“3 euro a consegna? Non è scandaloso”

Per uno degli indagati della Flash Road City, per la quale teneva i conti e si occupava delle relazioni con Uber, nel valutare le condizioni dei rider pagati 3 euro a consegna bisogna tutto sommato “considerare il contesto”: “Non c’è regolamentazione, contratto di lavoro, associazioni di categoria… Uber ci pagava a consegna e dovevamo fare lo stesso con i ragazzi. Venivano da noi perchè lavorando direttamente per Uber, anche se con tariffe maggiori, si facevano solo 3 o 4 consegne al giorno”.

Ma con voi alcuni guadagnavano 20 euro al giorno, a volte meno.

Questo è un lavoro strano. Essere online però non vuol dire lavorare. Ci sono le ore di picco a pranzo e a cena, il resto del giorno non c’è lavoro. Lo stipendio da fame è dovuto all’impegno delle persone, non a Flash Road City che tratta da schiavi. A noi Uber dava 5,25 euro, il nostro margine di guadagno era ridottissimo. Non lo trovo scandaloso, secondo me è scandaloso che un medico o un avvocato quando piove usino la consegna gratuita per risparmiare.

Non è strano che moltissimi dei rider fossero migranti ospitati nei centri d’accoglienza?

Venivano da lì per il passaparola e lavoravano anche per le altre imprese di food delivery. Questi ragazzi li ho presi a cuore, ho anticipato soldi, mi chiamavano papà. Avevano vitto e alloggio nei centri; quelli bravi si portavano a casa 1.200 euro, quelli meno bravi 300 al mese. Dipendeva da quanta voglia avevano di lavorare.

Com’erano le relazioni coi manager italiani di Uber?

Ho avuto a che fare principalmente con due coppie di manager. La prima trattava i ragazzi come persone. Poi sono arrivati gli altri due: per loro erano numeri, puntini rossi che accendevano e spegnevano come volevano. Avevano degli obiettivi da raggiungere, tipo le 30.000 consegne settimanali. Quando ho chiesto un aumento a 6 euro per consegna, mi hanno risposto “visto che l’hai chiesto, lo abbassiamo a 5,25”. Il primo mese, quando le consegne erano poche, c’era il minimo orario garantito. Appena i manager sono cambiati, Uber ce l’ha tolto “perché sennò ve ne approfittate”. Poi hanno iniziato a toglierci le ore del pomeriggio (quelle in cui ci sono poche consegne, ndr). Ho anche scritto a Uber dicendo che non fosse possibile continuare così, “dovete pagarci di più sennò qui scoppia un casino”. Dopo l’email, nel 2019 ci siamo incontrati e lì ho capito che forse non era solo una questione di manager ma che era una politica dell’azienda.

Rider di Uber, capitolo 2 Inchiesta anche a Torino

Venerdì arriva la notizia del commissariamento di Uber Italy, scaturito da un’indagine a Milano per intermediazione illecita e sfruttamento per mano di un’azienda intermediaria: i rider sono sfruttati, a quanto pare, anche più di quel che si pensa. Ieri abbiamo scoperto un esposto alla procura di Torino non solo per le stesse ipotesi di reato (per l’Ansa il fascicolo aperto dal pm Vincenzo Pacileo potrebbe finire a Milano) ma anche per le stesse dinamiche e soprattutto per la stessa azienda: la Flash Road City.

Nei giorni scorsi, un pool di avvocati torinesi ha depositato un esposto in cui sei rider piemontesi che consegnavano i pasti a domicilio sotto l’insegna di Uber Eats hanno raccontato di essere stati sfruttati e sottopagati. Il racconto messo nero su bianco dagli avvocati è un déjà vu: l’azienda si presentava come un’agenzia di Uber e somministrava manodopera alla filiale italiana del colosso Usa. Con tutte le storture del catalogo: obbligo di accettazione delle consegne, anche a grandi distanze, minacce di licenziamenti, blocco dell’account se non si raggiungevano i target richiesti, multe di 50 centesimi a consegna se la percentuale di ordini accettati scendeva sotto il 95% . La paga? 3 euro a consegna.

