Garzanti: “Io come un oste, pubblico i libri vendibili”

“Ero in crisi di narrativa e avevo deciso di pubblicare (Alberto) Bevilacqua, che mi aveva dato un libro brutto di successo. Sapevo che Pasolini non lo stimava e gli dissi: ‘So che lei non ha simpatia per Bevilacqua, ma dovrò pubblicarlo. Ho bisogno di vendere’. E lui: ‘Si mette in casa una bestia simile!’. Quando nel 1974 uscì di Bevilacqua L’umana avventura, durante un pranzo Pasolini mi disse: ‘Almeno un libro lo darò a un altro editore’. Pasolini in realtà odiava Bevilacqua perché aveva vinto lo Strega 1968 con L’occhio del gatto, battendo il suo Teorema, in un’edizione contrastata e polemica del premio. Non riuscivo a capire una tale gelosia e un tale risentimento, come mi sembrava incredibile che per questo un amico arrivasse a tanto”.

È un ricordo inedito dell’editore Livio Garzanti (1921- 2015) raccolto da Gian Carlo Ferretti, giornalista, critico letterario e storico dell’editoria, che il prossimo 16 giugno compierà novant’anni. Per festeggiare la ricorrenza, e celebrare in anticipo il centenario della nascita del grande editore milanese, la casa editrice Interlinea sta per pubblicare Un editore imprevedibile. Livio Garzanti (pagine 101, euro 12). È un efficace ritratto che Ferretti traccia di Garzanti e della sua casa editrice decisamente eclettica. quella di Carlo Emilio Gadda e di Pasolini, ma pure di Ian Fleming e di Love Story. Nel libro, che esce proprio il 16 giugno in una edizione a tiratura limitata “offerta all’autore per i suoi novant’anni”, c’è inoltre un’intervista a Garzanti del 19 settembre 2000: un testo, spiega Ferretti, “sostanzialmente inedito”. Scrive a commento di quell’intervista: “Non fu facile ottenere da Garzanti questa intervista, e ci riuscii grazie all’interessamento dell’amico Tiziano Rossi, che in quegli anni lo frequentava privatamente. Garzanti aveva lasciato ormai da tempo il suo lavoro di editore, e tutto avveniva perciò sul filo dei ricordi. Anche per questo probabilmente l’intervista evidenzia il volto amabile, simpatico, gradevole di Garzanti: un vecchio signore che parla con distacco e disincanto del suo passato, anche in modo spiritoso e brillante. Ma c’è stato un altro aspetto, villano, scostante, insopportabile, nevrotico, nel suo comportamento complessivo e in particolare nei suoi rapporti di lavoro, che qui non appare”.

Ecco allora il Garzanti che confessa a Ferretti il suo mestiere di editore-oste: “C’era un clima culturale vivo, un mondo letterario straordinario, una intensa vita di relazione, e io pubblicavo i libri che ritenevo più adatti e vendibili. Un po’ come fa l’oste, che sa accogliere i clienti nella sua trattoria. Così ho pubblicato Pasolini, Gadda e gli altri. Ho anche fregato Soldati a Longanesi, per poi lasciarlo andare da Mondadori perché voleva troppi soldi”.

Ed ecco, poi, l’editore che rievoca con un gusto un po’ snob certi particolari degli incontri con i suoi autori Beppe Fenoglio e Gadda, rammentando i discorsi sul vino con il primo e l’aria da “maggiordomo” del secondo. “Con gli autori”, disse Garzanti a Ferretti, “ho avuto per lo più rapporti buoni. Quello con Pasolini anzi era un rapporto elegante: tra due amici che si davano del lei in punta di penna, non senza litigi peraltro. Di Fenoglio ricordo una conversazione molto confidenziale, nella quale parlammo più di spumanti che di letteratura, anche per il lavoro che lui faceva ad Alba. Quanto a Gadda, mi rammarico ancora oggi di averlo tormentato stupidamente insieme a Bertolucci, perché ci desse la conclusione del suo giallo, il Pasticciaccio, ma lui ha sempre resistito. Era cerimonioso fino alla comicità. Una volta si presentò alla sede Garzanti di Roma con un completo blu, salutandomi con un inchino. Sembrava un maggiordomo”.

Anche Paolo Volponi, come Pasolini, a un certo punto lasciò la Garzanti per Einaudi. “Con Volponi”, rammentò Garzanti, “avevo un rapporto di grande cordialità e stima. Ma sentì la sirena di Einaudi. C’era un contratto con la Garzanti e io mi impuntai. Ne nacque un conflitto: una volta lo incontrai al mare sulla spiaggia e non mi salutò nemmeno. Soltanto in occasione della tragica morte del figlio ci fu un riavvicinamento commosso. Ma a un certo punto non mi opposi più”.

