La preminenza dello scienziato

Non pochi scienziati europei di primo piano hanno consigliato ai governi un’uscita molto prudente dal confinamento, e continuano a farlo senza lasciarsi influenzare dalle scelte dei governi, dalle pressioni delle lobby economiche, dal desiderio diffuso di mettere tra parentesi il lockdown.

Non perché siano sicuri di una seconda ondata Covid, non perché disconoscano le esigenze dell’economia, ma perché osservano il perseverare della pandemia in Inghilterra, Svezia, Stati Uniti, America Latina, o il suo riesplodere in Corea del Sud, e perché temono l’estendersi di una persuasione perniciosa e paradossale: il virus è alle nostre spalle, la pandemia è odiosa ma egualmente odiose sono le misure di cautela, visto che hanno limitato e limitano troppe libertà.

Hanno anche memoria delle passate pandemie. La Spagnola, ad esempio, cominciò con una prima ondata nel giugno 1918, seguita nell’autunno dello stesso anno da una seconda ondata cinque volte più grave e da una terza nel ’19, meno grave della seconda ma più forte della prima (il numero totale dei morti è incerto: fra 35 e 100 milioni).

Per tutti questi motivi gli scienziati sono sempre più considerati uccelli di malaugurio, anche quando non vantano certezze e sono dunque autentici scienziati. Guastano la festa della normalità ritrovata, usurpano la politica con i loro moniti (in Italia gli accusatori denunciano la “repubblica degli scienziati” paragonandola alla “dittatura dei magistrati”). Movimenti anti-lockdown e anti-mascherine sono sorti negli Stati Uniti, in Germania che pure ha contenuto il Covid meglio di altri, sporadicamente anche in Italia. Perfino i lavori di ricerca sono sotto attacco, quando i risultati complicano rapidi ritorni alla normalità. È il caso di Christian Drosten, prestigioso direttore dell’istituto di virologia all’ospedale Charité di Berlino, attaccato dal quotidiano Bild per uno studio sull’incidenza del virus nei bambini, pubblicato il 29 aprile. Drosten ha anche ricevuto un certo numero di minacce di morte.

Lo studio afferma che i bambini possono essere contagiosi come gli adulti, e che dunque la riapertura di asili e scuole elementari va gestita con la massima cautela. Il quotidiano ha reagito con indignazione, come se il virus fosse una colpa non imputabile ai bambini. Bollato come “scienziato star”, Drosten avrebbe sbagliato tutti i calcoli in maniera “poco pulita”. Bild fa campagna in favore dell’immunità di gregge. Si domanda addirittura se un “eccesso di igiene, come il continuo lavarsi le mani e l’uso di mascherine, non attenui le capacità del nostro corpo di resistere al virus producendo anticorpi”.

Uno dei motivi di quest’offensiva contro gli scienziati è il ruolo che hanno svolto durante la pandemia. Oltre a consigliare i governi vengono regolarmente convocati nei talk show televisivi, e per questa via influenzano anche il singolo cittadino. Sono divenuti più importanti degli economisti, e questo crea fastidio e desiderio che tornino a chiudersi nei loro laboratori.

Un elemento decisivo della loro influenza è la democratizzazione/circolazione della scienza. In epoche di urgenza la comunità scientifica si fa più accessibile, offrendo una “scienza aperta”. Nel dibattito pubblico non pesano più soltanto gli studi che ottengono, molto lentamente, la cosiddetta revisione paritaria (peer-review). Egualmente importanti sono oggi gli studi preliminari (pre-print studies), che attendono la valutazione dei pari. Lo studio di Drosten sulla contagiosità dei bambini è per ora un pre-print cui tutti possono accedere in internet, e questo ha innescato la campagna diffamatoria di Bild.

La “scienza aperta”, detta anche cittadina, è una sfida per gli scienziati ma anche per i politici. Consente ai cittadini di conoscere meglio i pericoli pandemici e di esercitare un’autodeterminazione (la partecipazione al potere cui Amartya Sen dà il nome di empowerment) non sempre gradita ai politici e alle lobby economiche o farmaceutiche. Non c’è frase più ebete di quella pronunciata recentemente da Renzi: “Lo scienziato ti dice che c’è il coronavirus, il politico decide come affrontarlo”. È falso: se è indipendente, se dall’inizio ha preso sul serio il coronavirus non comparandolo all’influenza (le “sviste” sono state numerose in Italia), lo scienziato influenza anche i modi di combatterlo: consigliando i governi, continuando le ricerche di laboratorio, e illuminando i cittadini.

