Rider, il contratto nazionale è lontano: meglio i caporali

Malgrado, a quanto pare, il caporalato si annidi pure nella gig economy, il famoso contratto nazionale di lavoro dei rider sembra destinato a restare una pia intenzione. Finora non è stato buttato giù neanche un rigo e non è mai partita alcuna trattativa tra Assodelivery, l’associazione delle aziende del cibo a domicilio, e i sindacati. Né è previsto che una trattativa parta. Eppure la legge approvata a fine 2019 dal governo ha individuato novembre 2020 come termine ultimo per firmarlo: di questo contratto si parla da due anni, cioè da quando l’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio lo pose come suo primo obiettivo. Ma niente, tutto fermo.

Dopo quanto emerso dagli atti del Tribunale di Milano sul commissariamento di Uber Eats, però, è ancora di più urgente fissare norme sulle retribuzioni dei rider, sui turni (tenendo presente le peculiarità del lavoro), sugli algoritmi reputazionali e sugli eventuali appalti a ditte esterne. Questo stallo, invece, consente a piattaforme come Deliveroo, Just Eat e Glovo di continuare con l’auto-regolamentazione “creativa”: fattorini pagati a consegna e non con stipendio orario, nonostante la sentenza della Cassazione di gennaio prescriva il contrario.

Alcune continuano a fare classifiche dei bravi e degli scarsi. E le protezioni per la sicurezza non sono ritenute un obbligo, al massimo una gentile concessione, persino durante l’emergenza sanitaria: in questi mesi le imprese hanno distribuito mascherine e gel, ma non sempre e non a tutti, tanto che alcuni si sono rivolti ai tribunali che hanno ordinato la fornitura dei dispositivi. A Firenze, inoltre, la Cgil ha chiesto di poter nominare il rappresentante della sicurezza dei fattorini, ma Just Eat ha detto di non riconoscerlo.

I diritti, insomma, arrivano col contagocce. Difficile trascinare al tavolo chi agisce così. Dal lato sindacale, però, il fronte è variegato e – oltre a Cgil, Deliverance Milano o Rider Union Bologna, non disposti a fare sconti – c’è anche un’associazione, l’Anar, che sul “cottimo” ha posizioni assai vicine a quelle delle piattaforme.

Ora le due fazioni si studiano come pugili. Dalle parti di Maurizio Landini temono che Assodelivery alla fine firmerà il suo contrattino al ribasso con l’Anar. Quest’ultima però non si muove perché sa che, se sottoscrivesse un accordo con le imprese, la Cgil e le altre scatenerebbero una guerra giudiziaria per invalidarlo: “Ci dicono – ha detto al Fatto Nicolò Montesi, presidente di Anar – che metteranno in campo i loro avvocati contro di noi”.

La sfida è anche di numeri. L’Anar sostiene di avere mille iscritti e quindi di essere rappresentativa. Al di là della barricata, la situazione è più complessa e i fattorini “di lotta” sono sparpagliati: i primi a raccogliere consensi, quattro anni fa, sono stati i collettivi autonomi Deliverance Project, Deliverance Milano e Rider Union Bologna. Con un po’ di ritardo sono arrivate Cgil, Cisl e Uil. Ora, per dire, in casa Cgil ci sono rider iscritti nella Filt (trasporti), altri nella Filcams (commercio) e altri nel Nidil (precari e atipici) e il sindacato sta cercando di coordinare questa galassia attraverso la segretaria confederale Tania Scacchetti.

Secondo Filt, ad esempio, la figura del rider è già prevista dal contratto della logistica. “Non serve un altro contratto – dice il sindacalista Danilo Morini – ne abbiamo già troppi”. Il problema pratico è che quel contratto non è stato firmato dalle aziende del food delivery. In teoria, quindi, non sarebbe un dramma se anche non si firmasse il contratto con Assodelivery: la legge 128 del 2019 dice che – a partire da novembre 2020 – “in difetto della stipula dei contratti” i rider “non possono essere retribuiti in base alle consegne effettuate” ma vanno pagati in base “ai minimi tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini”. Quindi scatterebbe l’applicazione degli accordi già esistenti, come dice Filt e, più importante, la sentenza citata della Cassazione, secondo cui già oggi è effettivo il diritto dei rider alla busta paga prevista dai contratti collettivi.

L’esperienza di questi anni, però, mette in allerta. Le app finora hanno ignorato la giurisprudenza e, da novembre, potrebbero fare lo stesso con la legge: magari aspetteranno le cause in Tribunali anche stavolta e, di nuovo, passeranno gli anni.

