Ogni paziente costa 1.425 euro al giorno

Le lezioni per il futuro, ci auguriamo non lontano, arrivano anche dai conti economici. Mi riferisco alle spese del Servizio Sanitario Nazionale durante l’emergenza. È di questi giorni un primo bilancio. I 144.658 ricoveri effettuati e conclusi sono costati 1,7 miliardi di euro, di cui 1,4 miliardi per i ricoveri ordinari e 250 milioni per i ricoveri in terapia intensiva. Sono dati tratti dall’Istant Report Covid-19 dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Servizi Sanitari dell’Università Cattolica. Nello stesso documento viene evidenziato che il 33% si riferisce alla Lombardia. La valutazione è fatta in base ai cosiddetti Drg (costo medio di degenza) con una stima di 1.425 euro al giorno per singolo paziente. Non bisogna però dimenticare che le spese sono anche quelle per l’assistenza ambulatoriale, per l’attività nel territorio, per l’acquisto di strumenti medicali e per le assunzioni di medici e infermieri.

A questo conto già molto salato, dovrà aggiungersi la spesa sanitaria indiretta, cioè quella che verrà affrontata per curare patologie che si presenteranno o diventeranno più gravi a causa di mancata o scarsa assistenza sanitaria nel periodo Covid. La spesa sanitaria annuale del 2019 è stata di 116,331 miliardi di euro per 8.339286 ricoveri. Chi ha vissuto e sta ancora vivendo dentro questa tempesta perfetta sa che i disagi e gli stress per rispondere all’emergenza in una sanità pubblica così carente pubblica sono stati sovrumani. Abbiamo dovuto addestrare personale in tempi ridotti, ci siamo sottoposti a turni massacranti. Ci hanno chiamati eroi e ringraziamo, ma vorremmo non doverlo essere più. Vogliamo una sanità pronta all’emergenza, non un servizio da attrezzare improvvisamente, con tanti morti che avremmo potuto risparmiare. Vogliamo che tutti siano assistiti nel migliore dei modi senza mai dover scegliere chi abbia prioritariamente il diritto alla cura: e in tutta Italia, a prescindere dai confini regionali. Solo se avremo appreso questa lezione, quell’”eroismo” sarà ripagato.

Ora si va sul mercato, ma il progetto è una rete produttiva nazionale

Come ormai sanno anche i sassi in questa fase 2 o 3 bisogna tracciare i casi per evitare focolai incontrollati come quelli di febbraio. Per farlo, serve fare i tamponi o una intelligente combinazione tra test sierologici (rapidi) e tamponi di controllo per chi risultasse in contatto col virus. I sassi di cui sopra, però, sanno pure che oltre un certo numero di tamponi non riusciamo a fare perché mancano i reagenti: non tanto, insomma, i bastoncini che vengono infilati nel naso e nella faringe per poi essere analizzati, ma le sostanze chimiche che scoprono – grazie ad appositi macchinari – se su quei bastoncini c’è il Covid-19 o no.

Incredibilmente per chi ne avesse notato la scomparsa negli ultimi anni, la notizia è che sta tornando lo Stato: com’è già successo per le mascherine, l’idea del commissario straordinario Domenico Arcuri è creare una filiera di produzione nazionale, se possibile addirittura pubblica (questo in attesa delle pressioni della lobby farmaceutica, tra le più potenti al mondo).

Ripartiamo dall’inizio. Qual è il problema? Si chiederà il lettore. Ce ne sono diversi. Intanto alcuni macchinari usano solo un reagente, quello della casa che produce la macchina: Roche, Diasorin, Abbott, eccetera. Sono facili da usare, nel senso che producono il risultato in automatico, ma di questi tempi si incontrano parecchie difficoltà nel reperire i materiali: tutto il mondo sta cercando di comprarli. Poi ci sono altri macchinari, quelli “aperti”, che funzionano con reagenti “generici”, diciamo così: Il Fatto ha raccontato la storia dell’università di Firenze che ha prodotto in casa un reagente (adesso due) dei cinque che servivano all’azienda ospedaliera Careggi. Come fanno in Toscana, ma anche a Padova e a Perugia, ci si potrebbe fare i materiali da soli, ma servono comunque più macchine e il personale per usarle: questa seconda strada, infatti, richiede maggiore intervento umano. Per capirci, sul territorio nazionale ci sono 211 laboratori che processano tamponi per il Covid che usano 95 tipologie di prodotti.

Per capire cosa sta succedendo, partiamo dai numeri: all’inizio dell’epidemia l’Italia riusciva a fare 30mila tamponi al giorno di media, oggi siamo attorno ai 60mila (oltre un terzo, però, serve a controllare i malati, non a scovare nuovi positivi), la speranza del governo è arrivare a 90mila tamponi al giorno in un tempo breve. Come? Per ora grazie a una procedura che si dovrebbe concludere stasera. Il 12 maggio, forse con un certo ritardo rispetto al corso degli eventi, il commissario Arcuri ha avviato una call mondiale per cercare reagenti: “Sono un bene scarso nel mondo, in Italia ci sono pochi produttori e spesso non sono italiani”. Tradotto: i produttori hanno talmente tanta domanda che non riescono a soddisfarla e, aggiungiamo noi, possono fare il prezzo che vogliono.