Come affrontare il virus, nelle fasi in cui i contagi calano? Gli esperti seri ammettono di non avere ricette definitive, e per questo è così importante che la “scienza cittadina” sia protetta da attacchi. La ricerca ci dirà se e come evitare nuovi lockdown generalizzati, concentrando gli sforzi sui rischi maggiori. Nei Paesi dove i contagi diminuiscono il virus non cessa infatti di essere una minaccia. Gli studi confermano che riesplode in precisi eventi di superdiffusione (superspread events), dove l’assembramento è intenso o la temperatura ambientale è bassa: nelle chiese (esplosione del virus a Francoforte e a Mount Vernon negli Stati Uniti), nei luoghi refrigerati di macellazione (nelle regioni del Nordrhein-Westfalen e Schleswig-Holstein), nei ritrovi chiusi, nei concerti in Giappone, in magazzini commerciali a Seul, in dormitori per lavoratori migranti a Singapore, nelle scuole in Israele. Gli stessi studi mostrano che il fattore R non basta, limitandosi a indicare una media di contagiati. Bisogna incrociarlo con un secondo parametro – il fattore K – che indica i modi di dispersione del virus e la sua attitudine a riesplodere “a grappolo” (cluster). I grappoli possono scatenare esplosioni anche se la media nazionale mostra che le persone contagiate dal singolo diminuiscono.

Una volta appurato che tali “eventi” restano pericolosi nei Paesi usciti dal lockdown, Drosten sostiene che bisogna ridefinire le politiche di contenimento concentrandosi su di essi: quando si scopre un contagiato, tutte le persone presenti all’evento vanno isolate prima ancora di testarle: “In questi casi i test arrivano comunque tardi. Conoscere i modi della dispersione facilita le riaperture che privilegiano la circolazione dell’aria”.

In attesa del vaccino, di farmaci risolutivi, di app funzionanti, il distanziamento fisico e l’igiene restano la precauzione basilare. Gli studi scientifici permetteranno ai governi di affinarla, e ai cittadini di difendersi con l’arma della conoscenza. Prendersela con le precauzioni equivale a togliere quest’arma a ciascuno di noi.

 

Floyd giustiziato nella noncuranza

Certo contano i 40 milioni di disoccupati e i 100 mila morti che si sono accatastati in meno di due mesi sui nervi già ammalati dell’America. E conta il completo disastro dell’amministrazione, che ha trasformato la baldanza di Trump nei tremori di un anziano fuggitivo, indeciso e impreparato a tutto. Ma il fuoco che sta incendiando da otto giorni le notti d’America dipende anche dalla straordinaria e insieme noncurante ferocia con cui è stato ucciso George Floyd sull’asfalto di Minneapolis. Non uno sparo durante un conflitto. Non una lotta alla fine di un inseguimento. Ma una esecuzione a freddo. Lenta, lentissima, addirittura 9 minuti di soffocamento, una eternità se provate a misurare quel fermo immagine: il ginocchio, la testa schiacciata: tutto di fronte ad altri poliziotti, automobilisti, curiosi. Proprio come accade nelle camere della morte dei penitenziari, davanti al vetro dei testimoni, dove ogni gesto dell’esecuzione si esegue nel perfetto silenzio delle procedure. Nessuno che in quei 9 minuti a Minneapolis si sia deciso a intervenire, gridare, ribellarsi. Lo fanno ora le moltitudini incendiando intere notti. E credendo davvero che sia il fuoco a risarcire quel gelo.

Renzi ha una grande idea: il ponte di Messina

Matteo Renzi non smette mai di fare progetti per il futuro e di coltivare visioni illuminanti sul rilancio del Paese. Nell’ultima fatica letteraria – La mossa del cavallo in uscita nei prossimi giorni per Marsilio – l’ex premier s’è fatto venire in mente una proposta rivoluzionaria, inaudita: il ponte sullo Stretto di Messina. Proprio così. “Per vincere la sfida della povertà serve più il ponte sullo Stretto che il Reddito di emergenza”. A oggi la leggendaria grande opera che avrebbe dovuto collegare la Sicilia al resto dello stivale è un buco nero da 312 milioni di euro, che non sono bastati nemmeno a far posare la prima pietra. Matteo però ci crede.

A proposito di equini e mosse bizzarre, il ponte di Messina era uno dei cavalli di battaglia del vecchio Renzi di governo: nel 2016, quando cercava disperatamente voti per il suo referendum, promise che il cantiere avrebbe creato “100mila posti di lavoro”. Ma lo stesso ponte era stato uno degli argomenti polemici del primo Renzi rottamatore, che nel 2012 lo demoliva con un tweet: “Gli 8 miliardi del ponte di Messina li dessero alle scuole”. Tra i due Renzi, ce n’è un terzo: il lobbista. In ottimi rapporti con Pietro Salini e Impregilo. Quelli che il ponte – fosse mai – finirebbero per costruirlo.

