Tanti auguri, Sorrentino: 50 anni. E addio “Youth”

Buon compleanno, Paolo Sorrentino: 50 anni in pensieri, parole, opere e missioni.

1 Abilità. “È così triste essere bravi: si rischia di diventare abili” (Jep Gambardella, La grande bellezza).

2 Potere. Spirituale (The Young Pope, The New Pope), temporale (Il Divo, Loro).

3 Triplete. Oscar, Golden Globes e Bafta: La grande bellezza (2014).

4 Federico Fellini. “L’unico autorizzato a sentirsi Dio”.

5 Animali fantastici e dove trovarli. Fenicotteri, giraffa, bisonte, agnello, mucche.

6 Stronzate. “A vita è ’na strunzata, Aniè” (Tony Pisapia, L’uomo in più).

7 Aldo Moro. “Una volta invece ho fatto un fioretto, fu quando le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro, mi ripromisi se si fosse salvato di non mangiare più gelati… Io sono molto goloso di gelati… (Giulio Andreotti, Il Divo).

8 Giovinezza. Youth, The Young Pope.

9 Impossibile. “Non confondere mai l’insolito con l’impossibile” (Geremia, L’amico di famiglia).

10 Cannes. Sei volte in concorso, una in giuria, due premi: della Giuria a Il Divo (2008), della Giuria Ecumenica a This Must Be the Place (2011).

11 No Cannes. Loro.

12 La fessa. “A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: ‘La fessa’. Io, invece, rispondevo: ‘L’odore delle case dei vecchi’. La domanda era: ‘Che cosa ti piace di più veramente nella vita?’. Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella” (Jep, La grande bellezza).

13 Tifo. Calcio Napoli.

14 Feticcio. Toni Servillo.

15 Jennifer Lawrence. Protagonista del nuovo film, Mob Girl.

16 Rivale. Matteo Garrone.

17 Moglie. Daniela D’Antonio, “fortunatamente mi ha sempre tenuto coi piedi per terra”.

18 European Film Awards. Quattro.

19 David di Donatello. Cinque.

20 Nastri d’Argento. Otto.

21 Casa. Piazza Vittorio, Roma.

22 Sceneggiatore. Umberto Contarello (This Must be the Place, La grande bellezza, Loro, The Young Pope, The New Pope).

23 Bevanda gassata. Coca-Cola Cherry Zero (Lenny Belardo, The Young Pope).

24 Soggetti originali. Tutti, tranne il prossimo Mob Girl.

25 Direttore della fotografia. Luca Bigazzi, tranne L’uomo in più.

26 Figli. Anna e Carlo.

27 Star. Sean Penn, Rachel Weisz, Frances McDormand, Harvey Keitel, Michael Caine, Jude Law, John Malkovich, David Byrne.

28 Non mi va. “La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare” (Jep, La grande bellezza).

29 Fuocoammare. “Scelta masochistica”, quella del documentario di Gianfranco Rosi a rappresentare l’Italia agli Oscar 2017. Ha avuto ragione.

30 Umarell. Lamenta, a mezzo stampa, una buca transennata da anni a Piazza Vittorio.

31 Sfortuna. “La sfortuna non esiste. È un’invenzione dei falliti… e dei poveri” (Titta Di Girolamo, Le conseguenze dell’amore).

32 Feste. “Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire” (Jep, La grande bellezza).

33 Boris – La serie. Cammeo: episodio 3×12 (2010).

34 Toop Toop. Brano dei Cassius, Il Divo.

35 Hanno tutti ragione. Romanzo, terzo al Premio Strega (2010).

36 Montatore. Cristiano Travaglioli, da Il Divo in poi.

37 Pelè. “Il pareggio non esiste” (L’uomo in più, incipit).

38 Fede. “Serve più fede per credere in Dio che per fare un film”.

39 Silvio Berlusconi. “Tutto non è abbastanza” (Loro).

40 Trolley. This Must Be the Place.

41 Olocausto. This Must Be the Place.

42 Far l’amore. Brano di Bob Sinclair ft. Raffaella Carrà, La grande bellezza.

43 Serena Grandi. La grande bellezza.

44 Comparse. “Siamo soltanto comparse” (Mick Boyle, Youth).

45 Natali. Napoli, 31.05.1970.

46 Nanni Moretti. Vincitore di Bimbi belli con L’uomo in più (2002), attore ne Il Caimano, affinità: il Papa, Berlusconi.

47 Gay. “Un 25% di me è gay, solo che è lesbica!” (Silvio Berlusconi, Loro).

48 Maturità. “Spogliarsi del rivendicare ‘io, io, io’”.

49 Gli aspetti irrilevanti. Romanzo (2016).

50 Futuro. Progetti per il futuro: non sottovalutare le conseguenze dell’amore (Le conseguenze dell’amore).

Le folli nottate al “Derby”, l’intuito di Baudo e Arbore. E non sono mai stato bimbo

Fausto Leali, quando parla, sembra sempre sottintendere un “grazie”; grazie alla vita per il successo, grazie per essere uscito da una condizione di totale povertà (“meglio dire estrema”), grazie per aver ritrovato la vetta della classifica dopo anni di buio (“quando nessuno mi cercava”), grazie alla moglie per avergli tolto la gestione economica (“mi hanno riempito di fregature”); grazie ad amici come Renzo Arbore, Mogol o Francesco De Gregori. E a 75 anni ha intatto il desiderio di ridere e l’abitudine a non mettere l’“io” di fronte al “noi”: “Dopo una vita sul palco, per la prima volta questa estate non avrò le mie solite piazze. Ma è una questione che colpisce tutti, non solo me, quindi è inutile lamentarsi”.

E sono 55 anni dal suo concerto con i Beatles.

Avevano un contratto per suonare appena 12 canzoni, quindi il loro repertorio finiva in 45 minuti; così per riempire il tempo i promoter avevano preso me e il mio gruppo (I Novelty, ndr), Peppino Di Capri, un certo Guidone, i New Dada e altri; l’unico video, girato di nascosto, è proprio di Peppino.

Ha vissuto in pieno il mito.