Commenta Ferretti: “Le sue versioni sulle vicende Pasolini e Volponi sono riduttive e interessate. (…) Sui rapporti con Pasolini nel periodo della crisi ho anch’io un aneddoto personale. Spesso quando Pasolini veniva a Milano e andava a pranzo con Garzanti, mi chiedeva di accompagnarlo per non restare solo con lui”.

La scuola riapre, i figli restano a casa

Ieri era il giorno dell’ulteriore rilassamento del lockdown, con la riammissione a scuola, non obbligatoria, di alcune classi e il permesso di incontrarsi in gruppi fino a sei persone in parchi e giardini privati, anche se con diverse precauzioni. Le scuole nel Regno Unito sono rimaste aperte per accogliere bambini vulnerabili e figli di lavoratori essenziali; ora si aggiungono anche asilo, primina, prima e ultimo anno della elementari. Con una organizzazione piena di cautele: allievi in piccoli gruppi, pranzo al sacco per evitare i rischi delle mense, l’ovvia incognita di limitare al massimo i contatti fisici perfino alla materna. Molta confusione sull’efficacia dei controlli, tanto che per il Guardian la metà dei due milioni di aventi diritti ha preferito tenere i figli a casa.

Quanto al limite di sei persone, è stato ignorato già da un paio di fine settimana, con folle di bagnanti in diverse spiagge, un barbecue con 80 ospiti a Birmingham, un piccolo festival musicale e un rave party a Londra e, dalla finestra della cucina di chi scrive, le spensierate e affollate feste dei dirimpettai, senza mascherina. Il filo conduttore è la sfiducia crescente e forse non recuperabile nel governo britannico: un sondaggio di YouGov la vede in calo di 19 punti da metà aprile. Pesa il caso Cummings, il consigliere speciale di Boris Johnson che se ne è infischiato del lockdown e non solo ha rifiutato di scusarsi ma ha incassato il sostegno del premier e dei ministri più importanti. Il risultato è l’effetto Dom: si fa un po’ come si vuole. I famosi scienziati, quelli al cui parere per settimane il governo ha attribuito la paternità di ogni scelta, sono tanto allarmati da essere usciti allo scoperto. L’associazione dei Direttori di Salute pubblica ha dichiarato che “le ultime misure di rilassamento del lockdown non sono supportate dalla scienza. Non ci siamo espressi finora ma siamo preoccupati che possa esserci un nuovo picco”. Secondo il governo le morti da Covid nelle ultime 24 ore sono state 111 (solo in Inghilterra), dato più basso dall’inizio del lockdown, ma che porterebbe il totale a 39.045. Sono le morti confermate da tampone, gli ultimi decessi sono oltre 400, con 2.000 nuovi contagi.

Con la scusa del Covid-19 Tienanmen cade nell’oblio

Grazie alle misure di distanziamento sociale contro il Covid e alla nuova legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong, imposta da Pechino la settimana scorsa per svuotare l’autonomia dell’ex colonia britannica, le autorità locali, con a capo la governatrice Carrie Lam fedele alla linea del Partito comunista centrale, quest’anno riusciranno a coronare uno dei sogni del leader a vita Xi Jinping e di tutti i suoi predecessori dal 1989: impedire ufficialmente la veglia che viene organizzata ogni anno il 4 giugno per ricordare il massacro di piazza Tiananmen. Si tratta della prima volta in 30 anni. I media danno notizia di una comunicazione ricevuta dagli organizzatori della veglia al Victoria Park in cui si sottolinea come l’evento non possa tenersi per le misure restrittive a Hong Kong nel quadro della lotta al coronavirus. L’appuntamento si tiene dal 1990 e spesso vede la partecipazione di più di 100.000 persone. L’ex colonia britannica, restituita alla Cina nel 1987 in base all’accordo che sino al 2047 sia valido il modello “un Paese, due sistemi”, è scossa da mesi di proteste innescate dal tentativo di imporre la “legge sull’estradizione” giudiziaria nella Cina continentale.

Gli studenti universitari e coloro che si ribellano alla violazione di questo modello, sono gli stessi che nel 2014 diedero il via alla “rivoluzione degli ombrelli” per ottenere il suffragio universale. E sono gli stessi che da quando sono nati vengono portati dai genitori alla commemorazione dell’eccidio che costò la vita a migliaia di universitari. Commemoravano anche per gli abitanti della Cina continentale ai quali è tuttora proibito persino nominare la strage e chi ne cerca notizia su Internet viene schedato. Da quando è scoppiata la pandemia, a Hong Kong ci sono stati 1.082 casi di Covid-19 con quattro decessi. Si tratta di dati che non preoccupano, tanto che il divieto di assembramento verrà revocato alla sera del 4 giugno stesso. Nulla sarebbe cambiato in termini di salute pubblica se la rimozione del divieto di assembramento fosse stato anticipato di 24 ore. Molto invece sarebbe cambiato probabilmente per il regime che teme la commemorazione di Tienanmen da sempre, ma soprattutto quest’anno per le proteste già in corso. Già nei giorni scorsi erano circolati per questo appelli degli attivisti anti Pechino in cui si chiedeva agli abitanti di Hong Kong di organizzare veglie private con gruppi di massimo otto persone per “non dimenticare” rispettando tuttavia la normativa. Vale la pena ricordare che la Cina degli anni post rivoluzione culturale rasentava la bancarotta. Anche se non si può paragonare la Cina di allora con quella attuale, dieci giorni fa per la prima volta il governo cinese ha rinunciato al target di bilancio a causa dell’inedita ed enorme crisi economica causata dalla epidemia. Nel 1982 fu Deng Xiaoping a invertire la rotta e a salvare il paese economicamente mettendolo sulla via del capitalismo di stato, ossia capitalismo senza libertà individuali.

