Licenziamenti liberi e donne senza tutele: il Jobs Act ha fatto diminuire (ancora) i figli

Nascono pochi bambini in Italia. E ne nascono ancora meno da quando è arrivato il Jobs Act. Per dirla meglio: da quando – nel 2015 – è stato cancellato l’articolo 18, e gli imprenditori possono più facilmente licenziare una dipendente. Lo dicono i numeri. A valutare come la riforma renziana del mercato del lavoro abbia influito sulla natalità è uno studio condotto da Maria De Paola e Vincenzo Scoppa, ordinari di Economia presso l’Università della Calabria, insieme con Roberto Nisticò, ricercatore di Economia Politica all’Università di Napoli Federico II e all’Institute of Labor Economics (Iza) di Bonn. Il Jobs Act è entrato in vigore il 7 marzo 2015 ed è efficace solo sui rapporti di lavoro avviati dopo quel giorno.

La principale novità consiste nell’aver abolito la norma dello Statuto del lavoratori che prevedeva il diritto a essere reintegrato per chi fosse stato licenziato senza giusta causa da un datore con almeno 15 dipendenti (sotto questa soglia, invece, l’articolo 18 non si applicava già prima del Jobs Act). La riforma ha sostituito questa tutela forte con un indennizzo in denaro. Mandare a casa un addetto è diventato molto meno costoso pure per le aziende più grandi, insomma, e i nuovi lavoratori – nel frattempo assunti con il contratto ora chiamato “a tutele crescenti” – si sentono meno sicuri di chi è stato reclutato prima del 7 marzo 2015. Questo ha influito sulle scelte di maternità delle donne: gli studiosi hanno suddiviso il campione tra lavoratrici assunte prima e dopo il Jobs Act e poi hanno distinto quelle impiegate in imprese sotto i 15 addetti – alle quali le nuove norme non hanno cambiato nulla – e quelle sopra quella soglia, direttamente colpite dalla legge.

Tra quelle entrate prima della riforma, risultava aver preso il congedo di maternità il 3,4% nelle aziende più piccole e il 4,2% in quelle più grandi. Tra i due gruppi c’era una differenza netta: le più protette erano più propense ad avere figli. Tra quelle arrivate dopo, invece, non c’è alcuna differenza: entrambi i gruppi registrano un 2 per cento. Insomma, una volta allineate (al ribasso) le tutele, si è allineata anche la scarsa propensione a diventare madri. Gli autori dello studio hanno anche chiarito che non tutte sono state colpite allo stesso modo dalla riforma. Visto che negli stessi anni sono stati incentivati i contratti a tempo indeterminato, per chi è stato stabilizzato potrebbe esserci stata una conseguenza inversa (cioè si sono decise a fare figli). Ma in generale i numeri parlano di un effetto negativo.

Disoccupazione in calo: si perde anche la speranza

Ad aprile è crollata la disoccupazione, arrivata a un livello – il 6,3% – che non si vedeva da oltre dieci anni. Ma non è una buona notizia. Anzi, è pessima, perché il dato Istat mostra che l’emergenza sanitaria ha tolto anche la speranza di trovare un lavoro. I disoccupati, secondo la statistica, sono quelli che cercano attivamente un impiego; averne 484 mila in questo caso non significa che lo hanno trovato, ma che hanno smesso la ricerca. Tant’è che anche gli occupati sono 274 mila in meno rispetto a marzo e gli inattivi sono cresciuti di 746 mila in un mese (sono il 38,1% degli individui in età lavorativa). Insomma, il Covid-19 ha davvero travolto il mercato del lavoro. Il governo ha fatto di tutto per evitarlo, con il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione a tappeto, ma ha solo limitato i danni. I più colpiti, come prevedibile, sono stati i dipendenti precari, diminuiti di 129 mila: si tratta di contratti scaduti e non rinnovati, quindi formalmente non sono licenziamenti. Ma anche tra quelli stabili il calo è stato significativo: meno 76 mila. Probabilmente cessazioni di contratti decise prima della sospensione o pensionati non sostituiti dalle imprese; ma c’è anche il rischio che tra questi si annidino genitori – soprattutto madri – costretti alle dimissioni per la chiusura delle scuole o addetti licenziati nonostante il divieto. Giù anche i lavoratori indipendenti (69 mila in meno). C’è il rischio che questo sia solo l’inizio: nell’audizione in Senato, l’Anpal ha parlato di un previsto calo di 500 mila posti nel 2020; solo la metà dovrebbe essere recuperata nel 2021.

