Falso, questa l’accusa contestata dalla Procura di Milano al presidente del Coni, Giovanni Malagò. La notizia è stata anticipata ieri dal Corriere della Sera. Malagò, in particolare, è indagato in qualità di presidente commissario della Lega di Serie A. Al centro del fascicolo, aperto dopo l’invio in procura di una lettera di denuncia, vi è l’elezione di Gaetano Miccichè a capo della Lega calcio. Secondo l’ipotesi dei due pm della Procura coordinati dall’aggiunto Maurizio Romanelli il verbale di quella assemblea fu falsato. L’elezione di Miccichè avvenne “per acclamazione”. I magistrati hanno anche acquisito l’audio di quella seduta pubblicato pochi giorni dopo dal sito Business Insider. Oltre a questo è stato messo agli atti anche il fascicolo dell’inchiesta federale che pur archiviando ha annotato diverse irregolarità nella vicenda. Miccichè si è dimesso dopo l’inizio dell’indagine federale. L’elezione si è tenuta il 9 marzo 2018. In quel momento l’assemblea per aggirare possibili conflitti d’interesse dei candidati introduce le elezioni all’unanimità anziché con la maggioranza. Il voto però è segreto per statuto e quindi vi è il rischio di qualche franco tiratore. Per evitare l’eventualità, secondo la ricostruzione dei pm, Malagò accetta il consiglio del presidente della Juventus Andrea Agnelli di procedere per acclamazione. Il voto resterà comunque segreto. E qui interviene l’audio pubblicato da Business Insider dove si ascolta qualcuno dire: “E se vota no qualcuno, che famo?”. Un altro risponde: “Famo sparire il seggio”. Altri invitano i votanti a rinunciare allo scrutino segreto. Poi, l’audio registra la voce di Malagò che spiega: “Chi è contrario? C’è qualcuno che non vuole fare una dichiarazione di voto per Miccichè? Dai ragazzi, mi sembra una cosa di buon senso”. Tutti diranno: “Micciché”. Così la storia due anni dopo finisce sul tavolo della Procura. Sentito dal Corriere della Sera Malagò si è detto “tranquillo” perché tutto si è svolto nella “massima trasparenza”.
La “Rosea” cambia direttore, redattori contro Cairo
Al valzer delle poltrone fra i quotidiani italiani, potrebbe presto aggiungersi anche La Gazzetta dello Sport: Urbano Cairo è pronto a cambiare direttore. Andrea Monti lascerà per diventare direttore della comunicazione del Comitato organizzatore delle Olimpiadi invernali Milano-Cortina 2026. Al suo posto sarà promosso Stefano Barigelli, già condirettore del giornale ma soprattutto uomo di fiducia di Cairo.
Monti, 65 anni, alla Gazzetta dal 2010, è stato fin qui il direttore più longevo dell’era Rcs. Ha resistito anche all’era Cairo, affiancato però da Barigelli, a cui l’editore ha da subito affidato ampie deleghe. Per il passaggio di consegne manca l’accordo finale: una volta trovato, Monti sarà libero di traslocare sotto i Cinque cerchi di Milano-Cortina (e potrebbe non essere l’unico). Nonostante l’emergenza Covid, la Fondazione diretta dal manager Vincenzo Novari ha già cominciato a lavorare. Mancava ancora il capo della comunicazione che dovrà gestire tutti i rapporti di qui al 2026.
La sua successione in Gazzetta sarà naturale, ma non così pacifica. La “Rosea” vive settimane turbolente. Agitano i rapporti sempre più tesi con la proprietà. La redazione ha contestato più volte i piani di tagli, ma non ha gradito nemmeno l’uso “politico” del quotidiano, che ormai da giorni ha ingaggiato una battaglia quasi personale (quella di Cairo) contro Claudio Lotito, patron della Lazio e suo principale avversario in Lega calcio su qualsiasi tema. Il Cdr è arrivato addirittura a rinfacciargli di remare contro la ripartenza della Serie A.
La Gazzetta ne avrebbe un gran bisogno, come tutti i quotidiani sportivi, colpiti durante l’emergenza Coronavirus dal calo delle vendite. Monti negli ultimi tempi aveva lavorato anche per mantenere l’equilibrio precario in redazione, non sarà più un suo problema: se andrà come previsto, di tutto questo dovrà occuparsi Barigelli.
