Bose. L’auto-profezia di padre Enzo Bianchi: “La trasmissione del potere questione sociale”

Nella clamorosa vicenda della comunità religiosa di Bose, in Piemonte – con l’allontanamento “coatto” del suo Fondatore padre Enzo Bianchi – c’è un aspetto di fondo, strutturale, e colto dal giornale online La Nuova Bussola Quotidiana.

Un aspetto che venne anticipato dallo stesso padre Bianchi nel gennaio del 2017 in un’intervista a Repubblica, quando lasciò la carica di priore che aveva mantenuto per mezzo secolo. Questo: “La trasmissione dell’eredità tra generazioni è uno dei grandi problemi della nostra società”. La solita questione: i timori dei “padri” per i “figli” che possono distruggere tutto quello che è stato costruito. A distanza di tre anni, si scopre che in questo caso il problema non sono i “figli” ma “l’autoritarismo” dei “padri” diventati Fondatori. La storia è nota: un’ispezione di tre delegati pontifici ha portato al decreto del 13 maggio della segreteria di Stato vaticano, con l’avallo diretto di papa Francesco, contro padre Bianchi e altri tre monaci laici di Bose (nella comunità fondata nel 1965 consorelle e confratelli non prendono i voti). Via dal monastero “temporaneamente”.

Le accuse non si conoscono nel dettaglio (che avranno mai scoperto gli inviati del papa?) e sinora il dibattito è stato tutto centrato sulla figura del Fondatore e del suo progressismo ecumenico nonché del suo grande rapporto, fino a poco fa, con Bergoglio medesimo. Epperò resta appunto la questione della “trasmissione dell’eredità” esplosa dove meno te lo aspetti. La stessa Chiesa, ai massimi vertici, sta scontando l’inedita e difficile convivenza tra due papi, il regnante Francesco e l’emerito Benedetto XVI, diventato la bandiera (anche contro la sua volontà) del clericalismo di destra che contesta il pontefice argentino. La trasmissione dell’eredità e quindi del potere è davvero “uno dei grandi problemi della nostra società”, per citare l’autoprofezia di Bianchi nel 2017.

In Italia l’esempio più evidente e grave riguarda la politica. Ampliando il campo di studio dello scontro generazionale e non solo, sulla pietra di questa “trasmissione” è inciampata tutta la classe dirigente della Seconda Repubblica. Da un lato le faide cruente del centrosinistra, che hanno portato ad affossare un leader dopo l’altro, tranne l’ultimo, Matteo Renzi, che si è suicidato da solo, politicamente parlando. Dall’altro, l’impero ventennale di Silvio Berlusconi, rovesciato solo un anno fa da Matteo Salvini, nel sangue veridico delle urne europee. L’ex Cavaliere per anni ha fatto finta di preparare la successione salvo autoproclamarsi ogni volta capo assoluto. Il suo caso, poi, aggiunge un altro tassello non secondario alla questione: il carisma. Come disse una volta l’ex ministro Gaetano Quagliariello, “il carisma non si trasmette per successione ma va istituzionalizzato”. Bene. Ma come? In quali forme, per evitare la cronica patologia del potere?

Ecco, l’affaire Bianchi è l’ennesima metafora del problema italiano del potere. La Terza Repubblica è all’inizio e ancora non ci sono cases histories evidenti. Ma la malattia è atavica. E persino padre Enzo Bianchi non è riuscito a curarla.

 

Aveva ragione Orlando: ora Le lobby cercano soldi

Quando ieri l’ho visto sulla prima pagina di Repubblica – “Intervista a Bonomi: la politica fa peggio del virus”- ho pensato che quel titolo a effetto forzasse il pensiero del presidente di Confindustria. Ma poi sono andato a leggermela, ed è proprio quel che Carlo Bonomi voleva dire: “Questa politica rischia di fare più danni del Covid”.

Naturalmente a lui nessuno chiederà come si permette di insultare oltre 33 mila morti né tanto meno twitterà dandogli del “coglione”. Con quello slogan di pessimo gusto, come minimo qualunquista, il nuovo portavoce degli industriali è partito lancia in resta a contestare le scelte di allocazione dei finanziamenti pubblici messe in atto dal governo. Contestazione più che lecita, per carità, ma decisamente a senso unico: Bonomi vorrebbe che i soldi in deficit venissero investiti maggiormente “nelle politiche attive per il lavoro anziché annegarle nel reddito di cittadinanza o nei navigator”. Ovvero, se vogliamo adeguarci per un momento alla rozzezza del suo argomentare: troppo denaro ai poveri e non abbastanza alle imprese; più prestiti agevolati alle aziende, meno sostegni al reddito.

Il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, forse stupito da questo attacco al governo che “rischia di fare più danni del Covid”, lo ha definito “ingeneroso”. Noi ci limitiamo ad aggiungere che forse non aveva le traveggole il vicesegretario del Pd, Andrea Orlando, quando prevedeva che di fronte a un governo chiamato a distribuire ingenti quantità di denaro pubblico i poteri forti si sarebbero messi a fare la voce grossa. Quando il gioco si fa duro anche il linguaggio della rappresentanza degli interessi torna ad inasprirsi e ad assumere il più classico accento padronale. È la lotta di classe, bellezza.