Con le ragazzine urlanti che piangevano; comunque gli organizzatori del tempo trattarono malissimo i Beatles, gli offrirono un impianto pessimo su un palco microscopico, qualcosa di ridicolo con davanti 65 mila spettatori.

Perfetto.

Il direttore della Rai derubricò i Beatles a fenomeno di un mese, “poi di loro non ne parlerà più nessuno”, tanto da non concedere le telecamere: per questo motivo il filmato di Peppino è l’unica testimonianza.

Fu un mini-tour.

Con due date a Roma, Carlo Verdone presente; quando ci siamo incontrati mi ha elencato i brani che ho cantato, con me stupito di tanta memoria; (ride) a un certo punto della carriera ero diventato più o meno il cantante della cover band dei Beatles.

E…

Sono arrivato a portare i capelli a caschetto, e visto che sono ricci, il problema era tenerli in giù; (ride ancora) vestito da Beatles sono andato anche in trasmissione da Mike Bongiorno (e imita Bongiorno alla perfezione).

I suoi inizi.

A 17 anni suonavo con Wolmer Beltrami, grande fisarmonicista jazz, e l’ho seguito per un inverno, anche a Roma, dove la sera arrivavano i big dell’epoca come Emilio Schuberth (celebre stilista, ndr) o Re Faruq d’Egitto; poi una sera si presentò un discografico: “Perché affianchi Wolmer? Hai lo spessore per un gruppo tuo”.

Perfetto.

All’inizio il mio nome d’arte fu Fausto Denis, Leali non era internazionale; (sorride) poco dopo è arrivato pure il mio esordio in televisione, a soli 18 anni, in una trasmissione condotta da Franca Bettoja.

Spaventato…

Allora non tanto, non vivevo l’età della ragione; paradossalmente l’ansia mi avvolge di più oggi che conosco i meccanismi.

Coraggioso.

Allora era tutto in playback, il live non era consentito né previsto. E meno male: anche se non ero particolarmente emozionato, mi si seccò ugualmente la gola.

Era da solo?

No, in quegli anni mi accompagnava uno zio: nelle situazioni importanti veniva sempre lui, compreso quando ho preso per la prima volta l’aereo, un Milano-Roma di due ore, servito con le posate d’acciaio. Ecco lì mi sentivo come al debutto nella mia nuova vita.

Non si è mai sentito una giovane preda?

Era impossibile rendersene conto, ero un ragazzino abbagliato dalla magia dello spettacolo, affascinato da personaggi come Tony Dallara che mi parlava in milanese e mi trattava da mascotte; (resta in silenzio) davvero, a quel tempo non ero consapevole di nulla, mi cullavo dell’incoscienza, e solo verso i 40 anni ho capito cosa avevo vissuto.

Quindi…

Me la sono passata bene, poteva andare peggio, invece ho incrociato quasi tutte persone carine e poi ho incontrato i miei idoli, soprattutto Mina.

Con Mina ha collaborato.

Nel 1986 mi chiama il mio produttore: “Mina vuole incidere un pezzo con te”. Non ho capito più nulla: sono salito in auto e sono partito da solo; senza mangiare e senza dormire, la raggiungo a Monza, salgo le scale, la vedo, mi fermo, e lei mi fulmina: “Sono una tua fan, vorrei cantare un pezzo con te”.

È svenuto.

(Scandisce) Ga-sa-to. E da lì sono tornato al successo dopo un periodo buio.

La sua carriera è segnata da diversi alti e altrettanti bassi.

È vero, ma la zampata l’ho data sempre; nel 1967 e 1968 ho conquistato la classifica con A chi, Deborah e Angeli negri; poi negli anni Settanta ho avuto un periodo di bassa, quindi altro picco con Sannremo a fine Ottanta; tutto così è la mia vita.

“Angeli negri” oggi è un titolo politicamente scorretto.

(Ride) La canto con difficoltà.

La sua famiglia.

Povera, ma tanto povera: a 11 anni già lavoravo, portavo i soldi a casa, e la sera studiavo la chitarra per conto mio; (cambia tono) in realtà non sono mai stato un bambino, e ricordo perfettamente mio padre, mutilato dalla Seconda Guerra Mondiale, costretto a lavorare come fabbro perché senza sussidi: ogni giorno saliva in bicicletta e affrontava 25 chilometri tra andata e ritorno. Quando rientrava la sera vedevo sanguinare la sua gamba monca.

Roma è stata la svolta?

Sì, ma non ancora sul piano economico, era più il prestigio, la curiosità di vivere a 16 anni così lontano dalla mia realtà, il divertimento di dormire solo in una pensione.

Non ha rischiato di perdersi?

Allora la vita era differente, non c’erano tutte le tentazioni di oggi, e nella Capitale non avevo amici.

Con le donne?

Persa la verginità a 15 anni, come l’epoca prevedeva, ma a Roma stavo tranquillo.

Renzo Arbore spesso la cita…

La prima volta l’ho incontrato nel 1966 a Sorrento: si avvicinò perché cantavo la musica che amava, con uno stile a lui affine; poi l’ho ritrovato a Roma in un locale, accompagnato da Gianni Boncompagni: ci salutiamo, gli consegno il disco con inciso A chi, e quel disco dopo due giorni lo sento nella loro trasmissione.

Arbore il suo talent scout.

Da una parte sì, dall’altra c’è Pippo Baudo che mi ha permesso di cantare in tv, alla Fiera dei sogni.

Cosa?

Sempre A chi.

Baudo è mai stato giovane?

Come me: mai.

Cioè?

Già al tempo era una persona seria e pronta a offrire i consigli giusti; solo negli anni successivi ha scoperto l’autoironia; comunque con me è stato veramente importante.

Come?

Quando il mio discografico gli portò il disco, nel lato A c’era Se qualcuno cercasse di te, solo nel B era possibile ascoltare A chi: è stato Pippo a capire le potenzialità del secondo brano, anche a costo di discutere con il discografico. E poi era libero.

Rispetto a cosa?

Personalità come Pippo, o Boncompagni e Arbore, trasmettevano la musica che ritenevano giusta, mentre ora comandano i discografici e fanno carriera i raccomandati.

Boncompagni.