Quella battuta di Grillo che agita il M5S: “E se come capo politico tornassi io?”
Lo dice da un po’, sempre ridendo. Ma lo dice. “E se il capo politico tornassi a farlo io?”. Beppe Grillo, il fondatore del Movimento che da mesi guarda da fuori, nelle ultime settimane lo ha scandito a più di un interlocutore. E nel M5S di governo si chiedono se sia solo una battuta, magari per tenere sull’allerta i maggiorenti, o qualcosa di più. Di certo il Garante aveva già battuto un colpo rilevante il 24 aprile, sancendo sul blog delle Stelle il rinvio dell’elezione proprio del prossimo capo politico, con una sua “interpretazione autentica”. Quindi dopo le dimissioni di Luigi Di Maio dello scorso gennaio il capo politico reggente è ancora Vito Crimi, il più anziano membro del comitato di Garanzia.
Nonostante Davide Casaleggio che avrebbe voluto un voto entro l’estate, e ha insistito per averlo in una tesissima riunione videoconferenza con tanti big, lo scorso aprile. Ma Grillo (che non era a quella riunione) ha detto no, nero su bianco. Facendo asse con Di Maio, contrarissimo: “Se lo votassimo ora un nuovo capo durerebbe pochi mesi”. Un passaggio fondamentale, nella storia del M5S. Dove Casaleggio e la sua piattaforma web Rousseau rappresentano un nodo, come raccontò il Fatto rivelando i durissimi virgolettati di Di Maio nella videoconferenza con l’erede di Gianroberto: “Il sistema di voto su Rousseau ha portato all’anarchia”. Così la scelta del capo politico è slittata a dopo l’estate, proprio come gli Stati generali, il primo Congresso del M5S. Con Di Maio pronto a riprendersi tutto, possibilmente per interposta leader (la sindaca di Torino Chiara Appendino resta la prima opzione). E con Alessandro Di Battista vogliosissimo di sfidarlo, nel nome di un ritorno alle origini del Movimento.
Ma sullo sfondo c’è il jolly immarcabile, Grillo: che magari scherza sul suo futuro, o magari no. “Chi racconta della sua battuta lo fa anche per complicare la corsa a Di Battista” sospetta un grillino di peso, convinto che evocare un ritorno del fondatore penalizzi innanzitutto l’ex deputato, attualmente senza cariche. Di sicuro, sussurra lo stesso big, “se Beppe tornasse capo la rotta sarebbe chiara: avanti con Giuseppe Conte, e avanti con il Pd, sempre e ovunque”. Il Garante e il premier continuano a sentirsi regolarmente, e da Grillo arriva costante sostegno all’avvocato. Ma non solo. “Beppe ultimamente chiama più spesso ministri e sottosegretari”, dicono. E Di Maio e Di Battista, entrambi decisi a costruire una futura segreteria politica, stanno a guardare, anzi a sentire: il Grillo che sorride.
Ex Ilva, Mittal non apre agli ispettori: “C’è il Covid”. Atti inviati in Procura
Finisce ancora una volta sui tavoli della magistratura l’ultimo scontro tra i commissari straordinari di Ilva e Arcelor Mittal. Pomo della discordia, a pochi giorni dalla presentazione del nuovo piano industriale, è il “no” di Arcelor all’ingresso in fabbrica di commissari e di un’equipe di 15 esperti per verificare lo stato degli impianti. Un episodio che non lascia ben sperare e ricorda i toni alti di Arcelor quando ha chiesto il recesso del contratto annunciando a sorpresa di voler lasciare le fabbriche italiane. Questa volta, nonostante il largo preavviso, il colosso franco indiano ha chiuso le porte ai commissari adducendo come motivazioni prima la mancanza di personale nel ponte del 2 giugno e poi le regole anti Covid. A poco sono servite le conferme dei commissari: i cancelli, ieri mattina, sono rimasti chiusi. Ilva in As ha annunciato l’invio di una relazione dettagliata in procura per segnalare la violazione dell’ultimo accordo firmato da Arcelor col governo. Un copione che ormai sembra scontato: dopo i toni alti, arrivano gli accordi. E vince sempre Arcelor.
