Fausto Leali, quando parla, sembra sempre sottintendere un “grazie”; grazie alla vita per il successo, grazie per essere uscito da una condizione di totale povertà (“meglio dire estrema”), grazie per aver ritrovato la vetta della classifica dopo anni di buio (“quando nessuno mi cercava”), grazie alla moglie per avergli tolto la gestione economica (“mi hanno riempito di fregature”); grazie ad amici come Renzo Arbore, Mogol o Francesco De Gregori. E a 75 anni ha intatto il desiderio di ridere e l’abitudine a non mettere l’“io” di fronte al “noi”: “Dopo una vita sul palco, per la prima volta questa estate non avrò le mie solite piazze. Ma è una questione che colpisce tutti, non solo me, quindi è inutile lamentarsi”.
E sono 55 anni dal suo concerto con i Beatles.
Avevano un contratto per suonare appena 12 canzoni, quindi il loro repertorio finiva in 45 minuti; così per riempire il tempo i promoter avevano preso me e il mio gruppo (I Novelty, ndr), Peppino Di Capri, un certo Guidone, i New Dada e altri; l’unico video, girato di nascosto, è proprio di Peppino.
Ha vissuto in pieno il mito.
Con le ragazzine urlanti che piangevano; comunque gli organizzatori del tempo trattarono malissimo i Beatles, gli offrirono un impianto pessimo su un palco microscopico, qualcosa di ridicolo con davanti 65 mila spettatori.
Perfetto.
Il direttore della Rai derubricò i Beatles a fenomeno di un mese, “poi di loro non ne parlerà più nessuno”, tanto da non concedere le telecamere: per questo motivo il filmato di Peppino è l’unica testimonianza.
Fu un mini-tour.
Con due date a Roma, Carlo Verdone presente; quando ci siamo incontrati mi ha elencato i brani che ho cantato, con me stupito di tanta memoria; (ride) a un certo punto della carriera ero diventato più o meno il cantante della cover band dei Beatles.
E…
Sono arrivato a portare i capelli a caschetto, e visto che sono ricci, il problema era tenerli in giù; (ride ancora) vestito da Beatles sono andato anche in trasmissione da Mike Bongiorno (e imita Bongiorno alla perfezione).
I suoi inizi.
A 17 anni suonavo con Wolmer Beltrami, grande fisarmonicista jazz, e l’ho seguito per un inverno, anche a Roma, dove la sera arrivavano i big dell’epoca come Emilio Schuberth (celebre stilista, ndr) o Re Faruq d’Egitto; poi una sera si presentò un discografico: “Perché affianchi Wolmer? Hai lo spessore per un gruppo tuo”.
Perfetto.
All’inizio il mio nome d’arte fu Fausto Denis, Leali non era internazionale; (sorride) poco dopo è arrivato pure il mio esordio in televisione, a soli 18 anni, in una trasmissione condotta da Franca Bettoja.
Spaventato…
Allora non tanto, non vivevo l’età della ragione; paradossalmente l’ansia mi avvolge di più oggi che conosco i meccanismi.
Coraggioso.
Allora era tutto in playback, il live non era consentito né previsto. E meno male: anche se non ero particolarmente emozionato, mi si seccò ugualmente la gola.
Era da solo?
No, in quegli anni mi accompagnava uno zio: nelle situazioni importanti veniva sempre lui, compreso quando ho preso per la prima volta l’aereo, un Milano-Roma di due ore, servito con le posate d’acciaio. Ecco lì mi sentivo come al debutto nella mia nuova vita.
Non si è mai sentito una giovane preda?
Era impossibile rendersene conto, ero un ragazzino abbagliato dalla magia dello spettacolo, affascinato da personaggi come Tony Dallara che mi parlava in milanese e mi trattava da mascotte; (resta in silenzio) davvero, a quel tempo non ero consapevole di nulla, mi cullavo dell’incoscienza, e solo verso i 40 anni ho capito cosa avevo vissuto.