Zangrillo. È l’eroe dei due poli (televisivi)

Il nuovo eroe dei due Poli è il professor Zangrillo, cannoneggiato in tv come untore dal Sant’Uffizio Tecnico-Scientifico, ma canonizzato liberatore della Patria dalla band di Quarta Repubblica, Porro al flauto, Salvini alla grancassa e Sallusti al sax. Non siamo clinici per nostra sfortuna (e per fortuna altrui), quindi non possiamo giudicare l’affermazione “Dal punto di vista clinico il virus non esiste più”. Però, a parte i toni da Marchese del Zangrillo (“Io sono scienziato, e voi…”), il sugo non pare lontano dai bollettini che segnalano una netta retrocessione del contagio. Tanto per cambiare, il tema è la percezione, la comunicazione. Se i morti non possono parlare, strumentalizziamo i vivi, tanto per certi talk esiste solo l’evidenza della convenienza, ogni tesi scientifica è buona o cattiva in funzione del tornaconto politico. Povero covid, mettiamoci nei suoi panni: ogni giorno se ne sente una nuova e non sa più che pesci pigliare. In Cina, non ce n’era. In Brasile se la sta spassando. Ma da noi? Vai a sapere. Forse ha perso potenza perché è in crisi d’identità pirandelliana. Un coronavirus in cerca d’autore. Se così fosse, speriamo che il Marchese di Zangrillo abbia ragione fino in fondo, e presto anche dal punto di vista televisivo i virologi non esistano più.

Nuovo dopoguerra senza solidarietà

In questo periodo in cui, superata, si spera, l’emergenza Covid, si attendono con ansia una ripresa e una ripartenza che non si sa se arriveranno, viene spontaneo ai giornali fare riferimento ai lunghi anni del dopoguerra, al Piano Marshall, insomma alla ricostruzione.

In genere l’obbiettivo è focalizzato sui grandi imprenditori di allora. Lo ha fatto Aldo Cazzullo sul Corriere (22.5) ricordando i nomi mitici di Vittorio Valletta, di Gaetano Marzotto, di Angelo Costa (“c’è un dio che invecchia in cima a un grattacielo” scriverà molti anni dopo Giampaolo Pansa quando la Costa Armatori si stava trasformando, in modo lungimirante, in Costa Crociere).

Io voglio invece ricordare qual era in quegli anni lo stato d’animo di noi cittadini che, a meno che non fossimo di Torino, di Genova, di Vicenza, dei Valletta, dei Costa, dei Marzotto avevamo sentito parlare solo vagamente. A parte una sottilissima striscia di borghesia che era presente già durante il Fascismo o che si era arricchita proprio grazie alla guerra, ma che aveva il buon gusto e il buon senso di non ostentare, eravamo tutti poveri, molto più poveri di quanto lo si sia oggi anche nelle condizioni più al limite. Ma eravamo sereni, solidali, euforici, spavaldi. Il solo fatto di essere usciti indenni dai devastanti bombardamenti angloamericani che avevano avuto come epicentro Milano, e io qui di Milano soprattutto parlo, e dai rastrellamenti nazisti, bastava a renderci felici. È questo uno degli effetti positivi di tutti gli eventi fondanti della vita, come può essere appunto la guerra o, in misura ovviamente molto minore, l’epidemia che stiamo vivendo. Eravamo solidali. La solidarietà di cui Mattarella si riempie sempre la bocca, ma che in questi due mesi ho visto pochissimo non è qualcosa che si cala dall’alto, per diktat, dipende dal contesto. Quando si è poveri essere solidali diventa naturale, un sentimento che è sincero, ma anche in qualche misura interessato. Scrive Esiodo ne Le opere e i giorni: “Aiuta il vicino, perché poi nel momento del bisogno il vicino aiuterà te” (ed Esiodo, che scrive a cavallo fra l’VIII e VII secolo a.C., si dimostra anche un po’ disgustato da questo elemento d’interesse, perché la società che lo aveva immediatamente preceduto era quella del clan dove questo problema non esisteva: l’individuo progredisce o perisce col clan).

Oltre che a quello della povertà c’era un elemento strutturale a garantire la solidarietà. Milano, pur essendo strabombardata, era una grande capitale ma rimaneva una città di quartieri. E nel quartiere ci si conosceva tutti. Se una famiglia era un po’ più in difficoltà delle altre lo si sapeva e la si aiutava come si poteva. Noi ragazzini uscivamo di casa alle due, mangiato un rapido panino, e tornavamo alle otto di sera. Non che i nostri genitori fossero incoscienti, forse anche un poco lo erano, nel clima dell’epoca, ma perché se uno di noi si fosse messo in una situazione difficile sarebbe intervenuto subito un adulto. Se si fosse presentato un pedofilo sarebbe stato riconosciuto a un chilometro di distanza. E poi c’era il ghisa, il mitico ghisa, il vigile urbano, un giovanotto milanese ben piantato, che conosceva tutti e che disarmato, come il bobby londinese, godeva di una autorità assoluta (“chiedilo al ghisa”, “dillo al ghisa”, “c’è lì il ghisa”). Come c’era il commissario di quartiere che sapeva tutto di tutti e quindi anche chi era da tener d’occhio e chi no. Del resto anche la “mala” di allora, quella cantata dalla Vanoni, almeno fino a Vallanzasca era fatta da professionisti che si guardavano bene dallo spargere sangue. Era una malavita con un’etica perché era inserita in una società che aveva un’etica.