In una prima fase – anche il caporalato digitale evolve – i contratti erano molto scarni: poche righe, l’indicazione dei tempi di pagamento e la minaccia di trattenere 80 euro se non si fosse riconsegnato il kit. “C’era il sollecito a lavorare continuamente, a non prendere pause. Il massimo concesso erano due ore per la chiesa la domenica”, spiega una fonte al Fatto. Le sollecitazioni arrivavano tramite messaggi Whatsapp, anche vocali. Messaggi rudi: bisognava essere online o Uber avrebbe chiuso, i manager si sarebbero arrabbiati, avrebbero perso il lavoro. Il reclutamento veniva fatto per strada: “Nelle piazze di Torino e di fronte alle grandi catene di fast food: la voce girava tra i rider, era l’azienda a volerlo”. L’obiettivo? Stranieri, richiedenti asilo, persone che avevano bisogno di rinnovare il permesso di soggiorno e di lavorare anche fino a 60-70 ore a settimana, con un riciclo continuo.

“Assistiamo sei ex lavoratori di Uber ma c’è un sommerso amplissimo di persone che lavorano in condizioni di estrema debolezza e che meritano giustizia – spiega l’avvocato Giulia Druetta, che fa parte del team che ha presentato l’esposto – Sapevamo che era stata aperta un’indagine a Milano. Le caratteristiche del lavoro a Torino erano simili, anzi, forse con l’arruolamento su strada la situazione era pure peggiore”.

Le ipotesi di reato sono diverse: “Relative alla tutela dell’integrità fisica e morale” e l’ipotesi che vi siano responsabilità “sia da parte di Uber sia, in concorso, di imprese satellite” (il commissariamento è stato disposto a Milano per negligenza nei controlli non per concorso nel reato di sfruttamento). “Il presunto trattamento dei corrieri impiegati da Flash Road City è riprovevole e inaccettabile – ha detto Uber Italia in una nota – avvieremo un’indagine interna per chiarire le eventuali responsabilità”.

Per Bova conta più il fisico del fisco

Quando l’ombra del dubbio lambisce gli eroi, si porta dietro l’ala del ridicolo. Quando Raoul Bova scrive a Luca Palamara “Ti prego di indagare su quella sentenza”, fa un gesto in fondo molto umano e molto medio (nel senso dell’italiano medio). Ma questo è il guaio, e spiega perché la preoccupazione maggiore di Bova non sia tanto la condanna per evasione, quanto il danno all’immagine. Oggi l’immagine è tutto per l’ultimo dei morti di Instagram, figuriamoci per un attore come Bova, re indiscusso del genere “fiction con Raoul Bova”. Presidiando la categoria di cui sopra è stato l’erede del commissario Cattani nella Piovra, il capitano Ultimo varie volte (gli ultimi non finiscono mai), un impavido veterinario antimafia (Il Testimone), San Francesco d’Assisi, padre Zaleski (Karol-Un uomo diventato papa), un ammirevole vice questore anti Brigate Rosse (Attacco allo Stato), un irriducibile maresciallo dei parà in Afghanistan (Fuoco amico), eccetera. Insomma, è come se tutti i busti del Pincio, più San Francesco, più padre Zaleski si fossero scoperti furbetti del Modellino redditi, con annessi commercialista di fiducia e santo in Paradiso. Alla faccia dell’immagine. Si dirà: ma la fiction italiana non racconta mica la realtà: la fugge, e sempre allo stesso modo. Già.

Quella patina di eleganza delle “App” cela la schiavitù

Se avete un minuto fate una visitina al sito frc.agency della Flash Road City Milano e vi troverete immersi nel design della più smagliante contemporaneità. Belle ragazze, i più celebri paesaggi metropolitani, offerte di recapito urgente e infine l’autoritratto: “A Milano ci sono più di 100 aziende riconducibili al servizio pony, nessuna però tranne noi investe ed ha investito in tecnologia per offrirvi questo servizio in un’APP”.

Sono gli stessi a cui la Gdf ha sequestrato 242 mila euro in contanti nascosti in una scatola da scarpe e altri 305 mila in una cassetta di sicurezza. Con la multinazionale Uber gestiscono servizi per 3 milioni di euro all’anno. È sotto questa patina d’eleganza che si cela la pratica del “regime di sopraffazione retributiva” e della “intermediazione illecita” che ha indotto il Tribunale di Milano a commissariare la filiale italiana di Uber. Retribuzioni di 3 euro a consegna anche di notte e nei festivi, sottrazione delle mance (non datele mai online!), minacce a chi protesta, blocco della app per i ribelli, forme di sorveglianza illegali.