Alla struttura commissariale sono arrivate offerte da circa 60 aziende, 45 delle quali offrono 34 prodotti compatibili con le procedure in uso nelle Regioni (che sarebbero responsabili dell’approvvigionamento): entro stasera, su quella lista, ogni singolo territorio dovrebbe indicare cosa e quanto gli serve; dalla prossima settimana si potrà iniziare a comprare i prodotti per portare attorno a 90 mila il numero dei tamponi processati ogni giorno. Numero che si ritiene sufficiente al livello attuale dei contagi.

Nella testa di Arcuri, però, c’è una seconda fase di questo disegno perché gli acquisti di domani non risolveranno la questione a lungo: “Questa call ha due obiettivi: uno tattico e uno strategico. Il primo è incrociare prodotti e fabbisogni, il secondo immaginare un modo per azzerare lo shortage, perché i reagenti saranno un bene scarso finché non calano molto i contagi. Dopo la call, credo che sia possibile pensare di dotare i laboratori di macchine innovative e aperte per ridurre la nostra dipendenza da uno specifico reagente e immaginare di iniziare una produzione nazionale come fatto per le mascherine”. Per farlo, aggiungiamo noi, servirà anche più personale, attenzione alle università pubbliche e la capacità di tenere il punto di fronte a un mercato che vorrà tornare business as usual.

NO reagenti? No tamponi: le Regioni alla fase 3

Signori, si riapre. Da mercoledì 3 giugno torna libera anche la mobilità fra le Regioni. Fondamentale, dunque, è la capacità di tracciare rapidamente i sospetti positivi. Ecco, ad oggi, con l’eccezione del Veneto, la situazione non è buona: mancano i reagenti per processare i tamponi e quindi il “testing” va a rilento. Qui la situazione nei territori più colpiti a partire dal disastro di Fontana e soci.

Lombardia. “L’altro giorno serviva un tampone d’urgenza, che deve arrivare entro 90 minuti se il paziente è grave. È arrivato dopo quattro ore, perché mancano i reagenti”. A confidare l’ordinaria emergenza di molti ospedali lombardi, è un medico del Papa Giovanni XXIII di Bergamo. La carenza dei reagenti per processare i tamponi c’è in tutta l’Italia, ma in Lombardia di più. “Le riserve scarseggiano”, spiega il biologo di un laboratorio pubblico regionale che chiede l’anonimato, “le consegne arrivano una volta alla settimana e sono sempre più incostanti”. E così il tampone viene dirottato ai privati. A pagamento.

Perché i reagenti sono merce rara? I motivi vanno dal sistema degli acquisti alla dipendenza da un pugno di monopolisti, fino alla mancanza di una efficace regìa regionale. Per processare i tamponi in maniera massiva, si usano robot i quali funzionano solo con i reagenti della società che li aveva venduti. È il “circuito chiuso”. Laboratori pubblici e privati utilizzano gli stessi robot: in un periodo di scarsa offerta diventano concorrenti. Solo che, mentre il privato può contrattare le forniture alla fonte, il pubblico dipende da Aria, l’Azienda regionale per gli acquisti. E così si perpetua il circolo vizioso: il pubblico non ha reagenti, dirotta i tamponi al privato, che li ha perché li acquista dai produttori, che non ne hanno più per il pubblico…

I fornitori possono decidere i prezzi e aspettare che le istituzioni si adeguino. Lo dimostra il bando da 42 milioni per l’acquisto di tamponi e macchinari emesso da Regione Lombardia il 17 maggio. Sei degli otto lotti erano “nominali”, cioè diretti ad altrettante società: Diasorin (costo unitario del test 27 euro, per 1,7 milioni complessivi); Arrow Diagnostics (13,60 a test, per 1,7 milioni), Elitechgroup (18 euro, per 2,2 milioni), Roche (13 euro, per 7,5 milioni), Abbott (26 euro, per 374 mila euro), Cepheid (32,5 euro, per 3,5 milioni). I lotti rimanenti erano destinati a fornitori di “sistemi aperti” ad alta produttività, che è un altro metodo, non vincolato a un’unica marca di reagenti: richiede più lavoro umano, ma facilita gli approvvigionamenti. Peccato che la Lombardia abbia aspettato fino a oggi per dotarne i propri laboratori: in Regione numerose società li vendono, ma non sono mai state contattate dal Pirellone. “È incredibile, perché noi riforniamo ospedali pubblici ed enti di mezza Italia”, racconta un biologo di una di queste aziende. Secondo il Pirellone i sistemi aperti sarebbero meno affidabili. Una verità smentita dai fatti, come dimostrano il Veneto e gli stessi laboratori privati lombardi a cui si affida la Regione.