Eravamo spavaldi. Ho visto cose che voi umani… tram, il vero simbolo di Milano, zeppi fino all’inverosimile con gente sui predellini e qualcuno attaccato anche al trolley. Oggi interverrebbe la psicopolizia. Chi era passato attraverso la guerra non aveva certo paura di farsi la “bua” cadendo da un tram o da un autobus. Tutti fumavano, nei bar, nei cine, nei teatri e l’Humphrey Bogart di Casablanca, con la sigaretta un po’ di sbieco perennemente fra le labbra, era un mito. Il terrorismo diagnostico era di là da venire.

Prendersi a botte fra noi ragazzini era di rigore, sia pur rispettando certe regole: se il ‘nemico’ cadeva a terra non si poteva toccarlo, niente colpi sotto la cintura e se si capiva che era successo qualcosa di più grave del solito ci si fermava tutti (in realtà nei terrain vagues dove giocavamo l’unico vero rischio era di mettere un piede su una bomba inesplosa). Non c’era ‘bullismo’, era un punto d’onore difendere il ragazzo più fragile fisicamente o psicologicamente e se qualcuno si fosse azzardato a prenderlo in giro avrebbe preso, lui sì, un fracco di botte. Insomma imparavamo la vita dalla strada.

Questa struttura che ho chiamato “di quartiere”, col suo tono sostanzialmente bonario, ha resistito a lungo a Milano. Nel quartiere non c’era un bar che non avesse un biliardo e, dietro, una saletta dove si giocava a poker, a ramino pokerato, a tresette ciapa no senza che a nessun pulotto venisse in mente di ficcare il naso. E a biliardo o a poker giocavano, insieme, giovani e anziani. Era un modo naturale di mantenere in contatto le generazioni. Adesso il retrobottega ‘peccaminoso’ è scomparso e, a parte qualche circolo per professionisti o quasi, nessun bar ha più un biliardo. Ho chiesto al gestore di un bar in cui mi rifugio, che non è trendy, non è zeppo di escort accalappiacani, non ha pretese, un bar normale insomma dove si possono fare quattro chiacchiere alla buona, perché nemmeno lui abbia un biliardo. “I biliardi occupano troppo spazio e rendono poco rispetto alle slot appiccicate alle pareti”. Business is business. Ma una cosa è stare con gli altri, diversa è farsi una sega solipsistica con una macchina, abitudine che è diventata devastante con l’avvento degli smartphone.

Non ancora immersi nella grascia del benessere eravamo belli. Asciutti. Io ricordo sempre i funerali di Fausto Coppi che qualche volta ridanno in tv. Chi c’è a quei funerali? La gente del popolo, vestita in modo modesto ma dignitoso, composta, nessun sgangherato applauso all’uscita della bara, la folla onora in silenzio il suo campione.

Nel 1960 – era l’inizio del boom economico – entrai per la prima volta, col mio amico Giagi, in un Supermarket. Ci sembrò il Paese di Bengodi. Era invece il Cavallo di Troia entrato in città e che ci avrebbe tolto, per sempre, l’innocenza.

Mail Box

 

Se non ci fosse il “Fatto” sarei manipolabile

Il mio più felice complimento al vostro quotidiano anche in veste nuova per tutto quello che mi fate conoscere. Prima ne restavo completamente privo e in più manipolato. Grazie per quello che con estremo interesse leggo.

Fabio

 

Con la nuova grafica leggo senza occhiali

Cari amici, avete fatto un vero capolavoro con il “nuovo” Fatto. Oltre all’ottima impaginazione avete fatto un miracolo: riesco a leggere senza occhiali!

Livio serafini

 

La mia povera Calabria dimenticata da tutti

Cari amici, giovedì scorso, il governo della mia Regione, la Calabria, ha votato all’unanimità la reversibilità del vitalizio. In piena emergenza Covid – in una Regione in cui gli ospedali sono sezioni staccate dei cimiteri – era questa la cosa più importante? Vi prego di dedicare due parole sul vostro giornale all’ennesimo schiaffo alla povertà di questa terra dimenticata da tutti. La Calabria sta diventando una grande casa di riposo, poiché i giovani sono accompagnati dai vari governi sui treni per il Nord.

Antonello Cerra

 

Caro Massimo Fini sulla Sardegna si sbaglia

Caro Massimo Fini, mi dispiace che provi così tanto risentimento contro la Sardegna… Come tanti sardi, penso che quanto sostenuto da Solinas non sia condivisibile né attuabile, e comunque non penso che volesse essere sprezzante o offensivo nei confronti della Lombardia. È un grave errore valutare le persone dalla Regione di provenienza: siamo tutti italiani.