“Caos, bufale e ubriaconi: cosa ci insegna la storia”

“Il saluto romano, SPQR, il fascio littorio: alcuni simboli sviluppano una vita propria. L’unico modo per non cadere nella trappola della facile attualizzazione è compiere un fact checking. E questo vale anche per gli studiosi che spesso danno per scontato ciò che non conoscono davvero”. Giusto Traina insegna Storia romana alla Sorbonne di Parigi e ha da poco dato alle stampe un divertente e interessante manuale, “La storia speciale: perché non possiamo fare a meno degli antichi romani”. Un modo per recuperare una corretta visione del popolo da cui abbiamo origine e anche per sfatare alcuni miti su quel latinorum tanto caro a Don Abbondio.

Professore, lei parte da un assunto: la sparizione della storia, che si studia poco e male persino nei licei.

Il presupposto è che tutta la storia è sotto attacco, ma operiamo una scissione tra quella contemporanea e quella antica. La prima è entrata da poco a far parte della grande famiglia degli storici, anzi ultimamente sembra aver preso il sopravvento: come se per un discorso di cultura generale fosse determinante il mondo contemporaneo e, invece, la storia antica interessasse solo a qualche amatore. E qui si inserisce la miopia dei nostri governanti e dei nostri amministratori locali, che sottovalutano un pubblico molto più sveglio di quanto vorrebbero farci credere. Però parliamo anche del mondo accademico, impegnato a farsi la guerra per difendere il proprio lato della coperta. Molti antichisti, pur facendo parte di una piccola comunità, non mostrano interesse per ciò di cui si occupano i loro vicini di studio.

Veniamo ai “miti” da sfatare: partiamo dal tanto di moda saluto romano.

Che non è romano, ma ha una storia di poco più di cent’anni: per girare Cabiria, il celebre kolossal muto del 1914, Giovanni Pastrone chiese la consulenza di Gabriele D’Annunzio. Fu in quel film che si videro per la prima volta dei legionari fare il saluto. Al Vate piaceva creare slogan di sicuro effetto, un po’ come “eia eia eia alala”, che rimanda all’antica Grecia, preferito al barbarico ’“hip hip urrà”.

Un saluto-bufala, quindi. Ma anche su questo, sulle fake news, abbiamo imparato dai romani. Lei racconta bene del Marco Antonio ubriacone…

In effetti, come tutti i golden boys della fine della Repubblica, anche Antonio amava i simposi. Questo non gli impedì di acquisire un posto di primo piano nella storia romana e mediterranea, prima da valoroso luogotenente di Cesare e poi come triumviro d’Oriente. La sua immagine cambiò con l’inizio delle ostilità con il rivale Ottaviano, trasformandosi in quella di un rinnegato, succube del fascino di Cleopatra e dei simposi ad Alessandria d’Egitto. Che c’erano, per carità; in un suo scritto, De sua ebrietate, lui stesso si giustificava spiegando i motivi della sua ebbrezza, riconducibile anche alle religioni dionisiache. Ma dopo il suicidio nel 30 a.C., quando Ottaviano — che tre anni dopo prese il nome di Augusto — divenne il padrone assoluto di Roma, fece eliminare tutte le tracce dell’antico rivale: statue, iscrizioni, atti ufficiali. Anche scritti come il De sua ebrietate andarono perduti. La memoria di Antonio venne quindi manipolata, e la storiografia contribuì a diffondere i cliché graditi ad Augusto. E a cui molti continuano a credere.

La propaganda mostra anche una Roma “città ideale”. Altro fact checking?

Roma creava problemi già per la sua conformazione, era sorta su villaggi precedenti e aveva subìto uno sviluppo esponenziale. Gli stessi romani non capivano come si fosse arrivati a quel guazzabuglio urbanistico, figuriamoci i greci abituati ai loro reticoli ortogonali dove, però, c’erano gli stessi odori e le stesse violenze. Le grandi utopie urbanistiche, che si richiamano all’architettura classica, nascono dall’idealizzazione di un modello. In realtà, tutte le città antiche presentavano rischi sanitari non indifferenti… Certo, non avevano ancora gli autobus in fiamme.

Eppure Roma è ancora oggi “caput mundi”.

Il riferimento corretto è “Roma capoccia der monno infame”, un mondo che si rapporta a quello romano come a un passato esemplare. Un esempio: a Machiavelli non piacevano i mercenari a cavallo che seminavano il terrore ai suoi tempi e voleva tornare alla milizia idealizzata degli antichi romani. Ma il modello cui attingeva è un autore del IV secolo d.C., Vegezio, che scriveva in un’epoca in cui l’esercito era fortemente barbarizzato e il quale, a sua volta, chiedeva all’imperatore di tornare all’antica disciplina.

Professore, la storia antica, fin dai tempi di Cicerone, veniva spettacolarizzata sotto forma di retorica. Che senso ha studiarla?

Grazie agli scritti dei romani sappiamo come funzionasse il loro impero, ma siamo meno informati su quanto l’imperium Romanum fosse complesso e cosmopolita. È quindi utile saper riporre al momento opportuno le lenti deformanti del classicista.