Ma il Pirellone ha mancato anche nella gestione di quanto aveva già in casa. “Quando è iniziata la crisi in Lombardia a fine febbraio c’erano solo due laboratori hub autorizzati a fare i tamponi, il San Matteo e il Sacco”, racconta il biologo bergamasco, “a fine aprile erano diventati oltre 50, con dimensioni ed experties molto diverse”. Ma, allargando il numero si è polverizzata la fornitura dei reagenti: “E ora tanti laboratori arrancano e i tamponi vagano per la regione, inviati dove i reagenti ci sono”. Questo caos può essere espresso anche in numeri. La Lombardia non si è dotata di un obiettivo ufficiale di tamponi/giorno: oggi ne fa 12 mila circa, ma in rapporto alla popolazione se il Veneto punta a farne 30 mila , Fontana & Gallera dovrebbero arrivare a 60 mila.

Emilia-Romagna. Tredici laboratori, dei quali tre privati convenzionati, con una settantina di macchine di vario tipo – da quelle “proprietarie”, che richiedono il reagente specifico, a quelle “aperte” – e una capacità attuale di 9.300 tamponi al giorno. Oggi per l’approvvigionamento dei reagenti in Emilia-Romagna ogni laboratorio attiva i propri canali. La Regione ha stipulato un contratto con Hologic Italia per una fornitura a tre laboratori (Bologna, Parma e Pieve Sestina, in provincia di Cesena) capace di assicurare 480 mila test. Sono state acquistate anche cinque nuove macchine aperte in grado di processare i tamponi in tempi rapidi. L’obiettivo è arrivare a ottobre con una capacità di 15-20 mila tamponi al giorno. Si valuta un bando per acquistare i reagenti. Finora non va benissimo: dal 4 al 27 maggio l’Emilia-Romagna ha fatto 1.202 tamponi diagnostici ogni 100 mila abitanti contro una media nazionale di 1.343.

Veneto. La giunta di Luca Zia ha adottato subito il “sistema aperto”, ovvero un processo di analisi dei tamponi suddiviso in tre fasi distinte: estrazione del campione, distribuzione dei reagenti e lettura del risultato. È stata la scelta vincente del laboratorio di Microbiologia dell’Università di Padova, diretto dal professor Andrea Crisanti, che era preparato da tempo all’arrivo dell’epidemia. Tra gennaio e febbraio a Padova hanno acquistato reagenti per mezzo milione di tamponi. Questi quantitativi, impiegati da una nuova macchina in grado di ottimizzare il processo, sono aumentati fino a una capacità totale di 2,5 milioni (a fronte di 3,8 milioni fatti finora in Italia). Oggi in Veneto vengono processati tra i 9 e gli 11 mila tamponi al giorno, l’obiettivo è arrivare a 30-40 mila. Anche se la situazione non è omogenea in tutta la regione: a Verona, provincia con maggior numero di contagi, le macchine “chiuse” riescono ad analizzare pochi test e l’azienda ospedaliera ora tratta l’acquisto di una sofisticata macchina made in Usa in grado di accelerare il processo di elaborazione (abbattendo i tempi da 6 ore a 10 minuti) e diminuendo pure la quantità di reagenti necessari. Una è già in funzione a Padova, mentre quella destinata a Verona fino a pochi giorni fa era bloccata dalla dogana Usa. Nelle scorse settimane alcuni macchinari che da mesi lavorano ininterrottamente si sono guastati (uno a Treviso ha preso fuoco) causando un accumulo di 15 mila tamponi non processati: i tecnici, per far fronte all’imprevisto, hanno scelto di concentrare in una sola provetta 10 tamponi, analizzando solo la “miscela” aggregata delle diverse provette che solo in caso di positività richiede un’indagine singola, ma in caso contrario alleggerisce il lavoro. Ora l’arretrato è stato smaltito e le analisi in Veneto registrano un ritardo medio di 1 o 2 giorni.

Piemonte. “La situazione reagenti è sempre tragica. Arrivano col contagocce e spesso siamo abbastanza a secco: a volte, per questo, ci chiedono di fare meno tamponi”. Da quanto racconta un tecnico di laboratorio di uno degli ospedali di Torino, in Piemonte c’è ancora, anche se in dimensioni minori rispetto al passato, un problema di approvvigionamento. Secondo Roberto Testi, responsabile scientifico dell’unità di crisi della Regione, invece è tutto a posto: “C’è stato un problema in Italia perché quasi tutte le piattaforme lavorano con reagenti che vengono prodotti da una casa, la Termo Fisher, oggi in Italia in mano a Roche. Dunque qualche difficoltà l’abbiamo avuta, ma in Piemonte ci siamo salvati perché molte delle piattaforme con cui lavoriamo sono della Diasorin e abbiamo usato altri laboratori di biologia forense che si sono riconvertiti, mettendosi a fare tamponi e usando chimiche diverse di estrazione”. Insomma, a parte qualche caso minore tutto bene e ora “ci sono meno richieste di tamponi, perché i casi sospetti sono meno e perché in Piemonte la strategia è quella di fare più test sierologici: i tamponi li facciamo solo a chi è positivo al test”. Va detto che, seppur non è nella prima fascia, a maggio il Piemonte ha fatto molti più tamponi diagnostici ogni 100 mila abitanti della media nazionale: 1.675, oltre trecento in più.

