Baci, abbracci e ritardi. Il virus atterra a Fiumicino

Pronti, via. E al primo giorno di “libertà” dal lockdown ecco la notizia di un nuovo caso di “importazione” del Covid-19 in Italia. Si tratta di una famiglia composta da 5 persone – madre, padre e tre figli minori – arrivata a Roma da Chicago dopo aver fatto scalo a Francoforte. La buona notizia è che, a quanto dichiarato dalla Regione Lazio, la Asl Roma 2 è riuscita a “intercettare e isolare” il cluster, avendo avuto i componenti del nucleo “pochissimi contatti” da quando sono tornati nella Capitale, in realtà la scorsa settimana. Massimo riserbo sui motivi del rientro “anticipato”. “La famiglia è stata molto collaborativa e responsabile – ha affermato l’assessore regionale, Alessio D’Amato –. Il percorso da Fiumicino a casa è stato effettuato con auto privata e senza contatti con altre persone”. La Regione ha “avviato immediatamente l’indagine epidemiologica, sono stati contattati dai servizi di prevenzione e sottoposti immediatamente a tampone. Al momento non ci sono particolari problematicità, ma l’allerta sugli scali aeroportuali e ferroviari di Roma resta elevata”.

Proprio il terminal 3 del Leonardo da Vinci in queste ore è osservato speciale. Ieri mattina l’aeroporto è tornato a popolarsi, fra chi era pronto a rimettersi in viaggio e le numerose persone che si sono ricongiunte ai loro cari. “Sembra di assistere alla scena finale di Love Actually”, dice una ragazza, in lacrime, mentre guarda le altre coppie rincontrarsi in attesa del suo fidanzato in arrivo da Berlino. In effetti, di fronte a settimane di lontananza, ieri le regole del distanziamento sociale sono un po’ saltate: baci, abbracci, tante lacrime e qualche momento di tensione fra chi invece vuole mantenere salde le regole di prevenzione anti-Covid. “Speriamo che tutto questo non ci costi caro – ammonisce una signora –, io sto aspettando mio figlio di ritorno da Parigi, la voglia di abbracciarlo è forte ma gli chiederò di completare la quarantena, iniziata in Francia, in un appartamento vuoto che abbiamo vicino Roma”.

Attenzione puntata in tutta Italia anche sulle stazioni ferroviarie. E in particolare su Termini, crocevia sulla direttrice Nord-Sud. Ieri mattina, dopo un viaggio di quasi 4 ore – ci sono stati ritardi di 40-50 minuti per tutto il giorno – i passeggeri provenienti da Torino, Milano e Reggio Emilia hanno dovuto affrontare anche gli sguardi diffidenti dei romani. Ieri la Capitale ha fatto registrare un solo nuovo contagio, il minimo dall’inizio dell’emergenza. “Forse la Lombardia andava tenuta chiusa per qualche altra settimana”, dice un ragazzo. Subito smentito da Massimo, cardiochirurgo che fa la spola fra Milano e Roma: “Noi ormai siamo controllatissimi – dice – proprio perché abbiamo avuto questo tipo di emergenza. I romani possono stare tranquilli”. Le “migrazioni” da una regione all’altra ci sono state in tutta Italia. Traffico discreto sulle autostrade, da segnalare le lunghe code a Messina per l’imbarco sul traghetto in direzione Reggio Calabria.

La crisi e l’effetto “bandiera”: premia (per ora) solo chi rassicura

“Il problema dei due Matteo, Renzi e Salvini, non è solo comunicativo ma politico”, dice Lorenzo Pregliasco, fondatore di YouTrend.

Ovvero?

Salvini e Renzi sono stati fortemente marginalizzati dal lockdown. Il leader della Lega funziona solo quando dà le carte: se l’agenda è dettata da altri, perde consenso. In questa fase non poteva più usare i suoi cavalli di battaglia, come l’immigrazione e l’Europa. Poi il fatto di non poter essere a contatto con il territorio lo ha danneggiato. Anche il problema di Renzi è pre-comunicativo: non è tanto come comunica ma cosa comunica a non attrarre più gli elettori.

Eppure hanno speso più di tutti sui social.

Questo conferma che la spesa e l’eccesso di comunicazione in sé non generano consenso. Prendiamo il caso americano: anche lì i soldi non sempre sono decisivi e ci sono candidati che hanno speso meno dei propri competitors e hanno vinto. Pensiamo a Trump contro la Clinton o a Biden contro Sanders. La spesa in sé ti permette di arrivare a più persone, ma se lo fai con un messaggio che non è corretto e una strategia che non è efficace, questo può danneggiarti.

Nei consensi sale chi – come il premier Conte – ha usato toni istituzionali pur comunicando molto. Com’è possibile?