Gli Usa dopo Floyd: “Qui il razzismo ormai è una regola”

“Non riesco a respirare”. Fanno eco alle ultime parole di George Floyd, afroamericano soffocato a morte dalla violenza della polizia a Minneapolis, le urla di migliaia di manifestanti che protestano per le infiammate strade d’America. Il bilancio dei disordini: tre morti, un agente pugnalato, 1.669 arresti in 22 città, quasi 400 a New York, dove due suv della polizia hanno investito la folla a Brooklyn. Negli ultimi quattro giorni, 11 poliziotti sono stati ricoverati in ospedale, mentre 60 membri del Secret Service sono rimasti feriti. Da Atlanta ad Indianapolis denunciano la violenza delle divise anche i reporter. Dichiarato lo stato d’emergenza a Los Angeles, mobilitata la Guardia Nazionale e ordinato il coprifuoco in 25 città per gli scontri propagatisi anche a Washington, sono ai cancelli della Casa Bianca.

La mappa d’America è bucata di incendi e scontri, nel mirino ci sono sedi di istituzioni e forze dell’ordine. A Ferguson, la città dove un agente bianco freddò l’afroamericano 18enne Michael Brown nel 2014, il dipartimento di polizia è stato colpito da pietre e mattoni, come a Jackssonville. Granate stordenti sono state lanciate dalla polizia contro gli abitanti di Minneapolis che tentavano di dare alle fiamme il secondo dipartimento di polizia della città, dopo l’assalto al primo dove prestava servizio Derek Chauvin, ora in cella accusato per l’omicidio di Floyd.

Mentre lacrimogeni e proiettili rigano il cielo in rivolta delle metropoli a stelle e strisce, le prime parole che pronuncia a telefono la fotografa Adama Delphine Fawundu sono: “La storia è sempre la stessa, accade over and over again, ancora ed ancora: noi neri moriamo” in una patria che “non ha mai fatto veramente i conti con la sua storia violenta. Persone di colore, disarmate ed innocenti, finiscono morte tra le braccia dei poliziotti di cui ora si ha paura se cammini per strada: questo è un Paese psicotico, dove si può premere sul petto nero di un uomo finché muore”.

In decine di Stati chiedono rispetto e diritti per la comunità nera ragazzi che alla Casa Bianca a lettere cubitali sono stati chiamati canaglie da un presidente “il cui nome non voglio nemmeno pronunciare”, continua Adama. “Lui sdogana la violenza, fa pensare che quello che sia successo a Floyd sia ok. Non sarà un capo di Stato a cambiare tutto questo, si tratta della fondazione di questo Paese, fino a qualche decennio fa era normale non trattare gli afro-americani come esseri umani. Il razzismo è sempre stato qui: congenito, sistematico, istituzionalizzato”.

Se non li ammazza la polizia, lo fa il Corona. “Ogni famiglia che conosco ha perso qualcuno, mia madre davanti allo schermo segue funerali in streaming”, spiega Adama.

Del colore di un virus che ammazza gli afro-americani tre volte più dei bianchi, in tutti gli Stati Uniti, si è occupata un’inchiesta del New York Times: “Razza e reddito sono fattori chiave che decidono chi muore e chi vive di Covid”, un’indagine che evidenzia la disparità della pandemia che stermina migliaia di persone nei quartieri neri del Bronx e quasi nessuno nella ricchissima, pallida Manhattan. Il laboratorio di ricerca Apm, su un campione di 100mila vittime, ha stabilito che oltre il 50 % è di colore, quasi il 30% di etnia latina, il 22% asiatica. Un solitario 20% rappresenta l’America bianca. Andi Egbert, ricercatore dell’Apm, ha chiesto: “Non speculerò sul motivo, ma perché lo Stato non si occupa di questi dati?”.

In Kansas gli afro-americani muoiono 7 volte in più dei bianchi, un cifra che assomiglia al risultato delle stime di Washington, ma i neri “muoiono di più perché soffrono di ipertensione, obesità e diabete” secondo l’amministrazione Trump.

Adama fa frusciare le pagine dei libri di storia: “Certi americani spedivano ai loro familiari cartoline delle domeniche di festa dove gli schiavi pendevano dagli alberi mentre loro facevano il barbecue. Abbiamo sentito tutti quello slogan: ‘Make America Great again’, ma quando e, soprattutto, per chi è stato grande questo Paese? Per quelli che pendevano dagli alberi?”.

Figlia di una madre originaria della Guinea Equatoriale, di un padre della Sierra Leone e della sua rumorosa Brooklyn, dove è nata nel 1971, Adama sa che nella storia la fotografia è stata usata “per renderci disumani, giustificare colonialismo e schiavitù”, ma l’immagine è la stessa arma che lei ha scelto “per lavorare in direzione contraria, fortificare l’eredità del continente ancestrale, l’Africa”. Traccia paralleli: “Sin dall’infanzia percepivo un’identità profonda in casa, a scuola però mi insegnavano il contrario: venivamo da terre di cannibali e selvaggi. Lo stesso leggevo nei media, anche i più affidabili o patinati”.

Dopo l’università, è partita per l’Africa per “guardare il mondo con altri occhi, sentire un’altra versione della storia, non sentirmi più folle”. È quello che insegna da dieci anni ai suoi alunni nelle scuole pubbliche della terra a stelle e strisce, studenti schiacciati nell’ingranaggio di un sistema educativo dove, in maniera subdola ma violenta, “ai ragazzini di discendenza africana o latina insegnano di non valere abbastanza”. “La mia pelle è nera, i miei capelli lanosi, la mia schiena forte abbastanza da sopportare il dolore”, è la prima strofa di una canzone di Nina Simone che l’artista ha usato per “Deconstructing-She”, una serie dedicata alla discriminazione doppia vissuta se nasci donna e nera in America.

