Lettini e ombrelloni più cari nel 20% degli stabilimenti

Alla fine, l’annosa discussione tra gli imprenditori dell’ombrellone su quanto è ragionevole aumentare le tariffe per rifarsi dei costi di sanificazione sembra essersi congelata davanti alle troppe ripercussioni economiche. Così da oggi, con il “liberi tutti” che dà l’avvio anche alla stagione balneare, solo nel 20% degli stabilimenti si troveranno prezzi più alti rispetto a quelli dell’anno scorso. Si pagherà di più sul Tirreno e lungo la costa ligure: prezzi simili all’estate 2019 sull’Adriatico e sullo Ionio.

A fare i conti per i primi bagnanti è l’Istituto ricerche sul consumo ambiente e formazione (Ircaf) su una quarantina di stabilimenti (dalle calette agli scogli fino ai lunghi arenili). Secondo l’indagine realizzata, in un sabato o domenica di giugno chi volesse prendere due lettini e un ombrellone in quarta fila sborserà 20,93 euro, contro 20,5 euro dello scorso anno. Certo, poi a luglio si vedrà.

Per ora la sfida è riuscire a sistemare gli ombrelloni rispettando le nuove norme (12 metri quadrati per ogni ombrellone e 1,5 metri di distanza per lettini e sdraio singole) e non spaventare i clienti con prezzi troppo alti. Soprattutto gli stranieri che hanno a portata di traghetto le più economiche Croazia o Grecia.

La forbice dei prezzi resta la classica Nord contro Sud. Per i bagni che si trovano sul mare Adriatico e Ionio la spesa media si attesta a 17,95 euro per il giornaliero e 93,9 per il settimanale, vale a dire il 35% in meno di quanto si spenderà per il giornaliero in uno stabilimento sul mare Tirreno e Ligure (dove si paga24,21 euro) e il 58% in meno per il settimanale (149,11 euro).

E poi ci sono gli inevitabili distinguo. A Praia Mare (Calabria), Vieste (Puglia) e Grado (Friuli) per un giornaliero si paga 10 euro; prezzi contenuti (12 euro) anche a Rodi Gargano (Puglia), Gabicce Mare (Marche), Alcamo (Sicilia) e Policoro (Basilicata). Lo scettro della spiaggia più cara lo ottiene la Versilia (Toscana), con un esborso giornaliero di ben 40 euro, seguito da Sabaudia (Lazio) a 36 euro, Milano Marittima (Emilia-Romagna) e Fregene (Lazio) con 35 euro.

“Abbiamo rilevato anche la spesa media settimanale che nel 2020 – spiega il presidente dell’Ircaf Mauro Zanini – si attesta a 120 euro a fronte dei 117,18 euro pagati la scorsa estate. Quasi tutti gli stabilimenti che hanno aumentato i prezzi avevano tariffe medie fra le più basse. E il loro rincaro medio per il giornaliero si attesta a 2,64 euro e 12,28 euro per il settimanale”.

Siamo all’inizio della bassa stagione e sarà importante capire come andrà nelle prossime settimane tra la preoccupazione sul possibile calo della domanda e l’aiuto che potrà arrivare dal bonus vacanze da 500 euro a famiglia per i pagamenti legati ai servizi offerti in Italia dalle imprese turistico ricettive. Per ora prevalgono le polemiche sulle modalità di funzionamento e sui troppi ostacoli tecnici e burocratici che rischiano di impedirne l’applicazione.

“A Milano il virus vi ha fatto rivedere il cielo senza smog”

Serge Latouche si ferma, tossisce e poi riprende, lento: “Bon, se questa volta ci salviamo, la prossima sarà peggio”. Male, più che bene. Decisamente.

Nella fase iniziale e drammatica della pandemia, è uscito in Italia Come reincantare il mondo, l’ultimo libro dell’accademico francese della decrescita felice. Ossia l’economia che ha tutti gli attributi della religione, tipo le chiese-banche e le cattedrali-imprese. A sua volta imitata dalla religione che usa la metafora economica, come quando esige un prezzo per pagare i peccati. Latouche si chiede: “Questo papa è un partigiano della decrescita?”. In ogni caso, Francesco è un pontefice che, a Latouche, piace più del liberista emerito Benedetto XVI.

Francesco che prega da solo in piazza san Pietro sarà una delle immagini simbolo di questo periodo tragico ed eccezionale. Un leader?

Visto dalla Francia che è un Paese laico, non userei la parola leader, però per l’Italia è stato molto rassicurante e presente nell’emergenza. E poi lo trovo simpatico anche se sono ateo.

È stata un’Apocalisse, per rimanere in tema.

Sicuramente è l’ennesimo sintomo del collasso cui andiamo incontro. Non è il primo, né sarà l’ultimo.

Pessimista, eh?

Vede, la cosa più interessante è che per la prima volta la salute è stata considerata più importante dell’economia. Basta pensare al cambiamento di Macron o a voi italiani che siete stati i primi a muovervi.