L’Oracolo Sabino che fu renziano e i guai domestici
L’archivio dell’agenzia Ansa custodisce 1.576 lanci di stampa col nome Sabino Cassese. Il periodo è assai limitato – gli ultimi quarant’anni – per percepire la proficua attività mediatica e politica del luminare di diritto amministrativo e giudice emerito della Corte costituzionale. Collabora con i quotidiani Corriere e Foglio, concede decine di interviste in un mese (ieri l’ultima sul Tempo), va in televisione a sciorinare sapienza nei salotti dell’approssimazione. Cassese parla sempre ex cathedra, di riforme della Pubblica amministrazione che ha studiato e attuato per mezzo secolo, di bisogno di privatizzazioni statali che ha invocato e accompagnato sin da giovane, elargisce pareri legali seppur non iscritto all’ordine forense, agogna la buona classe dirigente, meglio se generata dai suoi buoni insegnamenti. Un’Ansa del 14 gennaio 1981 segnalò la nomina della commissione di Giuliano Amato, istituita all’interno del ministero delle partecipazioni statali. C’era anche Cassese. Il 23 settembre ’87, in un colloquio con l’Europeo, il giurista svelò la sua ricetta per salvare lo Stato: “Per tappare i buchi del deficit pubblico, esiste un’unica soluzione: vendere tutto il vendibile da parte delle partecipazioni statali”. Diversi governi hanno adottato la soluzione Cassese, più svendite che vendite. Egli stesso ha vigilato da vicino gli esperimenti di privatizzazione, come le concessioni autostradali assegnate alla famiglia Benetton, e perciò ha trascorso un mandato nel cda di Aspi. Mai di nulla di scabroso si è accorto e, in perfetta coerenza, ha difeso i principi del mercato dopo la tragedia del ponte di Genova. E si è scandalizzato quando lo Stato con Cassa Depositi e Prestiti è rientrato in Telecom per contrapporsi all’egemonia di Vivendi, gruppo francese in quel momento rapace più del solito in Italia e pure con Mediaset.
Ha adottato la riforma costituzionale di Maria Elena Boschi. L’argomentazione finale, che sancì il definitivo arruolamento nella legione renziana, avvenne al Meeting di Comunione e Liberazione nell’agosto del 2016. Fu un avvio dotto per la campagna elettorale di Matteo Renzi: “Penso che le ragioni del bicameralismo siano da tempo superate e quindi non ci sia bisogno di due assemblee parlamentari che svolgono la medesima funzione. Monocameralismo temperato significa dare vita a un piccolo Senato che partecipa ai processi di decisione esclusivamente per le materie che sono più rilevanti”. Al referendum fu sonora sconfitta. Qualche mese più tardi Cassese disse di Renzi: “È un bravissimo uomo di governo. Ha avuto difficoltà nel fare l’uomo di Stato. Ha portato molta energia nella gestione del governo, ma ha avuto un limite nel fatto di non rendersi conto che lo Stato rappresenta una maggiore complessità rispetto al governo”. Nel 2015, invece, passò un gennaio tra i candidati renziani per il Quirinale. Alla trasmissione radiofonica Un Giorno da Pecora gli chiesero se avesse davvero organizzato cene per drenare consenso dai partiti: “Mi piacerebbe fare delle cene a casa, ma in questo momento abbiamo una crisi domestica: non abbiamo una persona che ci aiuta”. Per aiutare lo Stato, invece, Cassese è sempre in servizio.
Nel nome di Cassese: i tentacoli nello Stato
Assiso davanti ai suoi allievi provenienti dalle università di Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Catania e Siena per la presentazione della sua rivista giuridica, lo scorso anno, Sabino Cassese sentenziò: “La Pubblica amministrazione è il tramite fra la società e lo Stato”. Il tramite, spesso, sono Cassese e i suoi allievi, radicati ovunque, negli atenei, nei ministeri, nelle autorità di controllo, nelle aziende statali. E poi chiosò: “Oggi la Pubblica amministrazione è in una morsa”. Succede quando Cassese e i suoi allievi, cura e corpo dello Stato, luminari di diritto amministrativo, fustigatori della burocrazia, si sentono spodestati o non valorizzati dalla politica incapace di perseguire il meglio. Succede adesso. Cassese e i suoi allievi sono una corporazione, ben istruita, che si ritrova nelle strutture di governo e si riunisce all’Istituto per le ricerche sulla Pubblica amministrazione e nei seminari con le locandine enciclopediche in cui si saggiano futuri ministri e capi di gabinetto.
