“Il mio omonimo De Luca è un guappo di cartone”

Vincenzo De Luca in Campania ha vietato tutto quello che era vietabile durante l’emergenza: le passeggiate, una corsetta sotto casa. Più che autorevole, è sembrato autoritario. C’è chi lo ha denunciato per violazione di libertà costituzionali insopprimibili anche in tempi di pandemia. Erri De Luca, lei che ne pensa?

La persona ha un suo culto della personalità e un carattere autoritario. Nei mesi dello stato di eccezione ha approfittato della grande partecipazione civile alle restrizioni di movimento per presentarsi come il tutore della disciplina, esasperando i toni. Non era ovviamente lui il cordone sanitario, ma i cittadini stessi che hanno condiviso le regole comuni al resto d’Italia. Non credo invece che ci sia stata in Italia una violazione di libertà costituzionali relative alla questione della libertà di movimento. In ogni epidemia della storia del mondo le comunità si sono difese isolandosi temporaneamente. Ci sono state violazioni di libertà invece in Ungheria con l’assegnazione al primo ministro anche della facoltà di censura. Il diritto principale di una democrazia si fonda sulla libertà di espressione e da noi non è stata in discussione e non è alla portata di un governatore di regione.

Cosa ha pensato guardando De Luca minacciare l’invio dei “carabinieri col lanciafiamme”?

Battuta da guappo di cartone, fatta per suscitare impressione. Ma siamo in un periodo di frasi a effetto che suscitano il consenso di un’ora. Penso che solo un anno fa era ministro dell’Interno il capofila delle frasi da fanfarone e che i sondaggi gli lisciavano il pelo. Se si suscitano umori, basta poi un cambio di vento a ritrovarsi scaduto.

Ora De Luca è andato all’attacco della movida al grido “basta rincretinirsi con alcol e droga”. Non è sembrato un ragionamento antiassembramento e anticontagio, ma di tipo etico. Concorda?

L’alcol, dalla gradazione di una birra in su, è una bevanda legale, la droga no: metterle insieme è fare accozzaglia. Il messaggio vuole essere quello repressivo del proibizionismo, ma senza il potere per imporlo. Il termine che lo identifica è velleità.

Che ripercussioni avrà l’emergenza Covid al Sud?

Il meridione d’Italia (non il Sud che è area del mondo) è geograficamente e storicamente un territorio aperto. La sua variegata bellezza attira visite dal mondo e così dovrà riproporsi questa estate. Si passa alla fase di apertura e a molto giova il dato che il meridione è stata zona a scarsa presa di epidemia, un presidio sanitario. Il meridione è sano, questa è la sua specialità supplementare oggi. L’amico Luca Mascolo, sindaco di Agerola, mi diceva qualche giorno fa che da loro non c’è stato nessun caso. È notizia da far valere pubblicamente per gran parte del meridione.

De Luca è la causa o l’effetto della deriva populista in atto? E perché nei momenti difficili l’italiano torna a cercare “l’uomo forte” coi toni “da balcone”?

È un concorrente dello scaduto ministro degli Interni del governo precedente e ha spesso polemizzato con quello, presentandosi come la sua controfigura meridionale. Non vedo una ricerca dell’uomo della provvidenza in questo periodo, anzi il consenso registrato dal governo, il cui capo si mantiene al riparo da toni esclamativi, dimostra una ricerca dell’uomo sobrio. I toni da balcone cominciano a stufare anche nei dibattiti televisivi.

Fontana s’è accorto del virus nelle Rsa con 2 mesi di ritardo

Se la delibera della Regione Lombardia dell’8 marzo per spostare pazienti Covid a bassa intensità nelle Rsa è stato come buttare “un cerino dentro al pagliaio” (parole di Luca Degani, presidente dell’associazione Uneba che riunisce 400 casi di riposo lombarde), l’assessore al Welfare Giulio Gallera, l’Unità di crisi e l’Ats sono arrivati fuori tempo massimo per spegnere l’incendio. A confermarlo alcuni dati inediti della task force regionale che il Fatto ha potuto consultare e che mostrano come l’attività di tracciamento nelle Residenze per anziani dell’area metropolitana di Milano e in quella di Brescia è entrata in un regime appena accettabile a oltre due mesi dall’inizio dell’epidemia e a oltre un mese e mezzo dalla famigerata delibera. I tamponi, come già raccontato più volte, sono partiti in ritardo e quando il virus si era già propagato lasciandosi dietro centinaia di vittime. Lo scenario viene illustrato da una istantanea numerica. L’8 marzo è una data spartiacque, anche se il virus era già entrato nelle Rsa. E probabilmente vi era entrato perché la Regione dopo il primo caso di Codogno ha deciso di tenere aperti i centri diurni per anziani fino al 9 marzo. Doppio errore. Tanto che cinque giorni dopo dal comune di Mediglia rimbalza la notizia di 38 casi nella casa di riposo Mombretto.