I fatti di Tiananmen sono avvenuti in seguito alla falsa speranza da parte degli studenti che la liberalizzazione e la modernizzazione della Cina sotto Deng Xiaoping avrebbe portato all’introduzione anche della democrazia, cioè alla libertà di pensiero e di parola. L’anno scorso, in occasione del trentesimo anno dalla strage, Angela Staude, moglie del grande inviato e sinologo Tiziano Terzani, raccontò al Fatto che “Mentre stava preparando la sua borsa per andare a Pechino, Tiziano diceva: ‘Quale imperatore ha mai rinunciato al potere? Non lo farà neppure Deng Xiaoping”. Una previsione, quella di Terzani, che si rivelò purtroppo corretta a proposito della reazione alle proteste dell’allora leader della Cina. Oggi Xi Jinping, unico presidente a vita dopo Mao, a maggior ragione non potrà rinunciare almeno a isolare i “ribelli” di Hong Kong per cancellare il ricordo della Grande Disillusione.

Motivi razziali: l’agente killer denunciato per ben 18 volte

Giocava con un’arma giocattolo, Kristofer Bergh, 17enne nel 2013, quando Derek Chauvin, l’ex agente di polizia di Minneapolis ripreso mentre bloccava a terra George Floyd e ora accusato del suo omicidio, gli ha puntato un’arma contro. Ma Kristofer non è l’unico ad aver sporto denuncia contro Chauvin in questi anni, secondo lo stesso Dipartimento di polizia. In 18 l’hanno fatto. Kristofer è un giovane afroamericano come George e a sua madre, allora, la polizia aveva spiegato che lui e i suoi amici se l’erano cercata, per aver eluso gli agenti. Il ragazzo ha sempre contestato questa versione spiegando che in realtà gli agenti non avevano tentato in alcun modo di fermarli. “Io credo che se non fossimo stati bianchi questo fatto sarebbe entrato nella ricostruzione”, ha raccontato ieri alla Cnn. Le denunce a carico del poliziotto ora accusato di aver soffocato George Floyd sono diventate pubbliche nel giorno in cui il governatore del Kentucky Andy Beshear ha autorizzato la polizia a indagare sulla morte di un uomo a seguito di uno scontro a fuoco tra le forze dell’ordine e i manifestanti nelle proteste per l’uccisione di George a Louisville. L’esatto opposto di quanto si è augurato il presidente, Donald Trump, che ha richiesto ai governatori di arrestare e incarcerare i manifestanti, per non “fare la figura dei cretini”, Al contrario, il fratello di George in un’intervista a Good Morning America, ha lanciato un messaggio di “pace”. “George – ha detto – vorrebbe che chiedessimo giustizia nel modo in cui stiamo cercando di farlo, ma incanalare la richiesta in modo diverso. Fare a pezzi, danneggiare la vostra città non è il modo che avrebbe voluto. Per lui si trattava di pace, di unità”, ha concluso Terrence Floyd. La protesta sotto lo slogan “non riesco a respirare”, infatti, ha incendiato gli Usa sfociando in incendi, tumulti e saccheggi in tutta l’America: da Atlanta a Baltimora, Birmingham, Boston, Charlotte, Chicago, Columbus, Dallas, Denver, Detroit, Houston, Las Vegas, Los Angeles, Miami, New Orleans, New York City, Philadelphia, San Francisco, Seattle e Washington. Circa 140 città, di cui 40 ora in coprifuoco per prevenire i disordini notturni. E 50 gli Stati che hanno mobilitato la Guardia Nazionale per affiancare le polizie locali nella gestione dell’ordine pubblico. Circa 12 morti e 4.400 arresti è il bilancio degli scontri, mentre le autorità accusano gruppi di suprematisti bianchi e anarchici di alimentare il caos, infiltrandosi nelle manifestazioni altrimenti pacifiche e animate dal movimento “Black Lives Matter”.