Curriculum in sella tra Lottomatica e Generali
Il curriculum di Cassese scritto da Cassese è lungo due pagine, circa 7.500 caratteri. Non è la versione più aggiornata, neanche la più estesa. Si tratta di una volgare epitome. Più volte compare la parola emerito. Si intende docente emerito di diritto amministrativo e si riferisce alla cattedra all’Università Sapienza e al magistero perpetuo negli atenei italiani e stranieri. Ha studiato per mezzo secolo la Pubblica amministrazione, durante gli studi ne ha creato un tipo a sua immagine. Non a somiglianza perché nessuno davvero gli somiglia.
Fratello maggiore di Antonio, che fu giudice internazionale e accademico, Sabino nacque nel ’35 in Irpinia da Leopoldo, stimato archivista e storico. Nell’autunno del 2004, quasi a settant’anni, finiti i mandati nei consigli di amministrazioni di Lottomatica, Autostrade per l’Italia e Assicurazioni Generali e non ancora elevato alla Corte costituzionale, Cassese ha fondato l’Istituto per la ricerca sulla pubblica amministrazione, in breve Irpa, e l’ha dedicato a Cassese e ai suoi allievi. Irpa ha sede nel palazzo di Generali di piazza Venezia a Roma, di fronte al fatidico balcone. Non è proprio una sede, ma un indirizzo ufficiale, poiché viene ospitata dagli affittuari di Civita, l’associazione culturale presieduta da Gianni Letta. Il primo insegnamento che Cassese ha impartito ai suoi allievi è che l’alfabeto comincia dalla lettera c. L’esclusivo elenco soci di Irpa parte da Cassese Sabino e riprende da Agus Diego. In Irpa si entra per cooptazione, a oggi i posti sono 104, si paga un obolo di un paio di centinaia di euro, si va in ritiro a Sutri, provincia di Viterbo, con lo scoccare della raccolta delle castagne. Irpa raduna un gruppo ristretto di professionisti, di nobile lignaggio o di prestigiose carriere, interi blocchi di facoltà di giurisprudenza, docenti ordinari a trent’anni, associati a dottorati appena conclusi, ragazzi svezzati a vent’anni nei ministeri, avvocati dalle parcelle dorate. Tutti uniti da un legame con Cassese o da una venerazione per Cassese, un mentore che ha costruito attorno a sé una classe dirigente, in prosa, un gruppo di potere e di lobby, che negli anni ha proliferato compatto nelle università Sapienza, Tor Vergata, Roma Tre, Luiss di Confindustria e negli apparati di governo di ogni colore politico. Gli allievi di Cassese di Irpa si assembrano spesso. Da uno, a caso, si diramano gli altri. Più che un gioco di ruolo, è un gioco di Stato. Stefano Battini collabora col professor Cassese dal ’91, è ordinario di Diritto amministrativo all’Università della Tuscia. Nel 2017 il governo Gentiloni l’ha nominato al vertice di Sna, la Scuola nazionale dell’amministrazione. Per una docenza in Sna (40.000 euro), Battini ha reclutato Lorenzo Casini, eclettico e brillante giurista, classe ’76, già presidente per un anno di Irpa e da settembre capo di gabinetto di Dario Franceschini, ministro dei Beni culturali, nonché prof di Diritto amministrativo alla Imt alti studi di Lucca.