È stato il primo a intervistarmi, era il 1964 e non sorrideva tanto, aveva un atteggiamento chi mi incuteva un certo timore; (ci pensa) per me è stato un onore vivere quegli anni con loro.

Come ha impiegato i primi soldi?

Subito con l’acquisto di una casa, la prima di proprietà per la nostra famiglia; sul citofono ho piazzato “Fausto Leali, suonare A chi”.

Alla fine degli anni Sessanta i cantanti venivano contestati.

Chi le ha subito molto è Gianni Morandi, ed è stato un periodo bruttissimo, di aggressioni e provocazioni; nel 1971 in un rassegna a Palermo, salgo sul palco e canto due brani in inglese: mentre sto per salutare il pubblico qualcuno comincia a urlare: “E A chi?”. L’avevo evitata per paura di proteste.


È nella foto del 1975 per il debutto della Nazionale cantanti.

Confesso: non sono capace, non ho mai giocato a calcio: anche da bambino non avevo tempo.

E allora perché era lì?

Coinvolto da Mogol per promuovere il disco, così sono sceso in campo nonostante una paura fottuta di farmi male; ricordo che a un certo punto ho visto una montagna assalirmi: era Fabio Testi. Mi sono immobilizzato. E alla fine del primo tempo ho appeso per sempre gli scarpini.

Basta.

Certo! Mi sono accomodato in panchina e ho consegnato la mia maglia a un amico; mentre stavo lì seduto ho sentito il cronista commentare: “In questo secondo tempo si è svegliato Leali, è cambiato totalmente”.

In campo c’era Battisti.

Un amico: non sorrideva quasi mai ma aveva dei tempi comici che mi facevano morire, un po’ come Francesco De Gregori, anche lui possiede uno stile calmo, pacato, ma sa come piazzare la battuta; Francesco è un altro grande amico, conosciuto nel 1986 in un hotel di Acitrezza, e poco dopo i convenevoli mi ha confessato di aver iniziato a suonare grazie ad A chi, e l’ha incisa; ho ricambiato con La valigia dell’attore.

È nominato nel libro dedicato a Guido Nicheli, dove vengono narrate delle notti folli.

Gli anni del Derby: ci andavo sempre, era il punto di riferimento dei nottambuli, e magari dopo aver suonato passavo perché a mezzanotte arrivavano, per tutti, spaghetti o rigatoni, e finivamo alle cinque del mattino tra scherzi, battute e alcool.

Chi c’era?

Da Renato Pozzetto a Diego Abatantuono, poi Teo Teocoli e Guido Nicheli; Guido vendeva alcolici ai vari locali, poi arrivava al Derby e si fermava per far baldoria. Era soprannominato “il presidente”.

Chi era il leader?

Teocoli aveva una grande personalità e soprattutto rimorchiava tanto, il vero playboy, un figo pazzesco e lo sapeva.

Jannacci?

(Ride) Non partecipava alle nostre serate, noi ci davamo dentro in maniera pesante.

Sanremo.

È tosto, se sbagli pezzo sono dolori, se va bene è la svolta.

Lei ha trionfato con la Oxa.

Il culmine di un triennio meraviglioso, un successo pari a quello degli anni Sessanta, solo che a 45 anni hai maggiori consapevolezze, conosci cos’è la polvere, e ti godi maggiormente le gioie della vita.

Anna Oxa.

Una bomba, una forza assoluta, una capacità vocale e interpretativa come poche altre; peccato che ci siamo persi, e mi dispiace.

Un suo vizio.

Non posso rispondere, c’è mia moglie presente; (cammina, si allontana) un mio ex vizio (e sottolinea “ex”) sono le donne, erano il mio sport, forse per questo non riuscivo a giocare a pallone.

Scaramanzia.

Neanche una.

Gioca alla lotteria?

Eccome, sempre: durante la quarantena mi è mancato andare a puntare la mia schedina.

Chi è lei?

Un credulone. Per fortuna ho mia moglie che mi controlla.

Altrimenti?

Ci casco come un bambino stupido.

L’hanno fregata?

Nella mia vita ho combinato dei disastri economici. E parecchi.

Eppure?

Chi se ne frega, oramai è andata. Basta prendere coscienza di se stessi.

L’inaffondabile Pier che vuol restare a galla fino al Colle

Sarà per il sorriso, la zazzera bianca, il sigaro. Oppure per le mani in tasca e quell’aria di chi non ha mai lavorato in vita sua, ma Pier Ferdinando Casini mette sempre di buon umore. Non ha scheletri nell’armadio, solo ciccioli, signorine e chiacchiere. Passeggia dentro le sante istituzioni della Repubblica dal 1983, anno in cui l’indimenticato Toto Cutugno sbancò i botteghini della nazione cantando “sono un italiano, un italiano vero”: più o meno l’intera biografia di Pier.

Il quale ciondola nel Paese dei Balocchi, passando indenne dalla dc dei misteri dell’eterno Andreotti, alla plastica di Berlusconi, da Berlusconi alle mozzarelle di Mastella, da Mastella al loden di Mario Monti. E poi a Letta, Renzi, Gentiloni, per incassare dieci legislature su dieci, tutte con vista panoramica, aria condizionata e prima colazione incorporata. Bravissimo a appoggiare i governi di cui non faceva mai parte, accomodato nei perpetui retroscena, senza sognarsi di andare troppo in scena, meno che mai fare il ministro, il vice ministro, il sottosegretario con tutti i problemi contundenti da risolvere, le riunioni, le seccature, le responsabilità. Neanche a parlarne. Anzi parlandone moltissimo, accomodato sui divani del Transatlantico, davanti alle tovaglie bianche del Bolognese, dentro i salotti televisivi e, in via riservata, scaldandosi al tepore dei conciliaboli della sua personale corrente, battezzata di volta in volta Udc, Ccd e altri fantasiosi acronimi, specializzata nel Cencelli degli organigrammi.