Non è certo una sorpresa. A Milano come a Torino e nel resto d’Italia le piattaforme digitali della logistica prosperano fingendo di ignorare la giungla degli intermediari che sfruttano la manodopera più ricattabile. In altre parole, si arricchiscono grazie al lavoro povero, fingendo di ignorarlo.

Per usare le parole di un sociologo non certo sospetto di vetero-marxismo, la nostra inoperosa “società signorile di massa” – i cittadini italiani che non lavorano (52,2%) sono più di quelli che lavorano (39,9%) – affida servizi essenziali di cura, di food e di svago a una “infrastruttura paraschiavistica”. Il che, tra l’altro, spiega perché fra gli stranieri residenti nel nostro paese uno su tre versi in povertà assoluta.

Abbiamo perso la Trebisonda: danni da gelo in Turchia

In Italia – L’anticipo d’estate che domenica 24 maggio ha portato temperature di 32 °C in Sicilia ha lasciato spazio a condizioni più normali, perfino fresche tra l’Adriatico e il Sud, raggiunti da venti balcanici. Raffrescamento più esteso tra giovedì sera e venerdì, con temporali dal Nord-Est verso l’Emilia-Romagna e il Centro, e neve a 2.000 m sul Gran Sasso, tardiva ma non eccezionale; 15-40 mm d’acqua dal Bolognese al Casentino e alle Marche hanno alleviato un po’ una siccità che in Emilia orientale e in Romagna era ormai di entità storica per i primi 5 mesi dell’anno (tuttora Comacchio ha ricevuto appena 64 mm da inizio 2020, un terzo della media). Venerdì pomeriggio qualche danno si è avuto per tre trombe marine presso Ladispoli e Fregene (Roma), zona già gravemente colpita il 6 novembre 2016 (due vittime). Maggio si chiude oggi con 1 o 2 gradi in più della media da Nord a Sud.

Nel mondo – Negli ultimi giorni ha fatto insolitamente freddo in Europa orientale: circa 5 °C sotto media, in Turchia danni da gelo e nevicate tardive sui monti di Trebisonda. Sempre clima rovente invece dal subcontinente indiano all’Asia centro-settentrionale, punte straordinarie di 50 °C in India, 42 °C in Kazakistan e 34 °C in Siberia, e i ricercatori del servizio Eu-Copernicus temono che nei suoli artici russi si stiano rinfocolando incendi non estinti del tutto in inverno (zombie fires), residuo dei vasti roghi dell’anno scorso. Caldo eccezionale anche in Canada e New England: mercoledì, record per maggio di 36,7 °C a Montreal, e primato assoluto (per qualunque mese dell’anno) al Mount Mansfield, a 1204 m nel Vermont, con 29,4 °C. Nelle stesse ore “Bertha”, seconda tempesta tropicale della stagione in Atlantico, scaricava piogge torrenziali sulla South Carolina, e a Cape Canaveral (Florida) per il rischio di fulmini veniva posticipato a ieri il lancio della capsula Crew Dragon verso la Stazione spaziale internazionale. Alluvioni in Honduras, Emirati Arabi (4 vittime) e India nord-orientale (5 morti). In Francia termina la seconda primavera più calda nella serie dal 1900 (anomalia +1,8 °C) dopo quella del 2011; in Svizzera gli ultimi 12 mesi sono stati i più caldi dal 1864 (+2,1 °C) e finora il 2020 è un anno di soleggiamento record. In maggio si registra di solito la massima concentrazione annua di Co2 nell’aria, prima che la fotosintesi delle foreste boreali ne assorba temporaneamente una parte in estate: quest’anno l’osservatorio del Mauna Loa (Hawaii) ha rilevato una media mensile di 417,1 parti per milione, nuovo primato in almeno tre milioni di anni secondo le ricostruzioni paleoambientali, in aumento di 2,5 ppm rispetto al maggio 2019. Un incremento simile agli anni precedenti nonostante il calo di emissioni globali per il lockdown, che si stima potrà essere del 4-8% nell’insieme del 2020. Non deve stupire: infatti le emissioni sono solo un po’ diminuite per qualche mese, non si sono azzerate e già stanno tornando ad aumentare. La Co2 è un gas serra persistente che rimane secoli in atmosfera e continua inesorabilmente ad accumularsi da quando abbiamo iniziato a utilizzare i combustibili fossili, come l’acqua in una vasca da bagno con il rubinetto che per un paio di mesi è stato solo un po’ meno aperto. Carbonbrief.org prevede che l’aumento di concentrazione annua di Co2 tra 2019 e 2020 sarà di 0,3 ppm inferiore a quanto sarebbe avvenuto in assenza di Covid-19, un rallentamento insignificante se non ci saranno misure di decarbonizzazione a lungo termine. Quindi che la Terra si scaldi nonostante le momentanee restrizioni non dimostra certo che non sono le attività umane a influire sul clima… come invece ha titolato nei giorni scorsi un quotidiano italiano notoriamente negazionista.

