Inquinamento, a Rosignano. Cingolani sbatte su Solvay

Vai a parlar male delle lungaggini della burocrazia. Al ministero della Transizione ecologica riescono a rinnovare le Autorizzazioni integrate ambientali (Aia) addirittura con cinque anni di anticipo, prolungandone la validità dal 2027 al 2034. Non a tutti, però. Secondo Bluebell Capital, il fondo attivista londinese di Giuseppe Bivona che si è fatto notare per la battaglia su Mps e da settembre 2020 ha messo in discussione le pratiche ambientali di Solvay, il ministro Roberto Cingolani avrebbe avuto un occhio di riguardo per l’impianto di Rosignano (Livorno) della multinazionale belga della chimica e della plastica, nonostante l’azienda sia sotto osservazione da parte della Commissione Ue e dell’Onu per gli sversamenti nel mar Tirreno. Dettaglio non trascurabile: solo dieci giorni prima di entrare nel governo, Cingolani da manager di Leonardo aveva chiuso un accordo con la stessa multinazionale.

Da decenni ogni anno Solvay scarica in mare sino a 250mila tonnellate di polveri di calcare, gesso, sabbia e argilla derivati dalla produzione del carbonato di sodio dell’impianto toscano. Bluebell segnala anche “le 88,7 tonnellate di metalli pesanti” tra i quali mercurio cromo e nichel “scaricati in acque marine nel periodo 2018-2020” e lo sforamento dei limiti di concentrazione di borio. Il 27 agosto 2015 Solvay Italia aveva ottenuto dal ministero dell’Ambiente l’autorizzazione integrata anti-inquinamento (Ippc), valida fino al 2027. Ma il 20 gennaio Cingolani ha rilasciato la nuova autorizzazione che proroga tutto sino al 2034. Secondo Bluebell “invece di prescrivere rimedi per i problemi evidenziati nella vecchia autorizzazione, ogni riferimento a tali questioni è stato rimosso e alcune condizioni sono state modificate”. Il 26 gennaio l’azienda ha comunicato che il “rinnovo conferma che lo stabilimento di Rosignano è assolutamente in regola per proseguire con la produzione di soda in sicurezza per i prossimi 12 anni”.

La questione, secondo Bluebell, è che Cingolani, prima di essere nominato ministro il 13 febbraio 2021, è stato Responsabile tecnologia e innovazione di Leonardo. Il 2 febbraio 2021 Leonardo e Solvay annunciavano l’avvio di un laboratorio di ricerca congiunto per i compositi termoplastici. Cingolani commentava: “La collaborazione con Solvay è un passo significativo nella ricerca sui materiali avanzati, parte dei programmi di R&D sviluppati dai Leonardo Labs”. Secondo Bluebell, il prolungamento dell’Aia sarebbe un assist a Solvay, che a febbraio 2021 ha annunciato lo scorporo della divisione carbonato di sodio entro il 2022: “La nuova autorizzazione sostiene notevolmente la vendita dell’attività, questa potrebbe essere la vera ragione della proroga di fatto dell’Aia prima della sua naturale scadenza”.

Fonti vicine alla vicenda fanno sapere che nel 2018 la direzione delle Bonifiche del ministero aveva segnalato alle aziende del settore chimico le nuove migliori pratiche tecnologiche ambientali (Bat), sottoposte ad Aia. Solvay aveva aperto un’interlocuzione con il ministero, che si è chiusa ora in tempi molto più brevi del normale, in una sorta di resa del ministero alle richieste della multinazionale. Fonti vicine all’azienda ribattono che il procedimento di rinnovo dell’Aia è sì iniziato nel 2018, ai tempi del ministro Costa che aveva nominato una nuova commissione tecnica ad hoc, perché la Ue aveva cambiato le Bat e con le nuove linee guida l’impianto non poteva più operare. Inovyn, azienda del parco industriale di Rosignano consociata con Solvay, doveva rifare l’Aia. Dopo tre anni di lavori, la Commissione ha concesso la nuova Aia per l’intero parco. Dunque Cingolani avrebbe solo firmato un decreto preparato da altri e non avrebbe avvantaggiato Solvay. Una ricostruzione che però non convince il deputato toscano di M5S, Francesco Berti: “Cingolani deve spiegare al Parlamento e all’intero Paese perché ha deciso di rinnovare con cinque anni d’anticipo l’Aia alla Solvay, cancellando tutte le mitigazioni del rischio ambientale previste dall’autorizzazione precedente. Una fretta quantomeno sospetta e inusuale”.

Salvini minaccia Giorgetti e Zaia: “Basta mugugni”

Per Matteo Salvini va tutto bene. Nessuna autocritica sulla settimana in cui il segretario della Lega è passato da kingmaker in pectore a protagonista della disfatta che ha portato alla rielezione di Sergio Mattarella. E, come di consueto durante i consigli federali del Carroccio, anche ieri a via Bellerio dai vertici del partito non è arrivata mezza critica nei confronti del segretario. Anzi, il consiglio federale ha approvato all’unanimità alcuni obiettivi dei prossimi mesi: si va dal “no” a nuove tasse con la riforma del catasto allo stop a nuove restrizioni, fino alla richiesta a Draghi di un intervento sul caro bollette e il controllo dei confini. Istanze che oggi Salvini metterà sul tavolo del premier in un faccia a faccia a Palazzo Chigi. Ma il consiglio federale ha dato mandato a Salvini anche di “allargare a una federazione di centrodestra inclusiva e alternativa alla sinistra”. Insomma, come ripetono in coro i colonnelli Riccardo Molinari e Claudio Durigon, “la leadership di Salvini non è in discussione”.