Piero Angius

 

Giustizia, la certezza della pena è necessaria

Gentile Direttore, ho letto con molto interesse il tuo articolo di fondo sulla figura di Pier Camillo Davigo e ne condivido appieno il contenuto. Aggiungerei una considerazione; Davigo infatti in una intervista espose un concetto molto interessante e cioè, a braccio: si delinque quando il beneficio connesso all’azione delittuosa è maggiore rispetto all’eventuale costo della pena. Con l’attuale legislazione italiana questo è accaduto e accade con molta frequenza. In tempi passati lo stesso Innominabile aveva promesso, sull’onda della sua pulsione rottamativa, di introdurre qualche meccanismo che finalmente assicurasse la certezza della pena. Purtroppo la legislazione italiana, nell’ansia del rispetto della Costituzione sull’aspetto della funzione rieducativa della pena, trascura l’altro aspetto fondamentale: l’espiazione della colpa.

Marco Olla

 

Grazie per l’onestà intellettuale (e l’italiano)

Stimato Direttore, scrivo volentieri poche righe (dopo anni) per congratularmi sentitamente per il suo editoriale che, “di sponda”, esprime solidarietà al Dottor Davigo (a cui unisco la mia) e le canta in modo chiaro e inequivocabile ai vari “conigli da tastiera”, oltre che al “giureconsulto della Garfagnana” e all’Innominabile. Desidero inoltre esprimere il mio ringraziamento e i complimenti per la chiarezza e l’onestà intellettuale, la stessa che tutti voi utilizzate quotidianamente al giornale (e negli interventi in tv), unite a un livello di italiano invidiabile. Grazie per avermi fatto tornare (dopo anni) la voglia e il piacere della lettura del quotidiano. Credo proprio che mi avrete tra i nuovi abbonati. Anche per via della grafica.

Andrea Quarti

 

Per i morti con il Covid bisogna capire la causa

A proposito delle dichiarazioni di Zangrillo, da medico posso dirvi, come voi fra l’altro sottintendete nel titolo sul Fatto di ieri, che le morti di pazienti positivi al CV non indicano necessariamente che LA CAUSA di morte sia il CV. Sappiamo che una grossa percentuale ha patologie gravi in atto, e che voi sappiate nei decessi di anziani si ricercano altri virus patogeni ? Se si facesse si potrebbe dedurre che virus sono presenti nell’organismo, ma questo non indica la causa effettiva di morte. E qui entra il problema delle cremazioni. Perché così rapide e senza alternative ? Vedete i dati ISS sul numero di casi effettivamente dimostrate, sul totale decessi. Mi sembra che il numero di decessi totali giornalieri sia 1500/di e, in Italia. Qualche dubbio, voi potreste approfondire. Grazie

Bruno Romano

 

Umiliato e deriso dagli uomini di Salvini

Ho appreso dalla pagine de Il Fatto che la Giunta per le immunità del Senato ha deciso di respingere la richiesta dei magistrati siciliani di rinviare a giudizio il leader della Lega, Salvini, i cui accoliti dimostrano una spavalderia che ha ferito anche il sottoscritto. Il 30 novembre mi trovavo all’Hotel Ramada di Napoli per lavoro e sono stato strattonato e deriso dagli agenti di sicurezza impiegati per un evento di presentazione di un libro sulla Lega, i quali con molta aggressività mi hanno quasi “sequestrato” minacciando di non farmi uscire dall’hotel per il solo fatto di aver risposto “non sono interessato”, umiliandomi ad alta voce davanti ai clienti e al receptionist. Come definire se non “squadrista” l’arroganza dei leghisti in visita nel profondo Sud?

Sergio Tortiglione

Benvenuto Lerner. Ma basta “classi subalterne”. “Lo dice pure Gramsci”

 

Vorrei dare il benvenuto a Lerner fra gli “scribacchini” del Fatto, ma con alcuni avvertimenti. Confesso che l’ho letto da molti anni avendo avuto idee e conoscenze comuni tra i quali Mauro Rostagno, ingiustamente dimenticato. Conoscendo un poco il tipo di lettori di questo giornale vorrei fargli capire in che bailamme si sta cacciando. Sorvolerò sulle numerose cose positive che lui ha fatto e scritto, ma che negli ultimi anni sembrava aver dimenticato. Nel suo articolo di esordio per esempio ha usato dei termini che evidentemente si è portato dietro dalla redazione di Repubblica, quando scrive “classi subalterne”. Dovrebbe cominciare a scrivere più correttamente che non esistono classi subalterne come non esistono razze inferiori o religioni da distruggere. Esistono sfruttati di ogni colore, in buona parte appartenenti alla classe operaia, oppressi da un capitalismo selvaggio che si è affermato corrompendo uomini e partiti, facendo loro dimenticare la solidarietà e la dignità come è garantita dalla Costituzione. La controprova di ciò è Lerner stesso a scriverlo quando nota che gli Agnelli, attraverso le loro società, agiscono in maniera diversa a seconda della nazione in cui operano, ma non è certo notizia degli ultimi anni. Ho ricordato questa mia impressione per dire che il suo articolo, meritorio nelle intenzioni, avrebbe bisogno di maggiore attenzione nella stesura e nelle aggettivazioni. Comunque due cose sono da ammirare nel “nuovo acquisto”, la prima che la sua scelta non è certo dettata da motivi economici, cosa documentata dalle lamentele circa gli emolumenti da parte dei vignettisti del nostro giornale, e la scelta di collaborare con i partigiani dell’Anpi e della diffusione della legalità che portano avanti da anni. Carissimo Gad, che ne diresti di operare affinché nelle scuole fossero inserite come Storia le lezioni di Calamandrei e anche l’intervista di Berlinguer a Scalfari? Ambedue sono stati profetici oltreché di una onestà indiscutibile. Se ne sente un grande bisogno.

