Iggy e David, il vero rock è sotto il cielo di Berlino

Nonostante i settantatré anni compiuti ad aprile, James Newell Osterberg Jr., universalmente noto come Iggy Pop, resta una delle icone del rock’n’roll più crudo e selvaggio, uno dei personaggi centrali della storia del rock, che ha esercitato su moltissimi artisti un’enorme influenza. Ha incarnato il lato fisico, energico e vitale del rock’n’roll, anche se alcuni suoi album, compreso l’ultimo Free, si discostano da quel suono violento e incendiario a cui il musicista americano ha dedicato buona parte della carriera. Una carriera che possiamo fare risalire al primo omonimo album degli Stooges e che ha di poco superato la soglia dei cinquant’anni: anni vissuti “pericolosamente”, all’insegna di una vita fatta di eccessi. Dischi come il già citato The Stooges, Fun House e Raw Power sono pietre miliari, che hanno anticipato il punk e rappresentato la massima espressione della furia ribelle e iconoclasta della band: quattro degenerati la cui musica primordiale e brutale trasforma in suono il rumore delle fabbriche di Detroit, gettando un’ombra sinistra sulle illusioni degli anni 70.

Chiusa l’esperienza con gli Stooges, nel 1977 Iggy Pop si trasferisce a Berlino Ovest con David Bowie, per lavorare all’album da solista, The Idiot (1977), un disco che allontana Iggy dalle sonorità proto-punk degli Stooges a favore di un suono più oscuro ed elettronico: brani in gran parte autobiografici, che rispecchiano l’atmosfera decadente della Berlino dell’epoca. L’album ha un ottimo successo e contiene classici come China Girl, Nightclubbing, Funtime e Sister Midnight. Iggy si presenta al pubblico in una veste nuova, abbandonando gli eccessi e l’autolesionismo. Con Lust for Life (1977) l’elettronica, che appesantiva l’esordio, è messa al servizio di un r’n’r grezzo, energico e ruspante, come dimostrano brani quali l’incalzante title track e The Passenger, scritta ispirandosi a una poesia di Jim Morrison.

Il cofanetto in sette cd, The Bowie Years (Universal), ripercorre con dovizia di particolari proprio l’era berlinese di Iggy, con versioni rimasterizzate di The Idiot, di Lust for Life e del live TV Eye, contenente registrazioni del tour del 1977, con Bowie alle tastiere. Il cofanetto include anche tre album dal vivo del marzo 1977, pubblicati ufficialmente per la prima volta.

La riedizione è arricchita da un prezioso libro di 40 pagine, con testimonianze dirette dei musicisti e dei fan.

Jean-Paul, l’inviato più che mediocre: dall’America deluse il caporedattore Camus

Jean-Paul, un uomo alle cui conferenze “molte donne svengono”. L’esistenzialismo fa di questi effetti: a spifferarlo è Simone de Beauvoir, nota soprattutto per prendere appunti sui difetti dell’amante, a letto e anche alla scrivania. Del Sartre giornalista racconta, infatti, che è piuttosto scarso, e il suo caporedattore, Albert Camus, non è affatto contento dei reportage inviatigli dagli States: “Camus, che aveva letto il giorno prima sul Figaro una descrizione disinvolta e allegra delle città americane si vede arrivare, desolato, uno studio minuzioso sull’economia della Tennessee Valley”.

Questo e altri saporiti aneddoti compaiono in Letteratura e giornalismo di Clotilde Bertoni (Carocci, 2009) come esempi infelici di scrittori prestati alla cronaca: “Un caso tipico di conversione provvisoria e perplessa è quello di Jean-Paul Sartre, che, al principio del 1945, si reca negli Stati Uniti come inviato e, catapultato all’improvviso nel ruolo di corrispondente, è impacciato… Tenuto a inviare articoli non solo a Combat, il foglio impegnato, ma anche al Figaro, il foglio borghese, crede di privilegiare il primo riservandogli vaste messe a punto decisamente ostiche per il lettore medio, mentre concede al secondo note in punta di penna che risultano molto più accattivanti”.