Epperò chi ha partecipato al consiglio federale racconta che ci fosse un clima da caserma. Al segretario non sono piaciute per niente alcune uscite dei suoi avversari interni, soprattutto i governatori Zaia, Fedriga e il ministro Giorgetti che partecipavano in collegamento: “Non voglio più vedere certe frasi sui giornali – ha detto Salvini – ora ci dovete mettere la faccia anche voi per far vedere che la Lega è unita”. Il leader del Carroccio, rivolgendosi ai governatori, ha fatto capire che la scelta di appoggiare il bis di Mattarella si spiega con la necessità di non spaccare la maggioranza di governo anche a costo di rompere con Giorgia Meloni. Da qui la sua irritazione: “Ogni giorni leggo di mugugni, ma poi quando siete qui nessuno dice niente. Adesso basta: chi ha qualcosa da dirmi lo faccia nelle sedi opportune”. In cambio, il documento approvato ieri dal consiglio federale segna una pax interna alla Lega: i presidenti di Regione, che lamentano una gestione “dirigista” del partito, saranno maggiormente “coinvolti” nelle scelte politiche. Nessun riferimento invece alle possibili dimissioni di Giorgetti che anzi, fanno sapere da via Bellerio, “ha condiviso gli obiettivi snocciolati dal segretario”. Zaia invece si è detto “ottimista” perché “l’asse Mattarella-Draghi non è ostile all’autonomia”. Infine Salvini ha attaccato i deputati che, parlando con il Riformista, lo avrebbero accusato di fare uso di droga: “Se becco chi sono li caccio” ha minacciato Salvini facendo sapere che nelle ultime ore ha donato il sangue. Ma il leader della Lega ha un problema sui territori: in Veneto e in Lombardia militanti e dirigenti si stanno ribellando dopo la sua gestione del Quirinale. “Se andiamo avanti così votiamo Fratelli d’Italia” si legge in molti commenti sui social. Difficile anche il rapporto con gli alleati: ieri si è sfiorata la crisi in Liguria con la Lega che è uscita dall’aula in polemica con Giovanni Toti (“Se uno è governatore, assessore al Bilancio e alla Sanità o è Superman oppure…” ha attaccato Salvini). Giorgia Meloni invece ha definito “innaturale” la federazione proposta da Salvini mentre cala il gelo anche da Forza Italia. “Siamo contro le fusioni a freddo” dice Licia Ronzulli. E anche Berlusconi per il momento frena: prima vorrebbe costruire una federazione coi centristi, poi si vederà.

Belloni tradita: i messaggi del sì di Letta al gruppo Pd

Agevolare lo stallo, anche a costo di incrinare i rapporti con un alleato, per poi arrivare al risultato che si auspicava fin dall’inizio. Basta farsi qualche chiacchierata con i parlamentari del Pd per comprendere lo stato d’animo con cui Enrico Letta ha condotto le ultime fasi della trattativa sul nome della direttrice del Dis Elisabetta Belloni, a un passo dal Quirinale prima che, venerdì sera, il suo nome finisse affossato dai veti di mezzo Pd, dei renziani e dei forzisti.

Nel giro di un paio d’ore, Belloni passa da un sì di massima di cui vengono persino informati via chat alcuni grandi elettori, a un secco no che ne manda all’aria la candidatura. Con un dettaglio nuovo, rivelato ieri dal sociologo Marc Lazar – amico e collega di Letta alla Sciences Po di Parigi – sull’Huffington Post: “Il primo gennaio ci siamo visti e Letta mi ha detto che non c’erano alternative per il Colle. O Draghi o Mattarella”.

Segno che lì si voleva andare e allora, fiutato che la Belloni sarebbe stata probabilmente l’ultima spiaggia prima della supplica a Mattarella, Letta venerdì è uscito dal vertice con Giuseppe Conte e Matteo Salvini vedendo il traguardo del bis mai così vicino.

Difficile però sostenere che nel Pd la Belloni sia stata trattata come un’ipotesi qualsiasi. Tre giorni fa il Riformista ha svelato per primo un messaggio inviato ad alcuni parlamentari dem lombardi da un deputato: “Sono concrete le possibilità di avere una donna presidente. La combinazione delle priorità dei diversi partiti porta alla figura di Elisabetta Belloni. Per la prima volta sarebbe una donna a diventare presidente della Repubblica”. Un eletto lombardo conferma che ancor prima di venerdì il gruppo discuteva – seppur sempre in via informale – del profilo della numero 1 del Dis, inserito in una short list di candidature ritenute accettabili dal Pd.

Parte del gruppo, era noto già allora, “non avrebbe seguito Letta in un’eventuale prova del voto in Aula”, complici le perplessità sul passaggio da un incarico sui Servizi segreti a un ruolo di garanzia come la presidenza della Repubblica. L’input ai lombardi di cui parla il Riformista non arriva dalle capigruppo Debora Serracchiani e Simona Malpezzi, ma è una comunicazione che comunque conferma – siamo a venerdì sera, prima che Salvini e Conte parlino in tv di “una donna presidente” – l’orientamento avuto da Letta nei colloquio con i leader prima del dietrofront.

