Eco. Ma Paolo aveva il vantaggio della voce esile che lo camuffava di una apparente immagine di eleganza, distacco e buone maniere che gli consentivano tutto. Qualunque frase o affermazione aveva una alterazione che era, allo stesso tempo, sorriso, riso e istantanea, inaspettata interpretazione.

Nella sua vita (che era bello condividere in viaggi e avventure, sempre col doppio senso della scoperta culturale e del turismo giovane) dovevi constatare che l’allegria conviveva bene con il livello delle “grandes écoles” del mondo e più ancora con la rivelazione e l’invenzione. Per Paolo dedicarsi alla semiologia voleva dire essere un filosofo che all’improvviso scoperchia le interpretazioni convenzionali di frasi, parole e testi e porta il suo allievo o interlocutore o lettore a un andare altrove del tutto inaspettato. Eco lo rimproverava perché, nel suo ruolo di esploratore dei significati, scriveva troppo poco. A Paolo Fabbri piaceva soprattutto tirare quel lungo filo che si chiama conversazione, cosa rara a livello accademico (dove si chiama “lezione”), e lasciarlo scorrere nella consapevolezza che lui scopriva se inventava e inventava se partiva dal magazzino traboccante della sua cultura. La sua era una insolita convivenza di gravità e allegria, di vastità di orizzonti e di istantanea battuta, di sapienza rigorosa, di sapere continuamente verificato e aggiornato, e di un fulmineo andare e venire fra lampi di un umore lieto che di solito non vive in Accademia. Per sua fortuna ha avuto accanto Simonetta, una ragazza intelligente e di buon umore, ed era bello ogni volta incontrarli. Come fate adesso a non dire che quella di Paolo Fabbri è una grande perdita? Quel che ti manca è come Fabbri rivolterebbe questa frase, trasformandola in battuta da ricordare.

Furio Colombo

Ex Expo, più al verde che verde: ricorso al Tar degli ecologisti

Expo – per quanto riguarda il passato – è un’operazione di successo perché ha un “attivo” di 40 milioni e – per quanto riguarda il futuro – mantiene le promesse perché diventerà un grande parco verde.

Peccato che sia falso, anzi sono due falsi. Non c’è alcun “attivo di 40 milioni”, come ha fantasticato Giuseppe Sala senza essere contraddetto. Lo abbiamo spiegato su queste pagine: l’operazione Expo è costata 2,3 miliardi (uscite) e ha portato a casa meno di 800 milioni (entrate). Queste sono le vere cifre: l’utile (e il dilettevole) lo vede solo Sala, passato da commissario Expo a sindaco di Milano.

Ma questo è il passato. Il futuro è un imbroglio ancora peggiore, a dar retta a un ricorso al Tar di Milano presentato il 1° giugno dall’associazione ambientalista “Verdi ambiente società”.

Chi ha memoria ricorda che quando venne presentato a Milano il progetto di Expo, fu promesso che, dopo l’esposizione universale del 2015, l’area della manifestazione (che era suolo agricolo), smontati i padiglioni, sarebbe diventata un regalo alla città, diventando un grande parco agricolo-alimentare. Naturalmente era una balla.

Una bolla (di sapone) anche il referendum consultivo comunale del 2011, in cui vinse la richiesta di lasciare a verde tutta l’area. Impegno non mantenuto. Le promesse si sono via via ridimensionate: a verde, nel progetto chiamato Mind, resterà metà dell’area. È quanto hanno sostenuto Arexpo (la società pubblica che possiede i terreni) e Land Lease (gli sviluppatori immobiliari privati). Secondo il progetto Land Lease, 460 mila metri quadrati dell’area di 1,1 milioni di metri quadrati saranno occupati da un parco. Ma per raggiungere questa cifra si devono sommare anche i canali, l’anello esterno, l’arena, la Cascina Triulza e aree come il “decumano” e il “cardo” di Expo, che saranno in realtà trasformati in grandi viali pedonali alberati, su cui dovranno comunque transitare automezzi per i rifornimenti e che saranno creati sopra la piastra di cemento che impedisce la piantumazione di alberi ad alto fusto.