Poco prima delle articolesse americane – “incerte, titubanti, contraddittorie, quasi scartate” – dal 1944 l’intellettuale si dedica al giornalismo “locale”, scrivendo sempre su Combat e su Lettres françaises corrispondenze di guerra, Resistenza e Liberazione: di queste, otto testi, tutti inediti in Italia, sono pubblicati ora dal Melangolo nella raccolta Parigi occupata a cura di Diana Napoli (e di cui si può leggere un assaggio, La Repubblica del silenzio, nella pagina qui accanto, ndr).

Gli scritti segnano il passaggio di Sartre “dalla Nausea all’impegno”, anche come testimone-giornalista, non solo come letterato engagé e filosofo dell’esistenzialismo. Al netto della caratura intellettuale, tuttavia, di Jean-Paul non si può non ricordare, con cinica malizia, la “condizione umana”, troppo umana, di persona vanitosa, lasciva e viziosa: ad esempio, l’articolo su Parigi occupata, che dà il titolo alla nuova raccolta, “lo scrisse in una notte non senza ricorrere a qualche anfetamina”. Parola dell’amico (scomodo) Raymond Aron, mentre altrove – Rituali quotidiani di Mason Currey (Vallardi, 2016) – si legge con gusto la dieta quotidiana dell’eroico Sartre: “Nell’arco di ventiquattro ore, due pacchetti di sigarette e diverse pipe di tabacco nero, più di un litro d’alcol – vino, birra, vodka, whisky, eccetera –, duecento milligrammi di anfetamine, quindici grammi di aspirina, diversi grammi di barbiturici, caffè, tè e pasti copiosi”. L’esistenzialismo fa di questi effetti.

Resistenza

Pubblichiamo “La Repubblica del silenzio” di Jean-Paul Sartre, uscito il 9 settembre 1944 sul primo numero non clandestino della rivista “Lettres françaises”: l’articolo fa parte della raccolta finora inedita in Italia “Parigi occupata”, da poco in libreria con i tipi del Melangolo.

Non siamo mai stati così liberi come sotto l’occupazione tedesca. Avevamo perduto ogni diritto e prima di tutto quello di parlare; ci insultavano apertamente, ogni giorno, e dovevamo tacere; ci deportavano in massa, come lavoratori, come ebrei, come prigionieri politici; ovunque – sui muri, sui giornali, sugli schermi – ritrovavamo l’immagine immonda e insulsa che i nostri oppressori volevano darci di noi stessi: ma proprio per questo eravamo liberi.

Il veleno nazista si insinuava nel profondo dei nostri pensieri e quindi ogni pensiero giusto era una conquista; una polizia onnipotente cercava di costringerci al silenzio e quindi ogni parola diventava preziosa come una dichiarazione di principio; eravamo braccati e quindi in ogni nostro gesto gravava il peso dell’impegno. Le circostanze spesso atroci della nostra lotta ci rendevano finalmente in grado di vivere, senza trucchi e senza veli, questa situazione straziante, insostenibile che chiamiamo la condizione umana.

L’esilio, la prigionia, ma soprattutto la morte, che in epoche più fortunate riusciamo abilmente a dissimulare, erano diventati gli oggetti perpetui delle nostre preoccupazioni perché avevamo imparato che non si trattava di accidenti evitabili o di minacce costanti ma esterne: ci giocavamo la nostra partita, erano il nostro destino, la fonte profonda della nostra realtà di esseri umani. Ogni istante vivevamo in tutta la sua pienezza il senso di questa semplice frase banale: “Tutti gli uomini sono mortali”. La scelta che ciascuno faceva per sé era autentica perché era compiuta di fronte alla morte e avrebbe potuto sempre esprimersi nella forma: “Piuttosto la morte che…”. E non sto parlando dell’élite costituita dai veri Resistenti, ma di tutti i francesi che a qualunque ora del giorno e della notte, per quattro anni, hanno detto no.

