“Non riesco a respirare”. Fanno eco alle ultime parole di George Floyd, afroamericano soffocato a morte dalla violenza della polizia a Minneapolis, le urla di migliaia di manifestanti che protestano per le infiammate strade d’America. Il bilancio dei disordini: tre morti, un agente pugnalato, 1.669 arresti in 22 città, quasi 400 a New York, dove due suv della polizia hanno investito la folla a Brooklyn. Negli ultimi quattro giorni, 11 poliziotti sono stati ricoverati in ospedale, mentre 60 membri del Secret Service sono rimasti feriti. Da Atlanta ad Indianapolis denunciano la violenza delle divise anche i reporter. Dichiarato lo stato d’emergenza a Los Angeles, mobilitata la Guardia Nazionale e ordinato il coprifuoco in 25 città per gli scontri propagatisi anche a Washington, sono ai cancelli della Casa Bianca.
La mappa d’America è bucata di incendi e scontri, nel mirino ci sono sedi di istituzioni e forze dell’ordine. A Ferguson, la città dove un agente bianco freddò l’afroamericano 18enne Michael Brown nel 2014, il dipartimento di polizia è stato colpito da pietre e mattoni, come a Jackssonville. Granate stordenti sono state lanciate dalla polizia contro gli abitanti di Minneapolis che tentavano di dare alle fiamme il secondo dipartimento di polizia della città, dopo l’assalto al primo dove prestava servizio Derek Chauvin, ora in cella accusato per l’omicidio di Floyd.
Mentre lacrimogeni e proiettili rigano il cielo in rivolta delle metropoli a stelle e strisce, le prime parole che pronuncia a telefono la fotografa Adama Delphine Fawundu sono: “La storia è sempre la stessa, accade over and over again, ancora ed ancora: noi neri moriamo” in una patria che “non ha mai fatto veramente i conti con la sua storia violenta. Persone di colore, disarmate ed innocenti, finiscono morte tra le braccia dei poliziotti di cui ora si ha paura se cammini per strada: questo è un Paese psicotico, dove si può premere sul petto nero di un uomo finché muore”.
In decine di Stati chiedono rispetto e diritti per la comunità nera ragazzi che alla Casa Bianca a lettere cubitali sono stati chiamati canaglie da un presidente “il cui nome non voglio nemmeno pronunciare”, continua Adama. “Lui sdogana la violenza, fa pensare che quello che sia successo a Floyd sia ok. Non sarà un capo di Stato a cambiare tutto questo, si tratta della fondazione di questo Paese, fino a qualche decennio fa era normale non trattare gli afro-americani come esseri umani. Il razzismo è sempre stato qui: congenito, sistematico, istituzionalizzato”.
Se non li ammazza la polizia, lo fa il Corona. “Ogni famiglia che conosco ha perso qualcuno, mia madre davanti allo schermo segue funerali in streaming”, spiega Adama.
Del colore di un virus che ammazza gli afro-americani tre volte più dei bianchi, in tutti gli Stati Uniti, si è occupata un’inchiesta del New York Times: “Razza e reddito sono fattori chiave che decidono chi muore e chi vive di Covid”, un’indagine che evidenzia la disparità della pandemia che stermina migliaia di persone nei quartieri neri del Bronx e quasi nessuno nella ricchissima, pallida Manhattan. Il laboratorio di ricerca Apm, su un campione di 100mila vittime, ha stabilito che oltre il 50 % è di colore, quasi il 30% di etnia latina, il 22% asiatica. Un solitario 20% rappresenta l’America bianca. Andi Egbert, ricercatore dell’Apm, ha chiesto: “Non speculerò sul motivo, ma perché lo Stato non si occupa di questi dati?”.
In Kansas gli afro-americani muoiono 7 volte in più dei bianchi, un cifra che assomiglia al risultato delle stime di Washington, ma i neri “muoiono di più perché soffrono di ipertensione, obesità e diabete” secondo l’amministrazione Trump.
Adama fa frusciare le pagine dei libri di storia: “Certi americani spedivano ai loro familiari cartoline delle domeniche di festa dove gli schiavi pendevano dagli alberi mentre loro facevano il barbecue. Abbiamo sentito tutti quello slogan: ‘Make America Great again’, ma quando e, soprattutto, per chi è stato grande questo Paese? Per quelli che pendevano dagli alberi?”.
Figlia di una madre originaria della Guinea Equatoriale, di un padre della Sierra Leone e della sua rumorosa Brooklyn, dove è nata nel 1971, Adama sa che nella storia la fotografia è stata usata “per renderci disumani, giustificare colonialismo e schiavitù”, ma l’immagine è la stessa arma che lei ha scelto “per lavorare in direzione contraria, fortificare l’eredità del continente ancestrale, l’Africa”. Traccia paralleli: “Sin dall’infanzia percepivo un’identità profonda in casa, a scuola però mi insegnavano il contrario: venivamo da terre di cannibali e selvaggi. Lo stesso leggevo nei media, anche i più affidabili o patinati”.
Dopo l’università, è partita per l’Africa per “guardare il mondo con altri occhi, sentire un’altra versione della storia, non sentirmi più folle”. È quello che insegna da dieci anni ai suoi alunni nelle scuole pubbliche della terra a stelle e strisce, studenti schiacciati nell’ingranaggio di un sistema educativo dove, in maniera subdola ma violenta, “ai ragazzini di discendenza africana o latina insegnano di non valere abbastanza”. “La mia pelle è nera, i miei capelli lanosi, la mia schiena forte abbastanza da sopportare il dolore”, è la prima strofa di una canzone di Nina Simone che l’artista ha usato per “Deconstructing-She”, una serie dedicata alla discriminazione doppia vissuta se nasci donna e nera in America.
Adama ha firmato anche una delle rarissime opere dedicate alle fotografe afro-americane: Mfon, Women Photographers of the African Diaspora. “Ci sono tante organizzazioni per donne fotografe, ma a mancare li dentro eravamo sempre noi”. Dopo un elenco di no di editori che rispondevano in coro “bell’idea, ma non interesserà a nessuno”, ha pubblicato un progetto corale finito poi negli scaffali delle università più prestigiose d’America.
L’attenzione quindi si sposta su due foto divenute virali nel mondo mentre sta parlando. Al centro dell’inquadratura di entrambe ci sono ginocchia: quelle della divisa che ha ammazzato George Flyod, poi quelle piegate di Colin Kaepernick sul campo dell’opulenta lega del baseball Usa. L’atleta nel 2017 si rifiutò di onorare lo Stato great solo per pochi, dice Adama, “un Paese dove costituisce crimine inginocchiarsi durante l’inno, ma non lo è farlo sul petto di un uomo di colore finché muore”.