Malgrado, a quanto pare, il caporalato si annidi pure nella gig economy, il famoso contratto nazionale di lavoro dei rider sembra destinato a restare una pia intenzione. Finora non è stato buttato giù neanche un rigo e non è mai partita alcuna trattativa tra Assodelivery, l’associazione delle aziende del cibo a domicilio, e i sindacati. Né è previsto che una trattativa parta. Eppure la legge approvata a fine 2019 dal governo ha individuato novembre 2020 come termine ultimo per firmarlo: di questo contratto si parla da due anni, cioè da quando l’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio lo pose come suo primo obiettivo. Ma niente, tutto fermo.
Dopo quanto emerso dagli atti del Tribunale di Milano sul commissariamento di Uber Eats, però, è ancora di più urgente fissare norme sulle retribuzioni dei rider, sui turni (tenendo presente le peculiarità del lavoro), sugli algoritmi reputazionali e sugli eventuali appalti a ditte esterne. Questo stallo, invece, consente a piattaforme come Deliveroo, Just Eat e Glovo di continuare con l’auto-regolamentazione “creativa”: fattorini pagati a consegna e non con stipendio orario, nonostante la sentenza della Cassazione di gennaio prescriva il contrario.
Alcune continuano a fare classifiche dei bravi e degli scarsi. E le protezioni per la sicurezza non sono ritenute un obbligo, al massimo una gentile concessione, persino durante l’emergenza sanitaria: in questi mesi le imprese hanno distribuito mascherine e gel, ma non sempre e non a tutti, tanto che alcuni si sono rivolti ai tribunali che hanno ordinato la fornitura dei dispositivi. A Firenze, inoltre, la Cgil ha chiesto di poter nominare il rappresentante della sicurezza dei fattorini, ma Just Eat ha detto di non riconoscerlo.
I diritti, insomma, arrivano col contagocce. Difficile trascinare al tavolo chi agisce così. Dal lato sindacale, però, il fronte è variegato e – oltre a Cgil, Deliverance Milano o Rider Union Bologna, non disposti a fare sconti – c’è anche un’associazione, l’Anar, che sul “cottimo” ha posizioni assai vicine a quelle delle piattaforme.
Ora le due fazioni si studiano come pugili. Dalle parti di Maurizio Landini temono che Assodelivery alla fine firmerà il suo contrattino al ribasso con l’Anar. Quest’ultima però non si muove perché sa che, se sottoscrivesse un accordo con le imprese, la Cgil e le altre scatenerebbero una guerra giudiziaria per invalidarlo: “Ci dicono – ha detto al Fatto Nicolò Montesi, presidente di Anar – che metteranno in campo i loro avvocati contro di noi”.
La sfida è anche di numeri. L’Anar sostiene di avere mille iscritti e quindi di essere rappresentativa. Al di là della barricata, la situazione è più complessa e i fattorini “di lotta” sono sparpagliati: i primi a raccogliere consensi, quattro anni fa, sono stati i collettivi autonomi Deliverance Project, Deliverance Milano e Rider Union Bologna. Con un po’ di ritardo sono arrivate Cgil, Cisl e Uil. Ora, per dire, in casa Cgil ci sono rider iscritti nella Filt (trasporti), altri nella Filcams (commercio) e altri nel Nidil (precari e atipici) e il sindacato sta cercando di coordinare questa galassia attraverso la segretaria confederale Tania Scacchetti.
Secondo Filt, ad esempio, la figura del rider è già prevista dal contratto della logistica. “Non serve un altro contratto – dice il sindacalista Danilo Morini – ne abbiamo già troppi”. Il problema pratico è che quel contratto non è stato firmato dalle aziende del food delivery. In teoria, quindi, non sarebbe un dramma se anche non si firmasse il contratto con Assodelivery: la legge 128 del 2019 dice che – a partire da novembre 2020 – “in difetto della stipula dei contratti” i rider “non possono essere retribuiti in base alle consegne effettuate” ma vanno pagati in base “ai minimi tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini”. Quindi scatterebbe l’applicazione degli accordi già esistenti, come dice Filt e, più importante, la sentenza citata della Cassazione, secondo cui già oggi è effettivo il diritto dei rider alla busta paga prevista dai contratti collettivi.
L’esperienza di questi anni, però, mette in allerta. Le app finora hanno ignorato la giurisprudenza e, da novembre, potrebbero fare lo stesso con la legge: magari aspetteranno le cause in Tribunali anche stavolta e, di nuovo, passeranno gli anni.