La Repubblica siamo sempre tutti noi. Quindi tanti auguri

L’autore sa di avere una concezione della Repubblica molto diversa da quella di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini. Non è preoccupato dalle loro manifestazioni. In questa Repubblica le possono fare. In altre, quelle “sovraniste”, probabilmente, no.

 

La Repubblica, quella che, secondo l’art. 3 della Costituzione italiana riconosce a tutti i cittadini “pari dignità sociale” ed eguaglianza “davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, siamo noi (i nostri rappresentanti e i nostri governanti). La Repubblica, che ha il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica e sociale del Paese”, siamo ancora noi, tutti noi senza eccezione alcuna. Siamo quei (buoni) cittadini che accettano limitazioni alle loro libertà personali ogniqualvolta sia necessario per reciprocamente non limitare la libertà degli altri, non incidere sulla loro salute e sulle loro opportunità. Siamo coloro che, volontariamente, per un periodo di tempo limitato, per occasioni circoscritte, accettano, a determinate e trasparenti condizioni, di essere (rin)tracciati.

Da più di 70 anni la Costituzione repubblicana ricorda agli italiani, anche a coloro che non l’hanno mai, colpevolmente, letta, che il suo testo contiene regole, procedure e istituzioni scritte per instaurare e garantire la convivenza pacifica di persone molto differenti che, però, hanno (dovrebbero avere) imparato che quelle regole, procedure, istituzioni sono imparziali. Non fanno favori, non danno privilegi a nessuno, anche se molti di noi cittadini desidereremmo un trattamento migliore per chi è più svantaggiato. Infatti, la Costituzione evidenzia che dobbiamo impegnarci proprio in questa direzione essenziale per chi desidera una società giusta, anche per coloro che vengono da fuori, per gli stranieri (art. 10).

Quando valutiamo quello che è stato fatto, non fatto, fatto male in più di settant’anni, è essenziale tanto individuare i responsabili della non attuazione e delle eventuali violazioni della Costituzione repubblicana quanto, anche, chiederci se ciascuno di noi ne ha rispettato e applicato le regole. Non so, anzi sono alquanto pessimista, se “andrà tutto bene”.

So che non è andato tutto bene e che non dovremo tornare come prima. La prossima “normalità” dovrà essere molto diversa da quella passata, comunque irrecuperabile. So anche che scrivendo quell’articolo 3 e tutti gli articoli sui diritti, i Costituenti intendevano indicare la strada dei cambiamenti possibili e auspicabili. Come disse memorabilmente il grande giurista eletto dal Partito d’Azione Piero Calamandrei, “la Costituzione è presbite”, guarda lontano. Senza tentare di costruire impossibili memorie condivise, arriveremo lontano seguendo la strada che la Costituzione traccia per una Repubblica migliore grazie ai cittadini che hanno saputo migliorarsi partecipando in maniera consapevole e costante. Così esercitando effettivamente la loro sovranità. Buon compleanno, auguri, Repubblica.

 

Con Pappalardo non c’è gusto in Italia a essere intelligenti

Definita da Famiglia Cristiana “La più imponente riunione di idioti degli ultimi decenni”, l’allegra adunanza del “Generale Aperol” (sempre Famiglia Cristiana) Antonio Pappalardo ha dimostrato come avesse ragione Freak Antoni: “Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti”. Più che altro non ne vale la pena. Prima della manifestazione di sabato, Pappalardo era noto (poco) come ospite minore de La Zanzara e come macchietta marginale del web, più volte zimbellato dalla preziosa collaboratrice del Fatto Gisella Ruccia. Il fatto che un simile giuggiolone abbia portato in piazza così tante persone, per giunta sotto una pandemia e senza il benché minimo rispetto del distanziamento sociale, è di per sé avvilente. Il Pappalardo, giusto per capire che peso avesse prima del Covid-19, si era presentato un anno fa alle regionali in Umbria con una delle sue mille liste rutilanti. Strepitoso il risultato: 587 voti (pari allo 0,13%). Chi è sceso in piazza con lui, oltre a rischiare la propria vita e più che altro la nostra, ha implicitamente condiviso i pensieri di uno che, sul coronavirus, la pensa così: “Uno che lavora con noi, di Bergamo, si sente improvvisamente male: tosse, respirazione affannosa come il **** Coronavirus ma ha deciso di curarla come una normale influenza e di fare anche gli esercizi di yoga, di autoconcentrazione. Bene, è guarito. Come ha detto il dottor Montanari, l’uomo è fatto di fisico ma anche di mente”. Dunque il Covid-19 si cura con lo yoga. E il diabete col Diger Selz. Neuroni su neuroni vilipesi sul selciato.