Cinque giorni più tardi, in molti lasciano intendere che in realtà in quel momento la rotta fosse già tracciata, anche come conseguenza del bluff del segretario dem. Insomma, Mattarella bis: “Sul tavolo c’era il nome della Belloni, ma con qualunque altro profilo a quel punto sarebbe stato lo stesso – ragiona un deputato – perché non avresti mai raggiunto un accordo in grado di tenere dentro tutti e Letta aveva chiarito di non volere candidature che avrebbero potuto mettere a rischio il governo”. E allora “era già evidente che l’unica via d’uscita era Mattarella”. Un altro parlamentare dem ricorda anche le parole pronunciate da Letta a Che tempo che fa la sera prima che iniziasse la riffa del Quirinale: “Per noi il Mattarella bis è la soluzione perfetta”. Al di là dei vertici e dei colloqui, spiegano dal Pd, “molti di noi avevano intravisto già da tempo che sarebbe andata così”. Il Mattarella bis non come una soluzione estrema per uscire dalla palude, quindi, ma come precisa strategia da perseguire anche grazie alla fragilità degli equilibri di maggioranza.

Una volta intuito che su Draghi c’erano resistenza troppo forti dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle, Letta ha puntato su Mattarella. E se è innegabile, come certifica chiunque ancora oggi dentro al Pd, che il gruppo fosse spaccato su Belloni, è pure vero che Conte aveva chiesto a Letta di seguirlo ugualmente sul voto, confidando che la compattezza di un fronte ampio (oltre a quello di Salvini c’era anche l’ok di Giorgia Meloni) avrebbe potuto attrarre i voti necessari all’elezione. Non è andata cosi, con buona pace di chi, tra i lombardi (e non solo) aveva creduto a quel messaggio in chat.

“Un anno di Draghi: macerie e partiti morti”

“La restaurazione è completa”. Marco Revelli, 73 anni, da storico e politologo osserva con “preoccupazione” un sistema politico in “macerie” dopo la rielezione del presidente Sergio Mattarella: “È la conclusione di un’operazione di sistema iniziata un anno fa con la nascita del Governo dei Migliori”.

Professore, cosa ne pensa della rielezione del capo dello Stato?

Il bis è la prova del collasso del sistema politico. Potremmo leggerla come male minore, perché le alternative sarebbero potute essere peggiori, ma è la dimostrazione di una società politica in pezzi anche in conseguenza di alcune decisioni politiche di Mattarella stesso. A partire dalla scelta del governissimo di Draghi che ha provocato l’impasse odierna.

Cioè?

Quando è nato l’esecutivo era chiaro fin da subito che le forze politiche si sarebbero andate a schiantare contro l’iceberg dell’elezione del presidente della Repubblica. O quella maggioranza avrebbe trovato un presidente voluto da tutti o sarebbe crollato il governo.

Oggi, un anno dopo, cosa ci ha lasciato l’esecutivo?

Nell’anno in cui Draghi ha governato, non solo non si è rimediato, ma si sono accentuate le ragioni del fallimento politico del 2020. Un anno di Draghi ha visto, è vero, un rimbalzo del Pil, ma ci consegna un panorama di macerie, sia politiche che sociali.

Partiamo da quelle sociali.

Abbiamo assistito alla crescita delle diseguaglianze, della precarizzazione e al logoramento della sanità pubblica.

E quali effetti ha avuto il governo sul sistema politico?

In primis, c’è stato un commissariamento dell’esecutivo sul potere legislativo. Draghi ha verticalizzato le decisioni, governando su due livelli: in alto un caveau con i banchieri e in basso il pollaio lasciato alle forze politiche che mettevano le proprie bandierine. Questa è stata la tecnica di Draghi, ma non ha funzionato.

Perché?

I parlamentari sono stati lasciati a se stessi e così è nato il loro rancore nei confronti del premier. Lui si muoveva come il Marchese del Grillo e trattava i parlamentari come dei dipendenti di banca. Così deputati e senatori ora gli hanno presentato il conto non mandandolo al Quirinale.

Come escono i partiti dalla battaglia del Colle?

Le coalizioni sono a pezzi e i partiti sono liquefatti. Tant’è vero che durante le sette votazioni andate a vuoto, un po’ a destra e un po’ a sinistra si è ricorso all’astensione perché nessuno si fidava di nessuno.

Nei partiti sono emerse figure “draghiane” come Giorgetti e Di Maio che hanno tentato di “normalizzare” Lega e M5S. Ci sono riusciti?

Draghi ha dimostrato i suoi limiti politici e l’operazione che lo ha portato a Palazzo Chigi serviva a normalizzare i cosiddetti populismi del 2018. Da qui la metamorfosi di figure come Di Maio e Giorgetti, che dall’inizio si sono contrapposte ai leader Conte e Salvini. Il risultato però è stato che queste forze politiche sono balcanizzate.

E il Pd? Enrico Letta esulta per il bis di Mattarella.

Il Pd è un coacervo di gruppi di interesse che paralizzano il partito. Letta forse aveva in mente un piano ma l’immagine era quello di una persona inerte, persino di fronte a un’assurdità come la candidatura di Belloni.

Al governo Draghi resta un anno prima delle elezioni politiche. Come si muoverà?

Temo che Draghi accentui il dirigismo e il “pollaio” lo starnazzamento. È un governo destinato a durare in un clima rissoso. Il sistema rischia un’ulteriore distorsione.

Ovvero?

Invece che una Repubblica parlamentare, rischiamo di diventare una democrazia esecutoria. Quello che si sta configurando è una forma di cesarismo senza controlli.

Altro che Boom, cresce solo il lavoro precario

“Scatto del Pil”, “crescita ai massimi”, “incremento mai così alto dal 1976”. A leggere i giornali, sembra che l’Italia stia vivendo un nuovo boom economico. Guardando i dati completi però – e soprattutto mettendoli in prospettiva – la situazione che emerge non è poi così rosea.