Questo dipende, in primo luogo, dal fatto che a causa del coronavirus abbiamo avuto un dibattito politico molto atipico, quasi sospeso per un certo periodo. C’era un unico tema e le persone erano molto preoccupate. La popolarità dipende anche da quello, da quello che gli americani chiamano effetto ‘rally round the flag’: ci si stringe intorno alla bandiera in momenti di crisi.

E poi?

Soprattutto in certi contesti, la comunicazione più pacata e istituzionale come quella di Conte funziona. Pensiamo al caso Gentiloni che diventò presidente del Consiglio alla fine del 2016 dopo un premier iper-comunicativo come Renzi: per molti mesi il suo consenso era alle stelle proprio perché comunicava meno del suo predecessore. Anche Conte, sebbene abbia comunicato molto soprattutto in tv, ha funzionato: sempre rassicurante, senza troppi strappi e mai sopra le righe. L’aspettativa del pubblico era quella e lui l’ha soddisfatta. Poi, come abbiamo visto nel caso di Gentiloni, non sempre questo si traduce in voti, ma è certo un primo indizio.

Quanto è piaciuto Zoom ai partiti: si risparmia pure

Lui che fa politica da quando aveva i calzoni corti si è adattato, ma soffrendo. “Abbiamo resistito come comunità anche grazie a Skype. Ma aridatece le assemblee”, sbotta il romanissimo Marco Miccoli, responsabile Lavoro della segreteria nazionale del Pd che ha fatto di necessità virtù. E infatti ha il telefono pieno di app da Lifesize a Jitsi Meet, passando per BeLive e chi più ne ha più ne metta: “Ogni circolo in giro per l’Italia con cui ho fatto riunioni ne ha una e io per collegarmi con loro ho dovuto installarle tutte. Poco male – spiega il dem –, ma il tema è che noi restiamo il partito dei circoli e vuoi mettere la piazza? Personalmente faccio ancora fatica a leggere il linguaggio della partecipazione online: i mugugni gli applausi, il calore o meno dei saluti raccontano ancora l’umore della comunità certamente più dei like o dei numeri, anche importanti delle visualizzazioni che riesce a fare un evento su Facebook. Insomma è improbabile che appuntamenti come l’Assemblea nazionale possa svolgersi un domani via skype”.

Ma tant’è che quelli del circolo di Roma Donna-Olimpia si sono messi avanti con il lavoro e hanno organizzato una video Festa dell’Unità di tre giorni a cui ha tele-partecipato anche il padre nobile del Pd, Walter Veltroni: il dibattito c’è stato e il menu pure, anche se col catering portato direttamente a casa.

Pure Silvio Berlusconi si gode il nuovo corso: la scorsa settimana si è assai divertito a collegarsi con la Web school di formazione messa in piedi da Forza Italia. “Uno spazio virtuale a costo zero che non è poco. L’emergenza da questo punto di vista è stata un’opportunità: ormai siamo schiavi di Zoom” dice entusiasta la capogruppo azzurra al Senato Anna Maria Bernini che viaggia a una media di 4 o 5 incontri politici virtuali al giorno, impossibili senza il dono dell’ubiquità.

“Molti di questi strumenti adottati in emergenza resteranno nella nostra cassetta degli attrezzi anche dopo il lockdown perché moltiplicano le possibilità di fare incontri e contatti” spiega il capogruppo di LeU alla Camera Federico Fornaro piacevolmente stupito dal successo di “pubblico” di alcune iniziative del partito organizzate in web.

Ne sa qualcosa anche Claudio Borghi della Lega che prima del Covid su Twitter faceva 9 milioni di visualizzazioni al mese e adesso ne fa 50 milioni, mentre le sue dirette sul profilo social sono schizzate da 2 o 3 mila utenti a 100 mila di media. “Questi strumenti sono certamente un valore aggiunto anche per i lavori dei parlamentari delle singole commissioni: una video conferenza per discutere di un emendamento è certo più agevole di vedersi ogni volta” spiega il presidente della commissione Bilancio della Camera che però è certo di una cosa: “Le riunioni strategiche della Lega continueranno a svolgersi in presenza: con i tempi che corrono chi ci assicura che non vengano intercettate?”

Il tema è certo delicato, ma tutto sommato forse non si potrà più fare a meno di strumenti come Zoom e Skype: “Noi abbiamo fatto riunioni di tutti i livelli anche di vertice senza mai grandi problemi. Abbiamo persino incontrato virtualmente i candidati alle prossime elezioni regionali ” spiega Emilio Carelli dei 5 Stelle, Movimento di smanettoni per definizione.

Ma anche quelli di Fratelli d’Italia si sono adattati alla grande e sono pronti persino ad approvare il bilancio con un’apposita direzione nazionale convocata online. “E con la stessa modalità – spiega il responsabile organizzativo del partito Giovanni Donzelli – abbiamo già fatto un esecutivo nazionale che potrebbe essere replicato anche in futuro specie se per altri impegni Giorgia Meloni non dovesse essere a Roma”.