Il Pappalardo nasconde un curriculum oltremodo esaltante. Così l’Huffington Post: “Carabiniere, sindacalista, generale, parlamentare, sottosegretario, pluricandidato in proprio alle elezioni, capopopolo con il movimento dei Forconi, la rivolta dei Tir e oggi i gilet arancioni”. Nato a Palermo nel 1946, figlio di un brigadiere dei carabinieri. Laurea in giurisprudenza. Sfolgorante carriera nell’Arma, mentre in politica l’ascesa è meno accecante. Nel 1992 viene eletto deputato come indipendente nelle liste della forza più effimera del pentapartito: il Psdi. Quello su cui Gaber, in un monologo intitolato Qualcuno era, ironizzava così: “Qualcuno era socialdemocratico perché… non l’ho mai capito”. Nel 1993 fonda Solidarietà democratica, di cui si accorge solo lui. Si candida sindaco a Pomezia, ma non si vota neanche da solo. Diviene però sottosegretario alle Finanze sotto Ciampi, nel primo governo “tecnico” della storia repubblicana. Neanche due settimane e scatta la revoca: il tribunale militare lo condanna a otto mesi di reclusione per diffamazione ai danni del Comandante generale dell’Arma. Dopo svariati insuccessi politici, tipo alle Europee del 1994, si dà alla protesta a caso: leader dei forconi nel 2006, artefice della “rivolta dei tir” nel 2011. Compositore e “autore sinfonico”, a febbraio ha scritto un tweet a McCartney (“Caro Paul”) per chiedergli l’email e inviargli la sua “Beatles Symphony” (non scherzo). Ancora l’Huffington Post: “Fonda il movimento dei Popolari europei (?), torna nel Psdi (??), si candida a sindaco di Palermo nel 2011 con il ‘Melograno mediterraneo’ (???)”. E nel 2016 fonda il Movimento liberazione Italia, che guida – si fa per dire – nel 2017 a Roma “in una marcia indetta per chiedere lo scioglimento del Parlamento ritenuto “abusivo”. Qualche decina di persone, ma agguerrite e chiassose”. Neanche tre anni dopo, quella “decina di persone” è cresciuta. E non è un bel segnale per questo paese, che quando si tratta di strizzare l’occhio al ridicolo tende a lasciarsi prendere la mano. Povera patria.

Nazionalismo e razzismo non sono solo di Trump

Oggi, 2 giugno, festa nazionale, insieme alla nascita della nostra Repubblica qualcuno di noi ricorderà anche il secondo anniversario dell’assassinio del bracciante sindacalista maliano Soumaila Sacko nella piana calabrese di Gioia Tauro. Fu centrato alla testa dai pallini di un fucile da caccia mentre recuperava pezzi di lamiera in una fornace dismessa. Voleva costruire una baracca, nell’insediamento dei raccoglitori di agrumi sorto tra Rosarno e San Ferdinando, visto che le tende prendono troppo facilmente fuoco. Chi gli ha sparato è ora sotto processo a Catanzaro, la sentenza è attesa per l’autunno.

Soumaila Sacko trovò la morte quando si era da poco conclusa a Roma la sfilata militare sotto gli occhi dei ministri del nuovo governo M5S-Lega. Forte della conquista del Viminale, il vicepremier Matteo Salvini aveva proclamato: “La pacchia è finita”. L’inizio della sua vittoriosa campagna elettorale era stato contrassegnato a Macerata dal raid pistola alla mano di un iscritto al suo partito, Luca Traini, in cerca di bersagli dalla pelle nera per vendicare l’omicidio di una ragazza, Pamela Mastropietro. Il mese dopo la Lega, partita dal nulla, divenne primo partito di quella città.

Cosa c’entrano questi ricordi del 2018 con quanto sta accadendo oggi negli Stati Uniti? Ciascuno è libero di darsi la sua risposta. Diciamo che l’intreccio fra nazionalismo e razzismo, sia pure in diverse proporzioni, non ci è estraneo.

Là negli States si tratta addirittura di un imprescindibile elemento fondativo della nazione. Quando Donald Trump minaccia i manifestanti che si avvicinano alla Casa Bianca, “troverete a difenderla dei cani feroci”, sa benissimo di richiamare l’antica pratica di aizzare i mastini contro gli schiavi indisciplinati negli Stati del sud. È lo stesso presidente incendiario che nel 2017 rifiutò di condannare i suprematisti confluiti a Charlottesville, in Virginia, per impedire la rimozione di un monumento al generale confederato Robert Edward Lee, fautore del mantenimento della schiavitù. Uno di loro lanciò la sua auto contro la folla che protestava, uccidendo un uomo e ferendone altri diciannove.