Di verde vero ce ne sarà poco, segnala il ricorso al Tar, addirittura “meno di quello di altri programmi realizzati a Milano, da Porta Nuova a Citylife”, spiega Michele Sacerdoti, architetto e ambientalista storico di Milano. “Sarà circa il 20 per cento di verde, rispetto al normale 50 per cento”.

L’Accordo di programma votato nel 2011 dai Consigli comunali di Milano e di Rho almeno due cose le manteneva: il “parco tematico” su almeno il 56 per cento dell’area; e almeno il 65 per cento di “terreno permeabile”, cioè non cementificato né asfaltato. Due impegni non mantenuti, secondo il ricorso di “Verdi ambiente società”. Il “parco tematico”, che doveva essere agricolo-alimentare, è diventato scientifico-tecnologico: c’è dentro di tutto, le facoltà scientifiche dell’Università Statale, il centro di ricerca Human Technopole, l’ospedale Galeazzi… Strano parco: fatto più di cemento che di verde.

Quanto al 65 per cento di terreno permeabile, secondo Michele Sacerdoti, nel progetto Mind di Land Lease non c’è. “È ‘permeabile’ al massimo il 33 per cento, se si contano anche i parcheggi, altrimenti si arriva soltanto al 24 per cento. Tutto il resto è coperto. Per questo abbiamo presentato il ricorso e siamo sicuri di vincerlo. Non può la Giunta comunale di Sala cambiare il piano votato dai Consigli comunali di Milano e di Rho”. La saga Expo, cinque anni dopo, continua.

 

Zona rossa, la competenza era (anche) della Lombardia

La Procura di Bergamo ha aperto un’inchiesta per accertare di chi sia la responsabilità della mancata chiusura, a partire dal 28 febbraio, della Val Seriana, con conseguente dilagare del contagio e di un numero impressionante di decessi nelle province di Bergamo e Brescia.

La grave vicenda ha innescato una violenta polemica tra la Regione Lombardia e il governo su chi dovesse istituire la “zona rossa” che avrebbe ostacolato il contagio. Il pm di Bergamo Maria Cristina Rota – dopo aver assunto a sommarie informazioni testimoniali il presidente della giunta lombarda Attilio Fontana e l’assessore alla Sanità Giulio Gallera – ha rilasciato al Tg3, a proposito della mancata “zona rossa” nei Comuni di Nembro e Alzano Lombardo, la seguente strabiliante dichiarazione: “Da quello che ci risulta, è una decisione governativa”. Il comportamento e la dichiarazione della pm – con l’effetto di alimentare la polemica, potendosi leggere sulla stampa i seguenti titoli: “Schiaffo a Conte dalla pm di Bergamo: ‘Toccava a Roma fare la zona rossa’” (La Verità); “La pm ha già ‘assolto’ Fontana, ma la legge smentisce tutti e due” (Il Fatto) – appaiono impropri sotto molteplici aspetti:

a) se l’inchiesta tende ad accertare chi (governo o Regione) aveva il potere-dovere di isolare i Comuni, va da sé che Fontana e Gallera fossero soggetti potenzialmente idonei ad assumere lo “status” di indagati, sicché desta perplessità l’averli sentiti come persone informate sui fatti, a meno che la pm non avesse, aprioristicamente, già esclusa qualsiasi responsabilità della Regione;