Adama ha firmato anche una delle rarissime opere dedicate alle fotografe afro-americane: Mfon, Women Photographers of the African Diaspora. “Ci sono tante organizzazioni per donne fotografe, ma a mancare li dentro eravamo sempre noi”. Dopo un elenco di no di editori che rispondevano in coro “bell’idea, ma non interesserà a nessuno”, ha pubblicato un progetto corale finito poi negli scaffali delle università più prestigiose d’America.

L’attenzione quindi si sposta su due foto divenute virali nel mondo mentre sta parlando. Al centro dell’inquadratura di entrambe ci sono ginocchia: quelle della divisa che ha ammazzato George Flyod, poi quelle piegate di Colin Kaepernick sul campo dell’opulenta lega del baseball Usa. L’atleta nel 2017 si rifiutò di onorare lo Stato great solo per pochi, dice Adama, “un Paese dove costituisce crimine inginocchiarsi durante l’inno, ma non lo è farlo sul petto di un uomo di colore finché muore”.

Noi contro loro. Dalla Bosnia al West Bank, la storia infinita

Una delle cose che ho imparato girovagando per guerre e conflitti è che gli esseri umani sono molto più simili tra loro di quanto suggeriscano le diversità tra fedi, società, censo, tradizioni.

Le pulsioni primarie alla fine sono identiche; variano le modalità in cui vengono espresse, ma possono essere modificate nel corso di una o due generazioni se il contesto lo favorisce. Però chi pensasse che tutto questo sia ovvio si ricreda. Dalla fine della Guerra fredda ha uno straordinario successo la convinzione opposta, il culturalismo, per il quale ciascun gruppo umano obbedisce ad un suo proprio sistema immodificabile di valori e di comportamenti.

Quest’idea semplifica la complessità, conforta il pregiudizio, costruisce un’opposizione Noi/Loro da cui lucrare un’identità.

Conviene a tanti: nazionalisti, razzisti, difensori della cristianità, hindu-fascisti, islamo-fascisti; e va forte anche a sinistra. Senza esserne consapevoli la applichiamo a mani basse dalla fine della Guerra fredda.

Per far fuori la Jugoslavia ci raccontammo che la federazione era un artificio etnico, somma incongrua di un Oriente ‘slavo-comunista’ e di un Occidente ‘liberal-democratico’. Per evitare di fermare l’aggressione serba e croata alla Bosnia ci convincemmo che il conflitto fosse ineluttabile come un terremoto, o come uno scontro tra civiltà.

Per riconsegnare i migranti ai lager libici li considerammo estranei ai ‘ nostri valori’. Abbiamo preso sul serio quel pacifismo convinto che le fatwa dei Taliban sulle donne non fossero gran cosa, solo un codificare obblighi e divieti tipici della ‘cultura’ afgana (provate a spiegarlo alle studentesse di Mazar-i-sharif, la seconda città del Paese). E così via. Ora il culturalismo è chiamato a giustificare l’ormai prossima annessione israeliana di parte del West Bank. Si dirà: la società palestinese è feudale e tribale, la forma istituzionale che le è propria è l’emirato. Dunque ai palestinesi resteranno una rinfusa di insediamenti isolati. Che ci volete fare, è la loro ‘cultura’.

 

Il ministro super-chavista non fa dormire Washington

Con il suo abito sempre impeccabile e i capelli in perfetto ordine Tareck El Aissami, il nuovo ministro venezuelano del petrolio, ha più l’aspetto di un trader della City che del “chavista radicale”, come lui stesso si definisce. El Aissami è stato tra i fedeli della prima ora dell’ex presidente venezuelano Hugo Chávez ed è adesso uno dei principali sostenitori dell’attuale presidente, Nicolás Maduro. Per il governo degli Stati Uniti, invece, è una vera e propria spina nel fianco: Washington lo ha indagato per traffico di droga e sanzionato sin dal 2017, ovvero molto prima della maggior parte degli alti dignitari chavisti presi di mira dal dipartimento del Tesoro statunitense. È con decreto pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 27 aprile che Maduro ha incaricato El Aissami di “ristrutturare e riorganizzare” il settore del petrolio oggi sull’orlo del disastro, ma che continua a rappresentare oltre il 90% degli introiti totali del Venezuela. La posta in gioco è altissima: stando all’OPEC, la produzione di petrolio è crollata da tre milioni di barili al giorno dieci anni fa ad appena 700 mila oggi.

