La Corte dei Conti: così hanno distrutto la sanità sul territorio

D a un lato “la concentrazione delle cure ospedaliere in grandi strutture specializzate”. Dall’altro anni di tagli alla spesa che hanno causato “una sostanziale debolezza della rete territoriale”. Quella che avrebbe dovuto fare da argine all’ondata di malati che, specie al Nord e in Lombardia in particolare, ha investito pronti soccorso e reparti durante la pandemia di Covid-19. Una politica che, si legge nel Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica della Corte dei Conti, “ha fortemente pesato sulla gestione dell’emergenza sanitaria” e “ha lasciato la popolazione senza protezioni adeguate”.

Quattro segni “meno” – spesa pubblica, personale, ospedali e strutture territoriali, investimenti – quelli rilevati dai giudici contabili. A livello nazionale, scrivono, la spesa diretta delle famiglie è cresciuta dal 2012 al 2018 del 14,1%contro il 4,5% di quella delle P.a. Nel frattempo la forza lavoro nella sanità è diminuita. In 5 anni i dipendenti a tempo indeterminato di Asl, aziende ospedaliere, universitarie e Irccs pubblici sono passati da 653 mila a 626 mila, per un taglio di 27 mila posti (-4%). Nello stesso periodo il personale flessibile è aumentato solo di 11.500 unità. I tagli maggiori? Nelle Regioni sottoposte a un piano di rientro dei costi (a Molise, Lazio e Campania “sono riferibili riduzioni tra il 9 e il 15%”), mentre tra le altre a tagliare di più sono state Liguria (-5,4%), Piemonte, Emilia e Lombardia (tra -3,7 e -3,3%). E la scure si è abbattuta anche sui posti letto, scesi dai 230.396 del 2012 ai 210.907 del 2018, soprattutto a causa della chiusura dei piccoli ospedali.

“Ma quanto il processo di riduzione dell’assistenza ospedaliera si è tradotto in un ampliamento di quella territoriale?”, domandano i giudici. La risposta è nei fatti. I medici di medicina generale – prima linea contro il Covid – sono passati da 45.437 a 43.731. Una flessione del 3,8% a livello nazionale, ancor più accentuata nelle Regioni non sottoposte a un piano di rientro e nei territori più falcidiati dal virus: -5,6% in Lombardia, -6,4% in Piemonte, -5,3% in Veneto, -4,7% in Emilia, -6,5% nelle Marche, -8,9% in Liguria. Nello stesso periodo la scure si è abbattuta sulle guardie mediche: se le strutture sono aumentate del 5,9%, i dottori che ci lavorano sono passati da 12.027 a 11.688 (-2,8%). Anche in questo caso la flessione maggiore è stata registrata nelle Regioni più sane dal punto di vista economico (-5,1%) e in alcune di quelle più colpite dall’emergenza: -8,8% in Lombardia, -24,8% in Emilia, -16,2% nelle Marche.

Nel frattempo anche il sistema delle strutture di prossimità è stato depotenziato. “Si tratta degli ambulatori in cui si erogano prestazioni specialistiche come l’attività clinica, di laboratorio e di diagnostica strumentale”, specifica la Corte: nel 2017 erano 8.867, ridotti del 4,3% rispetto al 2012. “Una flessione che caratterizza tutte le regioni del Centro Nord”: in Lombardia sono passati da 729 a 663 (-9,1%) mentre quelle che i giudici contabili definiscono “altre strutture territoriali” da 743 a 708 (-4,7%). “La mancanza di un efficace sistema di assistenza sul territorio – conclude il report – ha lasciato la popolazione senza protezioni adeguate”.

“Non è solo un problema di risorse – spiega Americo Cicchetti, direttore dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari della Cattolica – ma di organizzazione. Il Covid ha messo in evidenza che quelle Regioni che avevano investito sul territorio hanno risposto meglio, come il Veneto e l’Emilia-Romagna. La Lombardia aveva fatto una riforma in questo senso, ma si è fermata presto”. Si riferisce, il professore, alla legge 23/2015 con cui la giunta Maroni aveva immaginato una riorganizzazione basata sulle Ast (Agenzie per la tutela della salute) e sulla realizzazione di Pot (Presidi ospedalieri territoriali) e Presst (Presidi Socio-Sanitari Territoriali). Strutture piccole per garantire, con i medici di base, ai cittadini di essere curati vicino a casa, senza gravare sui poli ospedalieri. Ma che in Lombardia hanno visto la luce in minima parte.

Magheggi su dati e morti: in realtà sono molti di più

D ati inesatti sui tamponi, sui guariti, sui positivi e persino sui decessi. Nino Cartabellotta presiede la Fondazione Gimbe, un ente indipendente di ricerca e formazione scientifica. Da giorni sottolinea come, soprattutto in Lombardia (dove ha parlato di “magheggi” per avere dati migliori), i numeri siano opachi.