Joe, aspirante pompiere dell’America al rogo

I sondaggi dicono che il candidato democratico alla Casa Bianca Joe Biden, che pure è stato molto discreto negli ultimi giorni, sta prendendo il largo nel favore degli elettori. Un rilevamento Washington Post – Abc News vede Biden avanti di dieci punti: ha il 53% delle intenzioni di voto, contro il 43% di Trump, il distacco più netto mai rilevato: due mesi or sono, l’analogo sondaggio dava quasi un testa a testa, 49% a 47%. Il poll è stato condotto dopo l’inizio delle proteste per la morte a Minneapolis di George Floyd, lunedì scorso, a causa del trattamento brutale da parte della polizia; ma prima che le manifestazioni prendessero la piega violenta delle ultime notti.

L’esito del sondaggio non fuga, però, i dubbi sulla capacità di Biden di fronteggiare la situazione, di gestire la rabbia dei giovani neri. La forchetta a suo favore si allarga a 13 punti tra gli adulti, ma si riduce fra gli elettori esordienti e/o ventenni. In un commento ai risultati del rilevamento, il WP scrive: “Le proteste pongono un problema” all’ex vice di Obama, un signore canuto di 77 anni. Biden deve riuscire a esercitare un richiamo su tutto l’elettorato nero – vecchi e giovani –, che costituisce per lui una parte indispensabile per conquistare la Casa Bianca. Il candidato democratico “ha le relazioni e la destrezza politica per incanalare la loro rabbia, o sarà travolto da uno tsunami di frustrazione?”, s’interrogano Annie Linskey e Cleve R. Wootson, che, sentiti esperti e attivisti, tendono a rispondere ‘no’. Sul New York Times, Giovanni Russonello avverte che “lo spettro di una protesta radicale di sinistra in un anno elettorale è motivo di dilemmi per ogni candidato centrista che voglia mantenere una linea moderata”. Studi dimostrano che, fin dagli anni Sessanta, gli elettori bianchi sono irritati dalle forme più aggressive di attivismo nero; e che i democratici tendono ad avere risultati modesti, se le elezioni si volgono dopo proteste che comportano attacchi alla proprietà; mentre fanno meglio se le proteste non sono state violente”. Il problema è non spaventare gli elettori di centro senza alienarsi i neri e quelli di sinistra, che già hanno problemi a ‘digerire’ la candidatura Biden, dopo avere tifato Bernie Sanders. Un problema che Donald Trump non ha: lui chiede a sindaci e governatori il pugno di ferro e rispolvera lo slogan ‘Legge e Ordine’ che, alla fine degli anni Sessanta fu di Richard Nixon e dell’allora governatore della California Ronald Reagan. Il presidente twitta icasticamente “LAW & ORDER!”, tutto maiuscolo e stranamente con un solo !, e minaccia di ricorrere all’esercito, per riportare la calma nelle città in subbuglio. Trump, inoltre, litiga in tele-conferenza con i governatori: “Dove prendere la situazione in mano… Se non lo fate, perdete il vostro tempo e farete la figura di un branco di cretini…”.

La sua tesi, espressa in tweet, è che la forza pubblica deve impedire violenze e saccheggi, arrestare i facinorosi, riportare la calma: “Queste persone sono anarchici… Il mondo sta guardando e ridendo di voi e di ‘Sleepy Joe’ … Mandateli in galera e teneteceli”. Il magnate non guarda all’elettorato nero, che sa perso, ma a quello bianco moderato; e sente che conservatori, reazionari, suprematisti, la sua constituency, fanno blocco contro la rabbia e le razzie. La tesi dell’Amministrazione è che le manifestazioni siano orchestrate o almeno strumentalizzate dall’estrema sinistra; e il presidente dà in pasto ai suoi fans un capro espiatorio: “Classificheremo Antifa (movimento antifascista della sinistra antagonista, ndr) come organizzazione terroristica”. C’è chi invece pensa che siano infiltrati suprematisti ad accendere violenze e disordini e a sobillare le folle. Ma la Casa Bianca nega che esista un “razzismo sistematico”. Trump rovescia la lettura del sondaggio: è avanti negli Stati in bilico, quelli che contano, e la sua base elettorale è più solida di quella di Biden. L’87% dei suoi sostenitori voteranno per lui; solo il 74% dei sostenitori di Biden è così incondizionato. Ma c’è un’altra variabile che né Trump né Biden possono controllare. Il New York Times, citando esperti sanitari, scrive che le proteste di massa degli ultimi giorni in almeno 75 città per la morte di Floyd potrebbero innescare una nuova ondata di contagi da coronavirus negli Usa, dove ad ora si registrano quasi 1.800.000 contagi e oltre 104 mila vittime. In piazza e nelle strade ci sono migliaia di persone, spesso senza mascherina, e comunque senza alcuna forma di distanziamento sociale.

Pittelli: “Tremonti prendeva 5 milioni a emendamento”

“Noi lavoravamo. Io, Pecorella (Gaetano l’ex deputato, ndr) e altri lavoravamo fino alle 4 di mattina”.

“E quelli coglionavano… e sì, eh”.

“Hai capito?… Facevano i soldi questi”.