Le cronache dei Merlo e il fascismo un tot al chilo

Qualcuno lo dica a Francesco Merlo: la frenologia non è scienza, le teorie di Lombroso sono state sconfessate 120 anni fa. Non basta un’espressione truce a definire un criminale. È vero: il 2 giugno in piazza con Meloni e Salvini non si è raccolto un cenacolo di raffinati intellettuali, ma la firma di Repubblica forse si è fatta prendere un po’ la mano. La sua cronaca del corteo è un trattatello di antropologia un tanto al chilo. Merlo li racconta così: “I ceffi della destra”, “facce da curva”. La descrizione è vivida, disgustata: sono “i beduini di Forza Nuova e i Gengis Khan biancocelesti e giallorossi, quelli che prima che il Covid svuotasse l’Olimpico a ogni partita si circondavano di frastuono e turbini di fumo”. Ma che stadi ha frequentato Merlo? E che fascisti conosce?

“Anche noi cronisti – scrive in plurale maiestatis – ci sentiamo ‘contagiati’ dall’aggressività biochimica quando con i loro corpaccioni grossi e cattivi i leghisti del servizio d’ordine ci sbattono sui muri”. Merlo non è a suo agio con questa feccia subumana, preferisce gli ex fascisti in giacca e cravatta. Come il missino Adolfo Urso e i colonnelli Gasparri e La Russa. Loro, pur “esperti di folclore littorio”, almeno non sono popolani, tatuati e cafoni. Si sono ripuliti trent’anni fa. Ai tempi, ricorda Merlo con nostalgia, c’erano “i naziskin”, “teste rasate, con solo una svastica di capelli sul cranio”. Davvero: dove li ha visti questi fascisti, in un fumetto?

Sarà lo stesso che ha letto l’altro Merlo, Salvatore, che sul Foglio descrive “facce ingrugnite, un abbondare di tatuaggi e bicipiti gonfiati, volti da stadio e da curva”. Aridaje. Il Merlo jr è attraversato da un dubbio: “Difficile dire come sia fatto un balordo. Che faccia ha un teppista del tifo organizzato?”. La risposta è lombrosiana: “Ingiusta è la fisiognomica, ma ieri s’aveva l’impressione che fossero tanti”. Che impressione.

Avanti De Gregorio. Epopea da Buscetta ai milioni anti-Prodi

Un passato da giornalista (inizia giovanissimo a Paese Sera, poi l’Espresso, Oggi dove pubblica le foto del pentito Tommaso Buscetta in crociera). Poi la politica. Con “Italiani nel mondo” si allea con l’Idv di Antonio Di Pietro che lo elegge al Senato nel 2006. Pochi mesi dopo, però, De Gregorio passa con il centrodestra, contribuendo alla caduta del governo Prodi II: tre milioni di euro il “prezzo” pagato da Berlusconi – il reato di corruzione impropria è andato prescritto – per il trasformismo di De Gregorio.

Che sagoma, De Gregorio Sergio, giornalista, politico, uomo d’affari, cliente assiduo dei Tribunali della Repubblica. Nella sua vita è passato con leggerezza da uno scoop a un’estorsione, da un mestiere all’altro, da un partito all’altro, dal Senato agli arresti domiciliari (nel suo appartamento ai Parioli).

Esibiva un curriculum giornalistico pieno di testate e colpi di testa, passando da Paese sera a RadioRai, da Oggi a Mediaset. Il suo esploit fu la crociera nel Mediterraneo insieme a Tommaso Buscetta, poi esibito sulle pagine di Oggi per innescare l’ennesima polemica contro i pentiti di mafia “che fanno la bella vita a spese dello Stato”.