Il premier Conte è stato accusato di dittatura.

Credo che tutto sommato questo Conte, che all’inizio contava poco, si è rivelato un uomo di Stato di una certa dimensione. Quanto alle accuse, be’, c’è poco da dire: era ben difficile fare altrimenti. C’erano alternative alle politiche di confinamento?

Prima la salute.

Siamo ritornati alle origini del contratto sociale di Hobbes, quando la gente rinunciava a tutti i diritti per salvare la vita.

Il contrario del contratto liberale di Locke.

Qui il contratto sociale vale per cercare la ricchezza a scapito di tutto il resto. Attenzione però: le due visioni sono antagoniste ma complementari.

Qualcosa cambierà, tuttavia.

Il produttivismo, la globalizzazione hanno mostrato la loro fragilità. Tutte le mascherine, per esempio, sono arrivate dalla Cina. L’Occidente è rimasto vittima di se stesso.

Lei spera, senza dubbio.

Sì, ma non basterà per cambiare.

Ora si riapre soprattutto per accontentare il sistema liberista.

Le forze economiche sono state le prime a spingere per la riapertura. Dopo questa parentesi vorranno tornare alla crescita come prima.

Ma?

Allo stesso tempo molta gente è stata colpita dal fatto che si poteva respirare meglio.

Il cielo è blu sopra il virus.

In tanti hanno capito che si poteva vedere il cielo senza smog a Pechino o a Milano. Addirittura hanno constatato che si viveva meglio.

Il Covid-19 come occasione da non sprecare.

Parte della popolazione ha preso coscienza. Il progetto di rottura del produttivismo si fa strada. La descrescita è l’unica via di uscita. Altrimenti la prossima volta sarà peggio.

Una decrescita forzata, in questo caso.

Sì certamente, ma in questa presa di coscienza c’è chi ha scoperto che si può vivere senza consumare tanto. Non solo. Ci sono state forti manifestazioni di solidarietà, di creatività. È stato bello applaudire dai balconi i medici. Tutto questo può essere decisivo.

C’è stato finanche lo smart working di massa.

Ecco, questa virtualizzazione della vita è stata terrificante. Jean Baudrillard (teorico della postmodernità, morto nel 2007, ndr) aveva già profetizzato il trionfo della vita virtuale sul reale.

Dal lavoro alla scuola.

Bisognerà studiare i danni, per esempio, dei bambini davanti ai computer.

C’è da reincantare il mondo, lei scrive, con la saggezza, con “una gestione democratica del senso”. E politicamente?

Con un new deal ecologico e protezionista.

L’ecosocialismo, in una parola.

La pandemia ha accelerato il ritorno dello Stato. Anche se si cercherà di ripristinare la normalità, la logica dell’austerità, del rigore, dei bilanci è saltata in aria.

Il totem del Pil, religione europea.

Ci vorrà un deficit gigantesco per salvare il sistema.

Però tutto questo rischia di riempire di voti la pancia di una destra nera.

Questo è il più grande pericolo, penso soprattutto all’ungherese Orbán che incarna il populismo di destra al governo.

Al di là dell’oceano c’è Trump, per non parlare di Bolsonaro. Il loro approccio al virus, diciamo così, è stato controverso, se non negazionista.

Bolsonaro è un pazzo. Trump ma pure il britannico Johnson non volevano piegarsi alle misure di confinamento, poi sono stati obbligati dalle circostanze. È stato un risultato della pressione dell’opinione pubblica, sulla base di quello che dicevano gli scienziati.

La pandemia come un punto di inizio, in definitiva.

Ci ha ricordato che prima della ricchezza c’è la vita.

E nessuno “vuole tornare nelle caverne”: nel suo ultimo libro lei cita un passaggio di papa Francesco tratto dall’enciclica Laudato si’.

Rispetto ai suoi predecessori questo papa ha fatto autocritica ed operato delle rotture. Resta da capire se la sua rivoluzione riuscirà ribaltare il corso della storia e a invertire la marcia verso la catastrofe.

Ci crede?

La tendenza è avviata e lo dimostra appunto la presa di coscienza da parte di molti in questa emergenza. Bisogna comprendere che la modernità ci spinge all’Apocalisse finale.

Altrimenti non ci salveremo. Arrivederci, professore Latouche.

Titolo libro
seconda

 

L’Oms: “Cina poco trasparente”

L’Associated Press ha pubblicato stralci di verbali in cui, nelle prime settimane di gennaio, dirigenti dell’Oms si lamentavano delle scarse informazioni fornite dalla Cina sul Covid-19.