Franco Novembrini

 

Caro Franco Novembrini, l’espressione “classi subalterne” è più volte utilizzata da Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere e da allora è entrata nella terminologia della sinistra, ovviamente senza intenti discriminatori, anzi. Le razze non esistono, le classi sociali invece sì. Grazie del benvenuto.

Gad Lerner

Milano scusa, stavo scherzando (ma anche no)

Fortunatamente, quando abbiamo cominciato ad avere l’età della ragione, i tempi del “Non si affitta ai meridionali” erano praticamente finiti. Restava un pregiudizio sul carattere indolente dei nostri concittadini al Sud. Restava e resta, a volte sotto forma di sfottò, altre sotto forma di ingiurie: basta ricordare certi commenti a proposito dei risultati dell’ultima consultazione nazionale. Si sa: il Sud è patria prediletta dei professionisti del divano, percettori del reddito di cittadinanza, perciò laggiù si è votato in massa per i Cinque Stelle. La cosa stupefacente è che insulti di questo tenore sono comparsi, travestiti da educate analisi del voto, nelle prestigiose colonne dei giornali cosiddetti di sinistra (quelli che oggi s’interrogano con apparente sofferenza sulla loro identità e linea politica). Naturalmente le contumelie più sincere (non per questo meno fastidiose) arrivavano dai leghisti celoduristi, quelli ante Lega nazionale. Insomma, il razzismo verso i meridionali c’è sempre stato. Fino all’arrivo del Covid, un virus nordista in quanto a capacità di fare danni. La malattia ha messo in ginocchio la Lombardia più di qualunque altra regione e il capoluogo in particolare. La ex capitale morale, l’hub dei servizi, una città che è stata raccontata in mille modi, quasi sempre esagerati: il craxismo, l’edonismo, la coca, ma anche Mani Pulite e la borghesia illuminata. Oggi è semplicemente il simbolo di un disastro: Milano scusa, stavo scherzando ma è così. Andando in giro per le strade (che non sono affatto così assembrate) si capisce bene come questo improvviso cortocircuito disorienti i milanesi. È un’esperienza istruttiva guardare di nascosto l’effetto che fa il necessario bagno di umilità di cui tutti, non solo i milanesi, avrebbero volentieri fatto a meno. Il modello sanitario più invidiato del Paese è collassato: non tutt’oro è quel che brilla, c’è poco da girarci intorno. Eppure, ancora ieri, l’assessore regionale che ha grossi problemi con la matematica era in piazza a difendere il “modello Lombardia”: “Siamo qui anche per rivendicare l’orgoglio di una Regione che è stata oggetto di attacchi inaccettabili e assolutamente immotivati”. Come se fosse un fatto d’orgoglio e non di sistema (sanitario) che ha mostrato, dietro i lustrini, le sue falle (i presidi territoriali). Milano e la Lombardia, direte, non sono solo questo e questa classe dirigente, che durerà ancora poco. Consoliamoci così: della banda dell’Ortica li han poi presi tutti, quasi tutti.

Per la Festa della Repubblica, il presidente Mattarella ha scelto di essere a Codogno (grazie), la cittadina lombarda simbolo di questi mesi assurdi. Il cui sindaco ha saggiamente ricordato che “fin dall’inizio i Comuni della zona rossa hanno fatto di tutto per fare in modo che l’epidemia non si sviluppasse al di fuori”. Vero: e com’è che, a più di tre mesi dal ricovero del paziente 1, siamo ancora qui a cercare di capire se potremo muoverci o (come incautamente suggerito dal sindaco Sala qualche settimana fa) dovremo rassegnarci all’Idroscalo? Sono volate parole grosse, da tutte le parti. I presidenti di Regioni come Sicilia e Sardegna che ci hanno trattati come untori, il sindaco Sala con quel pessimo “ce lo ricorderemo” (poi rettificato)… Non ha molto senso cercare una lezione in questo periodo, il cui conto ci deve ancora venire presentato. Ma sarà meglio fare alla romana e pagare tutti insieme. E quando cadiamo nella trappola della superbia, ricordiamoci quanto è umiliante il “Vengo anch’io, no tu no”.