Quando parla l’avvocato Giancarlo Pittelli, il principale indagato dell’inchiesta “Rinascita-Scott”, spesso fa riferimento al periodo in cui è stato parlamentare di Forza Italia. In più di un’intercettazione finita nel fascicolo della maxi-operazione, Pittelli tira in ballo Giulio Tremonti, l’ex ministro dell’Economia nei vari governi Berlusconi.

Oggi il penalista è accusato di essere il massone al servizio del boss Luigi Mancuso e un concorrente esterno della ’ndrangheta di Limbadi. Ma dal 2001 al 2013 ha frequentato la politica che conta: è stato deputato, senatore e poi di nuovo deputato. Dodici anni vissuti tra Roma, sempre in contatto con i vertici di Forza Italia, e Catanzaro dove continuava a svolgere la sua professione e dove organizzava cene cui accorrevano anche magistrati e colonnelli dei carabinieri. Il trait d’union era sempre lui: Giancarlo Pittelli che i pm, guidati dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, definiscono “la cerniera tra i due mondi” in una “sorta di circolare rapporto ‘a tre’ tra il politico, il professionista e il faccendiere”.

Oltre a boss, ufficiali dell’Arma, magistrati e politici, nella sua rete di relazioni c’erano diversi imprenditori. Ad alcuni ha proposto di entrare nel cosiddetto “affare Copanello”, il progetto di un complesso alberghiero che doveva sorgere in una frazione del Comune di Stalletì (Catanzari): due ettari e mezzo di terreno che Pittelli, anni prima, aveva tentato di vendere a un costruttore presentatogli da un “generale della Guardia di finanza di Torino”.

L’affare sfumò e su quel terreno l’ex senatore si è ritrovato un’ipoteca di un milione di euro. Il 12 maggio 2018 organizza un pranzo, al ristorante “La Perla” di Soverato, con alcuni imprenditori interessati all’acquisto. A quel tavolo si parla anche di politica. Il trojan inoculato nel suo cellulare fornisce agli inquirenti numerosi aneddoti di palazzo e racconti inediti sui suoi anni da parlamentare. Pittelli si sfoga con Marcella Tettoni, consigliere comunale di Pisano, in provincia di Novara, arrivata a Catanzaro come amministratrice di diverse aziende nel Nord Italia: “Ti posso raccontare soltanto – sono le parole di Pittelli – che quando io stavo in Parlamento e noi votavamo le leggi… c’era Tremonti che si faceva pagare gli emendamenti, lo sai… Non lui direttamente, ma Milanese”.

Nelle carte dell’inchiesta “Rinascita” non compare il nome per intero e forse sarà un’altra Procura a valutare se il Milanese, indicato da Pittelli come longa manus di Tremonti, sia quel Marco Milanese consigliere e braccio destro dell’ex ministro dell’Economia. Lo stesso che nel 2018 in Cassazione ha ottenuto la prescrizione dopo la condanna a 2 anni e 6 mesi di carcere per traffico di influenze sul Mose di Venezia.

Un mese dopo il pranzo a Soverato, Pittelli torna a parlare di Tremonti. Lo fa con i boss Luigi Mancuso e Saverio Razionale durante un incontro che lo stesso avvocato ha definito un “summit”. Al mammasantissima di Limbadi e al capo locale di San Gregorio d’Ippona, il 12 giugno 2018 Pittelli spiega quanto è stato faticoso il ruolo di parlamentare di Forza Italia: “Lavoravamo fino alle 4 di mattina…”. Non era così per tutti: altri “facevano i soldi… Hanno fatto i soldi con… Tremonti si prendeva…”. “Quel cornuto – lo interrompe il boss Razionale – è uno scemo”. Pittelli ci tiene a finire il concetto sull’ex ministro: “Si prendeva 5 milioni a emendamento”.

Raggiunto telefonicamente, Tremonti si mette a ridere. Gli chiediamo un commento e torna subito serio: “Cosa vuole che le dica? Pittelli dice che ho preso 5 milioni a emendamento. Farò una citazione e richiesta di risarcimento danni nei suoi confronti. Mi ha dato una buona idea. Applicherò la stessa tariffa che mi accusa di avere adottato per gli emendamenti: gli chiederò 5 milioni di euro che poi devolverò per la lotta al Covid-19”.

“Sussidio a Fca solo se aumenta la produzione delle elettriche”

Il prestito di 6,3 miliardi di euro a Fca, a tasso agevolato perché garantito dallo Stato, deve potenziare il traffico a minor impatto ambientale. È la richiesta che verrà ufficializzata domani da una cordata di Ong ambientaliste (Transport & Environment, Legambiente, Green Peace, Cittadini per l’Aria, Kyoto Club, Wwf e Sbilanciamoci). Già sabato scorso gli attivisti avevano recapitato al governo una lettera, che il Fatto ha ottenuto in esclusiva, esortandolo ad approvare le garanzie statali solo a patto che la casa automobilistica si impegni a cessare gli investimenti in nuovi modelli diesel e benzina e raddoppiare, entro il 2025, la produzione di auto elettriche in Italia.