Da quel momento in poi la situazione si farà ogni ora più drammatica fino a contare quasi mille decessi per Covid nella città di Milano. Questo dato viene comunicato dall’Ats del capoluogo lombardo il 23 aprile, esattamente nella settimana in cui la Regione, secondo le cifre consultate dal Fatto, raggiunge il maggior numero di tamponi nelle Rsa. Siamo alla dicassettesima settimana dall’inizio dell’anno e alla decima da quando si è scoperto il paziente 1. Siamo quindi nei giorni che vanno dal 20 al 25 aprile. Qui il numero dei casi positivi nelle Rsa dell’area milanese è di 1.157. Tanti e trovati troppo tardi. Dalla delibera dell’8 marzo sono passati infatti ben 75 giorni. Fino a quella data, i tamponi latitano, il tracciamento pure, aumentano solo i decessi. Tanto che si muoverà la stessa Procura di Milano per mettere a fuoco le responsabilità di politici e dirigenti. Nel mirino decine di Rsa lombarde tra cui il Pio Albergo Trivulzio (Pat). Qui fioccano gli indagati, tra cui il direttore generale Giuseppe Calicchio. L’accusa: omicidio colposo. Tante le denunce, l’ultima di ieri per una donna di 78 anni morta per un’infezione. La donna è deceduta al Fatebenefratelli dopo essere stata lasciata per settimane in un reparto no Covid del Pat.

Torniamo allora indietro. Alla settimana numero 8 e numero 9, ovvero i primi quattordici giorni del contagio. Qui il numero dei positivi nelle Rsa è pari a zero. Stessa cifra per la provincia di Brescia, tra le più colpite d’Europa. In provincia di Milano i primi positivi emergono all’11° settimana. Da lì in poi cresceranno lentamente a riprova di come i controlli nelle Rsa non siano stati adeguati. Il grande balzo nel numero dei casi lo si registra dalla 13° settimana e cioè da fine marzo quando prima sui giornali e poi negli atti giudiziari scoppia lo scandalo delle Rsa lombarde. Regione e Ats iniziano così a rincorrere un’emergenza ormai fuori controllo. Tra il 6 e l’11 aprile, a un mese dalla delibera per spostare i pazienti Covid, il numero dei positivi nell’area di Milano sale a 1.023 con il picco di 1.157 dal 20 al 25 aprile. Nelle stesse ore l’Iss conferma che le Rsa sono al primo posto come concentrazione di positivi. Al 24 maggio il numero dei casi nelle strutture dell’area di Milano si ferma a 5.250 con una contabilità di decessi regionale di 3.045 persone. Solo la triste conferma di una corsa del virus che poteva essere fermata se la Regione, come dimostrano questi numeri, si fosse attivata prima. Ne è convinto il consigliere regionale del Pd Samuele Astuti: “Questi dati ci confermano che l’attuale giunta ha sempre rincorso e continua a rincorrere l’emergenza. Dopo la delibera delle Rsa dell’8 marzo abbiamo subito denunciato la pericolosità di questa scelta. In una pandemia la tempestività delle scelte è tutto, e non aver fatto i tamponi da subito nelle Rsa è stato un grave errore”.

Il Colle ai partiti: “Unità morale”. Spostamenti: le nuove regole

Da solo, nei giardini del Quirinale, davanti all’orchestra che suona l’Inno nazionale, con la mascherina. Poi, a volto libero, mentre pronuncia il discorso della Festa della Repubblica più inaspettato. L’immagine di ieri del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è destinata a stagliarsi nella memoria. Come quella del 27 marzo, una delle giornate più drammatiche dell’emergenza, quando apparve, da solo, nel suo studio. Proprio mentre Papa Bergoglio, anche lui solo, pregava in piazza San Pietro. Ora servono “coraggio” e “prudenza”, scandisce Mattarella mentre avverte che “la risalita non sarà veloce, la ricostruzione sarà impegnativa e sofferta”.

Il messaggio arriva a poche ore dalle riaperture tra Regioni, prevista per domani. Non ci sarà un Dpcm ad hoc: fa fede il decreto del 16 maggio, in cui si scrive che fino al 2 giugno “restano vietati gli spostamenti” tra Regioni. L’economia è prioritaria. I paletti sono pochi, le incognite tante. Ma nello sguardo di Mattarella si riflette non solo l’ottimismo, ma anche la durezza. “C’è qualcosa che viene prima della politica, che non è disponibile per nessuna maggioranza e per nessuna opposizione: l’unità morale”. L’avvertimento non è solo per Matteo Salvini e per Giorgia Meloni, ma anche per le forze di maggioranza. In una gestione del premier Conte che, nonostante i ripetuti richiami del Colle, non è mai stata davvero unitaria. E poi, la critica è ai conflitti tra Regioni, tra Regioni e Comuni, tra vecchi e giovani. Se non fosse chiaro: “Mi permetto di invitare, ancora una volta, a trovare le tante ragioni di uno sforzo comune, che non attenua le differenze di posizione politica né la diversità dei ruoli istituzionali”. Parole fortissime in una location che in genere in questa ricorrenza ospita politici e giornalisti, assiste a trame, gossip, amicizie e inimicizie. Non è momento: “Le sofferenze non vanno brandite gli uni contro gli altri”. Nella crudezza del messaggio, ricorda il discorso di Giorgio Napolitano alla sua rielezione, quando scudisciava i partiti in piedi ad applaudirlo. “Sono fiero di questo Paese”, dice Mattarella, mentre dà il via al Concerto del Teatro dell’Opera di Roma, diretto da Daniele Gatti e dedicato alle vittime del Covid. Dunque, domani si riapre.