Dottor Cartabellotta, lei ha spiegato che “magheggi” significa “gaming”. Cioè? Errore di metodo o scelta dolosa?

Il gaming indica espedienti utilizzati nella raccolta, analisi e presentazione dei dati. Nessun riferimento a dolo, semplice constatazione di fatti oggettivi. Gimbe è un ente indipendente: non puoi apprezzarlo quando ti mette ai primi posti e minacciare querela quando suggerisce miglioramenti.

I guariti, per esempio, sono sovrastimati?

Secondo un’analisi Gimbe, la Lombardia il 9 aprile dichiarava 15.706 casi con “almeno un passaggio in ospedale dichiarati dimessi/non ricoverati”, pazienti “in isolamento domiciliare”. Ma questi casi finivano nel computo dei guariti della Protezione civile. Questo è gaming, perché l’aumento dei guariti genera distorsioni.

E sui nuovi casi è possibile fare gaming?

Certo, effettuando meno tamponi diagnostici o calcolando la percentuale di positivi con al denominatore quelli totali, inclusi quelli per verificare la guarigione.

Lei ha dubbi anche sul numero dei deceduti?

Purtroppo i numeri sono molto più alti. Secondo Istat e Iss, dal 20 febbraio al 31 marzo 2020, rispetto allo stesso periodo degli anni 2015-2019, in Lombardia oltre a 8.362 decessi Covid c’erano 18.917 morti in più, un aumento del 186,5%. Il sistema di raccolta dati sui morti ha funzionato più o meno per metà. Anche l’Inps, che ha valutato i decessi tra marzo e aprile, ha rilevato risultati simili.

Sui ricoveri abbiamo un saldo senza sapere quanti entrano e escono. Perché questi dati sono taciuti?

Non sono stati taciuti, ma semplicemente mai raccolti. Non mi risulta sia mai stata implementata una scheda unica di raccolta dati per casi positivi.

Possibile che ancora non ci sia una raccolta efficace?

Non è mai stata creata una infrastruttura informativa adeguata a monitorare l’epidemia. La legislazione concorrente tra governo e Regioni sulla Sanità ha effetti collaterali.

La fase 2 per adesso non ha provocato ricadute?

Come riportato dall’Iss, nell’ultimo monitoraggio settimanale la stima di Rt è stata calcolata al 26 maggio e, tolti i 15 giorni per il consolidamento dei dati, la stima è riferibile al 10 maggio. Dunque questo indice riflette solo la prima settimana di allentamento. Gli effetti delle riaperture del 18 maggio si vedranno dai primi di giugno.

Incubo Lombardia (e Schengen) I governatori: “Troppe pressioni”

Alla fine, la quarantena obbligatoria, pare che nessuno avrà il coraggio di imporla. Troppe le ripercussioni, a cominciare da quelle economiche, e troppo grande la macchina burocratica che dovrebbe mettersi in moto e che nessun governatore è in grado di garantire. Da mercoledì si apre per tutti, come prevedeva il decreto di due settimane fa. E pazienza se la richiesta di “fermare” la Lombardia, che diversi avevano avanzato, è caduta nel nulla. “La verità è che Conte ha paura della Lega”, si sfoga un presidente (del Pd), sostenendo che Palazzo Chigi non ha avuto la forza di affrontare le conseguenze politiche del caso.

Ovvero quelle che avrebbe avuto – anche in termini di ricadute elettorali – bollare come “untori” dieci milioni di cittadini che vivono tra Milano, Lodi, Bergamo, Brescia e il resto delle province lombarde. Così come non ha retto l’ipotesi di rimandare tutto di una settimana, scatenando le ire di quei territori che non avrebbero capito le ragioni di proseguire un, seppur parziale, lockdown. Eppure la paura non è passata. Tanto più che, insieme allo spostamento tra Regioni, da mercoledì sarà possibile anche quello da tutti i paesi dell’area Schengen e dalla Gran Bretagna (ma molte frontiere, per noi italiani restano chiuse: al punto che ieri il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è arrivato a chiedere “rispetto” dagli altri Paesi europei).

Gli arrivi dall’estero preoccupano in particolare il presidente del Lazio Nicola Zingaretti, che teme l’ondata all’aeroporto di Fiumicino. Ancora venerdì, fanno notare in Regione, a Madrid si registravano 664 casi. Ma anche nel Lazio – dove pure l’assessore alla Sanità, prima dell’incontro di venerdì sera con il governo, aveva ventilato l’ipotesi della quarantena obbligatoria – è stata scartata perché considerata impraticabile.