Il bello di Casini è che non facendo niente, ha fatto così tante cose da possedere un curriculum da primato. Compreso l’incarico per lui ornamentale di presidente della Camera dei Deputati, anni 2001-2006, inaugurato con un memorabile discorso dedicato “al male oscuro del trasformismo”. Con i deputati assisi che si davano di gomito increduli, tutti pensando che era come ascoltare, con tutto il rispetto, una intemerata di Arsenio Lupin contro i borseggiatori.

Oggi, anno ventesimo del nuovo secolo, l’inestimabile Pier sta per compiere il suo capolavoro, entrare nella prossima rosa del Quirinale, appuntamento al 2022, verso la quale persino un campione di alte responsabilità come Mario Draghi avanza con cautela. Lui no, è felice per la maturità conquistata, pattina, fa capriole persino nel sottoscala di Barbara Palombelli con la Giovanna Maglie, Liguori e Capezzone ad augurare i forconi per Giuseppe Conte, e a chi gli chiede ragione di tanto entusiasmo quirinalizio, risponde: “Ho appena 65 anni. Perché no?”. Già, perché no?

Pier Ferdinando nacque un bel giorno del 1955 a Bologna, padre democristiano, nonché professore di latino e greco, madre bibliotecaria. Infanzia standard: oratorio, tagliatelle, messa domenicale. Già ai tempi del liceo classico Galvani bravissimo a scansare incarichi, tant’è che fu sua sorella Maria Teresa a prendersi uno schiaffo perché volantinava un volantino scritto da lui: “In effetti fu colpa mia”. E mentre i suoi coetanei nel turbolento ’77 mettevano a ferro e fuoco la Bologna di Renato Zangheri, sognando Radio Alice, lui si laureava in Giurisprudenza con tesi su “I sistemi organizzativi delle partecipazioni statali”. A 24 anni era già consigliere comunale per la dc. A 27 entra a Montecitorio con le lacrime agli occhi per la felicità: “Ringrazio i miei elettori. Sono qui per servirli”. Come no.

Tra tutti i mostri sacri della dc, bazzica Rumor, Taviani, Cossiga, ma alla fine sceglie Tony Bisaglia, il potente capo dei dorotei, che diventa il suo mentore. Bisaglia è un duro, si occupa di industria, commercio estero, correnti democristiane italiane e bavaresi. Peccato che nella brutta estate del 1984 cada misteriosamente dallo yatch della moglie, la baronessa Romilda Bollati di Saint Pierre, e anneghi davanti a Portofino, inaugurando una maledizione dell’acqua assassina che otto anni dopo inghiottirà suo fratello prete, don Mario Bisaglia, trovato morto in un lago del Cadore e il suo amico Gino Mazzolaio, tesoriere della dc veneta, scomparso nelle acque dell’Adige: entrambi indagavano sulla morte di Tony.

E Pier? Nulla, dopo tre Ave Maria è già diventato l’ombra di Arnaldo Forlani, nonché il responsabile della propaganda del partito, che vuol dire pubbliche relazioni, cene, e un sacco di tempo libero per dedicarsi alla sua naturale vocazione, le molte signorine di buona famiglia che gli sbocciano accanto: “Mai stato con le mani in mano, ovvio”. In prime nozze sposa la bellissima Roberta Lubich. In seconde, la ricchissima Azzurra Caltagirone, quella della dinastia. Fa quattro figli. E siccome è contrario al divorzio dai tempi del referendum del 1974, divorzia due volte su due, ma andando ogni anno in pellegrinaggio alla Madonna di San Luca e al Family Day: “Non capisco cosa c’entrino le scelte private con la difesa che io faccio della famiglia”.

Mentre è distratto, gli crolla l’intera Democrazia cristiana sull’uscio di casa, siamo a Tangentopoli, ma la polvere neanche lo sfiora. Lascia Forlani al suo destino, sale sul primo aereo, sbarca ad Arcore, dove Berlusconi lo accoglie “perché è bello”. Racconterà Mastella velenoso: “Io ridevo a tre barzellette del Cavaliere ogni dieci. Lui a dieci su dieci”. Tra battibecchi e pacche sulle spalle resta sempre a galla. Bossi lo battezza “Il carugnitt de l’oratori”. Lui lo elogia. Scalfaro e Berlusconi si detestano, ma Pier li ama tutti e due. Quando può, abbraccia Prodi, fa l’amicone di D’Alema e il compare di Gianfranco Fini. Avendo avuto per alleati Calogero Mannino, Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri, diventa intransigente coi Cinque stelle, che per lui non hanno il senso delle istituzioni. Nel 2017, persuaso dall’amico Renzi, accetta la presidenza della commissione che indaga sui crack bancari. Ma solo per condurla alla fonda nelle acque quiete e azzurre quanto gli occhi di Maria Elena Boschi. Una volta disse che il potere per lui “è il telefono che squilla”. Tutto qui. Se salirà al Quirinale sarà più divertente di Magalli.

Far ridere è una rivoluzione (per questo non piace a tutti)

Mettiamo che puoi scegliere di sposarti con una donna per quindici anni. Una donna di colore o una donna bianca. Quindici anni di baci e abbracci, stretti a letto in nottate torride. Con una donna nera nera, o bianca bianca. La donna bianca è Kate Smith. E la donna di colore è Lena Horne. Adesso non ti preoccupi più del bianco o del nero, giusto? Ti preoccupi di quanto sia carina o attraente. Allora andiamo davvero al sodo: perseguitiamo la gente brutta! – Lenny Bruce

Come gli antichi, noi ci adeguiamo al paradigma dominante in cui siamo immersi: ne accettiamo le categorizzazioni, che riguardano tempo, spazio, causalità, natura, razionalità, giustizia, ordine. “In ogni epoca, le idee dominanti sono le idee della classe dominante” (Marx & Engels, 1846). “Quando sono buona, sono molto buona. Ma quando sono cattiva, sono meglio” (Mae West).