A metà gennaio i tecnici sono infuriati. I cinesi non danno le informazioni che per legge dovrebbero condividere, dicono. “Ce le comunicano 15 minuti prima di darle alla tv di Stato”, sibila in una delle minute il rappresentante a Pechino Gauden Galea. “Riceviamo un’informazione minima”, conferma Maria Van Kerkhove, capo dell’unità anti Covid-19 di Ginevra, “chiaramente insufficiente per pianificare una risposta adeguata”. Mentre agli inizi dell’anno il SarsCov2 si diffonde in Estremo oriente, l’Oms ha “chiesto formalmente e informalmente dati epidemiologici aggiuntivi” ma “non abbiamo ottenuto nulla”, fa mettere a verbale ancora Galea in una delle riunioni. Che raccontano un’altra storia rispetto a quella emersa finora: accusata di connivenza con la Cina, nei recording pubblicati dall’Ap trapela il disappunto dell’agenzia Onu per la scarsa collaborazione dimostrata da Pechino.

A fine anno, ricostruisce l’Ap, alcuni dottori iniziano a riferire di “misteriose polmoniti”. Il 27 dicembre la Vision Medicals isola buona parte del genoma di un virus sovrapponibile alla Sars, condividendo le informazioni con le autorità di Wuhan e l’Accademia Cinese delle Arti Mediche. Ma la codifica completa viene diffusa solo l’11 gennaio. “Dopo settimane non abbiamo una diagnosi di laboratorio, dati su età, genere o diffusione geografica né una curva epidemica”, attaccava i quei giorni Michael Ryan, direttore dell’unità di emergenza Oms. Solo il 20 Zhong Nanshan, capo del team di infettivologi inviato da Pechino nello Hubei, parla di un virus in grado di passare da un essere umano all’altro. Quando il 30 gennaioTedros Adhanom Ghebreyesus dichiara l’emergenza globale è tardi: secondo il Cdc di Pechino, l’epidemia è già cresciuta tra le 100 e le 200 volte. “Avremmo già dovuto esprimere rispetto e gratitudine alla Cina per quello che sta facendo”, l’elogio vergato quel giorno dal dg dell’Oms. “Ha fatto cose incredibili per limitare la trasmissione del virus ad altri paesi”. Sottoposta a un’indagine indipendente, i leak pubblicati dall’Ap arrivano in un momento delicatissimo per l’Oms, finita anche nel mirino di Donald Trump che venerdì ha annunciato l’uscita degli Usa dall’organizzazione e il ritiro del contributo annuo da 450 milioni di dollari. Ne emerge il ritratto di un governo mondiale della sanità imbrigliato dai limiti della sua stessa autorità: il diritto impone ai 194 Stati membri di comunicare dati che possono impattare sulla salute pubblica, ma l’agenzia non può indagare sulle epidemie che scoppiano all’interno dei paesi. Gli elogi pubblici, è la lettura dell’Ap, sarebbero stati quindi una sorta di moral suasion per cercare di strappare più informazioni sull’epidemia e spronare Pechino a collaborare.

Conte, un piano Marshall per scacciare i fantasmi

Innanzitutto chiederà responsabilità e cautela, a tutti. Perché oggi le Regioni riapriranno i confini, e potrebbe bastare poco per ridare forza e artigli al coronavirus, fiaccato da settimane di chiusura e dai provvedimenti che l’avvocato diventato premier rivendica come sacrifici indispensabili. Ma oggi pomeriggio, nel suo ennesimo discorso alla nazione, sotto forma di conferenza stampa, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, proverà soprattutto a declinare il futuro: del Paese e di fatto del suo governo.

Sarà il mercoledì del suo piano Marshall, parafrasando il Sergio Mattarella che due giorni fa aveva ricordato l’immediato dopoguerra, l’Italia del 1946, invocando “un nuovo inizio” per una nazione ferita. E la chiave di Conte sarà il Recovery Plan, il piano di rilancio che aveva già illustrato in una lettera al Fatto pochi giorni fa.

Sette punti, dalla riduzione della burocrazia “con una rivoluzione culturale nella Pubblica amministrazione” al rilancio degli investimenti pubblici e privati, per arrivare agli “incentivi alla digitalizzazione, ai pagamenti elettronici e all’innovazione” e alla “transizione verso un’economia sostenibile”. Fino a processi più veloci e a una riforma del Fisco, annunciata anche dal M5S tramite una dimaiana di ferro come il viceministro all’Economia, Laura Castelli.

Tante voci e promesse per ripartire, usando come leva i miliardi che dovranno arrivare con il Recovery Fund dell’Unione europea: la benzina indispensabile ”per impostare l’ avvenire da qui a dieci anni” come dicono da Palazzo Chigi. Perché vuole mostrare di pensare in grande, il premier. Svoltata la boa dei primi due anni a Palazzo Chigi, sa che deve puntare su se stesso e su un’agenda “forte” per sottrarsi ai venti contrari, fuori e dentro la sua maggioranza. Avverte e vede movimenti traversali, il presidente che non vuole avere casacche, ma che da terzo è anche più solo, più esposto. Per questo, raccontano, ha apprezzato l’intervista di ieri di Romano Prodi a Repubblica, in cui l’ex premier lo ha difeso. “Questo governo non può cadere, non esiste alternativa”, ha sostenuto il fondatore dell’Ulivo. Duro nei confronti del presidente di Confindustria Carlo Bonomi (“Dicendo che la politica rischia di fare più danni del Covid ha pronunciato un’affermazione distruttiva”): favorevole all’entrata dello Stato in alcune aziende “indispensabili per il nostro futuro”, così da “difenderle da mire straniere”, proprio come intende fare Conte. Ma per tutelarsi l’avvocato deve mettere in campo soluzioni concrete, garantire che ha una rotta che va oltre il crinale del Covid. E da qui si torna al suo piano, che guarnirà insistendo sulla necessità di uno spirito da unità nazionale. “Ma senza appelli particolari alle opposizioni o ai partiti in generale” spiegano fonti qualificate. Conte ha evitato di commentare la manifestazione di ieri del centrodestra a Roma.