b) l’indagine ha per oggetto l’accertamento del reato di epidemia colposa che può essere integrato anche con una condotta omissiva in violazione di una regola espressamente prevista da una fonte formale che prevede “in subiecta materia” un potere di ordinanza sia per il governo che per le Regioni. E allora, se l’atto (omesso e cioè l’ordinanza di chiusura) – il cui scopo è rappresentato dalla prevenzione della diffusione degli agenti patogeni con conseguente epidemia – spettava alla Regione, allora la competenza territoriale si radica a Milano ove il reato si è integrato con la condotta omissiva di Fontana e Gallera; se spettava al governo, tale condotta omissiva si è realizzata a Roma e il reato è di natura ministeriale con conseguente competenza del Tribunale dei ministri;

c) la pm ha dichiarato: “Da quello che ci risulta…”, ma qui non è questione di “quello che ci risulta”, bensì di interpretazione, o meglio, di applicazione di una norma giuridica. L’art. 32 L. n° 883/1978 stabilisce che “il ministro della Sanità può emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente, in materia di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria, con efficacia estesa all’intero territorio nazionale o a parte di esso comprendente più Regioni”. Aggiunge la norma: “Nelle medesime materie sono emesse dal presidente della giunta regionale e dal Sindaco ordinanze di carattere contingibile e urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla Regione o a parte del suo territorio comprendente più Comuni”. Ora, se non vi è dubbio che la norma attribuisca al governo una competenza generalizzata, non è men vero che – dovendo la “zona rossa” essere istituita nel territorio lombardo – la competenza era anche della Regione che, a maggior ragione, attesa l’indecisione del governo, doveva intervenire in via d’urgenza. In questo contesto normativo, l’improvvida esternazione del pm può apparire una vera e propria anticipazione su come e su chi verrà indirizzata l’indagine e questo potrebbe creare un qualche problema di astensione (per gravi ragioni di convenienza) per il titolare dell’azione penale. Il pg presso la Cassazione non ha nulla da rilevare?

 

M5S e Pd: stare insieme non è così vomitevole

La Fase 1 è stata durissima, ma ha anche portato (poche) buone cose. Abbiamo per esempio scoperto il mitico Massimo Galli, l’uomo con la stessa carica contagiosa (di allegria) che caratterizza i crisantemi incazzosi. Salvini si è sgonfiato (nei sondaggi), Renzi è politicamente scomparso (anche se l’accanimento terapeutico che riserverà a se stesso farà ancora molti danni: a lui, e chi se ne frega, ma più che altro a noi).

Nel lockdown del nostro scontento, è però accaduta anche un’altra cosa. Forse la più rivelante dal punto di vista politico: Cinque Stelle e Pd hanno scoperto che stare insieme non è poi così vomitevole. Per carità, non l’hanno scoperto tutti. Stampubblica, tra un’articolessa lessa e un’elucubrazione pensosa, appare assai corrucciata. I renziani, ancora insinuati nel Pd come tanti piccoli trojan horse, continuano a guardare Paola Taverna come Pasquale Bruno guardava Van Basten. Mario Michele Giarrusso, che per fortuna dei 5 Stelle è stato (benché tardivamente) cacciato, era in disaccordo. Carlo Sibilia, che per sfortuna dei 5 Stelle non è stato (neanche tardivamente) cacciato, resta in disaccordo. E così via. Eppure qualcosa è cambiato. Sarà il silenzio (per quanto ancora?) di Alessandro Di Battista. Sarà la pandemia, che ha reso molti (ma non tutti) più realisti e meno schifiltosi. “Sarà la volpe quando viene l’inverno”, come cantava Fossati. “Sarà quel che sarà”, come insegnava Tiziana Rivale. Ma l’accordo – non chiamatela “alleanza” o vi fucilano! – Pd/M5S non è più così sacrilego. È vero, è una coabitazione che continua a far schifo alle Maria(nna) Antonietta Aprile e ai Sexy Man De Angelis, ma questa di per sé è un’ottima notizia: fosse stato per loro, saremmo andati a votare in autunno e adesso a gestire la pandemia ci sarebbe questa destraccia qua.