Spostamenti. Via libera agli spostamenti tra Regioni senza autocertificazioni. Diversi governatori avevano chiesto almeno una settimana di blocco in più o una ripartenza scaglionata a seconda della curva di contagio nei territori, ma il governo ha preferito riaprire con condizioni uguali per tutti. Sicilia, Lazio e Sardegna avevano proposto controlli e obblighi per chi entra da fuori – una quarantena di 14 giorni o un “passaporto sanitario” – ma alla fine ci sarà solo un tracciamento: chi prende aerei e traghetti sarà registrato in partenza e all’arrivo, mentre chi si sposta in auto o in treno potrà subire controlli a campione. Dati utili arriveranno dagli albergatori, che potranno segnalare le prenotazioni alle Regioni. Nel caso emerga un caso positivo, si cercherà il più possibile di ricostruirne gli spostamenti e i contatti. In questa direzione vanno le app Immuni (in via di sperimentazione) e “Sicilia si cura”, lanciata da Nello Musumeci, su base volontaria.

Estero.Frontiere aperte in entrata e in uscita: da domaniconsentiti gli spostamenti da e per gli Stati dell’Ue e dell’area Schengen e verso Regno Unito, Andorra, Monaco, San Marino e Vaticano. Chi arriva in Italia da questi Paesi non sarà sottoposto a quarantena, a meno che non abbia prima soggiornato in Stati diversi da quelli citati.

Mascherine.Resta obbligatorio in tutta Italia indossare le mascherine sui mezzi pubblici e dove non è possibile garantire il distanziamento. Ogni Regione, però, ha regole sue: il Veneto ritirerà l’obbligo di indossare mascherine all’aperto (e così, forse, il Friuli), che resterà invece Lombardia, Campania, Trentino, Sicilia e Sardegna.

Assembramenti. Restano vietati gli assembramenti. Idem le manifestazioni: è possibile ritrovarsi ma rispettando la distanza interpersonale.

Cinema e teatri.Potranno ripartire solo dal 15 giugno e con regole particolari: massimo 200 persone al chiuso, 1000 all’aperto.

È arrivato l’arrotino

Dopo tante tragedie, un po’ di buonumore ci voleva. Ma qui si esagera. Avete presente il pianto greco di Salvini che, passato dal citofono al telefono, chiama Mattarella perché Palamara sparlava di lui col procuratore di Viterbo? A parte il fatto che non si capisce dov’è il problema se due pm che mai si sono occupati né si occuperanno di Salvini sparlano di Salvini (fra l’altro sui suoi attacchi alla Procura di Agrigento, non sui suoi processi), l’aspetto comico è che Salvini fino all’altroieri voleva vietare per legge la pubblicazione di intercettazioni penalmente irrilevanti. E, come lui, tutti i partiti e i giornali di destra e sinistra che ora commentano le intercettazioni penalmente irrilevanti di Palamara (quelle rilevanti non riguardano il Csm, l’Anm e le correnti, ma le accuse di corruzione). Cioè: se fosse dipeso da Salvini, le chiacchiere sul suo conto di Palamara non sarebbero mai uscite e lui non avrebbe mai potuto piagnucolare. Per fortuna di Salvini, Bonafede non diede retta a Salvini e non vietò di pubblicarle. Il fatto poi che, a pubblicarle, oltre a noi che abbiamo sempre combattuto le leggi-bavaglio, siano Verità, Libero, Giornale, Messaggero, Corriere e Stampa, che han sempre sostenuto tutti i bavagli, e Repubblica che combatteva quelli di B. e plaudiva quelli del Pd, aggiunge un tocco di surrealismo al paradosso.

Ma, dicevamo, qui con le risate si esagera. L’altroieri tutti i giornali tranne il nostro anticipavano (in esclusiva) succulenti stralci di un nuovo capolavoro letterario che sta per abbattersi sulle librerie. L’autore non è Bruno Vespa, il cui annuale bestseller in forma di anticipazioni inizia a molestare le agenzie di stampa e le redazioni verso fine novembre: è l’Innominabile. Che del prezioso incunabolo, come nota Luca Bottura, ha recapitato a ciascuna testata un brano “personalizzato” per i rispettivi lettori. Impresa agevolata dalla natura “componibile” del Cazzaro Transformer, buono per tutte le stagioni, i palati e gli stomaci (un po’ meno per gli elettori): un attacco ai magistrati per La Verità, un allarme su Conte dittatore per il Giornale, una critica al giustizialismo del Pd per Libero, una stoccata alle banche per Il Tempo, un farfugliamento sugli aiuti alle imprese per Repubblica, un delirio su inchieste parlamentari sulla gestione del Covid per il Corriere, un appello suicida al “ritorno della competenza” per La Stampa, un inno alle scuole private per Avvenire e l’ideona (davvero inedita) di un Ponte sullo Stretto di Messina per il Giornale di Sicilia. Mancavano soltanto un elogio del Ficus benjamina per Cose di Casa e un progetto di legge di Iv contro le ragadi per Riza Psicosomatica. Ma, dicevamo, con le risate si esagera.