Non si ferma davanti a niente, De Gregorio Sergio, napoletano basato a Roma. Neppure davanti a una ragazza dalla storia drammatica, cocktail micidiale di sesso dolore e cocaina, la modella Terry Broome, che spara al suo carnefice. De Gregorio pubblica – senza permesso – le foto di Terry in carcere.

L’ultima prodezza giornalistica – si fa per dire – è stata l’acquisto della testata socialista dell’Avanti!, dopo il naufragio del craxismo, per farla diventare il bollettino di un’altra sagoma d’uomo di cui hanno dovuto spesso occuparsi i giornali e le Procure, Valter Lavitola.

Da politico dà il meglio di sé. Iscritto al Psi, nel 1994 passa a Forza Italia. Politica & affari: una sua società edita l’inserto regionale campano del Giornale in cui è appena arrivato Vittorio Feltri. Il suo faccione era già stampato sui manifesti elettorali con il simbolo di Forza Italia, ma all’ultimo momento salta un accordo e il faccione passa sotto il simbolo della Dc di Gianfranco Rotondi. La sua mossa più rutilante è nel 2005: l’accordo questa volta lo fa con Antonio Di Pietro, a cui porta in dote la sua associazione, Italiani nel mondo. Un anno dopo è senatore dell’Italia del valori. De Gregorio vuole il ministero degli italiani all’estero. Prodi non glielo concede. Lui si rifà facendosi eleggere, con i voti del centrodestra, presidente della commissione Difesa del Senato. Oplà, ecco un accordo con Forza Italia mediato da Renato Schifani ed ecco bruciata la candidatura alla dell’ex partigiana Lidia Menapace. Finalmente Di Pietro si accorge che qualcosa non va e gli toglie la carica di direttore editoriale del periodico del suo partito, Italia dei valori . Ma che problema c’ è? Berlusconi offre di meglio. È lo stesso De Gregorio a raccontarlo: “Tra il 2006 e il 2008 Berlusconi mi pagò quasi 3 milioni di euro per passare con Forza Italia”. Come perdere l’occasione? Nel 2008 fa cadere il governo di Romano Prodi votando con i berlusconiani la sfiducia. Questa sottile mossa politica costò a Berlusconi, oltre ai 3 milioni, un processo e una condanna a 3 anni, poi spurgata dalla prescrizione.

Poiché Genova è una città di mare come la sua Napoli, De Gregorio si candida sindaco di Genova. Ma la sua lista non viene accettata, nel 2007, perché presentata con firme risultate farlocche.

Poi il lavoro d’imputato diventa prevalente sugli altri. Viene rieletto senatore, questa volta nelle liste berlusconiane. Poi viene indagato per appropriazione indebita di 20 milioni di euro di finanziamenti al quotidiano L’Avanti!. Per corruzione a Roma, per i soldi presi da Berlusconi. Per riciclaggio e favoreggiamento della camorra a Napoli, quando trovano una serie di assegni, firmati o girati da De Gregorio, in tasca o nei cassetti di Rocco Cafiero detto ’o Capriariello. Da Berlusconi in Senato alle estorsioni ai locali di Roma, nel 2020. Non è piu il De Gregorio di una volta.

Cassazione: mutande verdi 2 la vendetta. Roberto Cota sarà di nuovo processato

Le mutande verdi non finiscono mai. Il celebre acquisto rimborsato con soldi pubblici (come molti altri) dell’ex presidente leghista del Piemonte, Roberto Cota, non era stato considerato sufficiente in due gradi di giudizio per motivare una condanna per peculato nel processo per la cosiddetta “rimborsopoli” piemontese. Ora però ci si è messa di mezzo la Cassazione e l’avvocato novarese, già bossiano di ferro, dovrà essere riprocessato: “Cota – scrivono i giudici nelle motivazioni del rinvio – rivendicava per sé un potere di spesa generale, di posizione, sostanzialmente sottratto a sindacato in ragione del ruolo ricoperto” rivelando una “concezione privatistica” dei rimborsi spese”. L’accusa di peculato era contestata in concorso con il collega di partito Mario Carossa, aspetto trattato “sbrigativamente” dai giudici dell’appello che, come quelli di primo grado, assolsero Cota: “Ne deriva che sul punto – concludono gli ermellini dando ragione all’avvocato difensore Domenico Aiello – la sentenza deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio.”