Insomma anche per i partiti nulla sarà come prima. Anche se il problema resta la linea: non politica, ma di quella che va e viene e rende le comunicazioni, certe volte, poco stabili.

Tanti soldi, pochi voIti: i dannati del virus

Apparire, esserci, dettare l’agenda politica. E poi, di conseguenza, vincere le elezioni. Il primo a teorizzarlo fu Niccolò Machiavelli secondo cui “un principe, dunque, non deve realmente possedere tutte le qualità, ma deve far credere di averle”. Eppure, l’esigenza di apparire e di comunicare in politica può essere controproducente. L’assenza, insegnava Giovanni Giolitti, a volte paga. Ma non tutti hanno seguito questa strada. E l’emergenza da coronavirus ha dato una nuova conferma a questo assunto. Ma se il lockdown obbligato ha chiuso le piazze e bloccato i comizi e manifestazioni (fino a maggio), impedendo strette di mano e selfie col pubblico, la propaganda politica si è spostata online. Così i social network sono diventati essenziali per i leader politici, con un effetto sorprendente: chi ha comunicato, e speso di più, è crollato nei sondaggi. Mentre chi si è concentrato meno sulla comunicazione diretta con gli elettori via Facebook e Instagram ha aumentato il proprio consenso.

Questo risultato emerge dall’incrocio dei dati della “Libreria inserzioni” sulla spesa dei leader e dei partiti politici per sponsorizzare i propri post su Facebook, il principale social usato dagli italiani, con 29 milioni di utenti, che si è dotato di questo strumento per rendere trasparenti gli investimenti pubblicitari delle pagine. Sebbene il social di Mark Zuckerberg certifichi cifre precise, in realtà la “Libreria Inserzioni” specifica che si tratta di una stima del denaro speso dalle diverse pagine, comprendendo quello già fatturato e quello non fatturato.

Il periodo analizzato è relativo all’ultimo anno (da marzo 2019 al 31 maggio 2020) e in particolare nei tre mesi del lockdown, dal 3 marzo alla fine del mese scorso. Nell’ultimo anno, sul podio dei più “spendaccioni” su Facebook si posizionano: Matteo Salvini tramite la pagina “Lega Salvini Premier” (255.112 euro), Matteo Renzi (173.490 euro) e Silvio Berlusconi (93.858 euro). A seguire, Carlo Calenda (55.773 euro), Giorgia Meloni (42.085) e Teresa Bellanova, che arriva addirittura a spendere 15.799 euro per finanziare i propri post.

In fondo alla classifica si posizionano i principali esponenti di governo e della maggioranza: spendono zero il premier Giuseppe Conte e i ministri Luigi Di Maio, Dario Franceschini, Roberto Speranza e Alfonso Bonafede. Nulla anche la spesa dell’attuale capo reggente del Movimento 5 Stelle Vito Crimi mentre, in 15 mesi, il segretario del Pd Nicola Zingaretti ha investito solo 1.649 euro, superato anche dalla leader di “Più Europa” Emma Bonino (3.673€).

Restringendo la ricerca al periodo di lockdown causato dal Covid-19 (marzo-maggio 2020) il Fatto ha scoperto che Renzi ha scavalcato Salvini nella classifica dei leader che investono di più sui social network: l’ex premier ha speso ben 22.864 euro per sponsorizzare i suoi post (di cui 150 € nell’ultima settimana di maggio, senza considerare il nuovo libro appena uscito) contro i soli 1.646 del Matteo in salsa leghista. Quest’ultimo viene sorpassato anche da Carlo Calenda, leader di “Azione” che nelle ultime settimane ha puntato molto sulla iper-presenza comunicativa come nel caso della garanzia statale sul prestito di Fca: l’ex ministro del governo Renzi ha speso ben 5.562, di cui 1.000 dal 25 al 31 maggio, per sponsorizzare i suoi video messaggi contro gli assistenti civici, il trio “paternalistico” e “incapace” Tridico-Boccia-Arcuri e contro le richieste della famiglia Elkann sul prestito da 6,3 miliardi.

Eppure i tre leader che hanno speso di più su Facebook, sono anche coloro che hanno risentito maggiormente del lockdown in termini di consenso elettorale: secondo i sondaggi Ipsos di Nando Pagnoncelli degli ultimi tre mesi, Matteo Renzi è il leader meno amato dagli italiani con il 13% mentre Italia Viva da inizio anno è passata dal 4,3 al 3%. Lo stesso vale per Matteo Salvini che a febbraio piaceva a quattro italiani su dieci (38%) mentre a fine maggio è crollato al 33%, con la Lega che ha perso ben 7 punti percentuali: dal 31% al 24% di oggi. Carlo Calenda invece non viene analizzato da Ipsos mentre il suo partitino, Azione, non riesce a sfondare il 2% nonostante l’investimento sui social.