Ricordo solo due cifre che restano incancellabili nella storia del continente americano. Fra il XV e il XVIII secolo 3,5 milioni di europei emigrarono nelle Americhe, mentre vi furono trascinati in catene 12,5 milioni di africani. Se gli Usa sono diventati nel XX secolo la più grande potenza mondiale, lo si deve anche a quella proporzione, il peccato originale che ancora incancrenisce come una ferita aperta. Dopo la guerra civile che pose fine alla schiavitù restarono in vigore severe leggi di segregazione razziale fino agli anni Sessanta del secolo scorso. Tra il 1882 e il 1968 circa 4.500 neri statunitensi morirono linciati con la partecipazione attiva e il consenso di moltitudini di benpensanti.

Questa è la vicenda storica catastrofica – la Shoah, se mi è concesso l’uso di una parola ebraica – che resta incisa nella carne viva dei manifestanti che da giorni invadono le strade di 140 città degli Stati Uniti per protestare contro l’assassinio di George Floyd. Donne e uomini, per fortuna non solo afroamericani, esasperati dalle violenze poliziesche rimaste troppo a lungo impunite. Sofferenti per la perdita di 40 milioni di posti di lavoro e per la malagestione della pandemia che ha provocato più di 100 mila morti. Ma non di meno sfidati da un’amara consapevolezza: a Washington si sono reinsediati un blocco di potere e una visione del mondo che, quando proclamano “America first”, è al suprematismo bianco che si richiamano. Nel novembre prossimo, alle elezioni presidenziali, sapremo se il sovranismo razzista di Trump, l’impiego della forza militare per fronteggiare le manifestazioni degenerate in forme violente, nonché la repressione della libera informazione, gli consentiranno di formare un “blocco d’ordine” maggioritario e di fargli rivincere le elezioni. Trump sembra pronto a tutto: non solo a dichiarare una nuova guerra fredda contro la Cina; non solo a portare gli Usa fuori dall’Organizzazione mondiale della sanità; ma anche a mettersi a capo di un blocco reazionario bianco scatenato in nome della patria americana contro il suo “nemico interno”. Con questa consapevolezza torniamo a guardare in casa nostra, cioè a un paese che non ha conosciuto lo schiavismo legalizzato e che solo da pochi decenni fa i conti col fenomeno dell’immigrazione. Sappiamo quanto inautentico sia il nazionalismo tardivo di un Salvini, che ancora nel 2013 usava espressioni scurrili per irridere la festa del 2 giugno. Il suo “prima gli italiani” è una pallida imitazione del sovranismo di Trump. Ma non dimentichiamoci che il falso patriottismo ostentato da questa destra è per sua natura intriso di razzismo.

 

I consigli della Meloni per i bambini: “Date cinghiate con il sorriso”

 

La Meloni è stata pure baby sitter della figlia di Fiorello

(T. Rodano, FQ, 23 maggio 2020)

 

Come diventare una baby sitter perfetta? Lo abbiamo chiesto a un’esperta, Giorgia Meloni. Giorgia, qual è il primo consiglio per diventare una baby sitter perfetta?

GM: Il primo consiglio è essere una donna, essere una madre, essere cristiana. Solo così avrai le carte in regola per educare l’infanzia dal punto di vista morale, fisico, sociale e militare.

Identità, dunque. E il secondo consiglio?

GM: Sorridere. È l’unico modo per riuscire a infondere nei giovani il sentimento della disciplina. Sennò si rischia che ti crescano Lgtb o chissà cos’altro.

Terzo consiglio.

GM: Giocare, giocare, giocare. La baby sitter non è solo una kapò: è anche una compagna di giochi. Come diceva Maria Montessori, il gioco è il lavoro del bambino. E il lavoro rende liberi.

Quali giochi consigli?

GM: Dipende dal bambino. Io cercavo sempre di fargli adoperare le mani, per esercitarli alla creatività e alla manualità. E sempre premiando i loro sforzi, come insegna Bannon. Fa un busto del Duce con il Das? Bravo! Fa svastiche di pongo colorato? Bravissima. Fasci littori con le cannucce di plastica? Sei un genio! Inoltre, se non sanno ancora leggere, è bello insegnarglielo, usando testi semplici e pieni di bei disegni, come i divertenti manuali dell’Opera nazionale Balilla, o il sempreverde “Manifesto della razza”, per renderli consapevoli della loro italianità. I più grandicelli si divertiranno un sacco con il Piccolo Chimico: c’è una vecchia versione tedesca con cui puoi fare granuli di Zyklon B in quantità industriale. Le femminucce, invece, potranno ritagliare i cartamodelli delle divise naziste disegnate negli anni 30 da Hugo Boss; o giocare ad Auschwitz con Barbie, Ken e il Dolceforno. Altra idea: video TikTok col Duce che dichiara la guerra su una base di Moroder. E poi le attività sportive, fondamentali per lo sviluppo dei piccoli. Per esempio, il passo dell’oca, che tonifica polpacci e quadricipiti. Darsi cinghiate a torso nudo, che forma il carattere. Salire di corsa la scalinata del Milite Ignoto, con la musica di Rocky. Un bel tuffo in piscina da 20 metri, come i parà della Folgore. Infine, il meritato relax, magari guardando quella puntata di South Park che percula Anna Frank, i cinegiornali Luce sull’impresa abissina, o i documentari nazisti sui raduni a Norimberga. Mangiando popcorn! E una volta a letto, un bel libro di fiabe per conciliare loro il sonno: Il Signore degli Anelli, nella versione commentata da Evola. O qualcosa di Céline.