Ci sono pure le avventure di Guido Bertolaso che, da quando fu richiamato dal Sudafrica per salvare l’Italia e poi più modestamente la Lombardia, dal Coronavirus e appena arrivato si beccò il Coronavirus, non cessano di appassionare. Il pover’uomo, di cui si erano perse le tracce dopo i trionfi dell’ospedale alla Fiera di Milano costato 50 milioni (12 posti letto, in gran parte vuoti) e di quello gemello a Civitanova Marche costato appena 8 milioni (dunque totalmente deserto), è stato segnalato l’altro giorno in quel di Trapani e poi a Palermo. Problema: la Sicilia è inaccessibile in base ad apposita ordinanza del camerata presidente Musumeci. Soluzione: inventarsi una missione istituzionale qualsiasi per il globetrotter delle disgrazie. Infatti l’assessore all’Economia s’inventa che San Guido è il nuovo responsabile dell’emergenza Covid nell’isola, visto che quello vecchio è stato arrestato. Ma si scorda di coordinare la balla col presidente Musumeci, che lo sbugiarda a stretto giro: “Bertolaso è a Trapani per ormeggiare la sua barca”. Insomma fa il turista, anche se non potrebbe farlo, salvo finire in quarantena (e allora perché Musumeci ha pranzato con lui al ristorante?). Polemiche a non finire all’Ars, spente dall’assessore alla Salute con un’altra panzana, che però sbugiarda quella del presidente: “Bertolaso poteva entrare perché è qui per ragioni di lavoro”. Quale? Boh.

Alla fine, a mettere ordine fra le cazzate della Regione, provvede Bertolaso: “Sono stato invitato ufficialmente dal presidente della Regione per dare una mano”. A far che? “A studiare il modo migliore per consentire ai turisti di venire qui tranquilli e sicuri e ai siciliani di evitare di essere contaminati”. Un po’ come in Lombardia e nelle Marche, dove a furia di stringere mani e parlare vis à vis a questo e quello senza distanziamento, né mascherina, né guanti, contagiò se stesso e mandò tutti in quarantena. Ora darà “una mano”, si spera coi guanti, in qualsiasi cosa. Perché ha questo di bello: non avendo competenze su quasi nulla (è un chirurgo specializzato in malattie tropicali africane, piuttosto rare in Italia), può fare tutto con la stessa enciclopedica incompetenza. E spaziare dal Covid al turismo, ma anche volendo dall’astrofisica alla prestidigitazione. Quando finirà in Sicilia, già ce lo vediamo in giro per l’Italia sull’Ape Piaggio col megafono a tutto volume: “Donne, è arrivato Bertolaso! Arrota coltelli, forbici, forbicine, forbici da seta, coltelli da prosciutto! Donne, è arrivato l’arrotino e l’ombrellaio! Aggiustiamo gli ombrelli! E ripariamo cucine a gas: se fanno fumo, noi togliamo il fumo! E se non avete il Covid, ve lo regaliamo noi!”.

Chi critica i critici? Sogno il teatro capovolto: recensori sul palco, sotto il giudizio degli attori

Ci sono due categorie distinte di attori, quelli che dicono: “A me la critica non interessa, io penso solo al pubblico”, e quelli che aspettano febbrili l’uscita dei giornali per sapere cosa ha scritto di loro il critico di turno, come se da quelle poche righe, che spesso tardano settimane a uscire, dipendesse il loro destino. Anche i critici sono divisi in categorie, quelli costruttivi, che amano il teatro, lo studiano, lo insegnano, e più che critiche dispensano consigli, come se lo spettacolo che sono andati a recensire appartenesse un po’ anche a loro (sono i migliori). Poi ci sono quelli che, atteggiandosi a vittime, si sentono costretti dal giornale a doversi sorbire qualcosa che vorrebbero non esistesse e fanno di tutto per cancellarla dalla cronaca degli spettacoli.