Se può sembrare strano che la spesa del premier Conte, dei ministri e dei leader che sostengono la maggioranza sia così bassa, in realtà tutto dipende dalla diversa strategia comunicativa dei partiti: c’è chi preferisce investire sul leader e chi sulle pagine delle forze politiche, veicolando i messaggi non solo dei ministri e dei segretari di partito ma anche dei parlamentari di seconda e terza fila.

Nell’ultimo anno il Pd ha speso più di tutti (153.618 euro), al secondo posto si posiziona Fratelli d’Italia che, sommando la pagina del partito e quelle dei gruppi di Camera e Senato, ha speso circa 55 mila euro in un anno e poi il Movimento 5 Stelle con 49.999 euro. La Lega invece ha investito solo 800 euro per sponsorizzare i propri post, lasciando tutto lo spazio alla pagina di Matteo Salvini. Dei 173 mila euro spesi da Matteo Renzi negli ultimi 15 mesi, infatti, solo 1.700 riguardano la sua pagina personale e il resto viene spartito da Italia Viva (67.622 euro) e i Comitati “Ritorno al Futuro” (circa 100 mila euro).

Un ruolo fondamentale, durante l’emergenza coronavirus, lo hanno giocato anche i Presidenti delle Regioni che hanno assunto un ruolo sempre maggiore sui tavoli nazionali perché a loro spetta la competenza sanitaria e il potere di contrattazione con il governo. Dai dati emerge che a investire di più sui social sono stati i governatori che a settembre dovranno cercare una rielezione tutt’altro che scontata, approfittando dell’emergenza per diventare leader nazionali. Il recordman è il governatore della Campania Vincenzo De Luca che da marzo a maggio ha speso quasi due mila euro a settimana: più di 36 mila euro dei 53 mila totali da marzo 2019 (superando qualsiasi altro politico italiano), mentre al secondo posto si posiziona il Presidente della Regione Liguria Giovanni Toti (936 euro) e al terzo il pugliese Michele Emiliano (100 euro). A quota zero invece Luca Zaia (Veneto) che ha già la vittoria in tasca.

“Strada giusta, ma il premier metta mano alla burocrazia”

“Si va nella giusta direzione, Giuseppe Conte mi sembra disponibile a fare le cose e il mio consiglio è che scommetta sui consumi”. Manager generalmente riservato, Flavio Cattaneo, attualmente vicepresidente di Italo-Ntv, accetta di parlare della ricostruzione economica e delle misure del governo.

Che giudizio dà dei provvedimenti presi dal governo finora?

Lo spirito è stato positivo, del resto quando si prendono provvedimenti così importanti lo si fa sperando che funzionino. La volontà è stata dare liquidità al sistema anche se all’inizio qualche problema c’è stato, soprattutto per motivi tecnici. Direi che la burocrazia, in termini generali, non ha dato una grossa mano. Per quanto riguarda i provvedimenti di sostegno ci sono state critiche per presunti provvedimenti a pioggia, ma in fondo è normale, anche l’helicopter money ha quelle caratteristiche.

Cosa si aspetta da Conte dopo il discorso di ieri?

Che colga l’occasione per intervenire nei processi decisionali pubblici che a volte ritardano le cose. Non è una variabile indipendente rispetto alla creazione di valore economico. L’amministrazione pubblica deve agevolare l’iniziativa riducendo la burocrazia, permettendo ai cittadini di vivere meglio. Poi c’è il tema della giustizia civile: abbiamo processi lunghissimi, un altro elemento che fa soffrire l’economia e penalizza gli investimenti esteri. Mi sembra l’abbia ben chiaro, vedremo i risultati.

Cosa si aspetta per l’economia?

Mi aspetto delle misure che facciano ripartire i consumi. È giusto investire sulle infrastrutture, ma occorre sapere che hanno tempi lunghi, i ritorni economici si possono avere solo nel giro di tre-quattro anni. Invece servono risposte immediate e quindi incentivi alla spesa per far ripartire l’economia, anche se riconosco che potrebbe essere una sorta di droga. Ma se dovessi investire un euro, tra l’altro su un ambito in cui non ho interessi specifici, lo metterei lì: più anticipa e più recupera.

Che intende per incentivazioni alla spesa?

Innanzitutto le rottamazioni. Si tratta di misure che alimenterebbero anche le imposte indirette attraverso l’Iva. Mi sembra la prima cosa da fare: incentivi per beni strumentali come automobili, mobili, elettrodomestici, tutti i beni di consumo per far ripartire il meccanismo della spesa. Sarebbe ossigeno per il Pil, ma anche per i posti di lavoro.

Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha attaccato duramente il governo parlando di provvedimenti sbagliati. Condivide?

Servivano dei provvedimenti urgenti e questi sono stati presi. Poi c’è sempre lo spazio per chiedere di migliorare. Confindustria si è battuta per la cancellazione dell’Irap, ma anche quella rischia di essere un intervento a pioggia che rischia di favorire chi come Amazon, la farmaceutica, la Grande distribuzione, non solo non ha perso dalla crisi, ma ha anche guadagnato. Meglio dirottare i fondi a chi ne ha bisogno.