Proprio la crudeltà del nemico ci spingeva all’estremo della nostra condizione di uomini, costringendoci a porci quelle domande che generalmente eludiamo in tempo di pace: tutti quelli che erano a conoscenza di qualche dettaglio sulla Resistenza – e a quale francese non è capitato almeno una volta – si domandavano con angoscia: “Se sarò torturato, resisterò?”.

La questione della libertà sta in questi termini, è il momento in cui siamo portati ai limiti della conoscenza più profonda che possiamo avere di noi stessi. Il segreto di un uomo, infatti, non è il suo complesso di Edipo o di inferiorità, ma il confine stesso della sua libertà, il suo potere di resistenza ai supplizi e alla morte.

Per tutti coloro che si sono trovati coinvolti in attività clandestine, le modalità della lotta sono state l’occasione per un’esperienza nuova, perché non combattevano alla luce del sole, come fanno i soldati di un esercito; braccati nella solitudine, arrestati nella solitudine, si trovavano a resistere alle torture nell’abbandono e nella più completa privazione. Erano soli e nudi davanti ai loro boia ben rasati, ben vestiti e ben nutriti che si prendevano gioco della loro miserabile carne e a cui una coscienza soddisfatta e un potere sociale smisurato offrivano tutte le apparenze della ragione. E tuttavia questi uomini, nella solitudine più profonda, difendevano gli altri, tutti gli altri, tutti i compagni di resistenza. Una sola parola era sufficiente per provocare dieci, cento arresti. E questa responsabilità totale nella solitudine totale che cos’è se non il disvelamento della nostra libertà?

L’abbandono, la solitudine, il rischio elevato, erano gli stessi per tutti, non solo per i capi, ma per qualunque uomo. La pena era la stessa per chi portava messaggi di cui ignorava il contenuto, come per chi prendeva le decisioni: la prigione, la deportazione, la morte. Non c’è nessun esercito al mondo in cui ci sia una tale uguaglianza di rischi per il soldato e per il grande generale. Ed ecco perché la Resistenza è stata una vera democrazia: per il soldato come per il capo, stesso pericolo, stessa responsabilità, stessa assoluta libertà nella disciplina. Così, nell’ombra e nel sangue, si è costituita la più forte delle Repubbliche. Ogni cittadino sapeva che dava se stesso per tutti e tuttavia poteva contare solo su se stesso. Ciascuno realizzava nell’abbandono più totale il proprio ruolo storico. Ciascuno, contro gli oppressori, si impegnava a essere se stesso, irrimediabilmente, e scegliendosi nella libertà, sceglieva la libertà per tutti.

Ogni francese doveva conquistare e difendere contro i nazisti, istante per istante, questa repubblica senza istituzioni, senza esercito, senza polizia. Eccoci ora alle soglie di un’altra repubblica: possiamo solo augurarci che sappia conservare le austere virtù della Repubblica del Silenzio e della Notte.

Chung, il Bolsonaro boliviano tutto Dio, Patria e omofobia

Lo hanno chiamato “il Bolsonaro boliviano” perché è di estrema destra e per il bigottismo. E anche perché da sconosciuto alla politica è diventato una star, scalando consensi fino a guadagnare il terzo posto nelle presidenziali dello scorso ottobre: quelle che avrebbe vinto Morales, non fosse che un istituto incaricato dalla Oea ha deciso di annullarle, ufficialmente per irregolarità. A parte quelle due caratteristiche il candidato Chi Hyun Chung, 50 anni, medico e pastore presbiteriano e padre di quattro figli, è piuttosto diverso dal presidente del Brasile. Intanto è sobrio, gentile. Ha toni civili, perfino quando dichiara che l’omosessualità è una malattia psichiatrica lo fa senza esaltarsi. E quando espone il suo programma è così amabile da far dimenticare a molti il contenuto troglodita: che le donne devono essere educate a stare al proprio posto e che il nemico del Paese è l’idolatria. “Se verrò eletto sarà Dio a governare la Bolivia”, promette Chung. A quel programma ha aggiunto di recente le polemiche sull’emergenza covid-19 da parte del governo, guidato da novembre dall’antievista Jeanine Áñez, ufficialmente presidente ad interim e candidata per le prossime presidenziali con la coalizione di centro-destra Juntos.