Ennio Flaiano, che è stato critico e grande scrittore, apparteneva alla prima categoria, amava il teatro ed era contento di recensire gli spettacoli. Però dopo cinque minuti, massimo dieci dall’inizio della rappresentazione, si addormentava placidamente, cullato dalle battute lontane degli attori. Una volta, parole sue, vide uno spettacolo talmente brutto che “… non riuscivo a prendere sonno!”. Infine ci sono i critici che a teatro non ci vanno proprio, però continuano a criticarlo come se lo avessero visto, per continuare a prendere lo stipendio. Questi ultimi, fortunatamente una minoranza, sono i peggiori. Si informano sulla trama, consultando rapidamente programmi di sala e bignami vari, buttano lì giudizi generici su compagnie, regie, scene e attori, senza mettere il naso fuori di casa. Una volta ne ho incontrato uno, mi ha fatto un sacco di complimenti per l’interpretazione indimenticabile con cui avevo recitato il mio ruolo. L’ho ascoltato attentamente, ringraziato per le belle parole, ma non ho potuto fare a meno di dirgli che quello spettacolo non l’avevo mai fatto. È andato via senza salutarmi. Mi aveva scambiato per Giorgio Albertazzi!

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

 

Fascismo terreno fertile del duo Salvini-Meloni. Ecco perché l’Italia è mussoliniana, come sempre

Un piccolo libro di Francesco Filippi (Ma perchè siamo ancora fascisti? Bollati Boringhieri editore) cambia le carte in tavola. Nel nuovo volume, il più importante di questi giorni, si vede lo “zatterone Italia” abbandonato alle correnti del fiume Storia, dove al momento mancano piloti professionisti e guide consapevoli dei fatti, e non ci sono più testimoni del tempo.

Meloni e Salvini hanno preso il comando (certo l’attenzione) su un passato di cui non sanno niente ma che è fertile (hanno capito) per nuove radici avvelenate. Non importa se sappiano o vogliano imitare il fascismo. Importa che lo stiano già facendo, con il loro linguaggio e i gruppi satelliti (che sembrano piccoli ma possono sempre “spaccarti la faccia”, come amano dire) o tenendo in balìa del mare, esclusi da porti sicuri, naufraghi che affondano intorno a Malta e all’Italia, senza che nessuno senta il disonore di non rispondere alle chiamate d’aiuto dal mare.

Il titolo dà il tono giusto, come un concerto: “Perché siamo ancora fascisti?”. L’autore si sbarazza subito della tipica e automatica difesa (diffusa non solo a destra): “Ma quale fascismo? Basta con questa divisione dell’Italia. La Resistenza è una guerra civile che divide. La Costituzione è una carta ispirata all’eguaglianza comunista e divide. La guerra fredda ha bonificato il pericolo di egemonia comunista”. Filippi l’ha capito, con più chiarezza e coraggio di altri (sinistra inclusa): il fascismo torna perché li italiani si riconoscono nel Regime; che, secondo la leggenda, dirigeva con fermezza e realizzava con rigore. E intorno al “Giorno della Memoria”, celebrato ormai con ritualità scolastica, sono stati eretti muri di tutti i tipi e per tutti i ricordi, per far capire che non c’è niente di speciale nel male fatto agli ebrei, piuttosto che in tanti altri mali e cattiverie.

Filippi ha visto il prologo. Tutto comincia quando la cultura antifascista è esausta, perché troppa gente del prima è passata nel dopo con riconoscimenti e onori (ad esempio, l’ultimo presidente del “Tribunale della razza” è diventato il 1º presidente della Corte Costituzionale antifascista). Non c’è mai stato antifascismo, ci ricorda Filippi, o per timore di sembrare sovietizzanti (dunque anche il Pci si teneva alla larga) o per desiderio di non dividere (“continuare la guerra civile”) o per la consacrazione del mito del centrismo, dove tutti sono, in primo luogo, italiani.

Così, con la complicità di molti storici più pericolosi dei negazionisti, si continua a giudicare il fascismo separandolo dalle leggi razziali, vero capolavoro del Regime: riduzione a misera subalternità della cultura italiana (soggetta a ordini indecenti, a tutti i livelli) e cittadini trasformati in complici o delatori. Filippi scuote la cultura quieta del Paese “buono”, dove il fascismo è libero di rigenerarsi a cominciare dal suo peggio (il razzismo) e ci racconta ciò che non va dimenticato del Regime. È urgente che questo libro raggiunga le scuole.

 

I Benetton sono stanchi: pronti a uscire da Atlantia

Quasi due anni dopo il disastro del ponte Morandi di Genova. la partita della concessione di Autostrade per l’Italia potrebbe chiudersi con l’uscita di scena dei Benetton da Atlantia, la holding che controllano e che a sua volta controlla la concessionaria. Sembra fanta finanza, ma l’idea che attraversa la famiglia ha una sua logica: sparire dalla scena e restituire tutto allo Stato. Sembra questo l’unico modo di disinnescare un contenzioso infinito e devastante. Finora, la sola mossa è stata quella di scaricare le colpe su Giovanni Castellucci, il manager che li ha resi ricchi spremendo profitti dalla concessionaria anche a spese della manutenzione. Ma lo stallo sta diventando esplosivo.