 

Come pesci rossi Il vero problema nazionale è la smemoratezza

La memoria del pesce rosso è un problema nazionale. Mi spiace per il povero pesce rosso che passa per scemo al posto nostro, ma se preferite è la memoria della mosca che – sdeng – sbatte contro il vetro, poi fa un giro della stanza e – sdeng – risbatte contro il vetro, eccetera eccetera, all’infinito. Così, la smemoratezza sembra la regina dello scenario italiano, a ogni livello, dall’infimo sagomato sul ridicolo (il generale Pappalardo) al Celeste (il Formigoni condannato per corruzione nella Sanità chiamato a discettare di Sanità in tivù), e su e giù per li rami, in tutta la filiera politica che non prevede solo leader più o meno eletti, ma commentatori, corsivisti, analisti, osservatori e perdigiorno vari.

Si ride molto (amaro) sui negazionisti del Covid-19, su qualche centinaio di svalvolati che si riuniscono alitandosi in faccia e gridando nei microfoni che il virus l’hanno inventato per farci stare a casa (che nel caso del generale Pappalardo sarebbe già una buona cosa), che in realtà non esiste, che era una cospirazione mondiale ai danni di parrucchieri e guide turistiche, eccetera eccetera. È il livello più elementare di negazionismo: si nega ciò che è evidente a tutti allo scopo di farsi notare e di ricavarne qualche minimo tornaconto (e un seggio a ’sto Pappalardo dateglielo, dai, sora Meloni, che è dei vostri!). Ma non è un bel ridere: uno potrebbe chiedersi quali sono i criteri di selezione del personale dell’Arma, per esempio, se uno così è diventato generale.

Altri negazionismi imperano, più potenti e subdoli. A livello ideologico, per esempio, paiono causati da amnesia certi discorsi ultra-liberisti. Di fronte a un sistema che chiaramente non ha retto il colpo, che si è dimostrato fragile e diseguale al massimo grado, si invoca più mercato – non meno (o più regolato). Il neocapo di Confindustria che dice in sostanza “tutti ’sti soldi dateli a noi”, dimentica forse che finora è andata proprio così: li hanno dati a loro, tra decontribuzioni, finanziamenti, sconti, agevolazioni. È un negazionismo di tipo squisitamente economico: si nega ogni errore della classe imprenditoriale italiana, ogni mancanza di visione, ogni miopia, per chiedere ancora soldi, e fiducia, e “cambiare il Paese”.

Più divertenti, perché sotterranee, mimetiche, quasi inconsce, certe amnesie erose dal tempo, come date per scontate. Esempio di scuola, i tagli alla Sanità. Non c’è stato, per tre mesi, confronto, talk, polemica, discussione o dibattito in cui qualcuno non deplorasse i tagli alla Sanità. È per quello che dobbiamo prendere i soldi del Mes, vincolati alla Sanità. È perché abbiamo tagliato i posti letto, o la medicina sul territorio, o il personale, che siamo stati con l’acqua alla gola per settimane. Lo dicono tutti, ma proprio tutti, anche – autonegazionismo – esponenti delle forze che votarono in Parlamento per i tagli alla Sanità. Un disturbo della memoria che riguarda anche commentatori e conduttori che deplorano, corsivisti che bacchettano, intervistatori che domandano. E uno si chiede – a proposito di Eraserhead, la mente che cancella – se quei commentatori e conduttori e intervistatori abbiamo detto qualcosa, ai tempi dei tagli alla Sanità, oppure se abbiano avallato l’idea corrente delle “razionalizzazioni” e delle “armonizzazioni” (cioè dei tagli). Negare, insomma, rimuovere, scordarsi, che vuol dire quasi sempre assolversi da eventuali colpe passate e candidarsi al “dopo” come nuovi. Candeggiati. La mosca, il pesce rosso, la memoria selettiva, perché tutto resti com’era.

 

Csm, sono le persone a fare la differenza

Si sostiene che il “caso Palamara” è destinato a essere nel Csm lo spartiacque tra un prima e un dopo. Vedremo come sarà articolata l’ineluttabile riforma dell’organo di governo autonomo della magistratura cui si apprestano governo e Parlamento. Nell’attesa può essere utile ricordare che il passato del Csm – come tutte le vicende umane – alterna ombre cupe a luci significative.