 

Pentecoste Quei testimoni di Gesù risorto fino alle estremità della terra

Oggi è Pentecoste (dal greco “cinquantesimo” giorno da Pasqua), festa di gioia e ringraziamento sia nella tradizione ebraica sia in quella cristiana. Oggi la festa è velata dalle incertezze della pandemia che rende quindi incerto ogni presente, e ogni futuro. È una festa velata anche dalle incertezze che si vivono nei luoghi di culto, aperti, ma non ovunque, e con prescrizioni sanitarie che limitano e modificano abitudini di partecipazione e di fraternità, e anche i gesti delle liturgie e delle preghiere.

Pentecoste è la festa che conclude il ciclo liturgico iniziato a Pasqua. Gli ebrei ricordano il dono della Torah (Legge) sul Monte Sinai cinquanta giorni dopo Pasqua (da Pesach = passaggio, cioè l’esodo dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della Terra Promessa), ma anche la festività per le primizie del raccolto, caratterizzata dalla gioia e dall’offerta di un pane prodotto con il grano nuovo. I cristiani ricordano, come promesso da Gesù poco prima dell’Ascensione, il dono dello Spirito Santo sulle discepole e sui discepoli riuniti a Gerusalemme: “Improvvisamente si fece dal cielo un suono come di vento impetuoso che soffia, e riempì tutta la casa dov’essi erano seduti. Apparvero loro delle lingue come di fuoco che si dividevano e se ne posò una su ciascuno di loro. Tutti furono riempiti di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro di esprimersi” (Atti 2,2-4). Le “altre lingue” sono quelle parlate dai numerosi pellegrini di vari paesi della Mesopotamia e del Mediterraneo giunti in città per la grande festa (“li udiamo parlare delle grandi cose di Dio nelle nostre lingue”, Atti 2,11).

La comunità dei discepoli e delle discepole, ormai senza il Signore Gesù fisicamente presente, ma con lo Spirito Santo ben presente, si affaccia sul palcoscenico del mondo annunciando la proposta di vita e di speranza, nel presente e nel futuro, insegnata dal Maestro di Nazareth. Il mandato missionario – essere testimoni del Risorto fino alle estremità della terra (Atti 1,8) – inizia a concretizzarsi e la responsabilità di rispondere alla domanda: “Che cosa significa questo?” (Atti 2,12) caratterizzerà d’ora in poi ogni generazione di credenti.

Ma che cosa è successo esattamente a Pentecoste? Il racconto biblico riconosce che qualche cosa di particolare è accaduto, qualche cosa di miracoloso, un’origine che, secondo l’autore del testo, era l’unico modo in cui si potesse “spiegare” l’esistenza della chiesa. Nessuna spiegazione razionale, infatti, può rendere giustizia alla verità di come la chiesa abbia iniziato la sua esistenza e di come dei discepoli, un tempo timidi, abbiano trovato la voce per proclamare la proposta di vita di Gesù. Quello che sappiamo è che in quel giorno le porte si aprono e gli orizzonti si allargano per tanti uomini e donne. E per la prima volta, persone che non avevano mai sentito parlare di Gesù, ne sentono parlare, e decidono che può essere importante anche per la loro vita perché dona una libertà mai vissuta prima. Sì, perché a Pentecoste scende un vento rinnovatore che è lo Spirito di comunione, di amore, di servizio e, soprattutto, di libertà (“Il Signore è lo Spirito; e dove c’è lo Spirito del Signore, lì c’è libertà”, Corinzi 3,17). Non sempre la chiesa si atterrà a questo Spirito, a volte sarà fatta prigioniera da uno spirito diverso, fatto di arroganza e intolleranza, di potere e divisione. Ma a Pentecoste si ricorda quello Spirito originario e genuino che mosse i primi cristiani e cristiane ad assumersi la propria responsabilità di credenti al servizio dell’umanità e del creato. Nella speranza che quel miracolo si ripeta ancora oggi.