Quindi…
Me la sono passata bene, poteva andare peggio, invece ho incrociato quasi tutte persone carine e poi ho incontrato i miei idoli, soprattutto Mina.
Con Mina ha collaborato.
Nel 1986 mi chiama il mio produttore: “Mina vuole incidere un pezzo con te”. Non ho capito più nulla: sono salito in auto e sono partito da solo; senza mangiare e senza dormire, la raggiungo a Monza, salgo le scale, la vedo, mi fermo, e lei mi fulmina: “Sono una tua fan, vorrei cantare un pezzo con te”.
È svenuto.
(Scandisce) Ga-sa-to. E da lì sono tornato al successo dopo un periodo buio.
La sua carriera è segnata da diversi alti e altrettanti bassi.
È vero, ma la zampata l’ho data sempre; nel 1967 e 1968 ho conquistato la classifica con A chi, Deborah e Angeli negri; poi negli anni Settanta ho avuto un periodo di bassa, quindi altro picco con Sannremo a fine Ottanta; tutto così è la mia vita.
“Angeli negri” oggi è un titolo politicamente scorretto.
(Ride) La canto con difficoltà.
La sua famiglia.
Povera, ma tanto povera: a 11 anni già lavoravo, portavo i soldi a casa, e la sera studiavo la chitarra per conto mio; (cambia tono) in realtà non sono mai stato un bambino, e ricordo perfettamente mio padre, mutilato dalla Seconda Guerra Mondiale, costretto a lavorare come fabbro perché senza sussidi: ogni giorno saliva in bicicletta e affrontava 25 chilometri tra andata e ritorno. Quando rientrava la sera vedevo sanguinare la sua gamba monca.
Roma è stata la svolta?
Sì, ma non ancora sul piano economico, era più il prestigio, la curiosità di vivere a 16 anni così lontano dalla mia realtà, il divertimento di dormire solo in una pensione.
Non ha rischiato di perdersi?
Allora la vita era differente, non c’erano tutte le tentazioni di oggi, e nella Capitale non avevo amici.
Con le donne?
Persa la verginità a 15 anni, come l’epoca prevedeva, ma a Roma stavo tranquillo.
Renzo Arbore spesso la cita…
La prima volta l’ho incontrato nel 1966 a Sorrento: si avvicinò perché cantavo la musica che amava, con uno stile a lui affine; poi l’ho ritrovato a Roma in un locale, accompagnato da Gianni Boncompagni: ci salutiamo, gli consegno il disco con inciso A chi, e quel disco dopo due giorni lo sento nella loro trasmissione.
Arbore il suo talent scout.
Da una parte sì, dall’altra c’è Pippo Baudo che mi ha permesso di cantare in tv, alla Fiera dei sogni.
Cosa?
Sempre A chi.
Baudo è mai stato giovane?
Come me: mai.
Cioè?
Già al tempo era una persona seria e pronta a offrire i consigli giusti; solo negli anni successivi ha scoperto l’autoironia; comunque con me è stato veramente importante.
Come?
Quando il mio discografico gli portò il disco, nel lato A c’era Se qualcuno cercasse di te, solo nel B era possibile ascoltare A chi: è stato Pippo a capire le potenzialità del secondo brano, anche a costo di discutere con il discografico. E poi era libero.
Rispetto a cosa?
Personalità come Pippo, o Boncompagni e Arbore, trasmettevano la musica che ritenevano giusta, mentre ora comandano i discografici e fanno carriera i raccomandati.
Boncompagni.
È stato il primo a intervistarmi, era il 1964 e non sorrideva tanto, aveva un atteggiamento chi mi incuteva un certo timore; (ci pensa) per me è stato un onore vivere quegli anni con loro.
Come ha impiegato i primi soldi?
Subito con l’acquisto di una casa, la prima di proprietà per la nostra famiglia; sul citofono ho piazzato “Fausto Leali, suonare A chi”.