Ma da Palazzo Chigi filtra la convinzione che il corteo “sia andato in direzione opposta a quanto auspicato dal presidente della Repubblica” appena poche ore prima. E il filo che Conte e i suoi vogliono tirare è sempre quello che porta al Quirinale, il punto di riferimento del presidente del Consiglio, l’unica certezza a cui non ha mai rinunciato in due anni in cui ha cambiato maggioranza, parola d’ordine e piani. Per non cadere.

Ippolito: “Sono irresponsabili, c’è rischio contagi”

“Una mancanza di rispetto e responsabilità”. Così Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto “Lazzaro Spallanzani” di Roma, ha definito le due manifestazioni di ieri a Piazza del Popolo, sia la sfilata tricolore di FdI e Lega contro il governo Conte, sia il sit-in dei gilet arancioni di Antonio Pappalardo, che sostengono che il Covid sia tutta un’invenzione. “Capisce che già chi sostiene una cosa del genere non ha cognizione di ciò che è accaduto negli ultimi mesi”, ripete Ippolito, contattato dal Fatto.

C’è il pericolo che i flash mob si trasformino in focolai?

È una situazione molto rischiosa. Non abbiamo dati sui presenti, ma di certo è stata una grossa mancanza di responsabilità in un momento in cui i dati ci danno conforto. Non dobbiamo abbassare la guardia.

Non c’è stata interlocuzione con i prefetti?

So che c’era stata una richiesta di attenzione alle prefetture, una sensibilizzazione per evitare assembramenti. Ma non sono in grado di dire chi e sulla base di quali criteri le manifestazioni siano state autorizzate.

L’autorizzazione c’è stata. Sarà da monito per i prossimi mesi?

Non sono nelle condizioni di dirlo. Posso solo ricordare che uno come Boris Johnson ha dato disposizione di evitare assembramenti con più di 6 persone. Qui invece non mi pare si sia data una grande prova di rispetto.

Roma è arrivata a tre contagi al giorno. Fa bene il Lazio a non disporre la quarantena per chi arriva dalla Lombardia?

Le disposizioni sono state prese di concerto con il comitato scientifico, quindi si procederà in questo senso.

Pappalardo insulta tutti: “Facciamo la rivoluzione”

“Benito Mussolini non è stato fermato quando ha fatto la marcia su Roma, perché i nostri pullman sì, invece?”. Non si capisce se sia un altro attacco al sistema – dopo le scie chimiche, il 5G, i vaccini, le mascherine assassine – o il palesamento della propria ispirazione storica, fatto sta che il Generale Antonio Pappalardo, già sottosegretario di Stato ai tempi del governo Ciampi, si presenta così in piazza del Popolo, dove sono radunati i suoi Gilet arancioni.

Il Generale arriva verso le tre e in piazza ci sono due o trecento manifestanti; tutti vicini, a volto scoperto e spesso arrivati da fuori Regione: “Me ne frego delle multe – si vanta una signora delle Marche –, si approfittano della paura della gente”. Loro di paura sembrano non averne: per Andrea il Covid è “una buffonata per distruggere le piccole attività”; per Gianluigi una farsa dimostrata dal fatto “che nessun politico sia morto”, per Pappalardo “una boiata”.

Per chi arriva in piazza l’accoglienza è delle migliori. Un signore distribuisce un tagliandino che in realtà – sorpresa – è una banconota dal valore di “2.500.000.000 euro”, due miliardi e mezzo, con tanto di spiegazione sul retro dei motivi per cui quel pezzetto di carta ha la stessa credibilità della moneta stampata dalla Bce. Nel dubbio sempre meglio intascare, anche perché il Generale ha intenzioni serie: “Vogliamo metter fine al governo Conte, istituire un’assemblea costituente per una nuova legge elettorale e poi realizzare il governo del popolo e tornare a stampare la lira”. E vai col coro: “Lira! Lira!”.

C’è una parola buona per tutti: Sergio Mattarella e Giuseppe Conte sono “servi”, Bill Gates è “l’Anticristo”. Con Matteo Salvini il Generale ce l’ha a morte perché – lo racconta dal palco – la sera prima Pappalardo sarebbe dovuto essere ospite di Nicola Porro, ma poi il giornalista ha fatto saltare l’intervista preferendogli il leghista.