il labirinto discepoli vista Quirinale
Battini e Casini, in quest’ordine, si palesano fra i prof del master interuniversitario – Sapienza, Tor Vergata, Roma Tre, Luiss più Sna – di secondo livello in diritto amministrativo chiamato Mida. Battini, Casini e poi Davide Colaccino, iscritto di Irpa e soprattutto direttore affari istituzionali di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp). I soci di Irpa e i prof. di Mida sono sovrapponibili: pleonastico. Non solo Colaccino. Cdp in Irpa è ben rappresentata, o viceversa. Alessandro Tonetti, già vicecapo di gabinetto al Tesoro col ministro Padoan, è al vertice dell’ufficio legale di Cassa dal 31 marzo 2016. Un anno dopo Cassese è stato scomodato da Cdp per una consulenza legale in “merito alla posizione di Cassa e al suo Statuto” per 39.000 euro. Nel 2018 Susanna Screpanti è stata collocata agli “affari normativi e ai progetti speciali presso la direzione legale” di Cdp. Socia di Irpa, Screpanti è dottore di ricerca in diritto amministrativo a Roma Tre nel feudo del prof. Giulio Napolitano, figlio di Giorgio. Napolitano è stato presidente di Irpa prima di Casini e dopo l’avvocato Luisa Torchia. Nel 2018 Giulio ha ottenuto due incarichi legali da Cdp per un totale di 28.000 euro. Irpa in Consob, la commissione nazionale che vigila sul mercato borsistico, un tempo si fregiava del segretario generale Giulia Bertezzolo, decaduta il 29 marzo 2019 dopo le dimissioni del presidente Massimo Nava. In compenso, sempre nel 2019, il 20 febbraio, Napolitano è stato accolto in Consob nel comitato degli operatori e gli investitori. In Irpa il dibattito sulle concessioni autostradali sarà molto partecipato e si presume univoco. Cassese si è battuto sin da subito, dopo la tragedia del ponte Morandi, contro la revoca totale della concessione per Autostrade della famiglia Benetton. L’ha definita “sproporzionata”. Alcuni maliziosi hanno rievocato la sua esperienza nel cda di Autostrade. Di sicuro Cassese sarà in sintonia con l’amica giurista Torchia (Roma Tre), avvocato di Autostrade e in passato consigliere di Atlantia, la cassaforte dei Benetton. Sull’altro fronte, o almeno in una posizione di neutralità, in Irap c’è Lorenzo Saltari, che Danilo Toninelli, allora ministro dei Trasporti, indicò tra i membri della commissione tecnica per esaminare l’ipotesi di revoca della concessione. E in Irpa c’è anche Massimo Macrì, responsabile dei rapporti legali di Autostrade con il ministero dei Trasporti. A differenza di Macrì, Torchia e Saltari, Alberto Stancanelli, capo di gabinetto del ministro Paola De Micheli, successore di Toninelli, non è un socio di Irpa, ma a pieno titolo va considerato un allievo di Cassese. Ha trascorso vent’anni al suo fianco alla Sapienza. L’avvocato Torchia è stato il presidente più longevo di Irpa, sei anni, uno in più di Bernardo Giorgio Mattarella, figlio di Sergio, ordinario di dDiritto amministrativo a Siena. Mattarella è stato per un biennio capo del legislativo del ministero della Pubblica amministrazione con Marianna Madia. Quel periodo, che ha coinciso col renzismo, è stato l’ultimo di massimo splendore per il proselitismo di Cassese. Come se fosse tornato alla Funzione pubblica dopo l’anno da ministro nel governo Ciampi. Mattarella al legislativo, Pia Marconi alla guida del dipartimento, Elisa D’Alterio all’unità per la semplificazione: una colonna di Irpa al dicastero. Il governo giallorosa può vantare un altro socio di Irpa, però molto trasversale: Luigi Fiorentino, capo di gabinetto al ministero dell’Istruzione (mentre Saltari è al legislativo). Alla Presidenza del Consiglio ci sono i dirigenti Carlo Notarmuzi e Chiara Lacava. Cassese e i suoi adepti vanno oltre Irpa. Tra gli allievi va annoverato Giacinto Della Cananea (Tor Vergata), che fu estensore del programma di governo dei 5 Stelle. L’esecutivo renziano ha rottamato l’Isfol con l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche (Inapp). Cassese apprezzò. Stefano Sacchi, il presidente, ne fu orgoglioso. Cassese fu presto coinvolto con un parere legale (25.000 euro) e con la presidenza del comitato editoriale della rivista (15.800) di Inapp. La modesta pecunia non c’entra. Le cose in Italia accadono con rigore scientifico. Se le fanno accadere Cassese e i suoi allievi.