“Per CasaPound c’è un ordine di sgombero”

“Vi arriverà un ordine di sgombero”. Una frase “sfuggita” a un poliziotto durante una riunione in Questura con un gruppo ristretto di militanti di CasaPound Italia. “Non ci risulta, è una notizia non vera, non è stato notificato nulla”, si sgolano dalla polizia dopo un lancio dell’Adnkronos. Fatto sta che qualcosa si muove sul caso della sede del movimento di estrema destra, uno stabile nel centro a Roma di proprietà del Demanio – e dunque del ministero Economia e Finanze – occupato abusivamente da 17 anni. L’ordine potrebbe arrivare con un sequestro disposto dalla Procura.

In via Napoleone III, rione Esquilino, c’è la sede nazionale della tartaruga frecciata e vi alloggiano 18 famiglie legate ai militanti di punta del movimento. Sull’edificio pende una diffida del Mef impugnata da Cpi prima al Tar e ora al Consiglio di Stato e un’inchiesta della Procura sempre su denuncia del ministero. “Ho appena saputo che è stato ordinato lo sgombero da via Napoleone III a CasaPound. Ci lavoriamo da tanto, finalmente si ristabilisce la legalità”, ha detto la viceministra Laura Castelli, sebbene l’ufficio stampa del Mef ripeta che “non ne sappiamo nulla”. Il tweet di Castelli è stato seguito a ruota da quello della sindaca di Roma, Virginia Raggi: “Finalmente qualcosa si muove. Ripristiniamo la legalità”, dice la prima cittadina, che solo la scorsa settimana aveva inviato una lettera al ministro Roberto Gualtieri per chiedere di velocizzare l’iter di riacquisizione dell’edificio.

Difficile prevedere tempi e modalità dello sgombero. Di sicuro, Questura, Digos e la stessa CasaPound smentiscono la notifica di qualsivoglia provvedimento. Soprattutto, la Prefettura di Roma tiene ancora lo stabile di via Napoleone III nelle retrovie delle priorità rispetto ai 78 palazzi romani da sgomberare (le operazioni sono rimaste bloccate per l’emergenza Covid).

L’aiuto allo sport si dimentica i piccoli

La chiusura per Coronavirus è stata una rovina. Per tutti, anche per lo sport: solo in questi giorni palestre, piscine e centri vari stanno provando faticosamente a riaprire, tra costi di sanificazione e protocolli impossibili. Il governo, però, ha deciso di tendere una mano a questo mondo, anzi due: gli ha riservato infatti un regalo doppio. Potranno sia farsi ridurre l’affitto che ottenere un rimborso sulla somma pagata. O almeno, potranno farlo i più ricchi, non tante piccole associazioni dilettantistiche.

Il Decretorilancio è stata l’ancora di salvezza per lavoratori e imprenditori, il golem normativo in cui sono confluiti proposte, emendamenti ed interventi di qualsiasi genere. Ogni settore produttivo aveva la sua rivendicazione, ogni Ministero la sua soluzione. Chissà se per precisa volontà politica o semplice svista, i centri sportivi, unici fra tutti, si sono ritrovati due volte la stessa agevolazione. Sugli affitti, in particolare delle strutture private (i canoni per gli impianti di proprietà pubblica sono semplicemente sospesi fino al 30 giugno).

Per palestre o affini è più complicato. Per questo il Ministero dello Sport ha voluto un comma ad hoc, all’articolo 216, che permette di ottenere una riduzione dell’affitto fino al 50% per 5 mesi (da marzo a luglio) per “sopravvenuto squilibrio dell’assetto di interessi”. I centri sportivi, però, potevano già beneficiare come tutti di un altro articolo dello stesso decreto, il 28, che prevede il rimborso del 60%, sotto forma di credito di imposta, per i canoni di locazione di immobili ad uso non abitativo. E fra questi rientrano senz’altro anche palestre &C. . Così, alla fine pagherebbero meno della metà della metà dell’affitto.