Non solo chi considera la quarantena decretata a metà marzo e allentata il primo giugno una catastrofe per l’economia, ma ha dichiarato che a scatenare il virus sarebbe la depressione per lo stare in casa. Fautore dell’immunità di gregge, per quella posizione ha perso elettori e qualcuno lo accusa addirittura di essere filo Mas, il partito di Evo, il cui candidato Luis Arce e favorito alle Presidenziali è molto critico sulla quarantena (nel frattempo i contagiati sono arrivati diecimila mentre i morti sono 313). Dunque. Le elezioni avrebbero dovuto tenersi il 3 maggio ma l’emergenza le ha spostate al 6 settembre. Ringalluzzito dai risultati di ottobre, Chi si è candidato per le prossime. Benché il partito con cui si presenta sia il Frente para la Victoria, che ha racimolato a ottobre (quando però Chung correva per il Partido Demócrata Cristiano) lo 0,39 per cento, il candidato è fiducioso. È un uomo furbo ed è riuscito a superare senza danni gli scandali che avevano convinto il segretario del Frente ad annunciarne la sostituzione, i primi di marzo. Chung era accusato di aver venduto candidature a deputati e senatori e di aver copiato il programma elettorale oltre che di razzismo e omofobia ma pochi giorni dopo quel ripudio il suo partito gli ha rinnovato la fiducia. Se politicamente è un neofita, in altri campi è abbastanza noto, ammanicato con l’alta società di Santa Cruz dove risiede e rispettato da una parte dei settori meno abbienti. Presidente dell’Universidad Cristiana Bolivian, ha offerto a quanto dice cure mediche a duecentomila persone senza mezzi. È poi pastore e fondatore di ben settanta chiese, che nei programmi diventeranno mille a breve. La sua visione è liberista, lo Stato quasi assente, tutto il contrario della politica di Evo che Chung accusa di aver trasformato il Paese in una dittatura comunista. “Vogliamo un governo facilitatore e un popolo intraprendente”, dice tra le altre cose. Un’altra differenza rispetto a Morales riguarda la religione. L’ex presidente aveva decretato libertà di culto in uno Stato non confessionale, mentre per Chung non è ammissibile lasciare Dio fuori dalla cosa pubblica. E non si tratta di un Dio buono ma punitivo e inflessibile come in gran parte delle chiese evangeliche boliviane, che criticano le aperture dei cattolici ai culti ancestrali della Pachamama, la madre terra. Quella commistione era la cifra religiosa della politica appoggiata dagli indigeni rappresentati da Evo, mentre per Chung la Pachamama è un’eresia.

Gli evangelici in Bolivia sono la minoranza, ma il loro numero è aumentato negli ultimi anni come nel resto dell’America Latina, e non hanno visto di buon occhio l’ingresso nella politica delle etnie ai margini: quei quechua e aymara che costituiscono il 41 per cento della popolazione e che prima dell’insediamento di Evo nel gennaio del 2006 erano trattati come paria. “Ho votato Morales una volta e mi ha deluso”, ha dichiarato Chi, ma le sue radici sono altre e non c’è nulla di progressista nella sua storia familiare. Il padre era un pastore della Chiesa dell’Unificazione del reverendo Moon che il dittatore García Meza aveva accolto a braccia aperte e ha festeggiato il suo ottantesimo compleanno con la crema di Santa Cruz, nell’ottobre del 2018. E quando Moon si è recato in Bolivia, è stata la famiglia Chung a ospitarlo con molti onori, due anni prima che morisse, nel 2010.