Il sistema sociale è in mutamento costante, e il suo equilibrio è mantenuto da due forze: conformità e ribellione. Una società non è reazionaria in sé, ma solo quando difende privilegi (di classe, di genere, ecc.). La comunicazione (per esempio, la pubblicità, la propaganda, il giornalismo, la comicità) va dunque giudicata dal tipo di conformità sociale che promuove: se classista, è reazionaria; se estende i diritti a tutti, rivoluzionaria. “Ogni altro sono io” (Alberto Manzi). “Mia madre mi fa: -La vita non è fare sempre il proprio comodo. A volte devi fare cose solo a beneficio di qualcun altro.- E io: -Sono d’accordo. A questo servono, i pompini -” (Chelsea Handler). L’esperimento di Asch dimostra che la tendenza a conformarsi viene attenuata dalla presenza di un individuo che formula giudizi veritieri in contrasto con quelli del gruppo; mentre quello di Milgram rivela che l’obbedienza a un comando immorale si riduce con la vicinanza della vittima, o di un soggetto che si dissocia; e quello di Wilder che siamo più influenzati dalle persone che percepiamo come indipendenti nel giudizio: insomma, c’è speranza per una satira rivoluzionaria. Più in generale, è l’assenza di consapevolezza storica a rendere reazionaria la comicità: ma adesso basta, parlare dei cinepanettoni. A volte, la rimozione è eseguita in modo volontario. Un esempio? Il Bagaglino. (Non a caso, la foto che vedete in questa pagina si trova sul sito ufficiale di Giulio Andreotti.)

La satira come sociatria. L’ignoranza su quanto ci condiziona crea angoli bui nel nostro immaginario. Quando la prassi divertente li illumina, contribuisce all’elasticità dello spirito, operando una sociatria. “Ogni opera autentica, più che utile, è terapeutica” (Pasolini, 1970). “Provo compassione per chi non beve o non si droga. Un giorno saranno in un letto d’ospedale, in fin di vita, e non sapranno perché” (Redd Foxx). È sociatria anche in quanto critica: recupera l’inconscio sociale, inteso come rimosso storico. “Trump non è affatto come Hitler. Non riuscirebbe mai a scrivere un libro” (Frankie Boyle). Per questo, fin dai tempi di Aristofane, la satira è contro il potere, di cui riesce ad annullare la natura mortifera mantenendo viva nel nostro immaginario quella sana oscillazione fra sacro e profano che chiamiamo dubbio. Così, ci aiuta a liberarci dai pregiudizi inculcati in noi dai marketing politici, culturali, economici, religiosi (cosa non facile, come mostra la vignetta di Rowland Wilson). Per questo, fin dai tempi di Cleone, il potere cerca di censurarla: la satira va contro i suoi interessi. È sempre stato così, ed è un ottimo motivo per continuare a farla. “Madre Teresa ha vissuto tutta una vita aiutando i bambini affamati e i villaggi moribondi, ma non poteva essere dichiarata santa perché non aveva mai fatto davvero un miracolo. Alla fine era così disperata di compiere un miracolo che andava dai bambini affamati e gli diceva: -Che cosa c’è dietro il tuo orecchio? È un soldino!-” (Gilbert Gottfried).

La satira è il gusto per la libertà di pensiero. Non può piacere a tutti: i suoi bersagli, per esempio, non ridono. “A proposito: se qualcuno qui è nella pubblicità o nel marketing: uccidetevi” (Bill Hicks). La satira è polemica, dunque divide. “Le sette parole che non si possono dire in tv: merda, piscio, fanculo, figa, succhiacazzi, figliodiputtana e tette” (George Carlin, HBO, 1977).

Cos’è il potere? Il potere è uno dei tre modi con cui si agisce sul prossimo. Gli altri due sono le capacità e la comunicazione. I tre modi interagiscono, come mezzi per un fine; le istituzioni li concertano in discipline e strutture, privilegiando ora le relazioni di potere e di obbedienza (monastero, prigione), ora l’attività finalizzata (ospedali, laboratori), ora la comunicazione (apprendistato, cerimoniali), ora la saturazione di tutt’e tre (architettura, caserma), ora la loro moltiplicazione e diffusione (città, società, lingue), ora il loro accentramento (piattaforme digitali di sorveglianza, Stato). Il potere non è la manifestazione di un consenso, ma di una violenza, esercitata sulle azioni altrui per governarle. La sua forma originaria, e se necessario la sua ultima risorsa, è la violenza esplicita. “Ordino due cheeseburger. La cameriera mi fa: – Non serviamo gente di colore, qui.- E io: – Non mangio gente di colore da nessuna parte!-” (Dick Gregory)

La libertà, personale e collettiva, irrita le forme di dominio (sociale e religioso), le forme di sfruttamento (che ci separano da ciò che produciamo), e le forme di soggezione (lo Stato ci impone un’identità personale, una soggettività, con cui ci sottomette). “Jack Lemmon: – Sono un uomo! – Joe E. Brown: – Bè, nessuno è perfetto. – ” (I.A.L. Diamond & Billy Wilder). Rispetto a queste forme, la libertà recalcitra (Foucault, 1982).

Comicità e satira provocano il potere se insubordinate. Possono riuscire addirittura a liberarci dalla servitù peggiore: l’illusione del sé. Quando l’obiettivo è rifiutare chi siamo, comicità e satira diventano ascesi. “Ho una forma rara di dismorfia corporea per cui non riesco assolutamente a sopportare quanto sono bello” (Anthony Jeselnik).

Politica della prassi divertente. Comicità e satira fanno politica innanzitutto in quanto fatto sociale. Come la politica, riconfigurano la condivisione del sensibile: trasformano la realtà in un nuovo universo di significazione modificando i rapporti fra gli oggetti, i soggetti e i poteri. I comici, come i poeti, sono gli sconosciuti legislatori del mondo. “Peter Sellers: – Signori, non potete fare a botte qui. È il Gabinetto di Guerra! -” (Kubrick, Southern & George).

(6. Continua)

Autostrade e il solito bluff degli investimenti che verranno

Autostrade per l’Italia, tra le misure offerte al Governo per evitare la revoca della concessione, ha prospettato investimenti per 14,5 miliardi. Una cifra imponente, come potrebbe l’esecutivo rinunciarvi? In realtà si tratta di investimenti nei prossimi 18 anni, con impatto immediato modesto. Ma vediamo quali sono: 1) 4,1 miliardi per completare interventi già previsti dal Piano 1997, dal IV atto 2002 e dal piano 2007; 2) 4,1 miliardi per la “gronda di Genova”; 3) 2,3 miliardi per 154 km di terze/quarte corsie e 4 miliardi per l’ammodernamento e il prolungamento della vita utile di opere..