Come si fa se il bambino non ti rispetta, se non ti dà retta?

Il segreto è rimanere ferma, inflessibile, ma con dolcezza: uno dei compiti della baby sitter è quello di aiutare i genitori nel processo educativo, non di compiacere il bambino per evitare storie e capricci.

In pratica?

Lo minacci di fargli vedere un film di Moretti.

Qual è il modo migliore per educare un bambino?

La brava baby sitter non educa con tante parole, ma dando l’esempio: lei per prima, allora, si laverà le mani, si laverà i denti, salterà nel cerchio di fuoco. Sempre mostrando entusiasmo, positività e partecipazione. Un bambino non potrà non imitarla.

Il politico Toti e la dissimulazione

Mettiamo che nel corso della campagna elettorale del prossimo autunno, quella per essere rieletto alla presidenza della Regione Liguria, Giovanni Toti se ne esca pubblicamente con queste parole: “Cari elettori, sappiate che non mi comporterò mai come un ipocrita a proposito di ciò che io intendo debba essere la politica. Infatti per fare le rivoluzioni bisogna saper fare compromessi, e per fare il bene talvolta saper coltivare anche il male. È la politica. Sennò è testimonianza, uno fa il prete o il volontario!”.

Tendiamo a escludere che Toti possa pronunciare mai questa frase in un comizio o in tv. Eppure il concetto sul rapporto tra rivoluzioni e i compromessi, e sul male che genera il bene gli appartiene tutto. È contenuto negli sms che Elisa Serafini ha trascritto nel libro Fuori dal Comune, dopo che si è dimessa nel luglio 2018 da assessore alla Cultura e al marketing del Comune di Genova in seguito alle pressioni ricevute per finanziare una mostra raccomandata dal centrodestra. Del caso (di cui si è scritto sul FQ di sabato scorso e attualmente oggetto di un’indagine della Procura di Genova) a noi interessano un aspetto e un interrogativo. Se cioè la politica possa convivere con la verità (e viceversa); e se l’uso della finzione, e dunque dell’ipocrisia e della dissimulazione, sia uno strumento irrinunciabile nella comunicazione di potere.

È nelle cose che la politica sia l’arte dei buoni compromessi (sulla rivoluzione ci andrei più cauto). Tutt’altro discorso, ovviamente, chiedere a un assessore di compromettersi a prezzo di una “marchetta per la Lega” (Serafini). Sarei cauto inoltre sul concetto di “saper coltivare il male per fare il bene”: poiché non è un caso frequentissimo e comunque succede soprattutto al cinema. Altra cosa, tuttavia è innaffiare e concimare “marchette” aspettandosi di raccogliere rose profumate. Se (per pura ipotesi) Toti volesse trarsi d’impaccio per quegli sms imbarazzanti potrebbe ricorrere al solito Machiavelli del fine giustifica i mezzi. Ci sta ma perché non dichiararlo apertamente invece di continuare a prendere per il naso la gente straparlando di un mondo che non c’è?

Lo spunto, ovviamente, è il caso denunciato da Elisa Serafini ma il problema riguarda la credibilità complessiva di chi fa politica che, come sappiamo, è vicina allo zero e certo non da oggi (il solito Voltaire: “La politica è il mezzo con cui uomini senza principi dirigono uomini senza memoria”). Un crollo accentuato dalla perdita di senso delle parole. E dalla concatenazione di complicità con cui si cerca di tappare la bocca a chi non vuole più stare al gioco. Racconta Serafini che il sindaco di Genova, Marco Bucci gli disse “che era consapevole che l’erogazione del fondo non fosse legittima, che era una porcata”; e “che se non facciamo questa cosa saltiamo tutti, Elisa”. E se una la porcata proprio non vuole farla si può fare leva sul sentimento di gratitudine tradita: “Ti sembra etico morale e coscienzioso fare quel gesto senza una telefonata dopo che ti abbiamo imposto in giunta?”, scrive Toti in un affranto messaggino. Delusione che può essere anche comprensibile per chi ragiona secondo lo spirito di uno di quei potenti clan che fanno e disfano carriere (ok ma per favore non si parli più di valori della politica o balle simili).