Il governatore Cuomo: “Vietare alla polizia la presa al collo”

Altro giorno di proteste e scontri ieri negli Stati Uniti a una settimana dall’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte di un agente di Minneapolis. Due persone sono state uccise durante nel sobborgo di Cicero, a Chicago. Un veicolo ha travolto un gruppo di agenti in una manifestazione a Buffalo, nello Stato di New York, ferendone almeno due. E a Minneapolis in tre giorni, i media denunciano oltre cento attacchi ai reporter da parte delle forze dell’ordine. La Cnn rivela che, stando ai rapporti del Dipartimento di polizia, sarebbero 58 le persone che hanno perso conoscenza negli ultimi anni per essere stati afferrati per la gola dagli agenti. Il mondo dello sport e dello spettacolo intanto si schiera sui social con l’hashtag #BlackoutTuesday per ricordare George e l’ex campione di boxe Floyd Mayweather si è offerto di pagare il funerale del ragazzo che si svolgerà il 9 giugno a Houston. L’eco dell’America a ferro e fuoco arriva in Europa, con manifestazioni al grido di “Non riesco a respirare” nelle capitali europee, da Londra a Berlino. E anche la politica prende posizione, soprattutto dopo la reazione dura del presidente Usa Donald Trump che dopo il coprifuoco, minaccia di usare l’esercito. Contro Trump si è schierata Mariann Edgar Budde, vescovo nella diocesi di Washington, commentando la visita del presidente alla chiesa di St. John’s con una Bibbia in mano. Intanto l’autopsia commissionata dalla famiglia della vittima e quella ufficiale concordano che la morte di George Floyd è da ritenersi un “omicidio”, per soffocamento, ma differiscono sulle cause e potrebbero creare dubbi tra i giurati del processo e sulla gravità del reato (colposo o volontario). La prima autopsia conclude che l’afroamericano è morto per “asfissia causata da pressione sostenuta” quando il suo collo e la sua schiena furono compressi per nove minuti. La seconda afferma che la causa è “l’arresto cardiopolmonare causato dalla pressione esercitata sul collo” ma aggiunge che potrebbero aver contribuito anche altri fattori, come alcune patologie pregresse e alcune sostanze intossicanti, in particolare fentanil e metanfetamine. Che la violenza ci sia stata è fuor di dubbio, tanto che il governatore Cuomo, propone di vietare la presa al collo da parte della polizia; per il governatore è necessaria un’agenda di riforme che comprende anche il divieto dell’uso eccessivo della forza da parte delle forze dell’ordine. “Sì, occorre manifestare la rabbia! – ha detto Cuomo –, ma poi bisogna dire, ecco la mia agenda, ecco cosa dobbiamo fare”.

La rabbia travolge i sindaci democratici: Trump gongola

L’ultimo sindaco a finire nel tritacarne delle polemiche, messo in mezzo dal presidente Donald Trump, è stata Muriel Bowser, di Washington, ovviamente democratica – nel Distretto di Columbia, spesso l’80% dei voti sono democratici – e ovviamente nera – la comunità nera è fra le più numerose e meglio integrate d’America. La Bowser è “indignata e sconvolta” per il trattamento riservato, l’altra sera, ai suoi concittadini che manifestavano pacificamente davanti alla Casa Bianca: attaccati dalla polizia con lacrimogeni e pallottole di gomma.

“Quelle persone non stavano violando il coprifuoco, né stavano facendo violenze – dice Bowser – e sono state aggredite dalle autorità federali per sgomberare la strada e fare passare il presidente”. Dopo una conferenza stampa alla Casa Bianca, Trump ha percorso a piedi il breve tragitto che porta alla chiesa di St. John: lì s’è fatto fotografare tenendo alta una Bibbia. “È stato inopportuno – nota la Bowser – che persone che non avevano compiuto alcun reato abbiano ricevuto quel trattamento”, per offrire una photo opportunity al presidente ‘Law & Order’.