La giornata va avanti così, tra la denuncia di intrighi internazionali e siparietti da sagra di paese. A un certo punto qualcuno dal palco mostra l’immagine di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – Maria Falcone definirà “intollerabile” la strumentalizzazione del fratello –, senza accorgersi che la folla è rimasta indietro di un coro: “Abusivi! Abusivi!”.

Ma a metà pomeriggio è già ora della polemica interna. Un gruppetto se la prende con Pappalardo: “Ti sei venduto, fai solo chiacchiere”. Si erano illusi di assaltare Montecitorio, tanto che un ragazzo già dava indicazioni su “due uomini col binocolo che ci tengono d’occhio dall’alto” mentre un biondo a petto nudo si lamentava: “Aveva detto che ci saremmo fatti arrestare, perché non andiamo?”. Una specie di Orizzonti di gloria con gli stilemi di un cinepanettone, fatto sta che a un certo punto una ventina di persone – per la verità più vicine ai movimenti di destra che ai catarifrangenti – si muove verso via del Corso dove è schierata la polizia. Qualche minuto di urla, poi il Generale li convince a rimandare la presa della Bastiglia: “Non facciamo queste improvvisate, se domani (oggi, ndr) saremo un milione di persone saranno i poliziotti a lasciarci passare”. Si vedrà.

Meloniani arrabbiati: “Matteo pensava di essere al Papeete”

“Ma quali untori. Giorgia Meloni ha fatto un appello a non andare in piazza del Popolo perché sennò c’era il rischio che venisse tutta Roma”. Francesco Storace, direttore del Secolo d’Italia ne fa una questione di principio. È appena terminata la manifestazione del centrodestra, nel mirino per la calca e gli assembramenti, ed è già davanti al pc per vergare un corsivo al vetriolo contro chi ha tuonato contro la piazza. “Persone in carne e ossa. Con il pieno diritto di dire basta. Oppure manifestare spetta solo a chi scende in piazza il 25 aprile?”, dice al Fatto mentre gli pulsa la vena contro tanta ipocrisia: “In quell’occasione chi doveva controllare si è girato dall’altra parte per non fare le multe agli assembramenti rossi”.

Epperò resta il fatto che il flash mob organizzato per questo 2 giugno – senza la tradizionale parata della Festa della Repubblica e con le regole del distanziamento sociale imposte dal coronavirus – ha messo un po’ in imbarazzo gli alleati di Matteo Salvini. Perché lui, a differenza della Meloni, ha fatto il mattatore e il buttadentro, quando l’appuntamento inizialmente era stato pensato come riservato ai giornalisti o quasi. Che sono accorsi e si sono accalcati, ma non solo loro. Perché accanto a chi era in centro per i fatti suoi, poi c’erano pure le truppe che avevano raccolto l’invito pubblico del leader della Lega, orfano della piazza da un bel po’. “E che in piazza si è comportato come al Papeete: i patti erano che entrasse dal lato e invece l’ha attraversata in lungo e in largo, regalando selfie come se non ci fosse un domani. Certo non c’era Zaia, e Giorgetti non pervenuto”, sussurrano dalla cerchia ristretta della leader di Fratelli d’Italia, dove si pizzica Salvini. Ma si ammette pure che “la piazza o la si occupa a dovere o si rischia di regalarla ai Generali Pappalardo di turno”.

Le Regole. E così le regole impartite dai vertici sono sembrate troppo rigide: perché l’aver previsto che in piazza potesse andare solo chi era in lista (parlamentari, consiglieri comunali, dirigenti giovanili e pochi altri) ha scontentato più d’uno. Essersi trovati sotto rappresentati ha fatto il resto. Ma tant’è: i patti erano che Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia dovevano esserci con 100 persone a testa per un totale di 300, in modo che venisse assicurata una distanza minima di una persona ogni 4 metri, tal che se anche fosse accorso qualche curioso, comunque non ci sarebbe stato problema. Insomma, tra quelli di Fratelli d’Italia si era pensato a una piazza diversa, come quella vista a Bologna dove il flash mob è stato senz’altro più ordinato, ma soprattutto dove il protagonista assoluto è stato il Tricolore.

Ignazio La Russa. “Mettiamola così: in vita mia mai mi è capitato di dover dire no ai tanti che avrebbero voluto partecipare. E che dire del resto? A me piace il contatto fisico, ma mi sono attenuto alle regole: mi è scappato di dare la mano a una persona, forse mi ero distratto”, spiega Ignazio La Russa, politico di lunghissimo corso in pole per diventare nuovo garante della Privacy, che di polemizzare non ne ha proprio voglia. “È vero, c’era più gente del previsto – è ancora la sua versione – ma del resto poco più avanti c’era tanta gente che stava lì per le Frecce tricolori. E per dirla tutta, a San Lorenzo in Lucina, per l’aperitivo, altro che assembramenti! Insomma sarebbe stato comunque impossibile contenere le persone: c’è una grande voglia di piazza. La massima precauzione va bene ma non vorrei che qualcuno ci marciasse per approfittare di un clima di paura”. E poi, la polemica preventiva sul prossimo appuntamento al Circo Massimo: “Voglio vedere se imporranno qualche restrizione alla manifestazione del 4 luglio: li aspetto al varco, siamo pronti a rivolgerci al Tar”.