Gli investimenti del Piano 1997 sono già stati remunerati in tariffa e la società ha quindi l’obbligo di completarli, pur con tanti anni di ritardo. Quelli del IV Atto aggiuntivo avrebbero dovuto essere completati entro il 2007. Su questo arretrato di 4 miliardi ASPI ha investito, nel 2019, solo 150 milioni, appena il 3%. Il minacciato blocco degli investimenti, di fatto, è già iniziato da tempo. Il progetto per la Gronda sta molto a cuore alla società perché, nell’accordo col ministro Graziano Delrio, era riuscita ad ottenere, oltre ad un’alta remunerazione, anche la proroga della concessione dal 2038 al 2042 (si veda il mio libro “La svendita di Autostrade”, edito da Paper First). È l’unico investimento rilevante che potrebbe essere attivato da un accordo col Governo: ma passare dalla minaccia di revoca a una proroga per altri 4 anni non sarà una giravolta un po’ eccessiva? I residui 6,3 miliardi sono opere di adeguamento della rete che devono ancora essere progettate, approvate ed inserite in Convenzione.

La rete gestita da ASPI è “matura”, non richiede rilevanti nuovi investimenti anche perché la previsione, fatta dalla stessa ASPI, è che il traffico non aumenterà nel prossimo ventennio. Le priorità d’investimento per l’Italia sono altre. Ma Autostrade ha una lunga storia di mega investimenti usati per ottenere benefici dal ministero. La storia si ripete.

Scuola: sit-in dei vincitori di concorso. Prof non abilitati, assunti e poi licenziati

Domani un migliaio di professori manifesterà in piazza a Napoli contro uno Stato che prima li ha assunti e poi licenziati. Si tratta dei docenti della scuola secondaria, vincitori con riserva del concorso del 2016 (non avevano l’abilitazione per l’insegnamento), che sono stati travolti da un pasticcio giudiziario: prima messi in cattedra, insegnando per circa tre anni anche durante la pandemia. E ora lasciati senza stipendio o in supplenza fino al 30 giugno. Tutto inizia 4 anni fa quando i docenti non abilitati presentano ricorso al Tar del Lazio, perché esclusi dal concorso del 2016 a cui hanno partecipato oltre 165 mila docenti tra scuola primaria e secondaria.

Dopo un primo rigetto dell’istanza da parte del Tar, il Consiglio di Stato dispone invece la loro partecipazione al concorso, intimando al ministero dell’Istruzione di predisporre le prove suppletive. Una decisione recepita in seguito anche dal Tar che dà quindi ragione ai ricorrenti. Così tra gli oltre 10 mila docenti non abilitati della scuola secondaria di primo e secondo grado che partecipano al concorso, circa mille lo vincono. E via via vengono assunti con contratto a tempo indeterminato. “Questo perché – spiega Lucia Rozza della Uil Scuola – i corsi abilitanti previsti al tempo sono stati indetti in maniera discontinua, a numero chiuso, con costi elevati, senza prevedere la totale copertura del territorio nazionale. E, per alcune classi di concorso, non sono neanche mai stati attivati”. Motivazioni però non sufficienti per il Miur che lo scorso giugno impugna la sentenza al Consiglio di Stato chiedendo sia la sospensione che l’annullamento. Ma i i giudici non sospendono la sentenza e i docenti continuano a insegnare fino a novembre 2019 quando lo stesso Consiglio di Stato li giudica inammissibili al concorso nonostante tre anni prima avessero avuto il via libera per parteciparvi. I docenti presentano così ricorso in Cassazione contro la sentenza e il Consiglio di Stato, con decreto cautelare, sospende gli effetti della sua stessa sentenza. Un iter giudiziario che si conclude lo scorso febbraio, quando i giudici amministrativi non confermano il decreto cautelare emesso precedentemente che porta al licenziamento dei mille vincitori del concorso. Tra loro ci sono genitori che si sono licenziati da un precedente impiego per l’agognato posto fisso nel pubblico e la mamma di un bimbo gravemente disabile che ha “studiato di notte, per seguire il figlio di giorno”, racconta al Fatto. “Questo posto – aggiunge – finalmente mi aveva dato la tranquillità economica per sostenere le cure private che lo Stato mi nega, ora non so cosa fare”. Oltre al ricorso in Cassazione, non gli resta che la piazza. ᐧ

Bertolaso in Sicilia senza quarantena Musumeci con lui

Per lavoro o per diporto? Nel primo caso in Sicilia c’è l’esenzione dalla quarantena, nel secondo invece l’obbligo. Così l’arrivo di Guido Bertolaso a Trapani dove tiene ormeggiata la sua barca a vela e dove ha incontrato a pranzo il governatore Nello Musumeci diventa un caso politico, tra conferme e smentite di membri del governo regionale che si contraddicono e l’interrogazione di Claudio Fava che chiede a Musumeci: “L’ordinanza sugli ingressi in Sicilia per motivi non lavorativi è ancora valida o va interpretata in base ai rapporti di amicizia personali e politici?”.

Mentre il governatore aveva smentito le voci di un incarico al vertice della struttura anti-Covid per sostituire Antonio Candela, arrestato per corruzione (“sapevo che andava a Trapani e abbiamo pranzato insieme, affrontando tanti temi, ma mai parlato di affidargli il posto di Candela”), l’assessore alla Sanità Ruggero Razza attacca Fava e conferma l’interesse del governo a utilizzare il lavoro dell’ex “problem solver’’ della Protezione Civile: “Mi spiace che Claudio Fava abbia preso un abbaglio, perché un abbaglio prima di lui lo ha preso la stampa – ha scritto in una nota – l’ordinanza del presidente della Regione specifica con chiarezza quali categorie di soggetti non sono sottoposti alla quarantena. Tra questi rientrano coloro che si trovano in Sicilia per ragioni di lavoro. Che poi Bertolaso abbia deciso di venire e soggiornare in Sicilia a proprie spese e non a carico dell’amministrazione che lo ha invitato non credo sia un demerito”. E a fargli gli auguri di buon lavoro su Facebook, poi precipitosamente cancellati, era stato un altro assessore della giunta Musumeci, Gaetano Armao. A chiarire il giallo è lo stesso Bertolaso che alla fine ammette: “Sono stato invitato dal presidente della Regione con convocazione ufficiale per dare una mano”. Resta da capire perché Musumeci lo abbia negato.