La nomina di Tareck El Aissami è stata subito vista come una provocazione, un gesto di sfida, nei confronti di Washington, che da diversi mesi ha ripreso a esercitare pressioni sull’entourage di Nicolás Maduro. Di fatto, tutti o quasi i collaboratori più stretti del presidente venezuelano sono nel mirino dagli Stati Uniti. Ma l’arrivo di Tareck El Aissami alla testa del settore petrolifero del Venezuela non può essere visto solo come un episodio dell’eterna lotta contro “l’imperialismo americano”. Entrano in gioco logiche diverse. Innanzitutto è da considerare il messaggio che il governo ha inviato ai venezuelani. Dalla fine di marzo, il paese sta vivendo una delle penurie di carburante più gravi della sua storia. Queste situazioni sono piuttosto ricorrenti in Venezuela, ma raramente assumono una tale intensità: è del resto la prima volta che la capitale, Caracas, generalmente risparmiata, si ritrova a secco di carburante per così tanto tempo. Le file si allungano davanti alle poche stazioni di servizio che sono state rifornite e l’attesa può durare diverse ore e persino giorni. A inizio aprile il governo ha adottato un piano di razionamento per servire in via prioritaria i lavoratori giudicati “essenziali”, gli agenti di polizia, i militari e il personale medico. ”Il paese è vittima di una tempesta perfetta – spiega Luis Vicente Leon, direttore dell’istituto di sondaggi Datanálisis -. Malgrado le importanti riserve di petrolio, sono diversi mesi che il paese deve importare benzina perché le raffinerie sono ferme a causa della manutenzione insufficiente. Inoltre, per effetto combinato delle sanzioni americane contro la compagnia petrolifera statale PDVSA-Petróleos de Venezuela e della riduzione dell’attività dovuta alla pandemia di Covid-19, per lo Stato è difficile trovare fornitori che non si può permettere di pagare”. Nominando una figura di spicco della vita politica venezuelana come Tareck El Aissami a capo del settore petrolifero, il governo spera soprattutto di riuscire a rassicurare la popolazione. L’ex parlamentare di origini libanesi-siriane è già stato anche segretario di Stato per la Sicurezza dei cittadini (2007-2008), ministro dell’Interno (2008-2012) e governatore dello stato di Aragua (2012- 2017), oltre che vicepresidente del Venezuela (2017-2018) e ministro dell’Industria. Da febbraio è inoltre membro di una commissione per ristrutturare PDVSA, che può contare anche su un nuovo presidente, Asdrúbal Chávez, cugino del Comandante morto nel 2013. La nomina di Tareck El Aissami è stata anche un duro colpo per un altro “peso massimo” del chavismo: Diosdado Cabello. Il potente presidente dell’Assemblea costituente nazionale e capo del Partito socialista unito del Venezuela (PSUV) era molto vicino al generale Manuel Quevedo, l’ex ministro del Petrolio. “Diosdado Cabello, è evidente, sta perdendo la sua posizione di forza nella sfera politica del paese – analizza il giornalista Eugenio Martínez, che conosce bene le guerre d’influenza all’interno dell’apparato dello Stato – non ha più il controllo del settore che dovrebbe essere il più redditizio del paese. Nominando Tareck al Petrolio, Maduro gli ricorda chi comanda”. Pur non essendo una pedina nelle mani del presidente venezuelano, El Aissami è più vicino a Maduro che a Cabello, che non ha mai digerito il fatto di non essere stato scelto dal defunto Hugo Chávez come suo erede. Altro aspetto da considerare: la dottrina economica all’interno della compagnia petrolifera è cambiata. Manuel Quevedo aveva ereditato dai tempi di Chávez un tipo di gestione altamente centralizzata e in buona parte responsabile del crollo dell’industria petrolifera. Un esperto del settore, che preferisce restare anonimo, ritiene che Tareck El Aissami sia favorevole alla privatizzazione di PDVSA. Secondo Bloomberg, la privatizzazione di PDVSA sarebbe sul tavolo da fine gennaio. Essa rappresenterebbe una svolta storica per la società di proprietà esclusiva dello Stato dal 1976. Oltre che una decisione al limite del paradosso per un governo che si auto definisce anticapitalista e che è storicamente più incline alle nazionalizzazioni che alle privatizzazioni. Ma questa è la direzione che, da oltre un anno, ha preso l’economia in Venezuela. Per far fronte alla crisi, il governo di Nicolás Maduro, anche attraverso l’operato di Tareck El Aissami, ha moltiplicato le misure di flessibilità, per esempio mettendo fine al controllo della valuta e al massimale dei prezzi. Una delle principali conseguenze della nomina di El Aissami è anche un’altra: il Venezuela sta rafforzando i suoi legami con la Repubblica islamica. “Pare che Tareck El Aissami abbia delle relazioni molto strette con l’Iran, ma anche con Hezbollah”, osserva il giornalista Eugenio Martinez. Secondo un’inchiesta della CNN del 2017, El Aissami sarebbe intervenuto per aiutare diversi militanti del gruppo islamista sciita libanese a stabilirsi in Venezuela. L’arrivo di cinque petroliere, con 1,5 milioni di barili di carburante, sufficienti a rifornire di benzina le stazioni di servizio, è un primo esempio di questo riavvicinamento. Stando a Elliott Abrams, l’emissario degli Stati Uniti in Venezuela, e a Juan Guaidó, leader dell’opposizione, questo sostegno viene ripagato con l’oro grezzo estratto dalle miniere nel sud del Venezuela. Secondo i due, degli esperti iraniani si troverebbero in questo momento in Venezuela per contribuire a “ricostruire l’industria petrolifera”. Informazioni smentite dal ministero iraniano degli Esteri, per il quale Washington sta tentando di “destabilizzare” gli scambi commerciali tra i due paesi. Intanto, malgrado la tregua garantita dai milioni di barili iraniani, per il nostro esperto anonimo, l’arrivo al ministero del Petrolio di Tareck El Aissami è soprattutto l’ennesima scalata al potere di un chavista ambizioso e non una vera buona notizia per il settore petrolifero: “Fino a quando il Venezuela e gli Stati Uniti non si metteranno d’accordo sulla revoca delle sanzioni e per la cooperazione – osserva – la produzione del petrolio non potrà ripartire”.