Franceschini, che nel Pd conta 47 volte più di Zingaretti, vorrebbe addirittura estendere l’accordo anche su scala locale e regionale: così, di default. Chiara Appendino, in un’intervista a questo giornale, ha detto che “nulla è scontato”, ma si è mostrata possibilista. Persino Di Maio, a inizio Conte 2 diversamente entusiasta, non è più riottoso in merito (anzi). Una sorta di rivoluzione copernicana, che fa molto ridere chi – come Cacciari e molte firme di questo giornale, compreso chi vi scrive – l’ha sempre vista come l’ipotesi non dico più facile ma certo meno irrealizzabile (e addirittura più naturale). Il Coronavirus, come sostiene ironicamente Matteo Corfiati nel suo libro Quello che abbiamo capito del virus, si è rivelato “di sinistra”. Nel senso che ha trasformato un governicchio in un esecutivo di colpo apprezzato dai più.

I 5 Stelle, dopo la straziante erosione di consensi derivante dalla scellerata unione con Salvini, hanno tamponato il crollo e stando ai sondaggi tengono. Anzi, almeno un po’, risalgono. Perché? Perché parlano poco e lavorano tanto. Perché Conte piace. E perché la vicinanza con il Pd risulta agli elettori tutto sommato gradita. Anche il Pd, per quanto zavorrato dall’evanescente carisma zingarettiano e dai postumi del renzismo, mostra ritrovata vitalità (come dimostra la notorietà di un ministro come Boccia). A far da collante tra i due (ex?) litiganti, non c’è solo il mediatore per antonomasia Conte. C’è Mattarella, che in ogni suo intervento pare voler dire a Pd e M5S di smettere di litigare, lasciando che le fasi 2 e 3 scorrano come la 1: ovvero con senso di coesione e responsabilità. C’è Bersani e la sua serietà d’altri tempi. E c’è il contesto generale, che pare tramare affinché M5S e Pd si uniscano (decidano loro il modo) in maniera il più possibile organica.

Permangono distanze non facilmente colmabili: sull’immigrazione, sulla giustizia, su autostrade, sul Mes. Non poca cosa. Ma la politica, oltre a esser “sangue e merda”, era e resta l’arte del compromesso. Con buona pace dei talebani dell’una e dell’altra sponda. La sfida è campale, lo scenario post-apocalittico e le differenze enormi. Anche per questo, non c’è più spazio per le beghe da cortile. Dall’altra parte grava minaccioso un centrodestra quasi sempre becero e una terza via, a oggi, non esiste: o funziona il combo M5S-Pd, più tutti quelli che vorranno starci (sinistra “radicale”, società civile, sardine, etc), o avremo Salvini Presidente del Consiglio. Provateci, che siate voi gialli, rosa e rossi. Alternative non se ne vedono: siete “costretti” a farlo. Vedrete – e lo state già vedendo – che sarà molto meno difficile di quel che pensavate.

 

Povero “Cristo”: è morto a 89 anni l’artista più popolare del mondo

Aveva impacchettato il mondo e camminato sulle acque (A. Di Genova, il manifesto, 2 giugno 2020).

A 89 anni, è morto Cristo, il Figlio di Dio, uno degli artisti più importanti e popolari al mondo. Ha annunciato lui stesso la sua morte sul suo account ufficiale Facebook, tre giorni dopo la tumulazione.