La sergente Patty Baffi incastrerà Gallera a suon di selfie coi Vip

Non so cosa abbiamo fatto qui in Lombardia per meritarci tutto questo. Dev’essere ancora per quel rito dell’ampolla con l’acqua del Po o quella colletta pro Formigoni o Fedez&Ferragni che si lanciano la frutta al supermercato o l’indimenticato stand “Choco Kebab” (il kebab al cioccolato all’Expo). Di sicuro, per spiegare quel che ci sta capitando, c’è un peccato originale, una colpa atavica, un’eredità karmica da scontare. “Ve li siete votati voi”, potreste replicare. Ma in un mondo giusto la pena dev’essere proporzionata alla colpa: i lombardi non si meriterebbero Gallera, Fontana, la pm che dice che la Val Seriana doveva chiuderla il governo e Patrizia Baffi presidente della commissione d’inchiesta, neppure se fossero colpevoli del genocidio di tutti i milanesi mezzosangue pugliesi. Ed è proprio della Baffi che mi tocca parlare perché la sua nomina a presidente della commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza coronavirus è un altro tassello nel mosaico del malinconico disastro lombardo. Se il Covid nasce da un pipistrello che trasmette il virus al pangolino che lo trasmette all’uomo, qui Italia Viva è il pipistrello e la Baffi il pangolino, il serbatoio, il vettore tra passato e disastro futuro. La Baffi, va detto, era partita bene: non aveva votato la mozione di sfiducia del Pd contro l’assessore al Welfare, Giulio Gallera. Considerato che, secondo l’indice R0 locale, ci vogliono almeno 2 milioni di lombardi per trovarne uno che abbia una flebile fiducia in Gallera (come podista, non come assessore), la Baffi destava già qualche sospetto. Il fatto che all’ultimo momento si sia candidata a presidente della commissione e sia stata votata solo dal centrodestra e da sé stessa, genera un ulteriore sospetto, ma di quelli vaghi, appena accennati. In realtà il centrodestra l’ha votata perché, forte della sua onestà intellettuale, sa che troverà nel sergente Baffi un irriducibile, spietato rottweiler che azzannerà Gallera e Fontana alla giugulare finché non ammetteranno i loro inciampi.

Non è da Instagram che si giudica un giocatore, lo so, ma già dalle sue pagine social la Baffi rivela il suo distaccato rigore, quella freddezza istituzionale che fa sentire noi lombardi in una botte di ferro. Rassicurante quella foto sorridente con Fontana e la scritta “Noi ci fidiamo di te”. Scritta profetica almeno quanto “Grillo faccia un partito poi vediamo quanti voti prende!” di fassiniana memoria. Rassicuranti anche le numerose foto con Gallera (lei e Gallera in Regione che sorridono al fotografo, lei e Gallera che inaugurano la nuova cardiologia a Codogno, lei e Gallera al festival delle eccellenze agroalimentari, lei e Gallera alla Cooperativa Amicizia di Codogno), giusto a ribadire il concetto da lei stessa espresso di essere stata votata dal centrodestra “perché la mia persona è stata considerata un elemento di garanzia”. E in effetti elemento di garanzia lo è eccome. Più garanzia di così! Che poi sia un presidente di commissione, lo si intuisce dalla coerenza con cui giudicava la Regione in tempi non sospetti. “La Lombardia non utilizzi le Rsa per i pazienti Covid. Ritengo opportuno modificare in tempi brevi la delibera che indica le case di riposo tra le strutture abilitate a ricevere i pazienti positivi!”, scriveva infervorata il 6 aprile su Instagram. “Con onestà intellettuale, non è stato quella delibera a causare tutti quei morti”, dichiarava invece il 27 maggio con onestà intellettuale dopo che con onestà intellettuale era stata eletta presidente della commissione per indagare con onestà intellettuale anche sulla gestione delle Rsa. Ma noi ci fidiamo del sergente Baffi. Quella stessa Baffi che il 29 febbraio, con onestà intellettuale, commentava su Instagram un articolo sui contagi a Codogno: “Sulla base di quanto sostiene anche Repubblica, l’esistenza di un contagio sfuggito al controllo e alla prevenzione delle autorità è la vera ragione dell’attuale crisi”. Insomma, sono almeno tre mesi che è consapevole delle origini del disastro lombardo: ora, con onestà intellettuale, non dimenticherà le sue intime convinzioni. In attesa della sua aspra, fiscale, rigorosa inchiesta, coltiviamo certezze sulla sua austera gravità scorrendo i suoi selfie mentre scruta l’orizzonte dal Pirellone, i suoi selfie allo specchio in abiti di pizzo nero, i sui selfie con Renzi, Gori, Sala, financo Guerini, nonché il selfie alle sue gambe e la foto a uno schermo tv col suo primo piano ad Antenna3, tanto per fermare i momenti che contano. Ma ciò che più di tutto mi ha rassicurata sulla solidità intellettuale e culturale della Baffi è la foto col presidente Conte corredata dal commento lapidario, solenne, autorevole: “Siamo nati lo stesso giorno, 8 agosto, non potevo non dirglielo”. Seguono emoticon sorridente e tag a Conte, che ovviamente avrà subito chiesto un consulto a Branko per approfondire le affinità astrologiche con la Baffi. Cosa avremo fatto di male noi lombardi per meritarci tutto questo, resta mistero fitto. Mi sa che chiedo anch’io a Branko.