(traduzione di Luana De Micco)

Strumenti finanziari. Il lato oscuro degli Etf, si perdono le garanzie e si paga due volte

Giornalisti, esperti e consulenti vari decantano all’unisono gli Etf. In inglese, Exchange traded fund, l’abbreviazione sta per fondi trattati in Borsa, ma la loro caratteristica precipua è un’altra: è l’assenza di discrezionalità nella gestione. Essi promettono di replicare in maniera automatica un indice o un settore di Borsa: ad esempio l’indice azionario Standard & Poor’s di Wall Street o i titoli di Stato italiani. Un risparmiatore avveduto dovrebbe investire senza esitazioni in questi strumenti finanziari, ora di gran moda. Peccato che, per non danneggiare chi sugli Etf ci guadagna, ne vengano regolarmente taciuti gli aspetti negativi e soprattutto i rischi. Vediamo i principali, in particolare per il settore del reddito fisso, dove comunque nell’area euro le commissioni di gestione degli Etf riducono la già striminzita redditività.

Assenza di garanzie. Un risparmiatore alla ricerca di sicurezza può comprare direttamente emissioni di uno o più Stati affidabili oppure prendere un apposito Etf. Non è la stessa cosa, perché così dà un calcio alle garanzie contrattualmente previste dagli emittenti. Germania, Olanda, ecc. sono garanti del rimborso dei soldi loro prestati. Ma ciò non si estende alle quote di un fondo, che pure investe negli stessi prestiti. In caso di malversazioni o anche solo di una gestione dissennata risulterà una perdita, maggiore o minore.

Analogo discorso per un Etf rivolto ai titoli anti-inflazione, cioè quelli con capitale e/o interessi indicizzati in potere d’acquisto. È il caso dei Btp Italia, delle Oatei francesi o dei Tips americani (vedi il Fatto Quotidiano dello scorso 4 maggio). Magari andrà tutto bene, ma nessun Etf contempla analoghe garanzie. E comunque Lyxor, JPMorgan o Almundi non sono certo affidabili come gli Stati Uniti d’America, la Francia o la stessa Italia. Ricordiamoci di Lehman Brothers!

Tutela del risparmio. Negli scenari peggiori gli svantaggi degli Etf sono ancora più gravi. Sia nel crac dell’Alitalia che in quelli bancari del 2015 e 2017 i piccoli risparmiatori sono stati tutelati, più o meno bene, con rimborsi o indennizzi. Così non è stato, se essi possedevano i medesimi titoli tramite fondi comuni. Tutto fa ritenere che sarà così con gli Etf nell’aborrita eventualità di un default dell’Italia.

Duplicazione di costi. Il colmo è che molti consulenti finanziari cosiddetti indipendenti consigliano soprattutto Etf o anche altri fondi, anziché obbligazioni, azioni ecc. Subappaltano cioè ad altri la scelta dei titoli, automatica o discrezionale che sia. Vale in particolare per le Poste Italiane con MoneyFarm e risulta in generale da un recente articolo di Milena Gabanelli, che non solleva nessuna critica. Ma così il risparmiatore ha costi duplicati: la consulenza e la gestione. È come se un medico, anziché prescrivere farmaci, terapie, interventi ecc. emettesse una parcella per dirottasse il paziente a un centro sanitario dove poi finalmente gli prescrivono farmaci, terapie e così via.

 

Sessant’anni fa Sraffa ci spiegò che il “neoliberismo” si sbaglia

Mentre Roma era sotto i riflettori delle Olimpiadi del 1960, iniziava a circolare nelle librerie italiane un volumetto edito da Einaudi. Meno di 150 pagine, aveva un titolo non molto accattivante: Produzione di merci a mezzo di merci. Ma il sottotitolo inquadrava più chiaramente l’argomento: Premesse a una critica della teoria economica. Firmato: Piero Sraffa. Nei 60 anni che ci separano dalla sua pubblicazione, quest’opera ha segnato profondamente il dibattito economico. Un libro complesso ma attualissimo, non solo perché discute elementi essenziali dell’economia in un’ottica diversa da quella prevalente oggi, ma anche perché critica l’idea che l’economia sia una scienza esatta. Un attacco ante-litteram alle fondamenta del neoliberismo.

Ma chi era l’autore di un libro tanto breve quanto rivoluzionario? Torinese di origine ebraica, Sraffa era antifascista e amico di Gramsci, che aiutò in carcere inviandogli libri e riviste. Ma era anche un cervello in fuga: l’Italia fascista gli stava stretta e così nel 1927, a soli 29 anni, si trasferì a Cambridge, dove avrebbe vissuto per il resto della sua vita. A invitarlo in Inghilterra fu John Maynard Keynes, il più grande economista del Novecento.

Nel 1960, dopo decenni di lavoro, Sraffa pubblicò finalmente il suo libro, che riprende in modo nuovo e sconcertante la teoria classica del valore, secondo la quale il valore dei beni è determinato dal lavoro necessario a produrli. Ma Sraffa la rielabora in maniera originale e imposta una critica sistematica alla teoria neoclassica (o marginalista): una teoria che domina ancora oggi le accademie ed è alla base di quello che viene chiamato appunto “neoliberismo”.