 

Due giugno, abuso di Patria e di bandiera

Gli anni servono. Ti ricordano come sono cominciate le cose. Un giorno del 1945 su un lato degli stradoni che tagliavano l’Italia in infiniti quadrilateri, prati senza fine e squarci di bombe, file di soldati tedeschi venivano verso Nord. Camminavano sparsi, trascinavano i piedi, le giacche delle uniformi aperte e senza insegne. Quelli della mia età vedevano per la prima volta soldati tedeschi senza armi. Andavano quasi allo sbando verso il Paese che li aveva mandati a occupare l’Italia con ferocia e violenza, fiancheggiati da collaborazionisti italiani che avrebbero combattuto con la Germania contro l’Italia. Erano gli sconfitti, gli esclusi dalla Storia.

Dall’altro lato di quelle strade scendevano a decine e decine di camion malandati carichi di uomini giovani, tutti in piedi e bene in vista. Di solito avevano in una mano il fucile (se eri di quei bambini che si arrampicavano sui camion per fare festa, ti accorgevi che erano armi vecchie e malridotte) e nell’altra una bandiera tricolore che sventolavano il più possibile, legata anche a tutte le sporgenze dei camion. Cantavano canzoni che quelli della mia età hanno imparato allora: nessuna invocava “il pugnale nella mano e la fede in fondo al cuore”, ma parole da coro alpino tipo “scarpe rotte e pur bisogna andar” e autocelebrazioni giovanili come “ogni donna ti dona il suo respir”. Erano i partigiani, che non hanno vinto la guerra ma l’hanno combattuta fino a morire a migliaia perché l’Italia (quella che potevano difendere lasciando il loro sangue) restasse libera, cacciasse chi l’aveva occupata e arrivasse orgogliosa fra i vincitori.

Mi serve ricordarlo perché la bandiera di quella vittoriosa rivolta di popolo era il Tricolore, la bandiera nazionale italiana. È vero che è la bandiera di tutti. È vero che unisce. Ma unisce chi sta con l’Italia, non con chi ha fiancheggiato l’occupazione, che è stata feroce e razzista. Ecco allora che il “fascismo dopo”, travestito in molti modi da partiti finti o nuovi ma che riconosci dal fiato cattivo e dal linguaggio, ha cominciato con alcuni espedienti basati sul furto: furto della memoria, furto delle feste nazionali della Liberazione e della Repubblica, furto della bandiera.

L’operazione è condotta con abilità e con la collaborazione dei media, che si tengono alla larga “per paura di offendere” , ma anche da partiti che sono pronipoti smemorati e distratti e anche un po’ opportunisti (non sai mai di chi puoi avere bisogno). Il furto della memoria è stato fino a ora il più praticato, sia per il fallimento del negazionismo (che costringe i praticanti a svelare la profonda radice razzista) sia per la facilità con cui i media, e parte della cultura, consentono di raccontare la Storia a rovescio. C’era, si dice e si lascia dire, un’Italia unita che è stata divisa dalla Resistenza, non difesa estrema contro l’occupazione, ma guerra civile ideologica e comunista. Negano che sia esistita un’Italia che la classe dirigente del tempo e la real casa hanno messo a disposizione del fascismo, che l’hanno spaccata prima con la violenza sanguinaria del regime e l’obbedienza persecutoria della “razza ariana”. E poi con la immensa devastazione della guerra nazi-fascista e dei suoi milioni di morti. Il furto della memoria serve a pretendere, con finta mitezza, che vi siano due Italie da riconciliare, ignorando sia il collaborazionismo con gli occupanti tedeschi, sia la Shoah, due delitti che hanno posto il fascismo contro la storia italiana e la conciliazione impensabile perché negherebbe l’esistenza e poi la fine del nazismo e del fascismo. Il furto di feste nazionali repubblicane (soprattutto il 25 aprile e il 2 giugno) da trasformare in celebrazioni comuniste dell’odio (la definizione di tutte le destre degli ideali della Resistenza) o in festicciole dei nuovi gruppi che intendono testimoniare e anticipare (con un po’ di camuffamento) il fascismo dei pieni poteri, del governo dell’uomo solo, del disprezzo per la Costituzione.