Come esempio sul lato positivo si può citare la sentenza della sezione disciplinare 9 febbraio 1983 (depositata il 16 marzo, estensore Vladimiro Zagrebelsky) relativa ai magistrati iscritti alla loggia massonica P2 di Licio Gelli. Nel marzo 1981 nella villa di costui era stata sequestrata una lunga lista di affiliati “eccellenti”, tra cui ufficiali delle forze armate, dirigenti e funzionari dei servizi segreti, ministri e parlamentari in carica, industriali, giornalisti e appunto magistrati. L’unica amministrazione pubblica di cui si conoscono interventi di rilievo è il Csm, che all’esito di un processo disciplinare condannò 10 magistrati: due radiati dall’Ordine giudiziario, gli altri sanzionati con perdita di anzianità, censura o ammonimento. L’accusa era in particolare di violazione del divieto di appartenenza ad una associazione segreta (art. 18 Cost.). Forse nelle altre amministrazioni si giurava su un testo della Costituzione… emendato, sopprimendo proprio questo articolo. Va segnalata anche la tempesta di inaudita violenza scatenata dalla Procura di Roma allo scopo evidente di intralciare il procedimento disciplinare, impedendo il deposito della sentenza. Appigliandosi a spunti degni di figurare in un manuale di spregiudicata fantasia, si giunse alla imputazione per peculato di tutti e 32 i membri del Csm. Che ne ricevettero la comunicazione… alla vigilia del deposito della sentenza disciplinare sulla P2, in tempo per sperare di rendere il Consiglio incapace di funzionare e quindi costringere il Presidente a scioglierlo. L’accusa di peculato riguardava una vicenda (la consumazione di alcuni caffè durante i lavori del Consiglio) che sarà ricordata con ironia come “lo scandalo dei cappuccini”. Colpi sotto la cintura, schivati da un coraggioso Csm difeso da un grandissimo Sandro Pertini.

Sul versante negativo impossibile non ricordare il 19 gennaio 1988. Dovendosi nominare dopo Nino Caponnetto il nuovo capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo, la maggioranza del Csm (queste le parole di Paolo Borsellino subito dopo Capaci) con “motivazioni risibili” e grazie a “qualche Giuda che si impegnò subito a prenderlo in giro”, a Giovanni Falcone preferì Antonino Meli. Non fu nominato Falcone, il più bravo dell’antimafia, il grande protagonista del “maxi-processo” che aveva sfatato il mito dell’impunità di Cosa Nostra. Fu scelto Meli, un magistrato digiuno di processi di mafia, semplicemente più anziano. Fu così decretata la morte del pool e del suo metodo di lavoro vincente. Per Falcone un vero schiaffo, un’umiliazione profonda. Ancora Borsellino dirà che “il paese, lo stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro cominciò proprio a farlo morire quel 19 gennaio”.

Per lo stato un suicidio (facevo parte di quel Csm e mi onoro di essermi battuto e di aver votato per Falcone), tanto più incomprensibile – o forse no? – se si pensa che Meli aveva presentato domanda anche per la presidenza del Tribunale, ruolo di gran lunga più importante di capo dell’Ufficio istruzione, peraltro in via di estinzione con l’ormai certa entrata in vigore – di lì a poco – del nuovo codice di Procedura penale che i Giudici istruttori li cancellava del tutto. Si può logicamente ipotizzare che qualcuno abbia suggerito a Meli di rinunziare alla presidenza del Tribunale assicurandogli la guida dell’Ufficio istruzione, in modo da poter sbarrare la strada allo scomodo Falcone. Mentre il fatto dell’imminente estinzione dell’ufficio rende evidente che il punto del contendere non era tanto il nome del successore di Caponnetto. La posta realmente in ballo era il metodo di lavoro del pool, che aveva portato alla clamorosa vittoria del maxiprocesso. Al di là della persona, la scelta di Meli ha quindi un chiaro significato “politico”: lo Stato, anziché proseguire sulla strada di Falcone, decide di arretrare e di perdere.

I due esempi fatti sono la prova evidente che insieme ai meccanismi di funzionamento del Csm contano anche le persone chiamate volta a volta ad azionarli e le logiche contingenti sottese a ogni decisione. Ma ancor più la disponibilità dei magistrati a preferire e pretendere sempre comportamenti virtuosi. Disponibilità che gli ultimi avvenimenti hanno a dir poco appannato. Si spera non irreversibilmente.

 

Sanità pubblica, qualcuno si oppose alla dismissione…

Gli ultimi dati disponibili sul Sistema sanitario nazionale riguardano il 2017. Dei 1.000 istituti di cura esistenti in Italia, il 51,80% è pubblico, il 48,20% privato. Sono 200 ospedali in meno rispetto a 10 anni fa; il calo riguarda solo il settore pubblico; e il trend era già decrescente da un trentennio. Ricordo gli inizi perché all’epoca, i primi anni 80, ero consigliere comunale d’opposizione (Dc) nella mia città (Consiglio a tutti l’attività politica. S’impara, fra l’altro, che i problemi sono sempre complessi, che risolverli richiede pazienza, e soprattutto che un avversario, a volte, ha idee migliori delle tue, e allora vanno sostenute, perché sei al servizio della tua comunità, non del tuo partito). In quegli anni reaganiani e thatcheriani, che devastarono il welfare europeo (una restaurazione che Warren Buffett, fra i più ricchi del pianeta, celebrò con la frase: “La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi”), cominciò a diffondersi anche nella nostra Regione, a guida comunista, il ritornello della chiusura dei piccoli ospedali locali, per motivi di economia di scala. Quando toccò a noi, scrissi un intervento, letto in una affollata assemblea pubblica dal nostro capogruppo, per ricordare, fra l’altro, i vantaggi di un piccolo ospedale dal punto di vista del rapporto medico-paziente, citando a suffragio ricerche appena pubblicate dal Journal of American Medical Association.