Assembramento fuorilegge: la destra è un focolaio di virus

Se c’è un’immagine che da sola vale l’intera manifestazione della destra a Roma, è quella che arriva al momento dei titoli di coda. Lo spiritato Ignazio La Russa si addentra nel rettangolo giallo dell’area stampa e comincia a riprendere i giornalisti con il suo smartphone . “Siete voi che siete accalcati! Poi non dite che è colpa nostra”. Attorno a lui si raccoglie un gruppo di militanti destrorsi, che insultano i cronisti: “Vi paga Soros!”, “Infami!”, “Venduti!”. A La Russa chiediamo di chi sia la responsabilità, se l’organizzazione dell’evento è così scadente che i giornalisti sono costretti a lavorare in quelle condizioni. Rapido come era arrivato, l’ex missino se ne va.

La marcetta su Roma del 2 giugno è un autentico capolavoro politico: una manifestazione in cui non c’è il popolo, né distanziamento sociale. Doveva essere un corteo pacifico e ordinato, invece è un caotico, sguaiato, prolungato assembramento. Per fortuna, se non altro, di dimensioni modeste.

Si era capito già alla vigilia che Matteo Salvini e Giorgia Meloni non avessero le idee chiare. L’evento del 2 giugno era stato lanciato poche settimane fa con lo slogan “tutti a Roma”. L’idea di manifestare in piazza di questi tempi, dopo mesi di sacrifici collettivi, era sembrata bizzarra e pericolosa. A un certo punto se ne sono accorti anche loro. Tardi. Lunedì la Meloni ha invitato i suoi a rimanere a casa: “Non vi chiediamo di partecipare. Non venite. Dobbiamo manifestare in sicurezza, non possiamo dare alibi al governo”. Ma che senso ha una protesta cui devono aderire meno persone possibili?

Il risultato è un disastro clamoroso: i manifestanti sono effettivamente poche centinaia, ma ci sono decine di parlamentari e dirigenti di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia e almeno altrettanti giornalisti. Tutti ammassati. Il centro della strada inoltre è occupato dal grande drappo tricolore che viene trascinato per tutta via del Corso, protetto da un cordone di servizio d’ordine. I manifestanti quindi sono tutti schiacciati sui due marciapiede. Una poltiglia umana in tempo di Covid: complimenti a chi ha avuto l’idea.

Il nervosismo degli organizzatori infatti è palpabile già dall’inizio. Giovanni Donzelli di FdI sbraita a tutti di fare spazio, di uscire dallo spazio centrale alla testa del corteo, dove si raggruppano tutti gli onorevoli che vogliono essere ripresi, cameramen e fotografi, militanti curiosi. Si sgola: “Parlamentari, giornalisti, colleghi tutti fuori dal quadratoooo! TUTTI FUORI DAL QUADRATOOO! Così si impazzisce!”. Claudio Durigon della Lega suda come una fontana. Annamaria Bernini e Licia Ronzulli di Forza Italia sono le prime ad andarsene.

Per partire si aspetta che Salvini scenda dalla Terrazza del Pincio, dove è in collegamento televisivo con Agorà. Il “capitano” arriva col sorriso di chi entra per ultimo alle feste, fende la folla che si raggruma attorno a lui (come in tempi normali), si concede plurimi selfie e si toglie spesso la mascherina tricolore (è del partito di Zangrillo: “Gli esperti dicono che il virus sta morendo”). Quindi si parte, ed è una calca colossale. In testa con Salvini e Meloni c’è pure Antonio Tajani, “reggente” di Forza Italia, che ha la mascherina nera e l’aria di uno appena sceso da un albero: lo sguardo è perso nel vuoto, forse per la consapevolezza della farsa in cui si è andato a cacciare.

Il percorso è breve. Si fa in tempo a cantare due volte l’inno di Mameli, un coro contro Conte (sedato con un gesto dagli organizzatori) e un paio di battimano per “Giorgia” e “Matteo”. Si sentono molteplici insulti al premier, diverse richieste di arrivare fino a Piazza Venezia (qualcuno ha nostalgia del balcone) e qualche parola ignobile contro il presidente della Repubblica (“La mafia ha ucciso il fratello sbagliato”).

Intanto il capo della Lega fa collezione di selfie a 32 denti, assembratissimi: non ha capito quanto siano fuori luogo, oppure fa finta. Poco più avanti incontriamo l’euroleghista Antonio Maria Rinaldi. Gli chiediamo che senso avesse convocare una manifestazione così. “Che domanda del cazzo”. E poi aggiunge, con l’aria di uno che sta per dire qualcosa di intelligente: “Perché lei invece il 25 aprile dov’era?”.