Partiamo dalla crescita economica. Secondo la stima preliminare rilasciata dall’Istat il 31 gennaio, nel 2021 il Pil è aumentato del 6,5% rispetto al 2020. La grande stampa, che vede la vie en rose, e diversi ministri non hanno trattenuto la propria “grande soddisfazione”. Un tasso di crescita così alto non lo si vedeva dagli anni Settanta. Un leitmotiv lanciato durante la conferenza stampa dell’Istat da Giovanni Savio (direttore centrale della contabilità nazionale) e subito finito sui titoli del Sole 24 Ore, del Corriere della Sera, della Stampa e di Repubblica. Ma concentrarsi solo sui tassi di crescita restituisce una prospettiva distorta. Per avere un punto di vista più equilibrato, basti pensare che era dalla Seconda guerra mondiale che non si vedeva una recessione come quella del 2020, come d’altronde ha puntualizzato lo stesso Savio. È l’altra faccia della medaglia, che però molti commentatori non considerano più di tanto. La crescita del Pil del 6,5% nel 2021, più che un vero “balzo”, è un rimbalzo. Infatti, nel 2020 l’economia italiana si era contratta del 9% ed è naturale che poi (con l’alleggerimento delle misure restrittive, la piena attivazione degli stabilizzatori automatici e la doverosa spesa pubblica anticiclica, cioè i sostegni) si sia ritornati a una maggiore attività. In altre parole, con la crisi siamo precipitati giù da una ripida montagna, e ora stiamo semplicemente risalendo la china.

Per rimettere le cose in prospettiva, basta un semplice esercizio. Prendiamo i dati trimestrali dell’Istat e completiamoli con una delle altre stime appena divulgate: +0,6% di crescita reale fra terzo e quarto trimestre 2021. Quello che si ottiene è il grafico a destra, in cui si osserva che non abbiamo ancora recuperato il Pil pre-Covid del 2019. Da parte sua, il governo si è posto l’obiettivo di “conseguire nel 2022 una crescita del Pil superiore al 4%”, come si legge in una nota del ministero dell’Economia (a bilancio la previsione è del 4,7%). Se l’Ocse nel suo ultimo Outlook ha addirittura stimato una crescita del 4,6% per il 2022, non sono dello stesso parere Banca d’Italia e Fondo Monetario Internazionale, le cui stime si fermano entrambe al 3,8%. Con questa ulteriore crescita il Pil finalmente recupererebbe il livello pre-pandemia, ma resterebbe comunque sotto la media della zona euro. È evidente che, in una situazione del genere, non basta tornare semplicemente a dove il Covid ci aveva colti di sorpresa. Vale la pena ricordare che prima della pandemia non avevamo ancora recuperato i livelli di attività economica precedenti alla crisi del 2008. I soldi del Pnrr continuano a essere invocati come una panacea, ma non basteranno a sanare le debolezze dell’economia italiana.

Anche dal lato dell’occupazione, i dati mostrano che dietro quella che appare come una crescita si nasconde in realtà un semplice recupero, molto parziale, del tonfo vissuto nel 2020. Tra l’altro, con una dose di precarietà ben più marcata di quella vista prima della pandemia. Un numero su tutti: a dicembre 2021 il totale di persone occupate in Italia risulta ancora inferiore di 286 mila unità rispetto a febbraio 2020, mese in cui il virus ha fatto irruzione. Ma è soprattutto se si guarda alla qualità delle nuove assunzioni che viene fuori tutta la debolezza di questa ripresa. Sempre nell’ultimo mese del 2021, i dipendenti a termine hanno raggiunto tre milioni e 77 mila unità. Siamo a un passo dal record storico di tre milioni e 97 mila ottenuto a maggio 2018, prima dell’arrivo del decreto Dignità (governo gialloverde). Nell’ultimo trimestre dell’anno appena trascorso, gli unici rapporti che mostrano un saldo positivo – più 92 mila – sono i precari mentre gli indeterminati sono scesi di 17 mila unità. Ma è una dinamica che riguarda tutto il 2021: su base annuale, tra dicembre 2020 e dicembre 2021 i posti di lavoro subordinati sono saliti di 590 mila unità, e di questi ben 434 mila – il 73,6% – sono a termine. Negli ultimi tempi la Confindustria ha spesso reclamato l’aiuto del governo sostenendo, a parole, di voler creare buona occupazione; questa volontà sembra finora essere stata trattenuta da una scarsa fiducia che le stesse imprese nutrono verso le prospettive di crescita o dalla volontà di comprimere i costi. Almeno per il momento, stanno arruolando per tre quarti con contratti a scadenza e part time per oltre un terzo del totale.

Questa tipologia riguarda soprattutto le donne. Lo dice il Gender Policies Report diffuso poche settimane fa dall’Inapp: nel primo semestre 2021 sono stati attivati oltre 3,3 milioni di rapporti di lavoro, e di questi quasi 1,2 milioni sono a tempo parziale. L’incidenza arriva al 65% nel comparto Pubblica amministrazione, scuola e sanità, al 55% nelle attività immobiliari e al 42,6% nel settore commercio e turismo. Addirittura il 49,6% di donne assunte si è dovuto accontentare di contratti di poche ore. Si tratta di un dato generale sull’Italia nel quale, come sempre, si annida una situazione molto variegata tra diverse Regioni e tra città e periferia. In Calabria, per esempio, ben il 74,4% di contratti femminili è a tempo parziale. Poco più bassa è la percentuale nelle altre Regioni meridionali. Questa cospicua fetta di contrattini fa sì che il numero di ore lavorate complessive si mantenga costantemente al di sotto dei livelli pre-pandemici. Nel terzo trimestre del 2021 si sono fermate poco sotto i 10,5 miliardi. Nello stesso trimestre del 2019 superavano invece gli 11 miliardi. Rapporti di lavoro precari e fragili producono salari miseri. Il mix tra paghe basse e scarso numero di ore lavorate comprime i guadagni dei lavoratori. Nel 2021 le retribuzioni contrattuali orarie sono salite dello 0,6%, molto meno dell’inflazione. Come ha spiegato l’Istat, “alla luce della dinamica dei prezzi al consumo – in forte accelerazione nella seconda metà dell’anno e pari a circa tre volte quella retributiva – si registra anche una riduzione del potere d’acquisto”.