Dura la vita del sindaco democratico, anche di sinistra, com’è quello di Minneapolis, Jacob Frey, quando da una parte senti la rabbia e la frustrazione dei tuoi cittadini, di fronte a morti assurde, come quella di George Floyd, il nero soffocato senza alcun motivo da un poliziotto, con altri tre agenti che stavano a guardare, e dall’altra devi garantire la sicurezza e l’ordine, specie se le proteste prendono una piega violenta, con incendi, saccheggi, feriti, morti. La situazione diventa insostenibile se a crearti problemi è pure il presidente, che vede governatori e sindaci come generali a quattro stelle, dei Patton o dei McArthur, e twitta: “Il sindaco Frey non sarà mai scambiato per i generali McArthur o Patton… Come mai tutti questi posti che si difendono così male sono governati da democratici liberal? Siate duri e combattete (e arrestate i cattivi). Forza!”. Dopo il suo exploit dell’altra sera a Washington, Trump batte la grancassa e s’incensa: “La capitale non ha avuto problemi l’altra notte. Molti arresti. Gran lavoro da parte di tutti. Forza soverchiante. Dominio. Pure Minneapolis è stata grande (grazie presidente Trump!)”, twitta. Il magnate enfatizza la prova di forza della polizia a Washington e si auto-celebra per l’impiego della Guardia nazionale a Minneapolis. Gli replicano il vescovo episcopale di Washington Dc Mariann Edgar Budde – “Il nostro messaggio è antitetico a quello del presidente”, dice – e il candidato democratico alla Casa Bianca Joe Biden, che denuncia come “manifestanti pacifici siano stati dispersi per ordine di Trump perché potesse farsi fare una foto”.

Spesso neri, i sindaci dell’America che non si libera del suo sottofondo razzista rischiano di entrare in conflitto con la loro gente. Ma capita anche a sindaci bianchi. “Non tollereremo la violenza”, sotto nessuna forma, dice adesso a New York Bill de Blasio, chiedendo ai leader delle comunità di contribuire a mantenere la calma. De Blasio estende il coprifuoco fino a domenica 7 giugno: scatterà alle 20 ogni sera e durerà fino alle 5 del mattino successivo. Su The New Yorker, Benjamin Wallace-Wells collega la vicenda di Stephanie Rawlings-Blake, sindaca nera di Baltimora nel 2015, quando la città fu scossa d proteste per la morte di Freddi Gray, un nero di 25 anni percosso a morte dalla polizia dopo un arresto, a quella del sindaco Frey: c’è sovente un gap – nota – tra i sindaci ‘liberal’ delle grandi città e la polizia ancora ancorata a schemi mentali razzisti e a metodi brutali. Anche se immagini attuali di poliziotti solidali con i manifestanti e di gesti di empatia tra agenti e gente in piazza aprono spiragli di speranza. “Un’intera generazione di sindaci democratici – scrive Wallace-Wells – ha visto la sua reputazione definita dall’incapacità di gestire le conseguenze dell’uccisione di un nero da parte della polizia”. E cita, oltre alla Rawlings-Blake e a de Blasio, anche Rahm Emanuel a Chicago, un ‘braccio destro’ del presidente Obama, e Pete Buttigieg di South Bend, nell’Indiana, che fino a fine febbraio ambiva alla nomination democratica. In molte città il fallimento dei sindaci liberal ha condotto all’elezione di esponenti della magistratura schieratisi dalla parte degli attivisti neri.

Austria: “Pronti a riaprire all’Italia a metà giugno”

Vienna ci ha ripensato. “Qualora l’andamento epidemiologico lo consentirà” l’Austria riaprirà il confine con l’Italia a partire da metà giugno, in concomitanza con la ripresa della libera circolazione con gli altri Paesi limitrofi. Se invece al di qua della frontiera la curva epidemica dovesse tornare a rialzarsi, Vienna valuterebbe almeno la ripresa degli spostamenti con le regioni italiane che possono vantare dati positivi.