Il pressing ecologista fa eco all’appello che il Financial Times ha lanciato nei giorni scorsi ai costruttori auto affinché rinverdiscano la loro flotta approfittando dell’opportunità di rilancio che si profila a seguito della riapertura delle catene di montaggio, finora arrestate a causa della pandemia. Fca è attualmente uno dei costruttori più indietro nella conversione dai carburanti fossili all’elettrico. Nel 2019, ha investito 1,7 miliardi di euro nella produzione di veicoli ibridi plug-in e veicoli elettrici in Italia, come la nuova versione della Fiat 500e che tuttavia non è ancora arrivata dai concessionari. “Ad oggi Fca è l’unica casa europea a non aver ancora messo sul mercato europeo alcun veicolo elettrico”, si legge nella lettera. Secondo i dati raccolti da Transport & Environment, entro la fine del 2020 la produzione di auto elettriche rappresenta solo l’1% della flotta totale di Fca e negli anni successivi sarà ancora inferiore al 20% della sua produzione totale. Un volume che comprenderebbe i veicoli prodotti sia in Italia che all’estero, soprattutto in Polonia. Secondo le proiezioni di Transport & Environment, Fca potrebbe delocalizzare parte della produzione complessiva di vetture. Non è tuttavia sicuro se questa delocalizzazione riguarderà anche il comparto elettrico. In proposito, le Ong chiedono che Fca produca in Italia sia i propri veicoli elettrici che batterie sostenibili, al fine di sviluppare un polo integrato della mobilità elettrica tricolore, nonché riqualificare la propria forza lavoro e sostenere l’occupazione lungo tutta la catena di approvvigionamento. Secondo gli ambientalisti, solo diventando competitiva nel mercato europeo della mobilità elettrica Fca potrà garantire la solvibilità necessaria per restituire alle banche il prestito garantito dallo Stato. Che, altrimenti, dovrà rimborsarlo coi soldi dei contribuenti che, peraltro, sarebbero pure costretti a pagare un’eventuale multa che Bruxelles potrebbe comminare all’Italia qualora non rispettasse gli obblighi di riduzione delle emissioni a effetto serra dei veicoli.

Il nuovo target Ue, approvato oltre 10 anni fa ed entrato in vigore quest’anno, stabilisce un tetto massimo di 95 g/km di CO2. Condizionando l’aiuto a Fca con una massiccia conversione elettrica del parco auto, l’Italia aprirebbe la porta a ingenti fondi per l’elettrificazione del trasporto stradale nell’ambito del nuovo piano di ripresa economica da 750 miliardi di euro recentemente varato dalla Commissione europea. L’iniziativa riserva una quota degli stanziamenti a progetti che contribuiscono alla mitigazione del cambiamento climatico. Le raccomandazioni Ue indicano che la mobilità elettrica è uno dei settori prioritari sui quali l’Italia dovrà investire i fondi che riceverà attraverso il piano di emergenza.

Dividendi e maxi-fusioni, ma con la Cig: il caso Aon

Nella rincorsa agli ammortizzatori sociali durante l’emergenza, c’è qualcuno che l’ha fatta più grossa: richiedere la cassa integrazione anche se il lavoro non è mai mancato, distribuirsi utili milionari in piena crisi Covid e rischiare di compromettere un’acquisizione da 30 miliardi di dollari. Questa è la storia di Aon Italia, la filiale di uno dei leader mondiali del brokeraggio assicurativo e della sua operazione di solidarietà per il contenimento dei costi.

L’antefatto. Il 27 aprile Greg Case, ceo mondiale di Aon (società quotata alla Borsa di New York e in ottima salute con il 14,84% di profitto netto a fine 2019), annuncia a tutti i dipendenti che, insieme ai suoi top manager, dal primo maggio si ridurrà lo stipendio temporaneamente del 50%, mentre al 70% della forza lavoro globale chiede un taglio del 20%. Una decisione che per Case rappresenta l’unica soluzione per non licenziare nessuno a causa della crisi economica. La filiale italiana esegue gli ordini: 120 manager aderiscono su base volontaria alla richiesta (fino al prossimo 30 ottobre), ma non possono chiedere la stessa abnegazione anche ai dipendenti, anche perché è una pratica vietata. Così, alla ricerca di possibili modi per tagliare, la soluzione diventa il Fondo integrativo salariale (Fis). Il 27 aprile l’assemblea di Aon Spa comunica ai suoi 1.600 quadri e dipendenti di aver richiesto il sussidio, garantendogli un’integrazione salariale. La richiesta del gran capo è assecondata anche con altri tagli che arrivano dalla rinegoziazione del canone di affitto del nuovo stabile milanese in via Calindri. Ai manager non resta che continuare a festeggiare i risultati ottenuti appena 6 giorni prima, quando il 21 aprile, a crisi Covid in corso l’assemblea degli azionisti di Aon Italia Spa ha deliberato 9 milioni di compensi agli amministratori e 17 milioni di dividendi agli azionisti.