Fake del tweet-bombing: Renzi e “Giggino” in love

La notizia è comparsa in contemporanea su alcuni dei principali siti italiani: Luigi Di Maio sarebbe stato vittima di un “tweet bombing”, una campagna creata ad arte dai suoi avversari politici attraverso profili falsi. L’hanno scritto in rapida sequenza. lunedì mattina, Repubblica, La Stampa, AdnKronos e il Giornale, tutti tra mezzogiorno e l’una e mezza. Quattro articoli dai titoli quasi fotocopia, che riprendono un’analisi sbagliata.

Quella di Pietro Raffa, studioso, professionista e docente di Comunicazione politica. “#DiMaioOut è tra le tendenze – ha scritto Raffa su Twitter – ma è stato utilizzato solo da 289 profili. I primi 10 account per numero di tweet sono fake, e generalmente sostengono le posizioni di Di Battista e di Conte. Si tratta dunque di una chiara operazione di tweet bombing contro Di Maio. Interessante. Curiosa anche la provenienza delle uscite: 125 account twittano su #DiMaioOut dall’America. In poche parole: non c’è niente di spontaneo”.

Dopo l’analisi di Raffa, amplificata soprattutto dall’intervista su Repubblica, è partita la carovana degli interventi politici in difesa di Di Maio. Si sono distinti in particolare gli ex nemici di Italia Viva e di Forza Italia.

Il problema è che l’assunto di partenza è molto, molto traballante, se non del tutto falso. Altre agenzie di comunicazione come DataMediaHub hanno verificato e confutato la teoria del “tweet bombing”. Ma gli argomenti più completi sono quelli esposti da Raffaele Barberio e Alex Orlowsky sul sito key4biz. I numeri di Raffa – spiegano – sono stati vagliati dall’agenzia Water on Mars attraverso la piattaforma di intelligence Metatron Analytics. “Non risulta alcun disegno di bombing – scrive Barberio – che per essere considerato tale deve affidarsi a dei Bot, ovvero ad account generati da computer. Al contrario, gli account usati sono tutti riferibili a persone in carne ed ossa. Water On Mars ha riscontrato e analizzato 884 account per un totale di 2371 tweet”. Numeri completamente diversi da quelli di Raffa. Potrebbe trattarsi tutt’al più – spiega Key4biz – di una “campaign”, una campagna di comunicazione magari sì coordinata da una regia, e che si avvale di uno zoccolo duro di account di militanti politicamente attivi. In certi casi si tratta anche di “account multipli che appartengono alla stessa persona”, ma in ogni caso riferibili a persone reali e non a Bot. E comunque rappresentano una percentuale ridotta, poco meno del 10%, sul volume totale degli interventi. Così come è praticamente irrilevante, a differenza di quanto divulgato da Raffa, la percentuale dei messaggi arrivati da paesi diversi dall’Italia (per Raffa invece “quasi metà” dei tweet contro Di Maio proveniva misteriosamente dall’America).

Malgrado questo la “notizia” dell’attacco dei troll di Conte e Di Battista contro Di Maio ha resistito negli articoli di molti giornali – gli stessi che per anni, prima della frattura con Conte, avevano ironizzato sul ministro “ex bibitaro” – e nelle dichiarazioni di molti politici – gli stessi che per anni hanno accusato Di Maio, ex capo dei Cinque Stelle, di fare politica con i troll e i “giochi sporchi” della Casaleggio Associati.

Un contrappasso micidiale, se si ripensa ai titoli di giornale del 2018, quando Sergio Mattarella si rifiutò di nominare Paolo Savona al ministero dell’Economia. Allora Di Maio chiedeva l’impeachment del capo dello Stato, mentre i giornali raccontavano “la fabbrica dei troll contro Mattarella”, in un’ipotesi di complotto che partiva da Casaleggio e arrivava fino a Vladimir Putin.

Ora Di Maio è la vittima – sulla base di un’analisi fallace – e i suoi primi difensori sono i renziani Maria Elena Boschi e Luciano Nobili (che ieri in tv è arrivato a definirlo un buon ministro e un interlocutore politico). O persino Carlo De Benedetti, ex padrone della Repubblica che lo trattava da nullità: “È cresciuto molto dal punto di vista politico, oggi è un’altra persona, se abbiamo Mattarella lo dobbiamo molto anche a lui”, ha detto lunedì su La7. Ora il nemico è un altro.

Di Maio all’assalto di Conte: vede Belloni e Raggi, sente Appendino

Le telefonate, gli scatti, gli incontri: con un certo terrore nella voce, ai piani alti del Movimento si guardano le spalle: “Manca solo la foto con Grillo”. Luigi Di Maio ha scelto di rispondere così al capo politico che gli ha chiesto, ieri dal Fatto, “chiarimenti” sulle “gravi condotte” delle ultime settimane. “Non sono solo”, gli ha detto lui, senza lasciare nulla al caso: al mattino vede l’ex sindaca di Roma Virginia Raggi, a pranzo la (fu) candidata al Colle Elisabetta Belloni, a sera telefona a Chiara Appendino, già prima cittadina di Torino.