In un primo momento l’esecutivo di Sebastian Kurz aveva annunciato per il 15 giugno la riapertura dei confini con Germania, Liechtenstein e Svizzera. La scorsa settimana, poi, aveva prospettato di fare lo stesso anche con altri Stati per consentire agli austriaci il rientro senza i 14 giorni di quarantena. “La situazione in Italia è la più difficile. Cerchiamo comunque a breve una soluzione”, aveva detto il cancelliere. Ieri la nuova apertura, per ora solo metaforica, confermata da Kurz al segretario della Svp Philipp Achammer. La questione sarà valutata oggi dal governo.

La tensione complessiva nell’Ue si allenta. Già oggi la Germania potrebbe revocare i cosiddetti “sconsigli” per gli Stati dell’Unione. “Il nostro obiettivo è sostituire l’allerta sui viaggi per i Paesi Ue e per quelli associati in avvisi sui viaggi” che tengano conto delle singole situazioni, ha annunciato il ministro degli Esteri Heiko Maas. Prima del 15 giugno ci sarà un nuovo colloquio con i Paesi vicini nella top list delle destinazioni dei tedeschi, in modo da creare le condizioni per “fare vacanze in sicurezza”.

Un assist importante per un ritorno alla libera circolazione è arrivato anche dalla Commissione Ue, che ha presentato le linee guida sulla riapertura delle frontiere e nelle sue “intense discussioni con tutti” i Paesi in “un accresciuto sforzo” di coordinamento, “ha insistito sul principio di non discriminazione: se uno Stato apre le sue frontiere ad una regione, deve fare altrettanto con le altre regioni che hanno la stessa situazione epidemiologica”.

Madrid e il governo litigano sui dati e l’ok alla Fase2

Venga ya, “E andiamo!” era pronto a esclamare il premier Pedro Sànchez dopo l’annuncio tanto atteso del ministero della Sanità: zero morti di Covid-19 in Spagna per il secondo giorno consecutivo. Ma anche no.

Alla conta ufficiale, si sono opposte due regioni: le Asturie e la Comunità di Madrid che di decessi ne hanno dichiarato nelle ultime 24 ore rispettivamente 6 e 12, con la regione della Capitale che ne aveva già dichiarati 11 ieri. Una lunga disputa quella dei dati regionali, soprattutto quando si parla della Capitale, dove la governatrice Isabel Díaz Ayuso, pupilla dei Popolari, fin dall’inizio della pandemia ha fatto da contraltare al governo sui numeri, dapprima non inviando le cifre in tempo per il computo quotidiano, con l’obiettivo di poter richiedere il passaggio alla fase successiva dell’alleggerimento del lockdown, per poi comunicarli tutti insieme nei giorni successivi. Secondo il quotidiano El Mundo, casi di discrepanza fra i dati nazionali e quelli regionali si sono manifestati già ben 34 volte nell’ultima settimana, tanto che la consigliera della Sanità della regione di Castiglia e Leon, Veronica Casado, citata dal giornale, ha dichiarato di “non capire” le cifre del ministero. Secondo il Commissario per l’emergenza sanitaria, Fernando Simón, invece, le differenze di conteggio si dovrebbero proprio alle “difficoltà delle diverse comunità autonome” a far pervenire in tempo i dati al ministero di Salvador Illa. Per quanto riguarda invece i nuovi contagi, dopo essere calati sotto le centinaia la settimana scorsa, nelle ultime 24 ore hanno segnato un aumento: 137 casi, quasi la metà dei quali, 73, nella sola Comunità di Madrid. Il che potrebbe portare il governo a non ammettere il passaggio alla fase 2 del territorio della Capitale spagnola, dove il 40% dei bar all’aperto nell’ultima settimana è stato multato per inadempimento delle norme anti-Covid.