Ecco dove torna comodo il furto della bandiera, la bandiera con cui i partigiani sono scesi a valle, liberando l’Italia dai gagliardetti delle varie brigate nere omicide, dalle bandiere nere del fascismo collaborazionista (stragi tedesche incluse). In questo modo diventa strumento e simbolo di una nuova strategia “spacca Italia” anche la mascherina tricolore offerta da un giornale con l’intenzione di dare un segno di festa oil frequente passaggio delle Frecce tricolori pensato per essere incoraggiante. Il Tricolore smette di essere la bandiera dell’Italia riportata all’onore dai partigiani. Adesso viene sventolata con frenesia incontenibile (e diventa la mascherina di Giorgia Meloni) come se fosse la bandiera che finalmente torna con chi ha sconfitto l’Antifascismo e riportato la legge e l’ordine della morte in mare, e gli stessi canti del “non passi lo straniero” di quei giorni feroci.

 

Mail box

 

La nostra Franciacorta inquinata e tossica

Egregio direttore, a proposito di Franciacorta e di Ovest bresciano, terra di vini e di natura, troppe sono le insidie all’ambiente, per gravi e, a volte, criminali negligenze! Sì, in questo periodo si parla di morti per Coronavirus, ma non vogliamo dimenticare i tanti morti e malati per tumori, abitanti in queste terre, a causa di lavorazioni pericolose, di cave-discariche, di utilizzo di sostanze nocive in agricoltura e non solo. Questa terra, continuamente pubblicizzata per le sue coltivazioni e per il suo ambiente naturale, salta alla ribalta della cronaca per gli inquinamenti e per gli interventi edilizi che ne deturpano il territorio: insomma, c’è chi inquina, i cittadini e le cittadine muoiono e mai nessuno paga! Come le discariche in mezzo a colture di pregio, o il Lago d’Iseo inquinato, il fiume Oglio pure: quando tutto questo finirà?

Giovanni Pagani

 

Sono i piccoli gesti a renderci umani

Gentile redazione, questa è una piccola lettera inutile che parla di una storia piccola e forse inutile: in una piccola via del piccolo quartiere del Quadraro a Roma ci sono delle aiuole piccole. Alcune sono vuote, alcune hanno dei bellissimi alberi. L’altro giorno ho piantato una piccola pianta grassa in una aiuola vuota, la sera qualcuno l’ha sradicata e buttata ai piedi di un cassonetto. Ora mi chiederete: ma con la grande crisi economica e il Covid a chi importa di un fatto così “piccolo”? È proprio questo: una cosa piccola non è detto che sia insignificante. Anzi proprio un gesto così mi fa pensare alle persone che vivono vicino a me. Mi fa pensare che non siamo tutti uguali, e che non abbiamo tutti gli stessi diritti e valori.

C.

 

Diritto di replica

L’articolo pubblicato mercoledì sul Fatto, a firma di Gianni Barbacetto – “Gallera prima di Gallera: da papà Lions ad Arcore” –, riporta fatti riguardanti il sottoscritto che non corrispondono a verità. Vi si afferma che “il nome del fratello Massimo compare nell’elenco di Affittopoli, perché ha lo studio legale in un appartamento di Porta Romana di proprietà del Pio Albergo Trivulzio”. Tale affermazione è errata e priva di fondamento, lesiva del mio onore e decoro nonché della mia reputazione: non sono mai stato intestatario di alcun contratto di locazione di immobile di proprietà del Pio Albergo Trivulzio, né il mio nome è finito nell’inchiesta Affittopoli. Tra il 2007 e il 2011 ho svolto la mia attività professionale nell’immobile di C.so di Porta Romana n. 116/a, a Milano, a cui l’articolo fa riferimento, in forza di contratti di fornitura e di servizi (domiciliazione) stipulati con un avvocato del Foro di Milano. Tengo a sottolineare che il canone mensile corrisposto dal sottoscritto in quegli anni per una singola stanza di mq 15 (più l’utilizzo promiscuo di un’altra stanza di mq 5) era di 720 euro mensili dal 2007 al 2010 (8.640 annui), poi aumentato dal 2010 in €9.600 annui: un canone assolutamente in linea con i prezzi di mercato delle locazioni dell’epoca, e non certo “di favore”, come adombra, neanche tanto larvatamente, l’articolo. In ultimo, preciso che trovavo la suddetta collocazione per il mio studio legale tramite la bacheca online dell’Ordine degli avvocati di Milano, e che non ho mai intrattenuto rapporti professionali con il suddetto collega, di cui ignoravo la titolarità del proprio contratto di locazione con il Pat.