La partita del Quirinale ha innescato la marcia dell’ottovolante su cui i 5Stelle erano seduti da un pezzo. E adesso che si viaggia senza cinture si fa perfino fatica a capire come tutto è cominciato. La storia della Belloni, per esempio. Come è possibile che la direttrice del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza “si sia prestata a questa operazione”? La domanda è sulla bocca di tutti e non è nemmeno così peregrina: è vero che lei e Di Maio hanno costruito un solido rapporto alla Farnesina e che lui l’arriva a chiamare “sorella”, ma è pur vero che la diplomatica che nei giorni in cui il suo nome rimbalzava sui giornali non ha mai fatto filtrare nemmeno uno spiffero, ora si fa beccare dal Foglio a tavola con il ministro degli Esteri, nel pieno della faida interna al partito, e decide di corredare l’incontro con un comunicato in cui si scomodano le parole “amicizia” e “lealtà”.

Se voleva dimostrare di non essere lui il traditore di Conte, come assist non è male. Ma l’ex capo politico decide di affondare il colpo. Incontra nel suo ufficio Virginia Raggi, che come lui fa parte – insieme a Roberto “Svizzera” Fico (così lo apostrofano per la proverbiale neutralità con cui affronta i guai interni) – del comitato dei Garanti, l’organo nominato da Beppe Grillo come contrappeso ai vertici del Movimento. E il marchio di Raggi nei 5Stelle è uno solo: popolarità nella base. Non è un caso, quindi, che Di Maio abbia voluto incontrarla proprio nel giorno in cui sui giornali finiva la minaccia di Conte di convocare un’assise degli attivisti in cui processare l’ex numero uno. Poi, a sera, la telefonata con Appendino, un altro pezzo da novanta dei 5Stelle, stimata da tutti.

Certo, gli incontri e le telefonate non significano in automatico che “le sindache” si siano schierate dalla parte di Di Maio, questo no. Ma è chiaro che quello di ieri è un uno/due che serve a galvanizzare le truppe anti-contiane e a smentire la narrazione dei fedelissimi dell’ex premier per cui Di Maio “non ha big” dalla sua. Mettici poi che Alessandro Di Battista, per qualche ora eroe dei contiani (aveva detto, sempre al Fatto, che Di Maio pensa più agli interessi suoi che alla salute del M5S), si è rimesso i panni del battitore libero, scrivendo su Facebook che lui no, a differenza di Conte, di Enrico Letta non si fida. Mentre Riccardo Fraccaro, accusato di tradimento per un incontro con Matteo Salvini prima dell’inizio del voto sul Quirinale, ieri ha individuato nella scelta di campo, quella con il centrosinistra, l’origine dei mali di cui soffre ora il Movimento.

Quello che a nessuno è ancora chiaro, però, è quale sia il punto di caduta di questa guerra. Nella tregua non ci crede praticamente nessuno, ma al momento non esiste un luogo fisico, e nemmeno virtuale, in cui inscenare la conta. Ci sono le sedi formali, quelle sì. A cominciare proprio dal comitato dei Garanti in cui siedono Di Maio e Raggi, oltre che Fico: da lì dovranno passare tutti i regolamenti ancora in attesa di essere varati e che avranno valore alla prossima tornata elettorale. Di deroghe alla regola dei due mandati non si è più saputo nulla, ma tutti immaginano che al massimo saranno poco più di una dozzina i “salvati” e che Di Maio, nella guerra con Conte, potrebbe far leva anche su questo malcontento. Si brancola nel buio. Inutile scervellarsi nelle interpretazioni del post che Beppe Grillo ha pubblicato ieri. È la prima volta che parla dopo lo scivolone sul tweet pro-Belloni di venerdì scorso. Riappare e parla di femori rotti: “Nessun animale – scrive citando l’antropologa Margaret Mead – sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo da permettere all’osso di guarire”. Chi è l’animale? Conte? Di Maio? Di chi è la gamba rotta? Il dubbio resta, fino alla prossima foto.

 

I PARERI

Metamorfosi Luigi ormai pare rumor, può fondare il partito dei poltronari

Conte ha accettato la leadership di un movimento morente, all’interno del quale Grillo e Di Maio lo detestano. Il problema, enorme, sta tutto lì. Letta è stato osceno su Belloni, ma l’alleanza con il centrosinistra rimane l’unica strada, a meno che Conte non voglia abbracciare il movimentismo à la Di Battista: lecito e per certi versi sensato, ma non ce lo vedo. Conte non può sempre inseguire Letta: dev’essere un’alleanza, non un’annessione. E se Letta non si libera dei renziani, che vada pure a sculacciare le rane con Marcucci e Guerini. Di Maio è bravo ragazzo e politico scaltro, ma odia Conte e ormai è più democristiano di Rumor. Vederlo celebrato da Brunetta, Casini, Nobili, De Benedetti, Boschi eccetera mette malinconia. Può varare in serenità un nuovo PDI (Poltronari Dorotei Incalliti), pieno di nuovi Churchill tipo Castelli e Carelli, ma non può esistere alcuna coabitazione tra Conte e Di Maio. Parafrasando De André: “Sono riusciti a cambiarti/ ci son riusciti lo sai”. Peccato.

Andrea Scanzi

 

Compromesso I duellanti dei 5s devono mediare e stare con Letta

Di Maio sfida Conte per ragioni che mi sfuggono, visto anche che dalla vita ha già avuto moltissimo. Forse c’entra la possibilità di restare in politica anche per un terzo mandato, ma a maggior ragione allora dovrebbe cooperare per la ristrutturazione del M5S, non tentare di impallinarlo. Per Conte è un problema, anche perché fare il leader di partito non è come governare e forse non è la cosa che gli riesce meglio. L’unica soluzione è la mediazione, devono raggiungere un accordo per convivere, magari distribuendosi i compiti a seconda delle qualità. In ogni caso non credo che per i 5S esista altra strada rispetto all’alleanza con il Pd. Conte fa molto bene a dire che si fida ancora di Letta, ma fa meno bene a fidarsi, nel senso che quando si tratta si deve essere sicuri di arrivare a un risultato che entrambi rispetteranno. Il problema non è Letta, ma il fatto che Letta debba fare i conti con 4 o 5 posizioni diverse nel Pd.