Quanto ai “preti” e ai “volontari”, astenersi perditempo. Ieri, La Verità ha pubblicato una lunga intervista al presidente della Liguria. Titolo: “Stiamo attenti alle spinte neo centraliste”. Zeppa sicuramente di elevati principi, ma ho capito che non parlava di Elisa Serafini.

Il volto inedito di Venezia, un’occasione irripetibile

“Sirena dei forestieri, città osteria”: sembra quasi scampare al suo destino, Venezia, in questi giorni sospesi in cui gli spazi riacquistano dimensioni inusitate, e noi cinquantamila scarsi (da 30 milioni all’anno che eravamo) ci sentiamo sparuti e piccoli dentro una veduta di Canaletto, sbalestrati entro le fauci improvvise di piazza San Marco priva di file al campanile, di orchestrine ’O Sole mio, di esosi dehors per giapponesi. Residenti, pendolari, turisti di prossimità: per ogni dove cadenze venete, anziani incerti tra la fierezza di una ritrovata identità e la paura che crolli un’economia che considera la città (così, ancora, Paolo Fambri sulla Nuova Antologia del 1878) come “un vero e legittimo cespite di ricchezza”, dal quale “è non solo lecito, ma debito di trarne tutto il partito rendendone ai visitatori comoda l’osservazione ed allettandoli ad aggradevole permanenza”.

Scalpitano già impazienti, dietro i malchiusi portoni di certi palazzi, i poteri che negli anni hanno tenuto in scacco Venezia: albergatori e ristoratori, immobiliaristi d’alto bordo, fondi d’investimento, banchieri, gruppi industriali, gestori del traffico navale e aeroportuale, associazioni di categoria, professionisti dei Grandi Eventi. “Tutto tornerà come prima”, e in un baleno passeggiando rivedi gli ingorghi sul ponte di Calatrava e nelle Mercerie, i tornelli a Piazzale Roma, gli scavi dei canali per portare a Marghera i mastodonti del mare; rivedi le scorpacciate di finti vernissage, di lontano gli ennesimi collaudi del fallimentare risolutivo Mose, da presso i nuovi residence surrettiziamente insediati nei palazzi storici in barba alle delibere; mentre hanno già riaperto a San Moisè (ma vuoti) i negozi di iperlusso per chi può, e boccheggiano a Rialto (un day after) i bugigattoli di chincaglierie cinesi per chi non può.

Entriamo in un’era in cui tutto, dal barbiere alla spiaggia alla biblioteca, esige una prenotazione: perché non far funzionare su prenotazione d’ora in poi (finita l’emergenza) anche la parte maggiore del turismo a Venezia? Sarebbe forse il solo modo – come tanti esperti hanno argomentato, prima che il cielo cadesse – per controllare i flussi e ricondurli, senza spocchia né classismo, entro dimensioni gestibili. Chissà se sarà questa, quella di un turismo “sostenibile”, la cifra del nuovo corso di laurea in “Hospitality” che sotto gli auspici di Club Med e Ca’ Foscari prenderà il via al Lido, nelle aree dismesse del vecchio Ospedale sul cui avvenire da anni si dibatte; o se invece ne uscirà l’ennesimo Grand Hotel con quattro aule annesse per bellezza.

Dai portoni delle quattro università cittadine non esce più nessuno: lezioni a distanza, esami in videochat da Vicenza, da Foggia e Siracusa. Ma intanto gli Atenei insieme a Comune e associazioni di proprietari perfezionano un protocollo che trasforma per un periodo medio-lungo gli appartamenti ad uso turistico (attualmente deserti) in posti-letto per studenti, con garanzie e condizioni agevolate: se ben concepito, basterebbe per ripopolare la città di forze giovani, oggi dissuase da affitti improponibili, confinate a Mestre o Treviso, decapitate dai numeri chiusi; bisognerebbe poi trattenerle in loco dopo la laurea creando opportunità di lavoro “vero”.

Le quiete calli del sestiere di Castello mettono all’Arsenale, orfano, quest’anno, della Biennale. Qui già Edoardo Salzano immaginava per i giganteschi spazi, vuoti vuotissimi ben oltre le Corderie e le Gaggiandre, un destino diverso, legato alla ricerca sugli assi portanti della tradizione veneziana, mare, acque, arte, restauro, ambiente, teatro, confronto di culture. Le forze intellettuali per cominciare esistono già, e così le istituzioni (spesso in penosa competizione tra loro per soldi e pubblico); il potenziale attrattivo di menti e di investimenti, in prospettiva, è alto: mancano un progetto e una volontà che destinino quegli spazi dietro il vecchio leone di Delo (come troppi altri malamente alienati negli ultimi trent’anni) a un’utopia che tramuti Venezia da sfondo e cornice dell’esibizione di sé e di cose altrui in un autonomo centro propulsore di vita.