Consenso. Svolta ad agosto e nella crisi covid ha rassicurato
All’inizio della sua esperienza politica, Giuseppe Conte è stato di certo sottovalutato. Ma era inevitabile: era sconosciuto non solo alla classe politica, ma direi anche alla classe dirigente del Paese, per cui era ovvia la perplessità intorno a lui. Conte però ha da subito ha potuto contare su alcune armi efficaci.
La prima è quella di essere poliglotta, qualità rara nell’ambiente internazionale. Pochi giorni dopo la sua nomina, Conte fu catapultato di colpo al G7 e il primo impatto con i leader internazionali è stato ottimo, anche grazie al fatto che il premier apparve come un uomo colto. Non a caso, a parte nelle settimane d’emergenza per il Coronavirus, la sua reputazione a livello internazionale è sempre stata migliore di quella su cui poteva contare in Italia.
L’altra sua caratteristica è quella di essere un buon mediatore, in questo ricorda molto Angela Merkel: le divergenze tra alleati (sia nel precedente governo che in questo) non gli consentono totale autonomia, ma il suo atteggiamento porta spesso a lasciare usurare i problemi per poi trovare una soluzione di mediazione. Nella sua parabola politica c’è poi un punto di svolta evidente nell’agosto del 2019, quando ha affrontato Matteo Salvini. La stragrande maggioranza degli osservatori rimase stupita dal fatto che potesse essere così duro, così abrasivo.
Adesso, nel nuovo governo, Conte è certamente più a suo agio: come lui stesso ha ammesso, la sua formazione è cattolica e democratica, con una inclinazione verso sinistra. Non lo definirei “moderato”, quanto “rassicurante”, che è anche ciò che gli ha consentito di ottenere consensi durante l’emergenza: è apparso tranquillo senza passare per quello che dice “ci penso io”, dava l’idea di sapere che cosa stava facendo. Non è scontato: certo, nei periodi di crisi spesso ci si stringe intorno al leader, ma in Francia, per esempio, non è accaduta la stessa cosa a Emmanuel Macron.
Cambiamento. Restano gli errori “gialloverdi”, però ora è più autonomo
Ancor prima del famoso scontro in Senato con Matteo Salvini, c’è un altro momento chiave nella storia politica di Giuseppe Conte. Poche settimane prima di quella rottura, il presidente del Consiglio si era infatti presentato in Aula per riferire riguardo al caso Russiagate, ovvero il rapporto tra la Lega e i fondi russi: avrebbe dovuto presentarsi Salvini e invece Conte dovette metterci la faccia mostrando però al tempo stesso una certa distanza dal suo alleato.
Con la crisi di governo di agosto, poi, è cambiato il suo ruolo: prima i due vicepremier Salvini e Di Maio condizionavano molto l’indirizzo del governo e l’operato del presidente, anche perché Conte non era mai stato in politica e non aveva un partito alle spalle. Nel governo Pd-5 Stelle, invece, Conte è diventato molto più protagonista fino alla consacrazione di queste settimane: la pandemia, nella tragedia, è stata condizione ideale per far emergere la sua dote da “uomo dell’emergenza”. Ha mostrato carattere e ha cercato di operare in maniera onorevole, nel senso che non si è risparmiato, si è speso moltissimo e ha compreso fin da subito che doveva muoversi su due fronti: da una parte pensare all’emergenza sanitaria in Italia e dall’altra chiedere aiuti in Europa, tanto è vero che già da inizio marzo insieme ad altri 8 Paesi si è rivolto alla Commissione nell’ottica di ottenere misure di solidarietà.
Anche in questa seconda esperienza di governo, però, non ci si può dimenticare degli errori commessi durante l’alleanza con Salvini. Quel periodo lo ha reso inviso a molti e bisogna tenere a mente che passare da un governo con la destra a uno con la sinistra è una anomalia, una pratica tipica al massimo della Democrazia cristiana. Questa volta ci è andata bene perché Conte ha dimostrato di essere un buon presidente, ma deve restare un’eccezione ed è giusto non rimuovere quell’esperienza dal giudizio.