Come valuta l’idea degli Stati generali?

Conte fa bene ad ascoltare tutti e poi a farsi una propria idea fuori dalle mediazioni di funzionari o ministri. Anche le associazioni di categoria, come Confindustria, possono portare lì le loro idee. Anche perché un’associazione sindacale deve difendere la propria categoria, evitando di fare politica.

I trasporti sono stati fortemente penalizzati, non avete avuto bisogno di fondi garantiti dallo Stato?

L’alta velocità, praticamente a ogni fermata, conduce fuori regione e quindi più bloccati di così si muore. Oggi si viaggia con un posto occupato alternato a uno vuoto e la situazione durerà fino a quando il governo darà questa indicazione. Comunque non abbiamo chiesto finanziamenti. Ci siamo limitati a non distribuire i dividendi utilizzando la “cassa”.

Cosa pensa dei prestiti garantiti ad aziende che hanno spostato la sede legale all’estero?

Non mi scandalizzo per le misure, tutti gli Stati hanno favorito l’immissione di soldi nel sistema. La Fed negli Stati Uniti è intervenuta addirittura garantendo i bond dei privati. La crisi non è di tipo strutturale-industriale, ma è legata a una paura. Se si rispetta la legge non vedo il problema, l’importante è che i fondi siano concessi a tutti, non a qualche soggetto specifico e che siano meritati.

“Concordia nazionale”: sempre più fitto il dialogo tra Zinga e B.

Nicola Zingaretti chiama alla “concordia nazionale”, Berlusconi rilancia un paio di giorni dopo parlando di “dialogo costruttivo”. Che cosa sta succedendo tra Pd e Forza Italia?

Il segretario del Pd e il leader di FI si sentono. Per ora, però, non ci sono “lavori in corso” consolidati. Nel senso che non c’è (almeno non ancora) all’orizzonte un cambio di governo. Ma c’è il tentativo di gestire la Fase 3 anche con l’opposizione, soprattutto con la parte più dialogante del centrodestra. Magari anche per neutralizzare Matteo Renzi e – nel caso che la situazione politica precipiti – per poter contare sull’appoggio di qualche “cane sciolto” di FI.

Alle origini del dialogo c’è il solito Gianni Letta. Ma poi i contatti con gli azzurri, raccontano i parlamentari del Pd, sono in corso costanti. A partire da personaggi come i senatori Andrea Cangini e Giancarlo Serafini. O l’ex FI, Paolo Romani. Non a caso ieri Goffredo Bettini (uno di quelli che dà la linea ai Dem) ha lanciato una sorta di avvertimento al premier: “Conte ha svolto un ruolo positivo ma oggi non basta più. Ora ci vuole una strategia di ripresa, abbiamo avuto un sostegno dall’Europa grazie a questo governo e alla linea del Pd”.

Chiariscono dal Nazareno che non c’è nessun riferimento a una sostituzione del premier. Ma solo l’invito a un maggior coinvolgimento di tutte le forze politiche. Per un clima diverso, peraltro più volte chiesto da Sergio Mattarella. Per questo il Pd accoglie con soddisfazione le parole del capo del governo che in conferenza stampa annuncia proprio di voler collaborare con le opposizioni. Chiarisce il vice segretario, Andrea Orlando: “Il cambio di atteggiamento dell’Europa nei confronti dell’Italia è il frutto anche di una svolta nell’impostazione del governo. La capacità di portare a casa risorse è il frutto del saldo europeismo che caratterizza il nostro governo”.

Sullo sfondo, si staglia un’altra questione: la legge elettorale. Un cantiere aperto, mentre si aspetta il referendum sul taglio dei parlamentari.

Non a caso il Pd della Camera pensa a un proporzionale. Un modo anche per favorire un distacco tra Berlusconi e il resto del centrodestra: se le forze politiche si possono presentare alle urne divise e solo dopo scegliere eventualmente se allearsi, sostenere posizioni diverse è più facile. Non solo: il Pd continua a perseguire alleanze organiche con i Cinque Stelle sempre e comunque. A partire dalle prossime Regionali. Anche in questo caso, una legge proporzionale su base nazionale aiuterebbe.

Economia. Gli serve un modello: sulle menti brillanti deve fare sul serio

“La bellezza dell’Italia non è andata in quarantena”, ha detto il presidente del Consiglio. Non è andato in quarantena neppure il governo e gli attacchi concentrici che gli vengono da ogni parte, tranne che dal consenso popolare, non ne hanno scoraggiato la progettualità. In questi due anni è apparso chiaro che Conte, quando gli capita a tiro un’occasione, sa trasformarla in opportunità per se stesso. In questo discorso, il primo pronunziato con enfasi, accortezza e linguaggio da statista, ha promesso di trasformare l’occasione della pandemia in un’opportunità non solo per se stesso ma per tutto il Paese.