Bene, si dirà, il governo ha voluto aiutare lo sport, uno dei settori più colpiti dal Coronavirus. Che non sia così semplice, però, lo dimostra il fatto che il provvedimento ha generato qualche perplessità persino all’interno dell’ambiente che dovrebbe avvantaggiarsene. “La sovrabbondanza di norme genera confusione”, spiega Paolo Rendina dello Csen, uno degli enti di promozione sportiva più diffusi nel Paese. “Il rischio è che il proprietario rifiuti la riduzione con la scusa del credito d’imposta. Meglio sarebbe stato prevedere un’unica misura, magari riconoscere la detrazione al proprietario che concede lo sconto”. Ma la vera beffa è che il doppio vantaggio potrebbe favorire chi ne ha meno bisogno.

Il panorama delle attività sportive in Italia è variegato. La riduzione del 50% sarà utile a tutti, ma la maggior parte, associazioni dilettantistiche in ginocchio per la crisi, del credito d’imposta non sa che farsene: alcune sono così piccole che non hanno nemmeno personalità giuridica, non presentano una dichiarazione, non possono incassarlo; altre hanno comunque una fiscalità tanto ridotta da risultare inapplicabile. Diverso invece per le società più grandi che, pur non avendo scopo di lucro, dello sport fanno un business: a loro sì che tornerà comodo il credito d’imposta. E il provvedimento non cita nemmeno il registro Coni, quindi non è circoscritto solo a chi si occupa prettamente di sport (c’è comunque un tetto di 5 milioni di ricavi, che esclude club di calcio e multinazionali). Così la crisi fa un po’ meno paura. Almeno ai più ricchi.

A24, lo sblocca-cantieri fa felice solo il commissario

Con l’articolo 206 del decreto legge “Rilancio”, in via di conversione in legge in Parlamento, la ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli ha utilmente offerto al Parlamento e all’opinione pubblica una sorta di trailer di che cosa sarà la giungla degli appalti pubblici con gli onnipotenti commissari “modello Genova” che sta per nominare: avranno il potere di gestire in deroga a qualsiasi norma decine di miliardi di investimenti pubblici. Sempre naturalmente con l’imperativo di “fare presto”.

Nel decreto Rilancio si è inserita la messa in sicurezza antisismica della A24 che collega Roma con Pescara e L’Aquila. L’urgenza è pressante, come tutti sanno: il terremoto dell’Aquila risale a 11 anni fa, durante i quali con grande velocità ma senza troppa precipitazione si è discusso il da farsi per quei numerosi viadotti che, se la scossa arriva, sono destinati a sbriciolarsi. Lo sanno tutti, ma come insegna la storia del ponte Morandi, ci siamo affidati allo stellone. Ed ecco che con l’articolo 206 arriva il commissario più veloce del West. Egli dovrà in 30 giorni definire “il programma di riqualificazione delle tratte delle Autostrade A24 e A25 comprensivo degli interventi di messa in sicurezza antisismica e adeguamento alle norme tecniche sopravvenute”, cioè rifare in un mese ciò che è già stato fatto in dieci anni. Nei successivi 90 giorni il commissario superman “procede alla definizione del programma ed autonomamente rispetto al concessionario alla predisposizione o rielaborazione dei progetti non ancora appaltati, definisce il fabbisogno finanziario e il cronoprogramma dei lavori nel limite delle risorse che si rendono disponibili a legislazione vigente e realizza i lavori a carico del contributo pubblico per fasi funzionali secondo livelli di priorità per la sicurezza antisismica”. Anche questo tutto già fatto negli scorsi 10 anni. I progetti sono stati già fatti dalla concessionaria Strada dei Parchi, che fa capo al costruttore Carlo Toto, su incarico del ministero (che li dovrà pagare) dopo il parere favorevole del Consiglio superiore dei Lavori pubblici. È tutto talmente pronto che c’è già lo stanziamento per la sicurezza sismica: 1990,9 milioni a carico dello Stato e calcolati sul previsto costo di realizzazione dei progetti già fatti. Ma per fare prima la ministra ha deciso di rifare tutto da capo. Solo che il diavolo ci ha messo la coda. Il decreto prevedeva in origine di accelerare l’investimento, dotando il commissario per i primi cinque anni di 754 milioni, mentre il resto dei 2 miliardi sarebbe arrivato dopo il 2025 (notate la velocità e la fretta). Ma ormai abbiamo imparato che quando i decreti escono dal Consiglio dei ministri che li approva per andare in Gazzetta ufficiale può succedere di tutto. E siccome l’accelerazione del finanziamento consisteva in una rimodulazione, parola bellissima che significa crudamente che si assegnavano alla A24 soldi già promessi a Rfi (la rete ferroviaria), dopo il Cdm, sottobanco, Maurizio Gentile (ad uscente di Rfi, favorito nella corsa al ricco “commissariato” della A24) si è ripreso i suoi 463 milioni, lasciando all’autostrada sismica solo 291 milioni a disposizione fino al 2025. Tanta era la fretta di spendere i 2 miliardi che si fa apposta un decreto per spendere da qui al 2025 solo il 15% dei fondi. Il predecessore di De Micheli, Danilo Toninelli, era così preoccupato per i viadotti abruzzesi da farsi approvare dal Cipe una spesa di 750 milioni nei primi tre anni. Adesso, con De Micheli l’acceleratrice, la spesa è di 80 milioni, di cui forse metà per le spese del commissario. Infatti non è ancora finita.