Cristo era di nazionalità americana, ma era nato in Palestina, dove fece per anni l’istruttore di surf sul lago di Tiberiade. Solido il sodalizio artistico con la moglie, Maria Maddalena, che era di origine marocchina. Si conobbero a Woodstock negli anni 60, si sposarono, decisero di trasferirsi a New York, e qui presero a bazzicare gli ambienti della Land Art, una forma d’arte a base di interventi su grandi spazi naturali: presempio, in un deserto del Nevada, durante il Burning Man del ’93, Cristo lottò con Satana (Maria Maddalena travestita). Tutte le sue performance erano uniche (controverso l’impacchettamento del muro del pianto con un chilometro di fogli di alluminio), ma documentate da filmati (in una sequenza famosa, un anziano rabbino, privato della possibilità di pregare, come ogni mattina, davanti al muro, che Cristo aveva imbozzolato nottetempo nel Domopak, dà in escandescenze, e furibondo lancia un antico moccolo in aramaico che incendia la parrucca bionda di una turista tedesca a dieci metri da lui, parrucca che da allora è venerata da una comunità Aschenazita come la reincarnazione del roveto ardente di Mosè). (“Perché gli ebrei pregano davanti a un muro?” “Perché sanno che pregare Dio è come parlare a un muro”.)

In gioventù, Cristo aveva studiato arte a Parigi, mantenendosi con autoritratti ottenuti premendo su fazzoletti di lino bianco la sua faccia imbrattata di ragù. Si fece però notare con gli “esorcismi” (portò dei maiali a un concerto dei Black Sabbath, finché i maiali impazzirono e si precipitarono in un lago lì vicino, morendo affogati), e insieme con Yves Klein fondò il Nouveau Réalisme, un movimento artistico interessato a materiali presi dalla realtà, anche quella più banale: un paralitico, un cieco, un’adultera. “Faccio cose che non hanno alcuno scopo, tranne forse quello di stupire”, dichiarò al Guardian nel 1980. A Woodstock distribuì a una folla di 30 mila ragazzi affamati fotocopie di un hamburger. A un matrimonio trasformò l’acqua in acqua frizzante con delle bustine di Idrolitina. A una cena con 12 assessori resuscitò con una goccia di acqua salata una mosca affogata (provateci: funziona davvero!). (Alla Biennale del ’78, continuò per tutto un pomeriggio ad affogarne una e a resuscitarla, finché la poveretta non lo mandò a fanculo). A un funerale, tolse dalla bara il morto, gli applicò dei fili alle braccia e alle gambe, e lo fece camminare in testa al suo corteo funebre fino al cimitero.

Una volta finse lui stesso di essere morto, convincendo gli amici, davanti ai quali una sera comparve a sorpresa facendogli prendere un colpo. (In realtà lo sapevano, ma lo fecero contento). Furono le “crocifissioni” a renderlo celeberrimo, tanto che Warhol le immortalò in una serie di serigrafie. L’ultima crocifissione gli è stata fatale. Secondo il National Enquirer, si sarebbe trattato di una forma estrema di asfissia autoerotica.

 

Destre confuse tranne B., l’unico che va al sodo

Dentro la destra idiota (i Pappalardi). In uscita la destra della cassa (Berlusconi). Rintronata la destra forza virus (Salvini). Dispersa la destra in mascherina (Meloni). La piazza del 2 giugno ci consegna l’istantanea di un’opposizione accaldata, incosciente, confusa, incasinata, dove ognuno fa come gli pare.

Per niente una buona notizia per la festeggiata Repubblica che (forse) fuori dalla malattia, ma di fronte a un futuro economico horror, non può davvero permettersi di consegnare la quasi metà dell’elettorato alla strategia ultras dello sbando, dell’insulto, del tanto peggio tanto meglio. Perché davanti ai sacrosanti appelli all’unità del presidente Mattarella abbiamo un governo con tutti i limiti di questo mondo ma che, sulle scelte di fondo, quando guarda al fronte opposto non sa con chi diavolo parlare e soprattutto di cosa.