Per far capire che fa sul serio, ha fornito le parole chiave del suo recovery plan: digitalizzazione, energia green, scuola, risanamento della burocrazia e della giustizia, piccole e medie imprese, infrastrutture, equità fiscale, ruolo propulsivo dello Stato.

Si tratta di tasselli che, per diventare mosaico, hanno bisogno di un preciso modello di società su cui convergere. Il problema, a questo punto, è che, se si eccettua Papa Francesco, nessun capo di Stato occidentale possiede questo modello. Prima dell’attuale società postindustriale tutte quelle precedenti – dal Sacro Romano Impero agli Stati Islamici, da quelli liberali e a quelli comunisti – sono nati in base a un precedente modello teorico: i Vangeli, il Corano, gli Illuministi, Smith, Montesquieu, Marx.

Invece la nostra attuale società postindustriale è un confuso collage di idee e di personaggi. E, senza un modello, è impossibile distinguere il vero dal falso, la destra dalla sinistra, il bene dal male.

A questo sembra aver pensato il premier Conte comunicando l’intenzione di servirsi di un brain trust. Se riuscisse a mettere intorno a un tavolo le trenta migliori “menti brillanti” non solo italiani ma di tutto il mondo chiedendo loro di elaborare quel modello, passerebbe alla storia come vi sono passati Franklin per l’America, Diderot e D’Alambert per gli Stati illuministi d’Europa. Visto che un modello uno se lo deve dare, tanto vale darselo di tutto rispetto.

Ambiente. Ok la visione “verde” ma è sulla coerenza che si gioca tutto

Nel presentare la Fase 3 Covid il presidente Conte ha definito il progetto di rinascita dell’Italia in chiave più verde, inclusiva, digitale, equa e ha parlato di una vigorosa transizione verso un’economia sostenibile e le energie rinnovabili. Ma un quadro più ampio della consapevolezza ambientale il presidente del Consiglio l’ha fornito nel suo intervento del mattino del 3 giugno, per la presentazione del Soer, il rapporto sullo stato dell’ambiente in Europa e in Italia. In dodici minuti Conte enuncia tra i fondamenti di questo governo l’attenzione all’ambiente, allo sviluppo sostenibile e alla transizione energetica e la definisce come una responsabilità storica epocale, dai grandi costi ma pure dai grandi benefici. L’ambiente deve essere integrato in qualsiasi politica a qualsiasi livello, perché il legame dell’ambiente con il nostro vivere è strutturale.

Conte ha criticato l’attuale modello di sviluppo che ha portato al degrado ambientale e sociale, invocando nuova linfa in quei valori che sono pure quelli dell’Unione europea, destinata ad assumere una leadership mondiale proprio su sostenibilità, salvaguardia del capitale naturale, economia circolare e a basse emissioni. Ringraziando Ispra – l’Istituto per la protezione e la ricerca ambientale insieme al Sistema nazionale di protezione ambiente, ha ricordato come tutte le iniziative di crescita economica e tutte le valutazioni sulle infrastrutture debbano essere integrate in una visione ambientale, al punto che il Cipe – Comitato interministeriale per la programmazione economica – è diventato Cipes, dove la esse sta per sostenibile. Parole lungimiranti. Ma la sostenibilità è molto fisica, si misura in tonnellate di CO2 e rifiuti, chilowattora di energia rinnovabile, metri quadri di suolo risparmiato dal cemento. Coerenza è dunque la virtù più importante per trasformare in realtà la rinascita verde del Paese: il presidente ripensi in particolare le grandi opere trasportistiche, come Tav Torino-Lione e il resuscitato Ponte sullo Stretto che sono le più impattanti e non vanno d’accordo con l’elenco di buone intenzioni ambientali.

Il piano di “rinascita” di Conte. C’è il no a Mes e Autostrade

Nella conferenza stampa, che è un discorso alla nazione, promette il massimo: “Un piano di rinascita per superare i problemi strutturali” del Paese, investimenti e riforme, gli Stati generali dell’economia, insomma “un nuovo inizio”. La stessa espressione, la stessa rotta indicata due giorni fa dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: il bastione su cui l’avvocato che fa il premier conta per stare più caldo nell’autunno difficile che verrà, tra ricaschi sull’economia del coronavirus, una possibile risalita dei contagi e agguati dei partiti. Ma nel giorno in cui riaprono i confini delle Regioni, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, guarda anche in direzione dei Cinque Stelle. Si mostra molto scettico sul Mes, il fondo salva-Stati che tanti grillini non potrebbero mai votare. Così ricorda che sarebbe “un prestito, non un regalo”, ribadisce che prima di decidere dovrà “studiare il regolamento” e che comunque si affiderà al voto del Parlamento. E sembra richiamare la via d’uscita proposta sul Fatto lo scorso 16 maggio dal capo politico reggente del M5S, Vito Crimi: “Sul Mes non può esserci vincolo di maggioranza, decidono i Parlamenti”.