Sostenevo, inoltre, che è sbagliato voler risparmiare a tutti i costi, quando si ha a che fare con la salute: se è giusto tagliare le spese superflue, non è superflua la spesa per curare in modo più umano il paziente, un traguardo per il quale ogni comunità sarebbe ben felice fossero impiegate le sue tasse (nonostante si sappia quanto siano utili, contro le pandemie, i nuovi F-35; e alla cifra irrisoria di 14 miliardi di euro!); e infine che i soldi, volendo, si trovano (come si è visto in questi mesi drammatici). Forse fu l’ovazione che ne seguì a convincere i dirigenti locali del Pci, che avevano un certo peso nel partito, a formare con le opposizioni (Dc, Psi, Pri) una delegazione che si recò in Regione per ribadire che il nostro piccolo ospedale non andava chiuso, punto. E così fu.

Mi dicono che adesso è un’eccellenza, e un presidio indispensabile. Accadde lo stesso in tante altre cittadine. Poi, negli anni 90, una nuova legge dello Stato scardinò il vecchio ordinamento, che permetteva alle realtà locali di controllare, attraverso comitati di gestione a composizione partitica, come andavano le cose; e molti, con l’aziendalizzazione, hanno perso la bussola.

Agli irresponsabili che, adesso, rispondono alle accuse giuste (“Perché avete smantellato tutti quegli ospedali?”) con la risposta paracula (“Facile, col senno di poi”), va ricordato che in tanti si opposero, decenni fa, col senno di prima. “Fare, sanno fare tutti; fare bene, è difficile”, diceva Jack lo squartatore.

Purtroppo la pandemia ha messo in cattiva luce il mangiare pipistrelli, che sono così buoni.

De Benedetti: “Io avevo regalato ai miei figli l’azienda, e a me da piccolo hanno insegnato che i regali non si vendono”. Avranno avuto un padre peggiore del suo.

 

Il piano pandemico il grande assente

Pensare e programmare il futuro è merito di pochi. L’Oms ha allertato e invitato più volte a prepararsi a una nuova pandemia. Ha creato il Pip, Pandemic influenza preparedness, in cui si legge che “l’implementazione di misure di risposta possono essere rafforzate con attività di preparazione avanzata”. Dal 2012 al 2019, ha potuto contare su un budget di quasi 200 milioni di dollari . Nel 2018 è stato pubblicato “Essential steps for developing or updating a national pandemic influenza preparedness plan” (“Passi essenziali per lo sviluppo e l’aggiornamento di un piano nazionale di preparazione a una pandemia influenzale”) che avvertiva: “Il mondo deve aspettarsi un’epidemia di influenza killer e anzi deve essere sempre vigile e preparato in modo tale da poter combattere la pandemia che sicuramente si verificherà”. Cosa è stato fatto in Italia? I governi che si sono alternati hanno via via nominato commissioni, senza arrivare a nessun risultato. La “Commissione interministeriale di valutazione in materia di biotecnologie”, come pubblicato sul sito del ministero della Salute, è stata istituita nel 2006 . Sul sito è vuota la voce “Direttore Generale”, ma vengono elencati otto Uffici con diverse mansioni, fra le quali Piano sanitario nazionale e Piani di settore e Prevenzione delle malattie infettive. Il Cnbbsv (Comitato Nazionale per la Biosicurezza, Biotecnologie e Scienza della Vita) è un organismo di supporto del governo per l’elaborazione di linee di indirizzo scientifico, produttivo, di sicurezza sociale e di consulenza in ambito nazionale.

L’ultima riunione riportata è stata il 5 dicembre 2019 a Palazzo Chigi in occasione della Giornata Nazionale del Suolo. La pandemia non è stata un fulmine a ciel sereno, sapevamo tutto e tutti sapevano. L’ultimo Piano pandemico è datato 2006, approvato dalla Conferenza stato-Regioni, aggiornato nel 2010, dopo l’influenza suina del 2009 e mai più. Esiste anche il Centro Nazionale per la Prevenzione ed il Controllo delle Malattie (Ccm) costituito nel 2004 che avrebbe dovuto emanare e periodicamente aggiornare le linee guida del piano pandemico. Il Ccm ha costituito al suo interno un sottocomitato “Influenza e pandemia influenzale”, inattivo da anni. Non ci resta che piangere.