“Già a metà degli anni 20 – ci dice Sergio Cesaratto, professore dell’università di Siena – Sraffa aveva iniziato a dubitare della versione dominante della teoria marginalista. Non era soddisfatto degli elementi soggettivi in quella teoria, nella quale prezzi e distribuzione dipendevano da concetti come sacrificio e utilità. Concetti che Sraffa riteneva poco scientifici, in quanto non misurabili con precisione”. Ecco, Sraffa credeva nel materialismo storico, ma “arrivò alle prime equazioni della sua opera indipendentemente da Marx”.

Con il suo lavoro “Sraffa risolve i problemi rimasti aperti nell’approccio teorico classico”, sostiene Antonella Stirati di Roma Tre, e allo stesso tempo “mette in discussione i fondamenti della teoria marginalista e le loro conseguenze, per esempio il fatto che i prezzi di mercato siano in grado di determinare un’allocazione ottimale delle risorse (ricordate le polemiche sul costo delle mascherine? ndr). Se lo Stato decidesse di modificare i prezzi relativi per ridurre i prezzi del grano o gli affitti delle case o per aumentare i salari, le conseguenze sarebbero da valutare caso per caso, ma non si può affermare che ciò distorcerebbe una situazione ottimale di mercato”.

Il libro accese all’epoca un grande dibattito, rimettendo al centro della discussione la questione della distribuzione e, dunque, della lotta di classe. Sraffa, infatti, dimostrò che l’idea per cui il guadagno di ciascuno dipende dalla sua produttività è concettualmente sbagliata: “In Sraffa è la distribuzione il campo dello scontro e non c’è altro criterio che la capacità di appropriarsi del surplus”, dice il professor Massimo Amato della Bocconi. “Secondo l’impostazione sraffiana il conflitto di classe è connaturato alla logica della riproduzione capitalistica”, aggiunge Emiliano Brancaccio dell’università del Sannio.

Le tesi di Sraffa furono subito politicizzate. Infatti, come ricorda Stefano Lucarelli, professore a Bergamo, “quando uscì il libro, una parte del movimento operaio ritenne di trovare in esso una giustificazione delle sue rivendicazioni”. Sembrava che la questione distributiva fosse ridotta alla spartizione della “torta” fra lavoratori e capitalisti. Tuttavia, dice Lucarelli, “Sraffa tacque sulla politicizzazione delle sue idee. Il suo intento era principalmente criticare la teoria neoclassica”, o, come scrisse Giorgio Lunghini, dimostrare che era falsa.

Nonostante la sua riservatezza, Sraffa ebbe un impatto enorme sul pensiero economico. Ancora oggi “è vivo e vegeto e viene approfondito da molti studiosi in tutto il mondo – dice ancora Brancaccio – Ma la ricerca eterodossa è pregiudicata da sistemi di valutazione e selezione delle carriere fortemente penalizzanti”. Forse, a 60 anni da Produzione di merci, è arrivato il momento di favorire approcci critici nelle scienze sociali anche nell’accademia: d’altronde la critica non è uno dei suoi compiti?

 

Bollette pazze. La prescrizione ora è di 2 anni “in ogni caso”

Le buone notizie per i consumatori, si sa, si nascondono sempre dietro a insidie e tempi biblici. Come nel caso della prescrizione breve da 5 a due anni annunciata nel 2018 per mettere fine ai maxi conguagli delle bollette pazze. Una situazione che però non si è affatto sanata per colpa di un codicillo inserito nella legge di Bilancio 2017 che ha lasciato aperta la questione della responsabilità, rimasta in capo ai clienti che non hanno comunicato la lettura del contatore. Ma, nonostante una situazione drammatica per migliaia di famiglie che si sono ritrovate a pagare anche 10mila euro di bollette arretrate, sono servite ben tre manovre e ora una delibera dell’Arera (l’Autorità dell’energia) per stabilire che dal 1° gennaio 2020 tutti i clienti dell’energia, del gas e del servizio idrico possono “in ogni caso eccepire la prescrizione per importi fatturati relativi ai consumi più vecchi di due anni”. Che tradotto significa: i distributori di acqua, luce e gas non possono più negare l’annullamento delle bollette più vecchie di 24 mesi anche se l’utente non ha mai comunicato i dati o lo ha fatto in modo sbagliato. Il motivo? Negli scorsi anni, prima che venissero sostituti tutti i vecchi contatori con quelli elettronici che consentono la telelettura dei consumi, nessun addetto si è mai recato a casa dei clienti per leggere il contatore. O, comunque, quando è stato fatto, il citofono ha suonato sempre in orari lavorativi, tanto per gli addetti alle letture quanto per i clienti che non erano in casa. Così, per anni una famiglia ha continuato a pagare regolarmente le bollette con una stima presunta e, solo dopo l’installazione del nuovo contatore, si è ritrovata con un conguaglio da capogiro da saldare. Un dettaglio che da due anni fa vincere i ricorsi ai distributori contro i clienti che si sono opposto al pagamento delle bollette pazze chiedendo l’applicazione della prescrizione.

“Purtroppo da tempo abbiamo segnalato che, nonostante la modifica della legge di Bilancio, importanti distributori hanno fatto i furbetti non applicandola o continuando a disquisire sulle presunte colpe del cliente, costringendolo a ricorrere alle vie legali. Ora l’utente potrà far valere i suoi diritti anche solo ricorrendo alla gestione stragiudiziale”, commenta Marco Vignola, responsabile del settore energia dell’Unione nazionale consumatori. Attendiamo i distributori alla prova dei fatti.