Ma c’è altro di grillino nel Conte di ieri. La faccia feroce mostrata ad Autostrade, per esempio: “C’è una procedura di revoca della concessione con conclamati e molteplici inadempimenti da parte del concessionario, ci sono tutti gli estremi per la revoca”. Ora si tratta, ma “sinora le proposte di transazione su Autostrade non sono state considerate compatibili con l’interesse nazionale”. Ergo, il concessionario deve ridurre ancora le tariffe come chiede il governo. Ma Conte occhieggia al Movimento anche quando parla di “fiscalità di vantaggio per il Sud”, il granaio di consensi a 5Stelle.

O quando dice che si andrà avanti sullo Sblocca-cantieri, progetto su cui lavora da tempo il grillino Giancarlo Cancelleri, viceministro ai Trasporti. Ma aggiunge una rassicurazione, il premier: “Rafforzerò i protocolli antimafia”. Un segnale a quella porzione di Movimento che ha il mal di pancia sul provvedimento. “Ma si può fare, magari potenziando i controlli ispettivi nei cantieri” spiegano fonti qualificate del M5S. Ed è la conferma che Conte cerca, ha bisogno dell’asse con i 5Stelle. Però in maggioranza c’è pure il Pd, quello di Dario Franceschini, il capodelegazione che qualche giorno fa sul Corriere della Sera ha riaperto al ponte di Messina, facendo sponda a Matteo Renzi. Conte non può sconfessarlo in diretta tv, e allora prima, a occhio, dice la verità. “Io non voglio declamare opere immaginifiche”. Poi smussa: “Mi siederò a un tavolo e senza pregiudizi valuterò anche il ponte sullo Stretto”. D’altronde ambienti di governo sussurrano: “Conte ha insistito molto sull’esigenza di sviluppare l’Alta velocità anche al Sud, quindi una risposta del genere in un quadro generale ci può stare”. Tradotto, il premier non è contrario a prescindere. E comunque ha moltissime altre priorità cui pensare e quindi da dire. Nella conferenza inizia rivendicando la bontà delle misure del governo contro il virus (“il sistema di controllo ha funzionato, i numeri sono incoraggianti”), ma esorta alla cautela: “Abbandonare le precauzioni sarebbe una leggerezza”. Però il perno del suo discorso è un altro, l’avvenire dell’Italia da qui a dieci anni. Per questo torna sul recovery plan già illustrato in una lettera al Fatto giorni fa. Un progetto fatto di investimenti pubblici e privati, di infrastrutture soprattutto al Sud, di digitalizzazione (“serva la banda larga ovunque”), di riforme per abbassare le tasse e snellire la burocrazia: “Vogliamo riformulare l’abuso d’ufficio e la responsabilità erariale, reati che condizionano l’operato nella Pubblica amministrazione”. Pensa a uno Stato che intervenga “per capitalizzare le imprese”.

Però precisa: “Ho visto che qualcuno ha parlato di sovietizzazione, ma noi non siamo un governo collettivista, abbiamo il culto della libertà d’impresa”. Per questo, insiste sugli Stati generali dell’economia che convocherà per la prossima settimana, forse per lunedì, a Roma, a Villa Pamphilj. Un tavolo con “tutte le parti sociali e le menti più brillanti” sulle misure con cui ripartire. Aperto “anche alle opposizioni, certo” precisa poi. Ma lo dice rispondendo a una domanda. Nel suo intervento non cita il centrodestra, con cui è gelo. Come è bandiera nera per il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, che lo aveva morso così: “La politica rischia di fare più danni del coronavirus”. Conte gli risponde dritto: “È stata un’uscita infelice, che rimando al mittente”. Dice di attenderlo al tavolo, con le sue proposte, “ma non si può discutere solo di abbassare le tasse”. Parole per un avversario, dal premier che corre. “Dobbiamo avere fretta”, ripete. Perché chi si ferma di solito è perduto.

I Migliorissimi

Non bastando quella dell’Innominabile, un’altra catastrofe letteraria sta per abbattersi sulle librerie italiane (e di riflesso sulla foresta amazzonica): quella di Beppe Sala, lubrificata a edicole unificate dai giornaloni. Il Corriere l’ha affidata alla lingua vellutata di Aldo Cazzullo, Repubblica l’ha fatta turibolare da tal Enrico Letta (giovane pubblicista di belle speranze soltanto omonimo dell’ex presidente del Consiglio), La Stampa ne ha pubblicato il brano più pregnante dal titolo “Non dobbiamo più temere di governare” (sottinteso: sono i cittadini a dover temere di essere governati da noi). Ne emerge un Sala di estrema sinistra, che votava già Pci e mai tradì “gli antenati del Pd” (infatti fu scelto in Pirelli come manager dal ramo trotzkista della famiglia, dove alla grisaglia del cumenda preferiva l’eskimo, e poi come city manager e commissario di Expo da Letizia Moratti, celebre reincarnazione di Anna Kuliscioff), insomma il filosofo anzi il teologo di “una sinistra spirituale” (parole sue) che ora “parla a chi continua a cercare in politica la formula magica per unire il sogno con la realtà”, a mezzadria fra Moro, Dossetti e Prodi (parola di Letta jr.).