Il 30 giugno scadono i sei mesi per restituire la concessione allo Stato e avviare una causa miliardaria, dopo che il decreto Milleproroghe ha eliminato la clausola che assicura ad Atlantia un indennizzo enorme anche in caso di revoca per colpa grave. Finora Gianni Mion, il manager richiamato da Luciano Benetton, dopo la cacciata di Castellucci, si è limitato a offerte offensive. Il risultato è che Aspi rischia di affogare. Il governo può vedere il bluff di Mion. Il contenzioso ha tempi biblici, e senza concessione Aspi collassa e con essa anche Atlantia, che garantisce metà dei suoi debiti. Cedere Aspi a prezzo scontato, magari alla Cassa depositi e prestiti, sarebbe l’opzione più sensata, ma Mion chiede il prezzo pieno, forse temendo la reazione degli altri azionisti di Atlantia. Nessuno però compra a prezzo pieno una concessione che andrà rivista rendendola assai meno generosa per il concessionario e più favorevole agli utenti.

Si spiegano così i segnali di insofferenza che provengono da Ponzano Veneto. L’85enne Luciano, e con lui quel che resta della famiglia, pare essersi convinto che così non se ne esce, meglio mollare Atlantia che, dal disastro del Morandi, ha dimezzato il suo valore in Borsa. Da quanto è stata privatizzata, Aspi ha distribuito dividendi per 11 miliardi ai suoi azionisti. Oggi la quota dei Benetton in Atlantia vale 3,5 miliardi, dovranno accettare di perderci ancora. Lo Stato potrebbe coinvolgere Cdp. Ma andrà affrontata, sul serio, la revisione della concessione.

Il Covid nel pallone. Meno soldi ai calciatori Presidenti e dirigenti, “in ferie” a paga intera

Èarrivato giugno. E dal 20 torna anche la Serie A. In attesa di vedere come, è il caso di formulare qualche domanda su quesiti ancora aperti e su cui nessuno, in questi tre mesi, si è premurato di dare risposte.

Taglio degli stipendi. Per salvare bilanci impazziti ben prima dell’arrivo del virus, i club intendono tagliare dai due ai quattro stipendi ai calciatori che sono gli unici, però, ad avere sempre lavorato, prima a casa e poi sul campo, e ai quali si chiede ora di giocare partite ogni tre giorni, nell’afa estiva (“Ma a 32° le partite vanno sospese”, ha ammonito la FIFPro), con un rischio-infortuni altissimo, in prolungamento forzato dei contratti e cancellando le vacanze visto che la nuova stagione dovrà partire presto. I calciatori finora hanno solo obbedito: è giusto?

Belle statuine. Mentre i calciatori si allenavano o si curavano (molti di loro si sono contagiati), i presidenti hanno trascorso gli 80 giorni del blocco senza combinare nulla, impegnati solo a battere cassa alle tv (inutilmente) e tuttora in disaccordo sul da farsi nel caso si torni a giocare ma ci si debba ancora fermare per nuovi contagi. Playoff? Playout? Sì, anzi no… E se invece di tagliare gli stipendi ai calciatori li tagliassimo a Dal Pino (Lega) e a Gravina (Figc)?

Baratto. Rovesciando il detto “Pagare moneta, vedere cammello”, le tv hanno chiuso i rubinetti dicendo ai club “Vedere cammello, pagare moneta”, dove per cammello s’intendono le partite che dal 9 marzo, giorno di Sassuolo-Brescia 3-0, non sono più state nè giocate nè trasmesse. Sky, Dazn e Img si sono rifiutati di saldare l’ultima rata, quella di maggio-giugno, lamentando anzi di avere pagato la penultima, marzo-aprile, per una sola settimana di gare giocate. Il contenzioso è finito in tribunale. Chi finirà sotto la mannaia del boia?

Faccia di bronzo. E tuttavia, se vale il detto “Pagare moneta, vedere cammello”, qui c’è Sky che pretende la botte piena e la moglie ubriaca. Da un lato si rifiuta di pagare i club per le partite mai giocate, dall’altro continua a incassare i soldi dei suoi abbonati anche se per 70 giorni non ha trasmesso una sola partita (ora ha ripreso con la Bundesliga, nella tristissima cornice che conosciamo). Perchè Sky non ha abbuonato agli utenti almeno i mesi di aprile e maggio? Per coerenza avrebbe dovuto farlo d’autorità, invece ha predisposto uno sconto del 50% solo su richiesta, pubblicizzato poco e male, sui pacchetti Calcio e Sport continuando a succhiare il sangue agli utenti. Scommettiamo che in estate si scatenerà, ammesso che non sia già in atto, una tempesta di disdette?

Istituto Luce. In questo quadro a dir poco avvilente è arrivato poi lo studio di Kpmg, The European elite , a certificare il declino del nostro calcio che per la prima volta non piazza alcun club fra i 10 con più valore (Real, United e Barça sono sul podio) con la Juve, unico top club in perdita, scalzata dal Psg e solo undicesima. Per due anni ci hanno raccontato che l’effetto CR7 avrebbe mandato in orbita la Juve e la Serie A, invece alle stelle sono andate le spese: la Juve è il solo club a sforare la soglia del 70% nel rapporto fra ricavi e ingaggi (è al 71: gli altri fra il 51 e il 60). Dal “CR7 si pagherà con le magliette” al rimanere in mutande è un attimo. Qualcuno ha un’altra favola da raccontare?