Il Coniglio superiore

Si pensava e sperava che leggendo le intercettazioni, penalmente irrilevanti ma moralmente rilevantissime, dell’inchiesta Palamara i nostri partiti avessero capito non solo che, ma anche come vanno riformati il Consiglio superiore della magistratura e l’Ordinamento giudiziario. Purtroppo non è così e infatti non solo il centrodestra, ma anche il Pd si oppongono a una delle proposte di maggior buonsenso avanzate dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: quella che, per rompere il circuito perverso delle porte girevoli fra politica e magistratura, impedisce ai magistrati che entrano in politica di tornare in toga con funzioni penali (sia inquirenti sia giudicanti???), ma vieta anche a chi ricopre cariche elettive (parlamentare, ministro, amministratore locale) di diventare subito dopo membro laico del Csm. Cioè dell’organo costituzionale che è il supremo garante dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura da ogni altro potere e dunque dev’essere esso stesso autonomo e indipendente da ogni altro potere. Anzitutto quello politico. Noi siamo per abolire i membri laici, cioè eletti dal Parlamento, affinché il Csm sia davvero un organo di autogoverno e non di eterogoverno dei magistrati, ma sappiamo bene che ciò richiederebbe una riforma costituzionale e che non esiste purtroppo una maggioranza (per giunta dei due terzi) disposta ad approvarla. Ma evitare che un ministro, un sottosegretario o un parlamentare vada direttamente a giudicare disciplinarmente i magistrati e a deciderne le carriere è proprio il minimo sindacale (poi, certo, va anche restituita la titolarità dell’azione penale ai singoli pm e non più soltanto ai procuratori capi, vanno aboliti i limiti di 8 anni per gli incarichi direttivi e semidirettivi delle Procure e va istituito un sistema misto, col sorteggio preliminare, per l’elezione dei membri togati del Csm).

E invece il Pd, per bocca del suo ineffabile sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, fa sapere che è cosa buona e giusta che un parlamentare cambi cappello e vada al Csm. Addirittura come vicepresidente, cioè come capo effettivo dell’insigne consesso, visto che raramente il presidente di diritto – il capo dello Stato – partecipa alle sedute. Del resto lo dobbiamo al Pd se i vicepresidenti degli ultimi due Csm, Giovanni Legnini di quello passato e David Ermini di quello in carica, erano fino al giorno prima parlamentari (Legnini addirittura sottosegretario all’Economia del governo Renzi). Alla faccia dell’autonomia e dell’indipendenza. Purtroppo i padri costituenti non avevano previsto le degenerazioni della partitocrazia.Dunque non avevano immaginato che il Csm si sarebbe trasformato in una casa di riposo per politici trombati o un plotone di esecuzione della peggiore politica contro la migliore magistratura. Ma ciò che sognavano, quando introdussero nel Csm la quota dei laici (pur minoritaria rispetto ai togati), era chiaro e lampante: e cioè che il Parlamento designasse figure di alto prestigio, professionalità e indipendenza nel mondo del diritto. Infatti prescrissero di sceglierli “tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”. Non tra parlamentari o sottosegretari in carica. Ci volle la spudoratezza prima di B., poi della Lega, poi del centrosinistra e infine dell’Innominabile per mandarci gli avvocati di stretta fiducia dei leader che, per comodità, se li erano già portati in Parlamento e al governo. Infatti, quando la politica era una cosa seria, anche i partiti più malfamati della Prima Repubblica mandarono a vicepresiedere il Csm giuristi cristallini come Vittorio Bachelet, Giovanni Conso, Vittorio Bachelet e Cesare Mirabelli, insieme a ex politici molto autorevoli e defilati come Alfredo Amatucci, Giacinto Bosco, Giancarlo De Carolis e Giovanni Galloni (con l’eccezione di Ugo Zilletti, beccato nelle liste della P2). Poi, con l’arrivo di B., lo sbraco: nel Csm entrarono i pasdaran antigiudici forzisti Viviani, Buccico, Casellati, Anedda, Di Federico, Spangher e Leone, uno degli avvocati di B. (Saponara), l’avvocato di Bossi (Brigandì, poi decaduto perché indagato e incompatibile, mentre raccoglieva dossier sulla Boccassini), l’avvocato di Etruria e di papà Boschi (Fanfani), due avvocati dalemiani (Di Cagno e Calvi), per finire in bellezza con i vicepresidenti Mancino (napolitanista), Vietti (piercasinista) ed Ermini (turborenziano e lottiano, poi convertito sulla via di Perugia).
Una galleria degli orrori che s’è aggiunta ai traffici di corrente dei membri togati, giocando di sponda con loro e col Quirinale (specie ai tempi di Re Giorgio) in conto terzi (i partiti di provenienza) per punire i magistrati migliori e promuovere i peggiori ben prima che il trojan nel cellulare di Palamara squarciasse il velo dell’ipocrisia. I casi De Magistris, Apicella, Nuzzi, Verasani, Woodcock, Iannuzzi, Robledo, Forleo, Di Matteo, Ingroia, Lo Forte, Scarpinato e tanti altri sono ancora lì, impuniti e graveolenti, a imperitura memoria (per chi ne possiede una). E ora che finalmente il re è nudo, tocca pure sentire qualcuno che non vuole cambiare le cose. O vuole fingere di cambiare tutto per non cambiare nulla. La verità è che i vecchi partiti non rimproverano a Palamara di aver fatto ciò che facevano tutti da 25 anni. Ma di essersi fatto beccare.