Ecco gli incubi dei medici “Rumori, serpenti e lupi”

Ci siamo tutti ancora dentro fino al collo. Ci sentiamo dei disadattati”. A riassumere l’emozione collettiva, la difficoltà di elaborare un’esperienza tanto totalizzante, quanto terrificante, è il medico di un Pronto soccorso del Nord. Uno che in prima linea c’è stato davvero. Eroi li hanno chiamati, i medici e gli infermieri, mentre partivano gli applausi dai balconi. Alcuni sono morti. Molti sono precipitati nei disturbi post traumatici da stress. O lottano contro l’impossibilità di dormire. Alcuni, ancora, hanno fatto errori che non si scrolleranno mai di dosso. Altri, si sono imboscati. Oggi sono già finiti in una sorta di corsia secondaria, vittime di una specie di rimozione collettiva che potrebbe addirittura metter loro addosso uno stigma. Nel terrore delle denunce contro il loro operato che stanno cominciando ad arrivare. Mentre cercano di recuperare la memoria di quei giorni. Anche attraverso i sogni. Soprattutto gli incubi.

“Sognavo animali aggressivi che mi venivano incontro e non mi facevano mai niente di male. Sogni ricorrenti: una volta era una tigre. Una dei lupi”, racconta Susanna De Pascalis, 39 anni, medico di Pronto soccorso a Bologna. “Un’altra volta, un incendio: uscivo e vedevo tutto a fuoco e fiamme, ma casa mia e io non eravamo stati intaccati”. Straniante rimanere in qualche modo al riparo dal disastro. “Me le porto dietro tutto il giorno queste immagini. Con un turbamento fortissimo”. Nel tempo libero fa anche la fotografa. Due anni fa aveva realizzato un progetto sul burn out. Premonitore. “Ho fatto anche un sogno bello. Percorrevo, ballando con la mia migliore amica, una sorta di navata. Stavo andando a sposarmi con uno, che nella realtà non conosco. Erano tutti contenti”.

Anche Angelo Farese, infermiere al Pronto soccorso del Cto di Napoli, 40 anni, nel tempo libero fa il fotografo. “Precipitavo in una sorta di dormiveglia abitato dalle immagini di quando stavo in Sierra Leone, con Ebola. Sempre la stessa scena: io che entravo nella zona rossa, il portone che si chiudeva alle mie spalle. Poi, la terapia intensiva, 60 gradi, dove sentivo solo il fruscio della tuta e il respiro un po’ affannoso sotto la maschera. Qui è peggio che lì. Forse perché non sono solo: la mia compagna è incinta”.

Tornano pure le immagini ataviche. Come i topi, che irrompono sulla scena, all’inizio de La Peste di Camus. “Mi svegliavo 5 o 6 volte per notte. E quando dormivo, precipitavo in una stanza buia, piena di ratti da tutte le parti”, racconta Fabio De Iaco, primario del Pronto soccorso dell’Ospedale Martini di Torino. Anche per Miriam Bonora, 45 anni, medico del nuovo Covid Dea di Lecce, le immagini oniriche prendono le forme di animali persecutori o di miracoli salvifici. “Topi giganti che abitavano la mia casa e banchettavano nella mia cucina… il mio sguardo impietrito quando i nostri occhi si incrociavano e l’inizio di una corsa senza sosta per sfuggirgli. Serpenti gialli lunghissimi che mi avvolgevano e mi soffocavano. Amiche di vecchia data morte, vestite di rosso su letti pieni di fiori… le mie lacrime e poi il loro risveglio con l’immagine finale di me seduta accanto a loro sulla sedia a rotelle”. Colpisce il rumore che non dà tregua negli incubi di Cristina Savio, primario del Pronto soccorso di Gavardo (Brescia): “Il rumore, telefoni che suonavano, monitor… il rumore, gente che parlava, infermieri che chiamavano, le sirene delle ambulanze che si spegnevano appena fuori… il rumore ed io che non riuscivo a sentire le parole del mio paziente e mi avvicinavo al casco, mi toglievo la mascherina ma sentivo solo rumore”.