 

Pena rieducativa. I detenuti producono in cella 800 mila mascherine al giorno

Che bello potere parlare dei diritti dei detenuti sapendo che non ci sono dietro le pretese di impunità dei boss e dei loro avvocati. Che bello quando il dibattito si libera dell’unica ragione per cui in questo Paese si discute di garantismo e condizioni carcerarie: la voglia dei mafiosi di tornare a casa e riprendersi, fra tante oche giulive, il quartier generale da cui comandare. Ecco, martedì 26 maggio è partito dal carcere di Bollate un piano straordinario. Che ha messo insieme Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e alcune industrie private in nome di un progetto detto “Lavori di pubblica utilità”.

Obiettivo: garantire alla collettività nazionale, grazie al lavoro dei detenuti, una fornitura di 800mila mascherine al giorno. Una cifra altissima, se solo si pensa a quanto il Paese ha pagato in vite umane l’assenza di adeguati dispositivi di protezione. L’intervento delle imprese ha permesso di mettere a punto in una settimana la costituzione di tre strutture produttive: le sedi penitenziarie di Milano Bollate, di Roma Rebibbia-Sadav e di Salerno. Vincenzo Lo Cascio, responsabile dell’Ufficio centrale lavoro detenuti, entusiasmo e lampi di sguardo che ricordano il miglior Verdone, è quasi commosso per il clima che si è formato negli ultimi giorni. Un imprenditore coinvolto nella sfida, che non si era mai occupato di carceri, gli ha confessato che “l’idea che io possa essere il veicolo per cambiare in meglio la vita di un’altra persona mi fa sentire vivo come non mi era mai successo”. L’obiettivo più urgente è contrastare la diffusione del Covid nelle carceri. Ma le cifre assolute sono tanto ossigeno per il fabbisogno nazionale. In tempi record sono state progettate le aree in cui verranno ospitate le linee produttive, completamente al di fuori da quelle di detenzione anche se all’interno del complesso di sicurezza, per permettere ingresso e uscita degli addetti e il movimento dei mezzi di trasporto coinvolti nella filiera. Saranno usati macchinari tecnologicamente avanzati di provenienza cinese, presi dalla struttura del Commissario straordinario e dati gratuitamente all’Amministrazione penitenziaria. Che sforneranno mascherine dotate delle certificazioni di conformità e degli standard qualitativi previsti.

Le cifre di questa nuova occupazione sociale? Sono calcolati sull’intero ciclo produttivo 162 detenuti, per ognuno dei quali è previsto un periodo di formazione. Le macchine lavoreranno 24 ore al giorno. Mentre la polizia penitenziaria assicurerà, anche in remoto, la sorveglianza delle aree interessate. “Tutte mascherine chirurgiche certificate, al costo di 60 centesimi l’una”, ci tiene a sottolineare Lo Cascio, “con risparmi miliardari per le casse dello stato ed evitando le maxitruffe che hanno infestato le scorse settimane”.

Ecco finalmente a voi, insomma, la funzione rieducativa della pena. Che è teatro, è giardinaggio, è lavoro utile, è servizio pubblico, è studio. Non è arresti domiciliari in barba alla legge e non è falsa perizia medica come hanno voluto far credere i difensori “dei diritti umani” o gli intellettuali da pronto soccorso giunti a giurare che “certa antimafia estremista fa più male della mafia” (complimenti, professore!).

E sempre a proposito di funzione rieducativa, proprio martedì scorso a Bollate, mentre arrivavano le prime due macchine, è stata annunciata la riapertura del ristorante “In galera”, del cui esordio Il Fatto parlò diversi anni fa. La sua fondatrice, Silvia Polleri, che aveva temuto che il Covid le mandasse in malora una fatica esemplare di anni, era raggiante: “Incomincia la rinascita!”. Darà e insegnerà un lavoro anche lei a una dozzina di detenuti. Che diventeranno cuochi e camerieri. E anche se non sono dei boss ma dei poveri diavoli, a noi interessa lo stesso. Anzi, di più.

 

Virus, onda lunga. Il lato oscuro di Luca Zaia, genitori con nervi tesi e le badanti senza parole

 

Il Veneto non è un modello: “2 anni d’attesa per operarmi”

Cara Selvaggia, ho letto la sua intervista al governatore del Veneto Luca Zaia. Quando si fa un certo tipo di interviste, bisogna conoscere gli argomenti per centrare il vero bersaglio, quindi le dico: l’emergenza Covid-19 è nulla in confronto all’amara realtà del Veneto, in barba a spot e pubblicità. Un esempio: se avesse chiesto i tempi per una visita specialistica in tempi normali, che ne so, dal diabetologo, sarebbe rimasta di stucco: 6 mesi per una visita normale, 12 mesi per la patente. Lo stesso vale per una visita oculistica o per una tac, e questo senza chiedere dottori e/o ambulatori specifici, quel che viene, viene. Lo dico da Veneto: per un’operazione a un occhio dovuta a una vitrectomia, sono dovuto andare a Rovigo da Padova, con tanto di visita a pagamento, dopo 2 anni di attesa negli ospedali padovani. Zaia avrebbe risposto “non ne sono a conoscenza, portatemi il caso”, come ha già fatto decine di altre volte. Con la sua intervista, Zaia ha ottenuto altri punti qualità per le prossime regionali, cosa che non mi tange visto che non andrò a votare.
Paolo Pavanello – Padova