“Io, Re da discoteca in realtà volevo diventare Panatta”

Nemo propheta in patria. Vale pure per il dj-produttore più famoso al mondo. Bob Sinclar è miliardario, di bell’aspetto, fisico tonico. Un cinquantenne che mixa e inventa musica per incessanti global-party. Uno lo immagina sempre circondato da pupe da schianto e tentazioni assortite. Invece niente, pure il salutista della console è stato bollato come “noioso” dalla moglie Ingrid Aleman, sangue siciliano, che un paio di anni fa si è stufata di quest’uomo che si trascinava fino al divano e non gli andava mai di uscire.

Sinclar, la sua vita è davvero così noiosa?

La mia vita è fantastica (ride). In questi 55 giorni di lockdown in Francia ho fatto dirette ogni pomeriggio sui social. Un’ora di musica di volta in volta diversa: le mie radici, dal soul alla house alla disco. Centinaia di milioni di visualizzazioni, con le persone che mi hanno ringraziato per aver alleviato la quarantena. Se ho una missione su questo pianeta, è trasformare la mia creatività in felicità altrui. Sono in tour da quando avevo 25 anni, mi sono ritrovato blindato come tutta Parigi. Meglio pompare suoni che cucinare troppo.

E poi lei è uno sportivo. Un campione mancato.

Da ragazzo speravo di diventare un big del tennis. Ammiravo Panatta, e oggi Cecchinato. Il mio mito è Federer, lo svizzero che sembra italiano. Mi dicono che io somigli a Totti. Ma quanto a tocco di palla, faccio schifo.

Una strada l’ha comunque trovata. Il nuovo singolo, “I’m on my way”, frutto della collaborazione con il giamaicano Omi, sarà l’inno di questa strana estate. Come lavorerà evitando assembramenti?

Vediamo. Dicono che qui in Francia il virus stia morendo. Domani riaprono i ristoranti, e dopo i cinema e i teatri. Perché i club dovrebbero restare chiusi? La gente ha voglia di ballare. Certo, non credo di poter operare a Ibiza come gli altri anni. Però ho in agenda Gallipoli, Riccione. Non tutto resterà fermo, neppure da voi. Quanto al brano, non è concepito per far sballare folle oceaniche.

No?

È un gospel. Per ogni fede. Da cantare in chiesa, in sinagoga, in moschea. Le parole invitano all’unità. È questo il nostro vero potere. Non il creare disordini senza scopo.

Trova che la situazione in America stia sfuggendo di mano?

A che serve saccheggiare negozi? Se la tua risposta è la violenza hai perso. Un poliziotto ha ucciso un uomo? Lo spedisci in galera per vent’anni. Il problema è suo.

Suonerebbe per Trump?

Non mi inviterebbe! Ma non lo farei, a meno che Trump non organizzasse un evento di beneficenza, magari per i diritti dei neri. Detto questo, se lo hanno votato, lo lascino lavorare, poi magari tra due anni lo cacciano democraticamente.

Invece, per Sarkozy accettò. Lei, Bob, nel 2006 fu il cerimoniere del trionfo in Place de la Concorde. La Bruni danzò?

Carlà mancò l’evento: Nicolas stava ancora con Cècilia. Io ero sul palco, certo. Se il tuo presidente ti chiama, e il Paese ripone grandi aspettative su lui, perché rifiutare? Sarkozy fu sfortunato, era duro reggere il timone dopo la crisi dei subprime del 2009. Anche Macron ora paga le scelte folli del governo sulla pandemia.

Deve il nome d’arte a un personaggio di Belmondo.

Vado due volte l’anno a pranzo con Jean-Paul. Mi racconta aneddoti dei film. È paralizzato da un lato del corpo, ma è lucidissimo. Gli anziani hanno paura di essere rifiutati dalla società, io sono onorato di parlare con lui.

Come è nato il connubio con la Carrà?

Avevo scoperto la versione originale di Far l’amore, l’avevo campionata per i dj-set. Non sapevo chi fosse. Un mio collega italiano mi rimproverò: ‘Sei pazzo? Qui è un’icona!’. Così progettai di reincidere il brano con Raffaella, che mi accolse stupita: ‘Perché io? Non faccio nulla da dieci anni!’. Donna incredibile e genuina. Quando ho visto la sequenza iniziale de La Grande Bellezza mi sono sentito fiero. Ho ripensato alla Dolce Vita. Sorrentino mi ha fatto capire meglio il mio lavoro: quella scena era un ponte fra due generazioni, e la mia musica le aveva saldate.