Avv. Massimo Gallera

 

I nostri errori

Nell’articolo di ieri intitolato “Difetti di trojan: non esiste traccia di una cena Pignatone-Palamara” abbiamo scritto che la procura di Roma ha segnalato al Gico della Guardia di Finanza che il trojan che intercettava Luca Palamara – secondo quanto previsto dalla legge – andava disattivato se c’era la consapevolezza di intercettare parlamentari in sua compagnia. In quel caso, infatti, non si sarebbe trattato di un’intercettazione casuale. Ovviamente non fu la procura di Roma a scrivere al Gico, ma quella di Perugia, che era competente per l’inchiesta su Palamara. S’è trattato di un lapsus calami del quale ci scusiamo con gli interessati e con i lettori.

A. Mass.

 

Nell’articolo di ieri dal titolo “Salvini, Lotti, i Renzi e B.: autunno caldo in tribunale”, abbiamo erroneamente scritto che l’udienza per Luca Lotti a Roma era fissata per ieri, 30 maggio. In realtà l’udienza si terrà il prossimo 30 giugno. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

Val. Pac.

Come L’ira del califfo colpì l’avventura dell’illustratore

Dalle Novelle apocrife di Gerard de Nerval. Il regno del califfo Abdul Hamid prosperava grazie ai turisti: i caravanserragli straripavano di infedeli ricchi e adiposi, che mogli petulanti trascinavano tutto il giorno per i vicoli della casbah a fare compere in negozietti e mercatini.

La notizia arrivò alle lussuose ville sul Bosforo, dove concubine leggiadre si annoiavano negli harem, poiché i mariti, rampolli di facoltose famiglie ottomane, passavano il tempo ai tavoli da gioco del casinò di Istanbul.

Una di loro, Aziyadé, che era fra le più impudenti, ebbe allora un’idea: perché non offrire a quelle mogli, curiose dell’Oriente enigmatico, la possibilità di farne un’esperienza completa? Un’agenzia turistica fu incaricata di organizzare il tour esotico negli harem inaccessibili, dove le straniere, per una cifra cospicua, potevano divertirsi a vestirsi e truccarsi come concubine, mentre queste si dilettavano allo specchio con l’ultima moda di Parigi portata dalle visitatrici: spalle scoperte e abiti lunghi, con un corsetto speciale che, grazie a un piccolo sellino imbottito, creava un vitino di vespa, un seno abbondante e un fondoschiena ben pronunciato.

Capitò a Istanbul un giovane poeta, inviato dall’Illustrazione italiana per intrufolarsi in un harem sotto mentite spoglie e rivelarne i segreti pruriginosi ai lettori della buona borghesia sabauda.

Sacrificati alla causa mustacchi e favoriti, il poeta, travestito da signorina torinese, scese al Grand Hotel, e fu incluso dall’agenzia turistica in un tour degli harem, insieme con una principessa di San Pietroburgo, la moglie di un commerciante di diamanti olandese, una cocotte di Parigi che viaggiava come contessa di Chateaubriant con un petroliere texano, e una suffragette spagnola che voleva distribuire volantini di emancipazione alle sorelle sfortunate, prigioniere dell’harem.

Il viaggio non fu lungo, ma la carovana era scomoda e torrida: una tortura, per il giovane poeta imparruccato e incipriato, seduto in abiti femminili, corsetto e Cul de Paris: sicché, quando arrivarono alla villa del califfo, aveva già un po’ di nausea.

Fra le concubine, l’atmosfera si fece presto intima. Le donne si scambiarono gli abiti con squittii deliziati. Temendo di essere smascherato, il giovane poeta se ne stava in disparte su un divano, mentre il sudore gli faceva colare il rimmel e gli scioglieva il fard.