Prendiamo gli aiuti promessi dall’Ue. Domenica 31 maggio: Confindustria e altre otto sigle (tra cui Abi, Confapi, Confagricoltura, Coldiretti) esortano il governo “a utilizzare fin da subito tutte le risorse e gli strumenti che l’Europa ha già messo a disposizione”, a partire dai fondi del Mes. La sera, ospite dell’ Arena, a domanda di Massimo Giletti sull’utilizzo del Mes – quello richiesto dalle “forze produttive” tanto amiche della Lega – Matteo Salvini risponde che “sarebbe un debito sulle spalle dei nostri figli”, e propone invece “un’emissione straordinaria di buoni tesoro” (mah). Quanto al Recovery Fund dice: “Dei signori di Berlino e Bruxelles non mi fido”. Martedi 2 giugno, in un’intervista a Repubblica, la leader di FdI, Giorgia Meloni dichiara: “Io sono sempre stata favorevole al Recovery Fund”. Insomma, lei un po’ si fida. “Resta da capire quando quei miliardi arriveranno e a quali condizioni”. Ieri, 3 giugno, in una lettera al Corriere della Sera, inneggiante alla “concordia per risollevarci tutti insieme”, Silvio Berlusconi va diritto al sodo. E propone un “grande piano per la ricostruzione”, utilizzando l’annunciata montagna di quattrini europei: “dal Recovery Fund al Mes”. L’uomo degli affari che sente il profumo dei miliardi sonanti, di grandi, anzi grandissime opere, di sontuosi appalti, di strepitosi investimenti sulle infrastrutture, non vede l’ora di “sedersi a un tavolo con le forze vive per un progetto comune”. Ai drink ci pensa lui.

Nella calca urlante della destra in cerca d’autore, Berlusconi è sempre il solito Berlusconi, quello che dai finti tavolini istituzionali, ai veri patti del Nazareno non perde mai di vista il suo conquibus, il profitto, la ciccia, la robba. Uno con le idee chiare, non come quel Bonomi messo in Confindustria a fare il palo e che ha già rovinato con un paio di battute del piffero i rapporti con Gualtieri, il ministro che tiene i cordoni della borsa. Quanto al partito dell’ex Cavaliere, anche se ormai vale un pugno di voti, sembra perfetto per tenere il piede in due staffe. La seconda staffa, martedì, era il povero Tajani mandato allo sbaraglio a rischio starnuti. Ma sempre più utile alla causa di quei due, a rischio colpi di sole e interessati solo a togliersi i voti l’una all’altro.

La scommessa. È una forza tranquilla e Riformista

Non sappiamo se lo slogan scelto da François Mitterrand per le elezioni vittoriose del 1981 in Francia sia o no un riferimento per Giuseppe Conte. Ma quello di ieri è stato un discorso-programma, sia pure accennato e ancora vago, che delinea un riformismo moderato, rassicurante e in grado di dialogare con tutti.

La proposta degli Stati generali va in questa direzione e l’apertura alle opposizioni – a quanto pare non accolta con molta serenità – aggiunge un altro tassello alla strategia di leader che si colloca il più stabilmente possibile al centro del sistema politico.

Interessante notare che l’unica vera polemica ingaggiata da Conte sia stata quella contro il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, che aveva definito “questa politica come il virus”. Polemica in cui si concede una punta di veleno: “Sono sicuro che Confindustria avrà anche proposte lungimiranti oltre alla riduzione delle tasse”. È vero che Bonomi si è insediato da pochi giorni, ma ha già trovato il tempo di portare degli affondi al governo occupando un ruolo “politico” che l’opposizione, scegliendo una collocazione estremista, lascia scoperto. Sul profilo delle riforme presentate da Conte si può dire poco, mancando i dettagli, ma ancora una volta l’insistenza è sulla negoziazione europea (con l’ipotesi di forme di anticipazione del Recovery Fund) e sulla semplificazione delle opere pubbliche. Con l’insistenza sulla “caducazione” della concessione ad Autostrade, per rimarcare una distanza dalle lobby (cara ai 5Stelle), e quel riferimento ad Adriano Olivetti, segno di un Conte che si posiziona all’incrocio dei vari riformismi italiani: liberale, socialista, cattolico e di una parte dell’ex Pci. Una scommessa, appunto, da forza tranquilla.