Ma nelle due settimane successive succede qualcosa che spinge l’azienda ad annunciare che da lunedì 18 maggio sarebbe stato revocato il Fis. Una retromarcia così repentina – tanto che l’Inps non ha pagato nessun assegno ai dipendenti – che celerebbe la reale motivazione nella richiesta da parte della casa madre di annullare l’aiuto statale, perché non può permettersi che questo comprometta il buon esito della sua operazione più importante: l’offerta da 30 miliardi di dollari per acquisire Willis Towers Watson e dare vita a un colosso del brokeraggio assicurativo da 80 miliardi di dollari. La richiesta del Fis non è un buon biglietto da visita se si vuole comprare un’altra società. Aon Italia smentisce questa ricostruzione spiegando che “la cassa integrazione è stata richiesta solo per la necessità di avere a disposizione la propria forza lavoro a pieno ritmo, per mantenere il più alto livello di servizio” e che “le ore non lavorate nei primi giorni di maggio sono state retribuite ai dipendenti sotto forma di permessi retribuiti”. Ma perché se Aon Italia ha così bisogno di tutta la sua forza lavoro, per il ceo Case con questa crisi si possono solo “tagliare gli stipendi o trovare un’alternativa per proteggerli?”. E che purtroppo per i manager italiani non può passare per la cassa integrazione.

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Lerner, “Repubblica”, le divergenze e il “Fatto”

Buongiorno, stamattina ho trovato sul “mio” giornale l’articolo di Gad Lerner. Non voglio sindacare i motivi per cui il direttore abbia deciso di coinvolgerlo, ma mi duole constatare che Lerner si autoassolva su tutto. lo non dimentico che la sua Repubblica reggeva il moccolo quando D’Alema faceva la Bicamerale con Berlusconi, che alla fine andava bene che Renzi distruggesse la Costituzione, che la Trattativa Stato-mafia non compare mai su quelle pagine. Ora, il cappio della finanza predatoria si è stretto e Lerner vuole tornare a respirare. Bene, non mi interessa denigrare e dei Rolex me ne infischio (anche se chi vive a Roma come me sa benissimo che destra e sinistra condividono gli stessi pianerottoli). Lo giudicherò in base a quello che scriverà, ma soprattutto alle posizioni che prenderà su certe battaglie che sono la cifra del Fatto Quotidiano, perché scripta manent ma exempla trahunt.

Carla Ricci

 

Un entusiastico ben arrivato a Gad Lerner, non soltanto per la sua professionalità, quanto per la presente e futura garanzia di indipendenza del nostro quotidiano.

Giuseppe Canevese

 

Sono perplesso per aver visto oggi l’ingresso di Gad Lerner tra i collaboratori del Fatto. Tra i fondatori del Pd (e questo per me non è un disvalore), al Referendum del 2016 che stabilì di fatto il gradimento degli Italiani per Renzi, Lerner votò Sì. Leggendo al tempo anche Repubblica, mi sembra di ricordare che non apprezzasse particolarmente i pensieri e le azioni dei 5S. Comunque, giornalista di razza lo è e le sue responsabilità se le è sempre prese: aspetto di poterlo leggere per capire se il nostro quotidiano ha acquisito o no una risorsa in più.

Roberto Rappuoli

 

Bella la nuova veste e impostazione del Fatto! Ho letto con grande interesse l’articolo di Gad Lerner. Una nuova e prestigiosa firma alle tante si aggiunge, ottimo! Solo un passaggio mi ha incuriosito “… benché sussistano divergenze profonde su politica giudiziaria, carceri, immigrazione”. Mi sono chiesto divergenze con chi, con il Padrone?, con Travaglio, con Luttazzi, con Scanzi, con Montanari, con Lucarelli, con Padellaro, con Spinelli, con Lillo. Ritengo che Lerner al Fatto possa esprimere in libertà il suo pensiero. Al lettore il compito di farsi un’opinione sui temi trattati visti da posizioni diverse. Penso che Lerner, sotto sotto, debba ancora “disintossicarsi” dalle precedenti collaborazioni. Con simpatia.

Enrico Valmassoi

 

Caro Travaglio, leggo: “E allora, benché sussistano divergenze profonde su politica giudiziaria, carceri, immigrazione, ringrazio dell’invito ricevuto dopo le mie dimissioni da Repubblica e provo a motivare quella che considero una scelta obbligata. Ma assai stimolante”. Mi domando che cosa condivida Lerner con la linea del Fatto, tranne il non avere padroni. Parla di divergenze profonde e non credo che siano solo su immigrazione, carceri e politica giudiziaria! Che comunque non sono né poche né marginali.