I due anni di Conte: il premier-avvocato diventato politico
Da presunto uomo di paglia a presunto autocrate il passo è breve. Misura due anni, il tempo esatto (finora) di permanenza a Palazzo Chigi di Giuseppe Conte, l’avvocato che doveva ballare a comando di Luigi Di Maio e Matteo Salvini e invece proprio no, la musica la detta lui, e da parecchio. Con il leghista che si è sfilato dal governo in agosto rimettendoci 10 punti nei sondaggi, e Di Maio che ora è ministro degli Esteri ma non più vicepremier, di quel Conte “che abbiamo portato lì con i nostri voti” come ricorda ogni volta che può.
Ma tanto il premier se ne sta lassù, anche se da settimane è tutto un vociferare di rimpasti, governi di unità nazionale e urne di settembre. “Conte sa che attorno a lui si muovono strane cose” sussurra un 5Stelle di governo. Nei sondaggi resta alto: convesso quindi politico. Ricuce e riparte. Lascia urlare e poi decide, specialmente in tempi di emergenza, perché Covid fa rima con Dpcm, quei pezzi di carta per regolare la vita del Paese firmati dal presidente del Consiglio. Così, giuristi e politici vari hanno urlato al dittatore, anche se i Dpcm nascono sulla base di un decreto legge. E viene un sorriso a rileggere commenti e agenzie di quel 1° giugno 2018 in cui venne nominato premier, e tutti a descriverlo come un vaso di coccio. Sei giorni dopo era alla Camera per il voto di fiducia al governo gialloverde, stravolto (“aveva dormito solo un’ora” racconterà poi un ministro). Tanto da aggrapparsi ai consigli di Di Maio, seduto lì accanto. “Posso dire che…?” si scorge in un video dell’epoca. E l’allora capo M5S replica secco: “No”. Un dazio in apparenza normale per l’avvocato che nell’ipotetico governo Di Maio, annunciato alla vigilia delle Politiche, venne presentato come il futuro ministro della Pubblica amministrazione. Invece era la carta coperta per Chigi. Vicino ai grillini ma grillino mai, e lo disse lui, alla festa del Fatto, il 2 settembre scorso: “Definirmi dei 5Stelle mi sembra inappropriato, non sono iscritto al M5S”. Eppure è popolarissimo tra la gente grillina, che in ottobre lo accolse come una rockstar alla festa per i 10 anni del M5S a Napoli. Anche se era intimo di tanto Pd già prima del governo, da ex docente a Firenze che il renzismo lo conosce. La sua forza risiede nei rapporti con il potere che non passa, con la Chiesa. “Non c’è un esponente Pd che abbia i legami che ha lui in Vaticano”, raccontava un notabile dem. Non gli impedì di deglutire in un amen il Salvini del “chiudiamo i porti”, ai tempi del governo gialloverde.
Anzi, fu lui il primo a scandire che l’allora ministro dell’Interno non andava processato per il caso della nave Diciotti “perché ha deciso tutto il governo”. Poi arrivò lo strappo di agosto, e il discorso di Conte in Senato che fu requisitoria contro Salvini. Giorni dopo, il governo giallorosa col Pd, Matteo Renzi e la benedizione essenziale di Beppe Grillo, rumorosamente contiano (si sentono spesso). Oggi come allora con l’Europa tratta lui. Di solito trova il punto di caduta, anche su rogne come la regolarizzazione dei lavoratori migranti. Però ha sbandato sul via libera alle messe, e la Cei gliel’ha fatto notare, per ricordargli da dove viene. E i ritardi sulla Cig sono una ferita. “Deve essere meno solo” dicono dai due lati di governo: e Renzi è un nemico. Conte sa che il tranello potrebbe essere in un rimpasto. Anche per questo ha subito “ingabbiato” il capo della task force Vittorio Colao. Se supera l’autunno, di anni da premier ne potrebbe festeggiare cinque. Farà meglio a riguardarsi.
Mini-marcia fascioleghista: Zaia si candida da leader
Doveva essere il grande ritorno in piazza della destra, alla fine sarà una festicciola per pochi intimi. La manifestazione contro il governo convocata da Matteo Salvini e Giorgia Meloni (ma c’è pure Antonio Tajani di Forza Italia) si è trasformata in una rimpatriata di dirigenti e uomini di partito. Per stessa ammissione degli organizzatori. “Dobbiamo rispettare regole e disposizioni sanitarie che rendono impossibile una partecipazione massiva aperta a tutti i cittadini”. Un paradosso: una protesta senza cittadini. Che senso aveva allora convocare un corteo in piena emergenza (e per giunta nel giorno della festa della Repubblica)? Mistero. Alla fine stamattina a Roma saranno più o meno come gli spartani: massimo 300.