Nella notte tra il 7 e l’8 marzo, Francesca Mangiatordi, 46 anni, medico del Pronto soccorso di Cremona, scattò la foto dell’infermiera addormentata che ha fatto il giro del mondo. Oggi dice: “Non riesco a guardarla. Mi ricorda troppo quel periodo. Mi resta una sensazione perennemente fuori tempo. Il mio sogno è quella foto”. A proposito di memoria.

L’esplosione dei casi, il peso degli industriali, i ritardi e la strage

Per capire l’emergenza Covid-19 in Italia bisogna capire che cosa è successo in Lombardia. E per capire che cosa è successo in Lombardia bisogna capire che cosa è capitato ad Alzano Lombardo, Val Seriana, 14 mila abitanti, a 6 chilometri da Bergamo. Nell’ospedale locale, il Pesenti Fenaroli, il 23 febbraio 2020 vengono individuati i primi due casi Covid della zona. Le scelte fatte e le decisioni non prese in quelle ore spiegano forse il dilagare dell’infezione verso Bergamo, poi verso Brescia, infine verso Milano. Questo è il calendario dell’orrore.

21 febbraio: primo caso di coronavirus individuato a Codogno. Il giorno dopo il governo chiude in “zona rossa” dieci Comuni del Lodigiano e Vo’ Euganeo, Padova. Nella notte tra venerdì 21 e sabato 22 febbraio, muore una anziana signora, Angiolina Z., arrivata all’ospedale di Alzano il 12 febbraio per scompenso cardiaco. Si spegne però per polmonite e crisi respiratoria. Altri due pazienti ricoverati nello stesso reparto, un ex camionista di Nembro, Franco O., e un pensionato di Villa di Serio, Tino R., in quelle ore diventano ufficialmente i primi malati Covid-19 del focolaio di Alzano. Tino R. viene sottoposto al tampone il 21 febbraio. Sabato 22, l’esito: positivo. Non avvisati i parenti, il personale dell’ospedale, il ministero della Salute, a cui dev’essere data comunicazione dei casi pandemici. Domenica 23, nel pomeriggio, viene chiuso il Pronto soccorso. Ma solo per poche ore. Poi riapre, dopo una sanificazione leggera, realizzata internamente. Senza la creazione di percorsi e ambienti differenziati per i sospetti Covid. A ordinare la riapertura sono il direttore sanitario della Asst Bergamo Est Roberto Cosentina e, su su, il direttore generale della Asst Francesco Locati e il direttore generale della sanità lombarda Luigi Cajazzo, braccio operativo dell’assessore Giulio Gallera. Contrario il direttore medico del presidio ospedaliero di Alzano, Giuseppe Marzulli. Un dipendente della Asst racconta alla giornalista di Tpi Francesca Nava: “Marzulli, era chiaramente contrario e si è espresso più volte in questo senso. Quel lunedì 24 febbraio io ero in servizio e dal suo ufficio lo si sentiva urlare con la direzione generale, la direzione sanitaria, la direzione strategica di Seriate che gli hanno imposto la riapertura”. Lunedì 24 febbraio, infatti, l’ospedale riprende l’attività di sempre. Nei giorni seguenti, l’ecatombe. Muoiono pazienti, famigliari dei ricoverati, visitatori. Si ammalano il primario, medici, infermieri, portantini, pazienti, parenti, visitatori. Sono 170 i contagi ad Alzano, 200 nel vicino paese di Nembro. Oltre 2.300 i morti nella provincia di Bergamo.

Martedi 25 febbraio, Marzulli scrive ai suoi superiori: “È evidente che in queste condizioni il Pronto soccorso di Alzano non può rimanere aperto… Ritengo indispensabile un intervento urgente”.

Non arriva. Intanto il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, invita a non fermare la città e a uscire a cena (Da Mimmo). Istituisce un biglietto speciale per far arrivare a Bergamo dalle valli visitatori per la Fiera dell’Artigianato del 1 marzo. Il presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti, preme affinché non venga fermata la zona di Alzano che, a differenza di quella di Codogno, è zeppa di attività produttive: 376 aziende, 4 mila lavoratori, 680 milioni di fatturato. Il sindaco di Milano Giuseppe Sala il 27 febbraio rilancia il video #milanononsiferma e posta su Instagram la foto del suo aperitivo sui Navigli.

1 marzo, Fontana annuncia: “Da stamattina siamo in collegamento con il presidente del Consiglio, per arrivare a un decreto che dovrebbe dettare regole”. 2 marzo: l’Istituto superiore di sanità propone la creazione di una “zona rossa” per isolare il “cluster” infettivo di Alzano e Nembro. Per tre giorni, dal 2 al 5 marzo, duecento poliziotti e carabinieri fanno base all’Hotel Continental di Osio Sotto, pronti a chiudere la “zona rossa”. La Regione, che potrebbe decretarla subito, aspetta le decisioni del governo. Il governo decide domenica 8 marzo: chiude non il focolaio di Alzano e Nembro, ma l’intera Lombardia, dichiarata “zona arancione”. Ma oramai il contagio è dilagato.