Marco Pedriali

 

Cari amici, il Fatto è nato per dire quello che gli altri giornali non possono/vogliono dire e per dare voce ai giornalisti che hanno qualcosa da dire, ma non sanno dove dirlo. In questi quasi 11 anni, il loro numero è aumentato e siamo felici di averli accolti, ricevendone in cambio idee interessanti e originali, anche quando non le condividiamo. Quando ho proposto a Gad di entrare in famiglia, non pensavo certo che dovesse “convertirsi”. So che su molte cose dissentiamo, ma sui principi costituzionali fondamentali convergiamo. E questo, con l’aria che tira, mi basta e mi avanza.

M. Trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

Riteniamo doveroso chiarire alcuni elementi contenuti nell’articolo sugli investimenti di ASPI pubblicato domenica 31 maggio, a firma di Giorgio Ragazzi. Secondo uno studio affidato da Autostrade per l’Italia al prof. Roberto Zucchetti, docente di Metodologie di valutazione delle infrastrutture di trasporto all’Università Bocconi, gli oltre 21 miliardi di euro che la società potrebbe mobilitare nei prossimi anni (14,5 miliardi per investimenti e 7 miliardi per manutenzione) genereranno un effetto sul sistema produttivo nazionale per 65 miliardi, producendo 25.000 nuovi posti di lavoro. Anche per questo motivo, gli investimenti in nuove opere sono fortemente attesi dalle comunità territoriali, a partire proprio dalla Gronda di Genova. Quest’ultima opera fa parte di una serie di interventi (per un totale di 7,4 miliardi di euro) il cui progetto esecutivo attende da circa 20 mesi di essere sbloccato dal MIT, mentre la tempistica di approvazione prevista dalla normativa è di soli 3 mesi. Solo quest’anno, ASPI potrebbe aprire cantieri per nuove opere per 1,6 miliardi di euro. Ma perché questo sia possibile è assolutamente fondamentale superare la grave impasse di liquidità in cui versa la società a causa delle modifiche alla Concessione introdotte in modo unilaterale dal DL Milleproroghe, riavviando inoltre gli iter autorizzativi delle nuove opere, totalmente bloccati da inizio 2019. La realtà dei fatti e dei numeri è semplicemente questa.

Ufficio Stampa di Autostrade per l’Italia

Calcio e bilanci. Quest’anno la corsa è solo a chi vende meglio

 

Vorrei da Ziliani un giudizio sul calciomercato: ho letto di Icardi a Parigi per la metà del prezzo, e non capisco come faranno le società di calcio a sopportare un deprezzamento. Che accadrà ai bilanci?

Giacomo Lodo

 

Gentile lettore, io penso che Icardi (27 anni) ceduto al Psg per 58 milioni sia stato per l’Inter un vero affare; di questi tempi non sarà facile per nessuno portare a casa cifre del genere. La clausola rescissoria di Icardi (110 milioni) stabiliva, come tutte le clausole, una quotazione-monstre totalmente fuori mercato; al confronto regge di più quella di 111 milioni fissata per Lautaro Martinez che rispetto a Icardi è più giovane (ha 22 anni), è reduce da una stagione strepitosa e al Barcellona, il club interessato, ha uno sponsor d’eccezione come Leo Messi. Le clausole si rispettano solo per acquisti fortissimamente voluti come quelli di Neymar al Psg (222 milioni al Barcellona) o di Higuain alla Juventus (90 mln al Napoli); oggi, in tempi di ristrettezze-Covid, ogni clausola lascia il tempo che trova. Se è vero che il Manchester City sta per cedere l’attaccante Leroy Sané, 24 anni, al Bayern Monaco per 60 (Sané ha tre anni meno di Icardi ed è di una categoria superiore, appena sotto a quella dei top player), i 58 milioni incassati dall’Inter sono, appunto, oro colato. Il calcio italiano, che già aveva le pezze al culo prima del Coronavirus (2,5 miliardi di debiti a fronte di un fatturato inferiore a quello di Spagna e Germania e ridicolo se paragonato a quello dell’Inghilterra; per non parlare del trucco delle plusvalenze, 720 milioni da noi, quasi il doppio della Premier League che pure fattura 5,9 miliardi), oggi è alla canna del gas. La Juventus, gravata da stipendi insostenibili come quelli di CR7, De Ligt e Higuain, ha dovuto posticipare alla stagione prossima la corresponsione di 2,5 mensilità ai calciatori, tagliando loro una mensilità e mezzo nella stagione in corso, per poter presentare a fine giugno un bilancio drammatico, sì, ma non esiziale. Come sarà dunque il nuovo mercato? Da noi sarà la corsa a chi vende meglio. Anche a zero a patto di trovare club disposti a farsi carico di stipendi folli come quello, restando alla Juve, corrisposto a un calciatore mediocre come Rabiot. Insomma: se avevi un giocatore da 50 milioni, con stipendio parametrato alla quotazione, l’abilità sarà venderlo a 25 e toglierti dal gobbone il suo non più sostenibile ingaggio. Se leggerà di Pogba alla Juventus e Messi all’Inter (lo hanno già scritto) non ci creda.

Paolo Ziliani