Caro Paolo, visto che Zaia ha raccontato di effettuare controlli di gestione fingendosi un sospetto Covid e chiamando i numeri dell’emergenza regionale, mi auguro che si finga bisognoso di una vitrectomia a Padova e ci faccia sapere come va. Nel frattempo, lei alle prossime elezioni vada a votare: con tutta questa fatica per farsi rimuovere il corpo vitreo nell’occhio, veda almeno di mettere una x nella casella giusta! La abbraccio.

 

Famiglie, incubo scuole chiuse: “Figli e lavoro, sale lo sconforto”

Ciao Selvaggia, volevo chiederti di parlare di bambini e ragazzi. E delle famiglie che non sanno più cosa fare, come la mia. Famiglie che in questi mesi sono andate avanti, organizzando ogni cosa al minuto e cercando di essere forti, un passo oltre lo sconforto per tenere tutto in piedi mentre il cuore ti scoppiava e i figli chiedevano risposte. Io e mio marito svolgiamo professioni “essenziali”, abbiamo sempre per fortuna lavorato dall’inizio del lockdown. Ma questi mesi forzati con 2 bambini alle elementari sono stati un incubo. Per scelta, abbiamo sempre preservato i nostri genitori da quando i figli sono piccoli e, infatti, abbiamo assunto una babysitter già da molto tempo. E per fortuna, visto che abbiamo evitato il contatto con i nonni, i più a rischio. La babysitter è sempre venuta a casa nostra in questo periodo, solo che invece di 5 ore al giorno doveva farne di più. Abbiamo chiesto il bonus di 600 euro (tolti i contributi sono meno) ma non copre neanche la metà dei costi. Da sempre la mia vita è scandita dalla programmazione e dal perfetto equilibrio tra lavoro e famiglia, ma nell’ultimo periodo non è stato così. Il silenzio che ha avvolto il tema “figli” (in secondo piano per l’emergenza) era assordante. Penso a come fare fino a settembre, con l’incognita dei centri estivi. Mi arrivano pubblicità di centri dove sarei felice di iscrivere i miei figli, dopo mesi di “reclusione”, ma i prezzi sono esorbitanti e le regole così rigide che temo perderebbero la leggerezza tipica dell’età. Ho paura di trovarmi al prossimo anno scolastico ancora così. Davvero il futuro non mi è mai sembrato così incerto come ora, temo di cedere allo sconforto e al nervosismo. So che troveremo soluzioni (come sempre) ma sono certa che l’onere del problema sarà tutto a carico nostro (come sempre). Non cerco soluzioni ideali, so che non siamo gli unici e che non si poteva fare diversamente. Ma ho la sensazione, spiacevolissima, che se dei figli si è parlato poco, ancora meno si è parlato delle famiglie che hanno resistito, come sempre.
Laura

Cara Laura, capisco le difficoltà, capisco la preoccupazione. Voglio però dirti una cosa. Tu e tuo marito avete la fortuna di non aver perso il lavoro ed è un problema perché non sapete a chi lasciare i figli che non vanno a scuola. Altri hanno perso il lavoro, sono a casa coi figli, ma non dormono la notte al pensiero di come sfamarli. Certo che i genitori fanno salti mortali, certo che è tutto terribilmente complicato, ma siamo nel mezzo di una pandemia e aver conservato due lavori in una sola famiglia, una famiglia in salute, con i nonni in salute seppur lontani, di questi tempi, dovrebbe far sorridere un po’, almeno solo un po’, alla vita.

 

“Noi, colf invisibili, esistiamo solo per i nonni da imboccare”

Sono Angelica Sadaguschi, romena, e lavoro come assistente alla persona (badante) da 15 anni. Lavoro h24, anche in lockdown. Come me, ci sono di più di un milione di extra-comunitari che vedono figli e genitori appena una volta l’anno, se va bene (altrimenti ogni 2 o 3 anni)… Tutti noi conosciamo bene il sacrificio di vivere senza famiglia, nessuno con cui condividere il peso delle giornate. Siamo stati soli anche durante questo brutto periodo. Io ho ascoltato parole di solidarietà per tutti, ogni categorie ha ricevuto gesti d’affetto, ma per noi badanti mai e poi mai, nemmeno una sillaba! Basterebbe una parola, di cuore, per ricordare che esistiamo, non solo quando avete un nonno da imboccare.

Grazie.
Angelica

Non solo esistete, ma in un periodo storico in cui la vita degli anziani è sembrata più sacrificabile di altre, ci ricordate quanti anziani, senza di voi, sarebbero morti soli, in una Rsa. Grazie.