Troppi pazienti, pochi letti: il Covid-19 uccide Mumbai

La città dei sogni, il motore economico-finanziario d’India, vive un incubo a occhi aperti. Con oltre 1400 nuovi casi di coronavirus e 38 decessi riportati nella sola giornata di venerdì, la megalopoli indiana di Mumbai è diventata l’epicentro della crisi pandemica nazionale, per un totale di oltre 36 mila casi accertati e oltre mille morti nell’area urbana. Un dato preoccupante, se si considera che metà dei suoi 22 milioni di abitanti si accalca nel ridottissimo spazio di insediamenti informali e slum. Ma l’alta densità abitativa aggrava rischi generati altrove: “Mumbai è la più colpita, in India, perché è la più internazionale. All’inizio della crisi, nessuno ha monitorato adeguatamente gli aeroporti” premette il dottor Vitthal Salve, di Chhattisgarh, che studia la situazione di Mumbai.

Le autorità hanno iniziato ad acquisire strutture private, a costruire centri di cura intensivi o di isolamento in grandi complessi come lo stadio, il planetario e l’ippodromo cittadini, e dichiarando di poter raggiungere 100 mila posti letto entro metà giugno. “Non basta. Mancano strutture nelle periferie, lì dove il panico e la congestione demografica stanno creando più problemi. E mancano medici: sono venuto a conoscenza di un numero enorme di posti vacanti in grandi ospedali come quelli di Kem o di Kasturba. A questo punto mi domando: è giusto aumentare le strutture intensive, ma ci sarà personale a sufficienza?”. Secondo Salve, è fondamentale far entrare in servizio i giovani specializzandi e “importare” personale da altre città dello Stato di Mumbai, il Maharashtra. “Troppa popolazione, troppi pazienti, troppi pochi posti letto, poco personale” riassume Kalpana Gujala, infermiera in pensione e rappresentante sindacale. “Negli ospedali mancano i ventilatori polmonari, al personale si chiede di riutilizzare i dispositivi di protezione disinfettandoli, le ambulanze non riescono a stare dietro alle chiamate e non sempre, per chi riesce a farsi ammettere in ospedale, c’è una maschera di ossigeno pronta. La situazione è difficile, come nel resto del mondo. Ma la sovrappopolazione di Mumbai amplifica il dramma” ammette Gujala. La stampa indiana parla del 99% dei posti letto di terapia intensiva occupati in tutta la città, sui social media circolano immagini di pazienti costretti a dormire a terra o a condividere la maschera d’ossigeno, ma le autorità negano.

“La situazione è precipitata nell’ultimo mese e il picco non è previsto prima di fine giugno o inizio luglio. Ho lavorato in una struttura Covid fino a qualche settimana fa, ora invece sono stato assegnato a un ospedale non-Covid” spiega su richiesta di anonimato un giovane medico che lavora all’ospedale pubblico Bombay Muncipal Corporation. “Il problema è che è umanamente difficile fare fronte a tutto questo in una città così popolosa. Arrivano ambulanze con pazienti Covid e le giriamo su ospedali adibiti, ma questi sono strapieni. Amici e parenti mi chiamano per sapere dove trovare posti letto. Non so cosa rispondere”. La voce del medico suona prostrata: “Il monsone si sta avvicinando e questo per noi è sempre stato il momento di massima allerta, per il rischio di malattie come malaria, tifo, dengue. Che cosa succederà a quel punto? Non ci voglio pensare”, ammette, con una risata nervosa. “Con Mumbai emersa come focolaio nazionale per Covid-19 e i letti d’ospedale insufficienti, un altro potenziale disastro incombe dall’alto” concorda Abraham Mathai, direttore della Ong Harmony Foundation. “È la stagione che riempie gli ospedali della città ma nelle ultime settimane, quasi tutti sono stati trasformati in un strutture Covid, mentre gli altri ormai non ammettono pazienti sospetti. Due giorni fa un uomo di 62 anni è morto perché non ha potuto fare la dialisi per mancanza di un letto. Pazienti non Covid con problemi di cuore, reni o epatici sono morti nelle ultime due settimane per le stesse ragioni” continua Mathai, secondo il quale le autorità avrebbero dovuto incrementare il numero di posti letto nella megalopoli anni fa: “Ora perlomeno bisogna portarsi avanti sul monsone. Questa volta, non possiamo farci cogliere impreparati”.

Proteste in 30 città, Trump ai sindaci: “Usate l’esercito”