Parigi in festa: riaprono caffè e bistrot Macron: “Sono tornati i giorni felici”

Tutti di nuovo seduti en terrasse, vale a dire ai tavolini di bar, bistrot e brasserie. Giornata di festa ieri a Parigi e nel resto della Francia per la riapertura. Dalla riva destra alla riva sinistra della Senna parigini di nascita, d’adozione o semplicemente di passaggio ritrovano il gusto di sorseggiare un caffè, un bicchiere di vino o una birra ai tavolini esterni di bar e bistrot, dopo quasi tre mesi di confinamento dovuto alla guerra al coronavirus. Un rito liberatorio a cui anche qui, nell’unica capitale europea gemellata con Roma nonché simbolo del cosiddetto art de vivre – lo stile di vita francese così vicino a quello italiano – per lungo tempo si è dovuto rinunciare dinanzi all’imperativo di fronteggiare il nemico invisibile.

“La riapertura di caffè, hotel e ristoranti segna il ritorno dei giorni felici!” ha twitatto il presidente Macron. In tv, in radio, sui social è tutto un fiorire di reportage o testimonianze sul piacere della première gorgéè – il primo sorso di petit noir (caffè) o altro – presa di nuovo all’aperto.

Rdc: abbassa la povertà, ma non dà lavoro

Quasi un milione di poveri assoluti in meno grazie al reddito di cittadinanza. Secondo la Corte dei Conti, potrebbe essere verosimilmente questo il risultato raggiunto nel primo anno di vita della misura introdotta a inizio 2019. Non si tratta di un dato già acquisito, ma di un’autorevole previsione contenuta nel Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica. In pratica, il tasso che indica gli individui che vivono nell’indigenza potrebbe passare dall’8,4% del 2018 (5 milioni di persone) al 6,9% del 2019 (4,1 milioni).

Molto più severa è la valutazione che la Corte dei Conti fa sugli effetti nel mercato del lavoro che sono ancora “insufficienti”. Ma questa non è una novità. Se qualcuno si aspettava che la povertà venisse di colpo abolita, è evidente che rimarrà deluso. Se si guarda in positivo, si nota che erano 5 anni che il numero di bisognosi in Italia continuava ad aumentare. Nel 2014 erano 4 milioni (6,8%), poi sono saliti via via fino ai 5 milioni del 2017 e nel 2018, come detto, sono rimasti stabili (il Reddito d’inclusione, arrivato con il governo Gentiloni, ne ha solo arrestato l’ascesa). Negli anni in cui il Paese ha vissuto una lenta ripresa del Pil e dell’occupazione, le file alla mensa della Caritas o ai servizi sociali dei Comuni si sono allungate anziché diradarsi. Una circostanza tutt’altro che inspiegabile: molti dei lavori che si sono creati in quegli anni erano part time e con bassi stipendi; non sempre hanno permesso agli interessati di uscire dalle difficoltà economiche.

La carta acquisti “di cittadinanza”, anche se richiesta solo dall’85% degli aventi diritto, sembra invece capace di far calare di un quinto i poveri assoluti e anche di ridurre l’intensità della povertà. Tuttavia a beneficiarne saranno soprattutto al Sud, dove la vita costa meno e le risorse che servono a una famiglia per superare la soglia di povertà sono inferiori rispetto al Nord, quindi il Reddito può bastare.

Sul piano delle politiche del lavoro collegate al reddito di cittadinanza, quella della Corte dei Conti è una stroncatura netta. “Non sembra riscontrarsi una maggiore vivacità complessiva dell’attività dei centri per l’impiego”, si legge nel documento che ricorda come “solo il 23,5% ha cercato lavoro tramite i centri”.

Questo però è un dato aggiornato a settembre 2019 e le convocazioni, presso gli ex uffici di collocamento, dei beneficiari del reddito è partito solo nelle settimane successive. A fine aprile, quelli che avevano trovato un lavoro (soprattutto precario) erano 60 mila, poi però a marzo il percorso è stato rallentato dal lockdown e dalla sospensione dell’obbligo di cercare un’occupazione decisa sempre a causa dell’emergenza sanitaria.