La contessa di Chateaubriant, che l’aveva riconosciuto (frequentavano entrambi il cenacolo di Sainte-Beuve), lo osservava divertita. Il giovane poeta soffocava: svenne. Al risveglio, fu sorpreso dal tono della propria voce. Intuì il peggio, un’occhiata confermò. Le sue ospiti, disse la contessa, erano corse in suo aiuto e gli avevano slacciato il corsetto, scoprendo – orrore! – che fra di loro c’era un uomo.

Il gelosissimo califfo, una volta edotto, l’avrebbe cucito in un sacco e buttato ai coccodrilli; e con lui il capo degli eunuchi; che però risolse l’impasse con uno zac! di scimitarra. Esperienza completa. Or reso idoneo al gineceo, vi s’accasò / per educar le concubine al verso libero. A Treves, l’editore dell’Illustrazione, scrisse che s’era innamorato di una circassa favolosa, e non sarebbe più tornato.

 

Politica Piccola bottega degli orrori

 

“Quando Virginia Raggi spiega a Giuseppe Conte che quello appena illustrato dal presidente dell’Anci, Antonio Decaro, non è il solito cahier de doléances degli amministratori locali, è lì che dall’altro capo della call il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, non riesce più a trattenere l’insofferenza. ‘Basta col latino!’, sbotta”.

Paola Zanca, “Il Fatto Quotidiano”

 

Il “Regional Horror Show” di sindaci e presidenti nell’Italia del Coronavirus nasce da un mix tra frustrazioni della politica periferica e incontenibile voglia di notorietà, fomentata dagli ascolti delle dirette televisive del premier Conte. E dunque: se ha successo lui, possiamo averlo anche noi. Sull’exploit della tragicomica coppia lombarda, Attilio Fontana e Giulio Gallera, abbiamo riso anche troppo, mentre si piangevano migliaia di morti. Così come è superfluo ricordare i successi globali riscossi dal teatro macchiettistico del presidente campano Vincenzo De Luca. Del presidente del Veneto, Luca Zaia si è detto tutto il bene possibile, pure lui però tradito dalla voglia di strafare ha inanellato i suoi bravi strafalcioni. Ispirati a una evidente diffidenza nei confronti della Cina e dei suoi abitanti. Prima descritti come consumatori abituali di pipistrelli vivi (scuse immediate al governo di Pechino). Poi evocati nei versi tramandati da tale pensatore Eracleonte da Gela, da lui citato come esempio di mirabile preveggenza visto che già “nel 233 a.c.” si sarebbe scagliato contro “le genti che ci hanno donato un male nell’aria che respiriamo se siamo loro vicini”. Naturalmente, falso il filosofo, vero il pesce d’aprile, e scuse rinnovate. La new entry più recente è quella del presidente della Regione Sardegna, Christian Solinas che s’inventa un passaporto sanitario per i vacanzieri estivi provenienti da Lombardia e Piemonte, chissà lisciando il pelo al sogno indipendentista sempre vivo nell’isola (e facendo arrabbiare gli albergatori). Detto degli eletti della Regione Calabria, mentre l’Italia tutta s’interroga sul fosco futuro economico loro si regalano un vitalizio blitz (basta un solo giorno da consigliere per incassare un assegno), torniamo all’erudizione del sindaco di Venezia, Brugnaro. Che fa il paio con le incontinenze verbali del collega messinese, Cateno De Luca (promotore anch’egli di un passaporto, ma “degli innamorati per consentire ai fidanzati calabresi di raggiungere i propri amori siciliani e viceversa”). Come non ricavarne allarmanti interrogativi sulla qualità della classe politica locale andata al potere in questi anni? Dove, per fortuna, sono tanti gli amministratori animati da competenza e buon senso: spesso, guarda caso, proprio quelli meno presenti nelle passerelle talk. Ma come la mettiamo con quei personaggi che, coinvolti nella bufera Covid, più pretendono dallo Stato poteri (che non gli spettano) e meno se ne mostrano degni?

Ps. Non sapremmo invece come catalogare il presidente della Liguria Giovanni Toti che (come ieri riportato dal “Fq”) ad Elisa Serafini – assessore alla Cultura del Comune di Genova, dimissionaria per non sottostare a chi voleva imporle una mostra da sponsorizzare – risponde: “Ma in che realtà vivi? Per fare la rivoluzione bisogna saper fare compromessi, e per fare il bene talvolta saper coltivare anche il male. È politica. Sennò è testimonianza, uno fa il prete o il volontario!”.

Antonio Padellro