Nessun accenno, ci mancherebbe, ai buchi e alle retate di Expo2015. Né a quella quisquilia della condanna a 6 mesi per falso in atto pubblico. Né alle vaccate dette e fatte sul Coronavirus, quando invitava i milanesi ad ammassarsi negli apericena, contribuendo alla diffusione del virus, come se non bastassero quegli altri geni di Fontana&Gallera. Altrimenti non potrebbe distribuire patenti di competenza al governo. Che sì, per carità, fa quel che può, ma ora ci vuole un bel rimpasto per “mettere in campo i migliori”, “persone che abbiano una storia alle spalle, che abbiano gestito organizzazioni complesse”. Tipo lui. Chi ha letto qualche libro sa che il governo dei migliori si chiama da parecchi millenni aristocrazia ed è lievemente incompatibile con la democrazia. Ma noi, gente semplice, quando sentiamo “governo dei migliori”, ci domandiamo subito chi sarebbero costoro e chi dovrebbe deciderli. Nel 2011, quando B. ci fece la grazia di defungere politicamente, speravamo di votare. Ma un anziano monarca seduto al Quirinale decise che non fosse il caso di farci scegliere chi dovesse governarci: temeva che scegliessimo i peggiori. E ci pensò lui: dal suo cilindro uscirono Monti, Fornero, Passera e altri migliori che in un anno e mezzo riuscirono a far rimpiangere i peggiori. Tant’è che nel 2013 il M5S passò da 0 al 25,5%, pareggiando col Pd: Re Giorgio dovette farsi rieleggere per ricacciarli indietro e piazzare Letta jr., B., Alfano e altri migliorissimi.

Poi vennero l’Innominabile&famiglia con Verdini incorporato. Che si convinsero di essere talmente migliori da non accorgersi che gli elettori li schifavano come peggiori, almeno finché non lo scoprirono dalle urne del 2018. Lì vinsero i peggiorissimi, che espressero un premier degno di loro: quello che ci ha portati fuori dalla pandemia e gode di vasti consensi (diversamente dal migliore Macron, praticamente estinto), ma è ovviamente inviso ai migliori. Che passano i giorni ad architettare governi dei migliori. Non c’è solo Sala: c’è pure Calenda, cioè la prova vivente del fatto che “democrazia significa governo degli incolti, mentre aristocrazia significa governo dei maleducati” (G. K. Chesterton). L’altra sera quell’anima in pena di Carletto, che vanta più ospitate in tv che voti, parlando del governo scuoteva la capa e il doppio mento con l’aria di chi la sa lunga: eh no, signora mia, così non va, “ci vuole un governo dei migliori”. Via Conte, “troppo trasformista”: meglio uno lineare come Calenda, che stava in Confindustria, in Ferrari, in Italia Futura con Montezemolo, nella Lista Monti, nei governi Renzi e Gentiloni, nel Pd da renziano e poi da antirenziano e ora è in Azione (di cui è fondatore e unico esponente).

E i ministri migliori? Risatina di sufficienza, come a dire: ci ho la fila sotto casa, basta chiedere. Anzitutto Giorgetti, quello che due anni fa aveva già capito tutto della sanità pubblica (“Ma chi ci va più dal medico di base?”). Poi Zaia (che però fa il presidente del Veneto, sta per essere rieletto e non parrebbe proprio interessato). Ma anche Bonaccini (appena rieletto presidente dell’Emilia-Romagna e dunque anche lui ansioso di entrare nel governo Calenda che, ove mai nascesse, crollerebbe in giornata). E altri due nomi che ti vengono in mente appena pensi ai migliori: il meloniano Crosetto, passato da sottosegretario alla Difesa alla presidenza Aiad (aziende del ramo difesa); e la forzista Gelmini che, non paga di aver tentato di abbattere la scuola pubblica riuscendoci solo in parte, sta ancora cercando i neutrini nel tunnel Gran Sasso-Cern. Chi dovrebbe sostenere in Parlamento questo governo dei migliori, né Sala né Calenda lo spiegano, anche perché in Parlamento non siede né l’uno né l’altro. Però ne parlano, col mignolino alzato all’ora del tè. E tutti gli vanno dietro, più per noia che per convinzione. Poi, quando si arriverà al dunque e si vedranno le carte, si scoprirà che i migliori sono dei peggiori che non ne hanno mai azzeccata una e nessuno si filerebbe se non si spacciassero per migliori. Con una sola eccezione, come diceva Montanelli: “L’unica istituzione italiana dove la competenza è premiata e il merito riconosciuto è il bordello”.