Chat Palamara, anche De Sensi lascia il Csm

Prima “cacciata” dal Csm, dopo le chat di Luca Palamara, l’ex consigliere indagato per corruzione a Perugia, pubblicate dal Fatto in queste settimane. Lascia Palazzo dei Marescialli il magistrato segretario Baldovino De Sensi, di Magistratura indipendente, la corrente di destra di Cosimo Ferri, ora deputato renziano, un dominus delle nomine come Palamara che però è di Unicost, corrente centrista.

De Sensi, nella primavera del 2018, ha provato ad avere l’appoggio di Palamara, ancora consigliere, per diventare vicesegretario generale del Csm, provando persino a fare lo sgambetto al Quirinale che aveva indicato Gabriele Fiorentino. Non un’invadenza quella del presidente della Repubblica e del Csm, perché quella è un’alta figura amministrative con la quale interloquisce spesso e la cui nomina avviene su proposta del Comitato di presidenza del Csm, ora formato dal vicepresidente David Ermini e dai due capi di Corte, Giovanni Mammone e Giovanni Salvi. Il 28 aprile 2019 De Sensi, fallito l’obiettivo, punta a diventare capo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria (Dog) del ministero della Giustizia. “Parla con Giovanni (Legnini, ex vicepresidente, ndr) e fatemi andare al posto della Fabbrini (Barbara, capo del Dog, ndr”), dice De Sensi a Palamara. Ancora: “Cerca di capire se mi devo muovere con la Lega”. Niente da fare, resta magistrato segretario al Csm e, su sua richiesta, il 5 marzo scorso il plenum del Csm delibera il rientro in ruolo di De Sensi, a L’Aquila, sede disagiata. Per carenza di magistrati segretari, però, il Comitato di presidenza chiede al ministero della Giustizia una “presa di possesso” posticipata di 6 mesi. Ma lunedì scorso Il Fatto pubblica le chat e giovedì il Comitato di presidenza decide che De Sensi non può restare al Consiglio, neppure per 6 mesi. Quindi, in silenzio, manda una lapidaria lettera al ministero “Revocata richiesta di posticipato possesso”.

La suggestione. La soluzione è ancora grillo (o un’artista)

Già molti elettori dei 5 Stelle non avevano gradito l’esperienza di governo con Salvini, poi adesso, dopo l’accordo con il Partito democratico, altri ancora si sono ritratti e si mantengono in attesa, guardano come vanno le cose. Sono i cosiddetti “elettori disponibili”, ma per convincerli a venire dalla propria parte bisogna saper fare loro una offerta credibile ed è quello che il Pd in questi mesi non è riuscito a fare, forse perché cerca solo di salvare quel che si può salvare di questo governo.

All’interno del Movimento 5 Stelle servirebbe una figura “trascinante” per riprendersi quegli elettori delusi. Uno come Di Battista è in grado di “fare l’offerta” agli indecisi, ma di certo non si tratterebbe di un’offerta di governo. I 5 Stelle hanno avuto la fortuna di trovare Giuseppe Conte, ma il presidente è un governante, non credo farebbe il leader per raggiungere i consensi e gli elettori. C’è poi un altro aspetto: questo tipo di attività politica la si fa di solito a ridosso delle elezioni, esporsi adesso sarebbe rischioso per chiunque e si creerebbero dei conflitti interni.

Anche per questo motivo chi potrebbe mettersi in gioco è Beppe Grillo: non c’è dubbio che abbia la capacità di trainare i 5 Stelle e in questi anni non ha perso prestigio tra i suoi. Certo dipende da quanta voglia avrà lui, ma credo non abbia smesso di ritenere il Movimento una sua creatura e dunque se fosse necessario aiutarlo potrebbe tornare in campo. Più difficile proiettare a livello nazionale Chiara Appendino, anche se l’idea di affidare la guida a una donna è certamente importante: dentro al Movimento, però, credo ci siano altre esponenti che aspirerebbero alla leadership e non sarebbe facile gestire le spaccature. Nel caso scegliessero una donna, se posso dare un suggerimento ai 5 Stelle, cercherei un’artista, qualcuna che parta con una visibilità pregressa. Magari un soprano come Cecilia Bartoli, con la quale mi scuso immediatamente per averla coinvolta in questa suggestione.

Recupero difficile. Una conferma: l’elettorato m5s non è di destra

Il fatto che pochissimi elettori delusi dal Movimento 5 Stelle si siano spostati verso la Lega o Fratelli d’Italia conferma il fatto che non fossero per niente fascisti o riconducibili a quella destra rozza, come in molti dicevano. Ho sempre pensato che l’elettorato dei 5 Stelle avesse una venatura libertaria, ambientalista, di certo molto diversa da quei partiti, anche se poi su alcuni temi – come l’immigrazione – possiamo dire che non prevale la sensibilità nei confronti di temi umanitari.

Ma Salvini e Meloni pescano in quello che una volta era soprattutto elettorato berlusconiano, i 5 Stelle si sono invece formati in aperta ostilità con quell’esperienza politica.