Fiutata l’aria, è stata proprio Giorgia Meloni a dire ai suoi che non è il caso di partecipare: “Non vi chiediamo di venire, perché non conosciamo ancora la curva dei contagi, vogliamo una manifestazione sicura e non vogliamo dare alcun alibi al governo per giustificare i suoi fallimenti. In piazza vi aspettiamo il 4 luglio, per una grande manifestazione nazionale”.
Festa rimandata. Eppure Salvini l’aveva lanciata così: “Il 2 giugno tutti a Roma”. Era l’occasione “per dare voce al dissenso degli italiani che non credono più nelle promesse del governo”. E pure le piazze da riempire, che prima erano “100 in tutta Italia” sono diventate forse una settantina.
Nella “spallata” che svanisce però c’è una notizia: alla coppia Salvini-Meloni si è aggiunto il profilo ingombrante di Luca Zaia. Il governatore leghista del Veneto non ha fatto sapere se sarà in piazza fisicamente o solo in spirito, ma ha dato la sua benedizione pubblica all’evento: “Sostengo la manifestazione ma non so ancora se ce la farò a esserci. Abbiamo alla stessa ora la videoconferenza”, ha detto, riferendosi al punto stampa quotidiano nella sede della protezione civile di Marghera (Venezia) per rispondere alle domande sul Covid. Per lui è una giornata piena di impegni, come al solito, sul fronte dell’emergenza. Zaia però vuole partecipare (magari al corteo di Mestre), perché vuole essere presente. Politicamente. “Cercherò di far combaciare le due cose – ha detto ai giornalisti –. Tranquilli, avrete la mia foto con la bandiera italiana”. Nel giorno della festa della Repubblica, infatti, il tricolore è il simbolo esposto dalla destra per protestare.
Le sue parole sono interessanti per diverse ragioni. Primo: è curioso che il presidente del Veneto si tolga la fascia e scenda in piazza durante un’emergenza nazionale, per manifestare contro lo stesso governo con il quale è seduto quotidianamente al tavolo (per lavorare sulla stessa emergenza). Una contraddizione anche logistica, diciamo: se Zaia non sarà accanto a Meloni e Salvini è perché si troverà nella sede della Protezione Civile, un dipartimento di Palazzo Chigi.
Il secondo motivo di interesse è tutto politico: oggi, di fatto, Zaia potrebbe avvicinare simbolicamente la sua discesa in campo. Indicato da più parti come la vera alternativa moderata al leghismo radicale di Matteo Salvini, il governatore fino a ieri si era sempre tenuto lontano dalla materia. Ora, a quanto pare, è pronto a togliersi i guanti. Con la sua adesione alla piazza anti-Conte della destra, Zaia batte un colpo: decide di far pesare la sua figura e il consenso che si è mosso attorno a lui negli ultimi mesi (proprio mentre quello di Salvini si riduceva sensibilmente).
A tal proposito, c’è una scelta simbolica altrettanto potente: Zaia stasera sarà l’ospite d’onore della trasmissione Fuori dal coro, tempietto mediatico del salvinismo su Rete 4, intervistato dal padrone di casa Mario Giordano. Insomma Zaia c’è, e per Salvini non sembra affatto una buona notizia.
Proprio mentre il “capitano” soffre pure a destra per le iniziative di Giorgia Meloni. L’ultima trovata della leader di Fratelli d’Italia è stata la richiesta di poter deporre – insieme agli alleati – una corona d’alloro al monumento del milite ignoto sull’altare della Patria. Iniziativa impedita dal cerimoniale di Palazzo Chigi e dal ministero della Difesa: quel gesto – oggi come sempre – spetta al presidente della Repubblica. Ieri Sergio Mattarella ha lasciato trasparire il fastidio per le “divisioni inaccettabili” di questi giorni e ha ricordato che le celebrazioni del 2 giugno sono un patrimonio nazionale e non materia per divisioni e propagande. Come le marce di partito. A Roma comunque saranno in pochi.