Nelle fibre di questa città vibra ingabbiato il know how diffuso maturato dai comitati che per anni hanno dato battaglia: è ora di liberarlo. Tanti abitanti sanno – nel dettaglio, da Poveglia a campo San Giacomo, da Malamocco a San Francesco della Vigna – come ripulire e rifunzionalizzare un’isola, come trasformare edifici dismessi in luoghi d’incontro per ogni età, come pensare una diversa gestione della portualità, come trasformare gasometri in biblioteche, come curare seriamente il moto ondoso, le maree e lo sprofondamento; i Fridays for Future, partecipatissimi, dovevano in aprile tenere qui il Climate Camp internazionale. Quando passo in Rio Terà dei Pensieri, quando sfodero invece del Baedeker l’eretica cartina “Fuorirotta”, penso ai mercatini e agli atelier diffusi dell’Aeres, l’associazione che promuove da anni un modello di sviluppo incentrato non sul profitto ma sulle relazioni, la cooperazione, la creazione di bene comune. Quanti margini si potrebbero aprire, nei mille spazi vuoti, anche fortemente simbolici, per isole di economia circolare, per l’autogestione di comunità, per un welfare strutturato che coinvolga in modo diretto vecchi e nuovi residenti – non solo dunque un mondo di artisti e professori, ma una dimensione nuova per il marinaio di Spinea, per il cameriere moldavo, per il fornaio di Castello, per l’edicolante bengalese, per l’anziana in procinto di trasferirsi a Castelfranco… “Vivendo in questa misura di uguaglianza, voi sfuggite ai bassi desideri che sono il flagello di questo mondo”, scriveva Cassiodoro ai Veneziani nel 537 d.C. – altri tempi.

Per mettere a sistema queste forze serve l’impulso o il favore della mano pubblica, fin qui del tutto ostile. In un momento di tale inopinato discrimine queste prospettive di svolta dovrebbero finire al centro della campagna elettorale per il Comune, già funestata, prima del lockdown, da veti incrociati, spaccature e rancori, da candidature ritirate nottetempo, dal ricicciare di ben note consorterie. Non è più l’ora delle stanche liturgie dei soliti interessi, pieni di belle parole e ipocrisie, apertamente ansiosi di far tornare tutto come prima, meglio di prima: lo dobbiamo ai bimbi che, nei campielli a un tratto tutti loro, inseguono il pallone che fugge tra le case.

Casellati, Vietti, Ermini e C.: “porte girevoli” politica-Csm

Bloccare le porte girevoli che portano i politici, per una stagione, dentro il Csm, l’organo di autogoverno della magistratura (secondo la Costituzione), su cui si allungano però le manone dei partiti (secondo la pratica politica). È una delle proposte del ministro della Giustizia Alfredo Bonafede per riformare il Csm, battuto nei mesi scorsi dalle tempeste che hanno avuto come primo protagonista Luca Palamara. In effetti, tanti personaggi passati dal Parlamento al Csm hanno difeso, più che l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, gli equilibri politici e i loro leader di partito. Sono i “membri laici” del Csm a intessere rapporti e cordate con i ras delle correnti delle toghe, da Enrico Ferri e Palamara.

Giovanni Legnini (Pd), vicepresidente del Csm 2014-2018, ammette che con Palamara “vi erano buoni rapporti fino a quando è emerso ciò che tutti sanno, che mi ha addolorato e sconcertato”. Il suo successore, David Ermini (Pd), arriva alla guida del Csm dopo essere stato il difensore ufficiale di Matteo Renzi in tv, dopo aver definito “inquietante” l’inchiesta Consip dei magistrati di Napoli che coinvolgeva Renzi.

Michele Vietti, eterno democristiano, è stato un habitué del Csm, dal 2010 al 2014 nominato dall’Udc, dal 1998 al 2001 in quota Ccd. Elisabetta Casellati (FI) c’è arrivata nel 2014, da fedelissima di B. Tornata in Senato come presidente, è riuscita nell’impresa in cui Vietti aveva fallito: farsi riconoscere il vitalizio anche per gli anni in cui era nel Csm. Matteo Brigandì (Lega) in Consiglio è durato invece solo un anno. Nel 2011 è stato dichiarato decaduto per incompatibilità: non si era dimesso per tempo da amministratore di una società commerciale. Prima era stato indagato (poi sarà condannato) per aver passato vecchie carte segrete del Csm a una giornalista del Giornale, su una presunta relazione amorosa di Ilda Boccassini, allora pm del caso Ruby con imputato Berlusconi.