Passare da movimento di protesta radicale a forza di governo ha danneggiato i consensi dei grillini, perché la mediazione comporta una serie di docce fredde all’elettorato. Lo abbiamo visto sul Tav o sull’Ilva, per esempio: il primo indicato come simbolo dello spreco di denaro pubblico e dello sfruttamento del territorio, la seconda indicata come “assassina”. Eppure sono proprio questi temi identitari quelli che potrebbero aiutarli a recuperare consensi, insieme alla capacità di far sentire rappresentata quell’Italia sacrificata delle periferie e del Sud. Certo, a l’è dùra, come dicono in Val di Susa, perché manca un leader a cui affidarsi. Non lo è Di Battista e non credo lo sia neanche Chiara Appendino, nonostante io non sia tra quelli che le gettano la croce addosso per la sua amministrazione a Torino. Ma in generale sono molto scettico quando i sindaci si propongono come leader nazionali. Basti ricordarsi cosa è successo quando ci ha provato l’ex sindaco di Firenze.

Certo ci sarebbe Giuseppe Conte, che è stata una sorpresa e ha dimostrato statura notevole, ma non so se sarebbe il profilo giusto per gestire il Movimento: mi sembra una persona adatta a stare al di sopra della mischia, indicato per un ruolo di mediazione ma non alle prese con la leadership di una forza politica.

Giorgia si sente quasi Mattarella: voleva salire al Milite ignoto

Ha alzato il tiro, Giorgia Meloni. E ha puntato a una cerimonia che spetta alle istituzioni nazionali e non ai capi di partito. La fondatrice di Fratelli d’Italia avrebbe voluto deporre una corona d’alloro al milite ignoto, in fondo alla scalinata dell’altare della Patria, il monumento iconico di Piazza Venezia nel cuore di Roma. E avrebbe voluto farlo il 2 giugno, il giorno della Festa della Repubblica. Quest’anno infatti non ci sarà la tradizionale parata delle forze militari, per il solito, ovvio motivo di nome Covid. Ci sarà però la manifestazione della destra contro il governo Conte, che vedrà sfilare insieme i tre partiti guidati da Meloni, Salvini e Tajani: FdI, Lega e Forza Italia.

È in questo contesto che i leader dell’opposizione avrebbero voluto compiere il gesto simbolico della corona. Una cerimonia che però da sempre spetta al presidente della Repubblica, il rappresentante del popolo italiano intero, non solo di quella parte che martedì scenderà in piazza . Per questo motivo la richiesta, arrivata al ministero della Difesa su carta intestata di Fratelli d’Italia e firmata personalmente da Meloni, è stata respinta dal cerimoniale di Palazzo Chigi, dove l’iniziativa dell’ex ministra è stata accolta con sconcerto e disapprovazione. Un confronto non propriamente cordiale che ha spalancato la polemica tra le strutture della presidenza del consiglio (e indirettamente Giuseppe Conte) e la leader di Fratelli d’Italia. Meloni ieri pomeriggio ha diffuso questo comunicato: “Apprendo dalla STAMPA (il maiuscolo è nel testo originale, ndr) che sarebbe stata rigettata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri la nostra richiesta di deporre, insieme a Salvini e Tajani, una corona di alloro al Milite Ignoto, al termine della manifestazione che abbiamo organizzato per il 2 giugno. Al di là delle ragioni del diniego, che non conosco, è normale che ai giornalisti venga comunicato prima che a noi? Questi i metodi di Palazzo Chigi”.

Fonti di Fratelli d’Italia aggiungono che la risposta ufficiale del ministero della Difesa sarebbe arrivata solo ieri in serata, verso le ore 20, e che il diniego sarebbe stato spiegato con una generica “impossibilità tecnica”. La cerimonia guidata da Meloni era prevista per le 11, due ore dopo quella tradizionale di Sergio Mattarella. Per gli ex missini, insomma, non ci sarebbe stato nessun vero impedimento materiale a giustificare il rifiuto: si tratterebbe solo di uno sgarbo politico. Palazzo Chigi replica gelido: “È una prassi. Quell’omaggio spetta al capo dello Stato”.

L’episodio è comunque una spia di questa fase che Meloni sta vivendo ormai in “trance agonistica” (la staffetta di interviste ai grandi giornali, il cambio di linguaggio sull’Europa, la sfida ormai concreta e credibile a Salvini per l’egemonia a destra, i sondaggi sempre più positivi).

Gli ultimi numeri pubblicati ieri da Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera sono, per lei, i migliori di sempre: Fratelli d’Italia arriva al 16,2% (in crescita di due punti abbondanti nell’ultimo mese) e la Lega di Salvini continua il suo declino scendendo al 24,3%. Il partito della Meloni ora è a un passo dal Movimento Cinque Stelle, che conserva un solo decimale di vantaggio (16,3%). L’ex ministra punta anche all’elettorato grillino in libera uscita: il 26,2% di chi aveva votato M5S alle Europee dello scorso anno oggi è sul mercato politico, indeciso. Ma questa è un’altra storia.