Gianfranco Pasquino

 

La base Se non si trovano intese, dovranno decidere gli iscritti

Per il bene del M5S e del Paese, la soluzione migliore per Conte sarebbe “imbrigliare” Di Maio, facendogli capire che in questo momento loro due sono parte di una sfida molto più grande: noi tra un anno rischiamo che la destra stravinca le elezioni e una rottura nel M5S sarebbe soltanto dannosa. La posta in gioco è altissima e c’è bisogno di un’alleanza forte tra Pd e M5S, anche se in molti continuano a non capirlo. E la destra si infila nelle spaccature dei 5 Stelle, trascinando Di Maio verso di sé. Se però Conte non riuscirà a condurre a più miti consigli il ministro degli Esteri, allora non vedo tanto alternative se non un aut aut in cui a decidere saranno gli iscritti del M5S. E credo che in quel caso la base starebbe con Conte, anche perché ormai Di Maio, che ho sempre ritenuto essere un politico capace, si comporta come un Renzi dentro al M5S.

Domenico De Masi

MiniMario

Un anno fa, 2 febbraio 2021, Mattarella chiamò Draghi per sostituire Conte, dimissionario dopo aver avuto la fiducia di Camera e Senato, con un coso mai visto prima: “Un governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica” con “tutte le forze politiche presenti in Parlamento”. Sfortunatamente abboccarono tutti i partiti tranne fortunatamente uno (sennò avremmo avuto un coso già visto prima, ma nelle dittature). Il progetto era chiaro: cancellare il popolarissimo premier che aveva gestito la pandemia e portato a casa 209 miliardi di Pnrr; raddrizzare le gambe agli elettori che avevano sbagliato a votare nel 2018 per un cambiamento radicale (ribattezzato dai gattopardi “populismo” e “sovranismo”); neutralizzare i partiti vincitori annegandoli in una maggioranza così ampia da renderli ininfluenti e infiltrando in ciascuno di essi un PdD (partito di Draghi) per scardinarne le leadership e riportarli a più miti consigli. Perciò i ministri politici furono scelti, con rare eccezioni, fra i più allineati al sistema: Di Maio per il M5S, gli antisalviniani Giorgetti, Garavaglia e Stefani per la Lega, i lettiani (nel senso di Gianni) Brunetta, Gelmini e Carfagna per FI, più i pidini già allineati per Dna. L’avvento di Letta (nel senso di Enrico) al vertice del Pd agevolò la restaurazione. Il cerchio si sarebbe chiuso se Grillo, dopo aver trascinato i 5S nel governo dei “grillini” Draghi e Cingolani, avesse buttato fuori Conte dopo avergli dato le chiavi: ma la congiura fallì per la rivolta dei militanti.

In ogni caso, chi aveva architettato questo bel progettino era certo che SuperMario avrebbe fatto tali miracoli da lasciare senza fiato gli italiani, regnando sull’Italia, l’Europa e l’orbe terracqueo per almeno 10 anni. Invece non ne azzeccò quasi nessuna, mentre la maionese della maggioranza impazziva. Allora tentò la fuga al Quirinale. Ma, malgrado le sue frenetiche manovre, non se lo filò nessuno (5 voti). Costringendo Mattarella a tagliarsi la faccia e a smentire mesi di “rielezione mai”, pur di salvare il salvabile del Piano Gattopardo. Risultato. Tutte le massime istituzioni sfregiate o screditate: il “nuovo” capo dello Stato che rinnega la parola data come un Napolitano qualsiasi; SuperMario sconfitto, umiliato e ridotto a MiniMario; la presidente del Senato ridicolizzata in diretta tv; la direttrice del Dis impallinata da Letta jr., Di Maio, FI e frattaglie varie (e screditata dalla foto con Giggino); la maggioranza in frantumi, con le coalizioni e i partiti in pezzi; l’“antipolitica” ai massimi storici, col nuovo boom dell’astensionismo; e un solo partito che ci lucra: l’unico che sta all’opposizione, il più “populista” e “sovranista” fra quelli che i gattopardi volevano radere al suolo. Bei pirla.

Buzzati cronista di nera, dai delitti ai “magnaccia”

Ventiquattro. “Poi capita il caso del signor William Esetl Benson, e si resta perplessi. Costui, a quanto è dato intuire dalle laconiche notizie, è sempre stato un poco di buono, un tanghero, un fannullone, un riottoso. Il tipo classico che si direbbe costituzionalmente alieno dagli scrupoli di coscienza e dalle turbe psicologiche. Eppure, dopo 24 anni, arrestato per una rapina, ha rivelato alla polizia il suo infernale segreto: per la sua indisciplina e la sua mascalzonaggine, quando aveva 17 anni, era stato espulso dalla scuola di New London, suo padre gliele aveva suonate di santa ragione e lui, per rappresaglia, era andato ad allentare, nei sotterranei dell’istituto, i manicotti delle tubazioni del gas, pensando che “qualcosa sarebbe successo”. Altro che qualcosa: 282 bambini e ragazzi, oltre a 14 maestri, spediti all’altro mondo, senza contare le decine e decine di feriti, molti dei quali rimasti mutilati o sfigurati per tutta la vita” (William E. Benson: l’uomo che uccise trecento persone, 1961).