Alla fine degli anni Sessanta i cantanti venivano contestati.
Chi le ha subito molto è Gianni Morandi, ed è stato un periodo bruttissimo, di aggressioni e provocazioni; nel 1971 in un rassegna a Palermo, salgo sul palco e canto due brani in inglese: mentre sto per salutare il pubblico qualcuno comincia a urlare: “E A chi?”. L’avevo evitata per paura di proteste.
È nella foto del 1975 per il debutto della Nazionale cantanti.
Confesso: non sono capace, non ho mai giocato a calcio: anche da bambino non avevo tempo.
E allora perché era lì?
Coinvolto da Mogol per promuovere il disco, così sono sceso in campo nonostante una paura fottuta di farmi male; ricordo che a un certo punto ho visto una montagna assalirmi: era Fabio Testi. Mi sono immobilizzato. E alla fine del primo tempo ho appeso per sempre gli scarpini.
Basta.
Certo! Mi sono accomodato in panchina e ho consegnato la mia maglia a un amico; mentre stavo lì seduto ho sentito il cronista commentare: “In questo secondo tempo si è svegliato Leali, è cambiato totalmente”.
In campo c’era Battisti.
Un amico: non sorrideva quasi mai ma aveva dei tempi comici che mi facevano morire, un po’ come Francesco De Gregori, anche lui possiede uno stile calmo, pacato, ma sa come piazzare la battuta; Francesco è un altro grande amico, conosciuto nel 1986 in un hotel di Acitrezza, e poco dopo i convenevoli mi ha confessato di aver iniziato a suonare grazie ad A chi, e l’ha incisa; ho ricambiato con La valigia dell’attore.
È nominato nel libro dedicato a Guido Nicheli, dove vengono narrate delle notti folli.
Gli anni del Derby: ci andavo sempre, era il punto di riferimento dei nottambuli, e magari dopo aver suonato passavo perché a mezzanotte arrivavano, per tutti, spaghetti o rigatoni, e finivamo alle cinque del mattino tra scherzi, battute e alcool.
Chi c’era?
Da Renato Pozzetto a Diego Abatantuono, poi Teo Teocoli e Guido Nicheli; Guido vendeva alcolici ai vari locali, poi arrivava al Derby e si fermava per far baldoria. Era soprannominato “il presidente”.
Chi era il leader?
Teocoli aveva una grande personalità e soprattutto rimorchiava tanto, il vero playboy, un figo pazzesco e lo sapeva.
Jannacci?
(Ride) Non partecipava alle nostre serate, noi ci davamo dentro in maniera pesante.
Sanremo.
È tosto, se sbagli pezzo sono dolori, se va bene è la svolta.
Lei ha trionfato con la Oxa.
Il culmine di un triennio meraviglioso, un successo pari a quello degli anni Sessanta, solo che a 45 anni hai maggiori consapevolezze, conosci cos’è la polvere, e ti godi maggiormente le gioie della vita.
Anna Oxa.
Una bomba, una forza assoluta, una capacità vocale e interpretativa come poche altre; peccato che ci siamo persi, e mi dispiace.
Un suo vizio.
Non posso rispondere, c’è mia moglie presente; (cammina, si allontana) un mio ex vizio (e sottolinea “ex”) sono le donne, erano il mio sport, forse per questo non riuscivo a giocare a pallone.
Scaramanzia.
Neanche una.
Gioca alla lotteria?
Eccome, sempre: durante la quarantena mi è mancato andare a puntare la mia schedina.
Chi è lei?
Un credulone. Per fortuna ho mia moglie che mi controlla.
Altrimenti?
Ci casco come un bambino stupido.
L’hanno fregata?
Nella mia vita ho combinato dei disastri economici. E parecchi.
Eppure?
Chi se ne frega, oramai è andata. Basta prendere coscienza di se stessi.