La mappa delle vittime di proteste e violenze che punteggiano l’America, dopo la morte dell’afroamericano George Floyd a Minneapolis ad opera della polizia, continua a infittirsi di omicidi, sparatorie, vandalismi. L’altra notte, un agente è stato ucciso e un altro è stato ferito da colpi di arma da fuoco a Oakland, California. A Detroit, Michigan, un ragazzo di 19 anni è stato ucciso da spari provenienti da un Suv e indirizzati contro una folla di persone che manifestavano. Nella scia della morte di Floyd, la cui agonia ripresa in video ha indignato il mondo, non brucia solo il Minnesota, ma 30 città in tutta l’America. Lo slogan resta #Blacklivesmatter, “le vite dei neri contano’’. Dalla Casa Bianca, rimasta brevemente in lockdown venerdì sera, quando centinaia di manifestanti si sono radunati a Lafayette Square, prima di muovere in corteo verso il Campidoglio, il presidente Trump (nella foto) alimenta la tensione con tweet incendiari: “Il sindaco di Minneapolis Jacob Frey non sarà mai scambiato per i generali McArthur o Patton… Come mai tutti questi posti che si difendono così male sono governati da democratici liberal? Siate duri e combattete (e arrestate i cattivi). Forza!”. Patton combattè i nazisti in Europa, McArthur i giapponesi nel Pacifico. Qui ci sono cittadini afro-americani furiosi perché uno di loro è stato ucciso. Neri della cultura, dello spettacolo, dello sport, si mobilitano: la popstar Taylor Swift dice a Trump “Ti manderemo a casa a novembre”; la tennista Coci Gauff posta “Sono io il prossimo?”. James McKennie, giocatore di colore dello Schalke04, scende in campo in Bundesliga con una la scritta “Giustizia per Floyd”, protesta anche il calciatore Mbappè. Trump dà ordine all’esercito di tenere unità di polizia militare pronte a essere impiegate. Il ricorso ai militari sarebbe un’escalation eccezionale nelle risposta delle autorità federali a tensioni razziali. Per placare gli animi, Derek Chauvin, 44 anni, l’“agente killer”, quello che nel video preme sul collo di Floyd, 46 anni, è stato arrestato, con i tre suoi colleghi, era stato già licenziato. L’Fbi indaga: l’autopsia ha per ora escluso che George sia morto per asfissia e/o strangolamento. La famiglia della vittima ne vuole una da un proprio perito. Chauvin rischia una condanna a 30 anni e la sua cauzione è stata fissata a 500 mila dollari. Una carriera non “pulita”: l’agente, in servizio da 20 anni, aveva già ucciso un sospetto, partecipato a una sparatoria letale e ricevuto 18 lamentele, due sfociate in sanzioni disciplinari. La moglie Kellie lo ha lasciato.

“Usa, società disintegrata. I neri trattati da animali”

Ancora una volta, il regista e autore marchigiano Roberto Minervini, da venti anni residente negli Stati Uniti, ha documentato con anticipo il degrado socio-politico e l’erosione dei diritti civili acquisiti a prezzo di lotte sanguinose dalle minoranze, specialmente quella afroamericana.

“Prima ci picchiavano, oggi ci sparano”, dice riferendosi ai poliziotti bianchi uno dei giovani protagonisti di colore del suo ultimo docufilm Cosa fare quando il mondo è in fiamme ? (coproduzione italo-francese-americana) , vincitore di due premi alla Mostra di Venezia del 2018. Mentre stava effettuando parte delle riprese a Baton Rouge, Minervini ha rischiato per due volte di essere colpito dalle pallottole – vere, non di gomma – sparate dalle forze dell’ordine nel tentativo di bloccare una manifestazione pacifica in memoria di Alton Sterling e Philando Castilo, soffocati a morte da altri agenti in divisa rimasti impuniti nel 2016, proprio come è accaduto a George Floyd, in una vicenda che ha provocato gli attuali scontri a Minneapolis e in altre città. “Non c’era nessun motivo di spararci addosso perché la manifestazione di protesta era del tutto pacifica. Ma nel clima aggressivo, per usare un eufemismo, generato da quattro anni di amministrazione Trump, la polizia si sente autorizzata a trattare gli afroamericani come animali”, dice dalla sua casa di Houston dove abita da anni.

Minervini, cosa pensa del fatto che le proteste del movimento Black lives matter nelle strade di Minneapolis abbia ottenuto la solidarietà ufficiale dei Boogaloo Boys, i suprematisti bianchi di destra armati fino ai denti il cui obiettivo scatenare la guerra civile contro il sistema cominciando dalla sua polizia ?

A mio parere questa non è solidarietà, anzi, è una strumentalizzazione della lotta sacrosanta contro il razzismo endemico portata avanti da Black Lives Matter e dalle Black Panthers (Pantere Nere). Questa falsa solidarietà dei suprematisti bianchi è piuttosto la dimostrazione della disintegrazione sociale degli Usa. Ormai qui siamo al paradosso, ma se facciamo un’analisi più approfondita questa apparente solidarietà dimostra quanto l’America non sia un Paese, bensì un’accozzaglia di razze che talvolta hanno fini comuni. In questo caso bruciare il sistema, non gli edifici, anche se il governatore del Minnesota sostiene il contrario.

Però è vero che sono state mandate a fuoco delle infrastrutture.

Questo purtroppo accade sempre quando la situazione diventa bollente. Ma come diceva Martin Luther King , “la violenza è il linguaggio degli oppressi”.

Che differenza c’è tra Black Lives Matter e le Black Panthers ?

Il primo è un movimento che si ricompone in occasione di eventi e proteste, ma non ha una linea programmatica. Le Pantere Nere invece sono un partito che si impegna innanzitutto per costruire un sistema di welfare per la popolazione afroamericana, come avvenne alla fine degli anni ’70 quando lo Stato della California e quindi il governo federale adottò il programma Wic messo a punto dalle Black Panthers di Auckland per garantire nutrizione adeguata alle donne e ai bambini di colore.

Nel suo precedente film Louisiana, quando ancora Trump era solo candidato alla Casa Bianca, lei mostrava anche un gruppo di paramilitari bianchi suprematisti che sparavano alla sagoma dell’allora presidente Obama e andavano a caccia di clandestini sul confine con il Messico. L’arrivo di Trump alla Casa Bianca ha incentivato questa categoria di criminali finti giustizieri ?

Sì, certo, e a causa del suo linguaggio arrogante e aggressivo, oltre ai suoi atti, ne ha fatto crescere il numero. Del resto Trump ha sostenuto le loro richieste di non istituire il lockdown. Il ciclo ora si ripete: durante la prima campagna elettorale Trump aveva puntato il dito sui pericoli che un bianco corre quando si trova nei ghetti delle metropoli americane. Nell’attuale campagna, Trump si è spinto addirittura a fare una vera e propria dichiarazione di guerra minacciando di mandare contro i gansta (i gangster di colore, nello slang americano) che stanno protestando, la guardia nazionale.

Cosa accadrà ora a suo avviso?

Non cambierà nulla, tutto rimarrà uguale, perché gli afroamericani e le altre minoranze non hanno una vera rappresentanza. Semmai peggiorerà: temo che Trump vincerà nuovamente le elezioni perchè molti continuano a ritenerlo un uomo antisistema, mentre Biden viene percepito come un suo esponente.