Il commissario, che potrà rifare i progetti già fatti (così li pagheremo due volte) e approvarseli da solo per poi affidare i lavori senza gara a chi vuole in deroga a tutto, sarà in carica fino a fine 2025. Data dopo la quale la sistemazione sismica della A24 verrà, si presume, scommissariata. Per queste magie acceleratrici il commissario potrà spendere fino al 3% del valore dell’opera (60 milioni) ma dovrà farlo entro il 2025. Così nei primi cinque anni spenderemo 291 milioni di cui 60 (il 20%) per il commissario incaricato di accelerare il tutto rifacendo il lavoro già fatto. Altro che sbloccare i cantieri. Questo sistema serve a sbloccare la felicità dei futuri commissari, che infatti si stanno già scannando per essere nominati dai partiti.

Ora immaginate questa follia del commissario moltiplicata per le 20-25 grandi opere di cui si parla.

10 mila in meno. La regione di Fontana diminuisce i tamponi

Riaprono i confini tra le Regioni e in Lombardia cala il numero dei tamponi. Proprio mentre entra nel vivo la Fase 2, periodo in cui in base al sistema di monitoraggio messo a punto da ministero della Salute e Istituto Superiore di Sanità le Regioni dovrebbero aumentare la loro capacità di cercare il virus per individuare e isolare il prima possibile eventuali nuovi focolai di Covid-19. Secondo i dati elaborati dal consigliere Pd Samuele Astuti, tra giovedì 28 maggio e mercoledì 3 giugno – giorno in cui sono ripresi gli spostamenti tra le Regioni – i tamponi dichiarati da Palazzo Lombardia sono stati 79.916 contro gli 89.698 della settimana precedente (21-27 maggio), gli 83.700 comunicati tra il 14 e il 20 e gli 84.357 eseguiti tra il 7 e il 13. Una diminuzione coincisa dal punto di vista temporale con l’avvicinarsi della fine del lockdown e l’aumento del volume con cui il governatore Attilio Fontana ha chiesto e ottenuto una riapertura contemporanea per tutte le Regioni.

“Delle tre T (testare, tracciare e trattare i casi di Covid, secondo la strategia indicata dall’Oms) stiamo investendo molto sulla terza, quella basata sull’allestimento dei posti letto e delle terapie intensive – attacca Astuti, che da membro della commissione Sanità da mesi monitora le informazioni rese note dal Pirellone – mentre è evidente che la giunta non riesce ad attivare politiche di gestione efficace rispetto al tema dei tamponi e dei test in generale. Cosa che rende impossibile il tracciamento”.

La curva epidemica continua scendere in tutta Italia, nella Regione più colpita fa altrettanto ma più lentamente. Ieri la Protezione civile ha dato notizia di 321 nuovi contagi: 237 di questi, il 73,8%, arrivano dalla Lombardia. “Il numero è in calo – continua il consigliere – ma è evidente che meno tamponi fai e meno contagi trovi. Sembra quasi che la strategia adottata sia quella di far diminuire i casi positivi riducendo il numero dei test”. Accuse che fanno il paio con quelle mosse la scorsa settimana dalla Fondazione Gimbe: “In Lombardia si sono verificate troppe stranezze sui dati – aveva detto il presidente Nino Cartabellotta – Come se ci fosse una necessità di mantenere sotto un certo livello i casi diagnosticati”.