Ermellino. “Non sorprende che questa donna, fatta apparire come una tragica eroina, abbia scritto dal carcere, una decina di giorni appena dopo il fatto, una lettera al giudice istruttore affinché si prendesse cura della sua cappa d’ermellino sequestrata come corpo di reato?” (Il delitto di Pia Bellentani, 1951).

Volti. “È noto che molti delinquenti non hanno il volto da delinquenti. Nella categoria dei truffatori, per esempio, il tipo simpatico predomina in grande maggioranza; la cosa è più che logica. Anche gli sfruttatori di donne, i ‘magnaccia’ per intenderci, sono molto spesso dei bei giovani dal sorriso affascinante; e sarebbe strano che fosse altrimenti. Senza voler riesumare le teorie del Lombroso, è facile invece riscontrare qualcosa di losco nei criminali di genere violento, come certi assassini, i rapinatori, i cosiddetti ‘gorilla’” (L’arresto della banda Cavallero, 1967).

Basso. “Perché a chi è in basso riesce grato il pensiero che la sventura – nei suoi aspetti più laidi e crudeli – entri anche nella casa del ricco e del potente. Allora l’uomo dice a se stesso sorridendo: ‘Proprio vero che la ricchezza, l’alta posizione sociale eccetera non voglion dire la felicità’; e si tien pago della sua mediocre vita; e inconsapevolmente gode così del male altrui” (Il delitto di Pia Bellentani, 1951).

Chirurghi. “Mi ha fatto sempre impressione vedere celebri chirurghi e illustri magistrati ridere come gli altri uomini, mangiare e bere come gli altri uomini, divertirsi al cinematografo o a teatro come gli altri uomini. La cosa ancor oggi ha per me qualcosa di incomprensibile. Quel signore distinto in abito blu che scherza con una bella signora – io penso – questa mattina ha probabilmente aperto due o tre pance e in questo stesso istante può darsi benissimo che uno di quei malati stia morendo; non solo, fra sei-sette ore lo stesso signore distinto impugnerà di nuovo il bisturi e deciderà della vita e della morte di altre persone” (Il suicidio del giudice popolare Silvio Andrighetti, 1957).

Volante. “Ecco il delitto passionale delle giungle d’asfalto. Persone normalissime e educate, che nella vita familiare e di lavoro hanno un ferreo dominio di se stesse, diventano delle cariche esplosive quando hanno in mano il volante. Perché? È la macchina e non più le classiche passioni a sconvolgere oggi il nostro animo?” (Il caso dell’avvocato Oreste Casabuoni che in seguito a una lita per un sorpasso azzardato, sparò al commerciante Aurelio Pellegatta, uccidendolo, 1960).

Notizie tratte da “La nera di Dino Buzzati”, Mondadori, 640 pagine, 30 euro

 

Pasolini e Chiaromonte, giganti dalle alterne fortune: il primo elogiato, l’altro dimenticato

Com’è noto, sono due gli anniversari da festeggiare quest’anno: il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, il 5 marzo, e il cinquantenario della morte di Nicola Chiaromonte, lo scorso 18 gennaio. Per quest’ultimo c’è un Meridiano Mondadori curato da Raffaele Manica, mentre per Pasolini si annunciano tantissimi libri, mostre, ristampe, trasmissioni televisive.

Il saggista militante Chiaromonte rischia di essere messo in ombra: morto per infarto nel 1972, tre anni prima del massacro di Pasolini, da ragazzo era diventato amico di Moravia. Anch’egli aveva pubblicato su L’interplanetario, rivista fascista, prima di riparare in Francia per antifascismo, essendo diventato amico di Carlo Rosselli e della sua Giustizia e libertà. Quando i nazisti occupano Parigi, Chiaromonte, prima di New York, si rifugia in Nord Africa, dove incontra Albert Camus, di cui diventa amico fraterno: non faceva altro che cercare amici e si sa che l’amicizia intellettuale somiglia all’amore. Ma, dopo fasi entusiastiche, gli amici lo abbandonano.

Pasolini e Chiaromonte erano due estranei. Non si sono mai citati proprio per il loro pensiero politico. Il primo era rimasto comunista, sia pure tenendosi critico nei confronti del Pci e l’altro, in compagnia dell’amico Silone, era tra “i cretini”, come li definiva Togliatti, ossessivamente antistalinisti. Chiaromonte si era chiesto da subito come aveva potuto l’ideale socialista impantanarsi fino alla scissione del 1921.

Conobbi Chiaromonte al caffè Rosati di Roma. Me lo presentò Alberto Moravia. Erano appena iniziate le occupazioni della Sapienza. Parlando degli studenti, mi invitò a collaborare a Tempo presente con un racconto. Andai a trovarlo in redazione. Mi chiese se volevo conoscere Ignazio Silone, che era in altra stanza. L’autore di Fontamara si negò con la scusa che stava uscendo. Riflettendo sulle voci attorno al finanziamento della Cia, rimbrottato da Enzo Siciliano, non consegnai il racconto. Preferii pubblicarlo su Nuovi Argomenti.

Leggendo poi Uscita di sicurezza di Silone e Credere e non credere di Chiaromonte mi pentii di averli trascurati. Sono due capolavori di “affabulazione critica” l’uno e di saggismo dubbioso l’altro, anche se forse datati. Senza dubbio Descrizioni di descrizioni insieme a Scritti corsari di Pasolini e Impegno controvoglia di Moravia sono più attuali. Peccato tuttavia che Chiaromonte e Silone non si siano confrontati in vita con Pasolini: sono anniversari di due giganti che dovrebbero farci riflettere sugli anni felici dell’intellettualità italiana.