 

Tra spot e tirannia, l’Africa è la miniera d’oro di Heineken

è la storia della “schiuma sacra” come la definisce Léandre, il direttore aggiunto di un quotidiano del Burundi, stato in cui c’è “un vero e proprio culto della birra”. In Africa, il legame tra birra, politica e società è sorprendentemente stretto ed è saldato attraverso un marchio europeo, che è attivo lì dagli anni 30: l’olandese Heineken. Ci sono 40 birrifici in 16 paesi e si esporta verso altri mercati. I prezzi sono poco più bassi, ma il costo della produzione è minimo. La birra, in Africa, frutta il 50 per cento in più. Certo, il commercio è vantaggioso ma non semplice: la popolazione è ancora povera, le infrastrutture sono carenti. Seppur meno che in passato, in alcuni stati la stabilità politica è ancora una utopia. Ma questo tiene lontana la concorrenza.

La multinazionaleolandese sembra a proprio agio anche nella tela politica, tra regimi autoritari e capacità di inserire esponenti di spicco nei consigli di amministrazione. “Una delle scoperte più importanti per me è stato lo stretto coinvolgimento di Heineken nel genocidio del 1994 in Ruanda”: a raccontarlo è Olivier Van Beem, giornalista olandese e autore del libro Heineken in Africa (Add Editore), su cui ha lavorato per sei anni. “A quei tempi – spiega al Fatto – Heineken aveva il monopolio del mercato ed era consapevole che la sua birra aveva avuto un ruolo. Molti sono stati motivati ​​e premiati con birra dal birrificio Heineken e il denaro delle tasse di Heineken ha sostenuto il regime”. Racconta che il cadavere del presidente, il cui omicidio scatenò il genocidio, fu immagazzinato nella cella frigorifera del birrificio in Ruanda. “Nonostante tutto, Heineken non ha cercato di fermare il processo di produzione. Mentre il paese stava attraversando una catastrofe, la società ha continuato a realizzare profitti”. Si parla di Heineken, certo, ma come ripete Van Beemen, è l’emblema della condotta di molte multinazionali in quello che è considerato il continente degli affari del futuro, col supporto dei governi: “Lo stato olandese aiuta le multinazionali come Heineken con numerosi vantaggi fiscali. Si potrebbe sostenere che il mio paese è molto più generoso nei confronti degli azionisti di società altamente redditizie che nei confronti di altri paesi europei e cittadini in difficoltà finanziarie”. Il gruppo ha centinaia di marchi in tutto il mondo. Solo in Italia, Moretti, Dreher e Ichnusa.

Van Beemen ha iniziato a lavorare alla sua indagine quando, nel 2011, è stato inviato in Tunisia per la rivoluzione dei gelsomini. “Per caso ho scoperto i legami di Heineken con la famiglia del dittatore Ben Ali (attraverso un uomo d’affari che avrebbe fatto da facilitatore, ndr), che era appena stato destituito dal suo trono. Heineken ha affermato di non saperne nulla quando ha iniziato a fare affari lì. In realtà era la vera ragione dietro la scelta del loro partner commerciale locale”.

Ha visitato tutti i paesi in cui Heineken possiede birrifici e parlato con chi era direttamente o indirettamente coinvolto, dal Ceo di Heineken (Van Beemen ha inviato il suo libro all’azienda prima della pubblicazione, ma non ha ricevuto risposta) a direttori e manager, fino al presidente del Burundi (dove Heineken rappresenta il 10% del Pil), inclusi agricoltori locali, clienti, donne della promozione, proprietari di bar, lavoratori a giornata sfruttati in fabbrica.

Si scopre così che la conquista dell’Africa passa anche per il marketing: la birra è costosa, ma rappresenta uno status sociale elevato e a cui aspirare. “Le persone desiderano spendere quei soldi, anche se sarebbe nel loro interesse farlo per cose più utili. Ma l’acquisto di una birra industriale mostra che fai parte della classe media”. Inoltre, si presenta come un’azienda che porta lavoro, sviluppo e prosperità in Africa. “In realtà, secondo l’Oms, l’industria della birra distrugge più posti di lavoro di quanti ne crei e probabilmente limita i paesi africani”. In Burundi, ad esempio, il 17% del reddito disponibile è speso per alcol e sigarette (principalmente per la birra), mentre spende l’1% per l’abbigliamento e lo 0,5% per l’istruzione. Secondo gli ultimi numeri disponibili, l’Africa è del 42% più redditizia per Heineken rispetto alla sua media globale. In Nigeria, poi, hanno organizzato conferenze sulla birra e sulla salute. Ai consumatori veniva consigliato di bere almeno 1,5 litri al giorno: “Bere responsabilmente? Non in Africa, dove Heineken fa di tutto per spingere i consumi e dove le bottiglie di dimensioni standard vanno dai 60 ai 75 cl”. Una miniera d’oro, insomma. Povertà e scarse infrastrutture allontanano i concorrenti. “E l’assenza dello stato di diritto rende più facile ed economico ottenere tutti i permessi. In Congo, mi è stato detto che tutto ciò che serve per corrompere il giusto funzionario è una cassa di birra”.