Test, Roche supera Diasorin. Che è già costata più del doppio

Ci sono voluti quasi due mesi alla Regione Lombardia per arrivare a una graduatoria e un vincitore (provvisorio) della gara per i test sierologici. Al Fatto risulta che in testa è la Roche. Grazie alla gara i contribuenti lombardi dovrebbero pagare circa 1,42 euro a test a Roche contro i 4 euro pagati finora a Diasorin.

Qualcuno ora potrebbe chiedersi perché l’Aria Spa di Regione Lombardia ha fatto un ordine urgente di 500 mila test in aprile al prezzo di 4 euro senza gara alla società piemontese Diasorin mentre l’americana Abbott ha donato poche settimane dopo 150 mila test alla struttura del Commissario Domenico Arcuri per il test nazionale e ora la svizzera Roche offre il suo a 1,42. Qualcuno si potrebbe chiedere perché Diasorin ha offerto 3,3 euro alla gara per lo stesso test comprato già dallo stesso committente, senza gara, a 4 euro. Una situazione imbarazzante se si tiene conto che il contratto prevedeva per maggio solo 300 mila consegne, mentre altri 200 mila kit erano previsti a giugno.

La partita comunque non è finita. Le buste con le offerte sono state aperte, c’è una graduatoria provvisoria, non l’aggiudicazione. La multinazionale Roche ha stracciato la concorrenza offrendo il suo prezzo standard di 1,42 euro a kit.

La Lombardia ha privilegiato inizialmente i test Diasorin, validati dal Policlinico San Matteo di Pavia e dal professor Fausto Baldanti, dopo un accordo con royalties dell’1% in favore del Policlinico sulle vendite future del prodotto.

Nella convulsa gestione dell’emergenza coronavirus, poche settimane sono sufficienti a stravolgere gli scenari. I test sierologici, lo ricordiamo, servono a scoprire chi ha sviluppato gli anticorpi IgM (che possono segnalare l’infezione in corso) e gli anticorpi IgG (prodotti dall’organismo dopo che ha affrontato e vinto la malattia), quindi sono utili per capire il livello di diffusione del virus. Tra marzo e aprile Diasorin pareva godere di un vantaggio scientifico sulla concorrenza, grazie alle ricerche del professor Baldanti che hanno validato un prodotto in grado di rilevare gli anticorpi IgG “neutralizzanti” al Sars-Cov2, in grado – si sosteneva – di assicurare una ‘patente di immunità’.

Nelle settimane successive, altre multinazionali come Roche, Abbott e Beckman hanno saputo sviluppare, validare e mettere sul mercato prodotti capaci di competere con Diasorin. E di vincere anche – e non solo – sul terreno del prezzo, in una gara dove una buona parte del punteggio si è giocata sugli indici di sensibilità e di specificità del test e sulla capillarità della presenza dei macchinari nei laboratori. Per ora, prima è Roche con un’offerta di 1,42 euro che ha avuto 58,5 punti qualità. Seconda, Beckman Coulter, con un’offerta di 3,8 euro e 61 punti qualità, anche se sul sito web della società non si ha notizia del marchio CE che sembrava un requisito essenziale. Terza è Ortho Clinical con 3,5 euro e 54,72 punti qualità, quarta Diasorin 3,3 euro e 51,25 punti, quinta Abbott che ha preso 53 punti offrendo 4 euro, lo stesso prezzo che ha offerto (dopo il dono di 150 mila test) al Commissario Arcuri. Poi BioRad e Aesku hanno offerto 3,5 euro e Iper 200 3,59 euro. Esclusi i colossi tedeschi Siemens e Euroimmun. Per ora. La graduatoria è provvisoria. Oggi alle 17.30 la Commissione si riunisce di nuovo e tutto potrebbe tornare in gioco.