Il ragionamento dei governatori è semplice: imporla da soli è impossibile, diverso sarebbe stato se ci fosse stata una strategia nazionale condivisa. Ma così non è stato: è passata la linea della riapertura totale e generalizzata. E sono in tanti a chiedersi perché: “Io mi auguro – dice il consigliere regionale della Lombardia Dario Violi, M5S – che, così come era successo per la mancata zona rossa di Nembro e Alzano, anche stavolta non sia stata fatta una scelta per rispondere a pressioni”.

Si dice “sbalordito e interdetto” il governatore della Toscana Enrico Rossi che non si capacita di come “Fontana e anche Sala (che è del suo stesso partito, ndr)” siano “così spinti verso le riaperture”. “Mi chiedo – insiste Rossi – per quale ragione la Lombardia, che ha un livello di contagi molto più alto di altre regioni, debba essere trattata come le altre, con il rischio di mettere nuovamente in giro i contagi”.

Usa la stessa parola dei Cinque Stelle, “pressioni”, anche il presidente della Campania Vincenzo De Luca: “Si ha la sensazione che per l’ennesima volta si prendono decisioni non sulla base di criteri semplici e oggettivi ma sulla base di spinte e pressioni di varia natura”, ha scritto ieri su Facebook. La linea, non solo di De Luca, è che si sarebbe potuti uscire dall’impasse inserendo un nuovo criterio, per esempio il numero di contagi mensili, superato il quale i confini della regione dovessero rimanere ancora chiusi, in modo da “togliersi dall’imbarazzo” di nominare la regione guidata dal leghista Attilio Fontana. In realtà la valutazione del rischio già esiste e in nessuna zona d’Italia al momento è superiore alla soglia considerata “sicura”.

In ogni caso, la Campania si appresta “senza isterie” a mettere in campo “controlli e test rapidi” – ne aveva già fatti durante la fase 1 – per chi arriva nelle stazioni delle città e agli imbarchi per le isole. Nel frattempo, va detto, De Luca è impegnatissimo nella battaglia contro Luigi de Magistris che consentirà da lunedì l’apertura dei bar fino alle 3 e mezza di notte, in contrasto con il provvedimento regionale che li chiudeva all’1. “È venuto il momento di ripristinare il corretto equilibrio tra poteri dello Stato”, gli ha risposto il sindaco di Napoli.

La sentenza preventiva

In oltre trent’anni di indagini e processi ne abbiamo viste tante, ma questa ci mancava: un pm che, appena avviata un’inchiesta, emette già la sentenza, per giunta sballata, per giunta in tv. È accaduto l’altroieri con l’incredibile dichiarazione rilasciata al Tg3 dalla pm di Bergamo Maria Cristina Rota subito dopo aver sentito come testimoni il presidente della Regione Attilio Fontana, l’assessore alla Sanità Giulio Gallera e il presidente della Confindustria lombarda Marco Bonometti, a proposito della mancata istituzione della “zona rossa” nei comuni di Alzano Lombardo e Nembro, nella bassa Val Seriana. Questa: “Da quello che ci risulta, è una decisione governativa”. Purtroppo alla signora risulta male. La legge 883 del 1978 (“Istituzione del sistema sanitario nazionale”) stabilisce che la competenza è tanto del ministro della Salute (“può emettere ordinanze di carattere contenibile e urgente in materia di igiene e sanità pubblica”) quanto delle Regioni e dei Comuni (“Nelle medesime materie sono emesse dal presidente della giunta regionale o dal sindaco ordinanze di carattere contenibile e urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più Comuni, e al territorio comunale”).

La logica della norma è chiara: su territori che investono più regioni, decide il governo; su territori estesi in più comuni nella stessa regione, provvede la Regione; su territori rientranti in un solo comune, interviene il Comune. Infatti il 22 febbraio, all’indomani dell’esplosione dei primi due focolai italiani a Codogno (Lodi, Lombardia) e Vo’ Euganeo (Padova, Veneto), il governo centrale sigilla Vo’, Codogno e altri 10 comuni del Lodigiano. Lo stesso giorno scoppia il contagio all’ospedale di Alzano (Bergamo, Lombardia), ma né la Regione né il Comune fanno nulla. Anzi l’Ats (della Regione) fa chiudere e riaprire dopo tre ore l’ospedale, senza sanificarlo. E senza dire nulla né al ministero della Sanità né ai malati e ai parenti, che entrano ed escono ignari di tutto. Così la bomba deflagra anche sui comuni vicini (Nembro ecc.). Oggi Fontana e Gallera, i Ric e Gian della cosiddetta sanità lombarda, raccontano la favola della Regione che voleva chiudere la Val Seriana ma non poteva, mentre il governo poteva ma non voleva. Tutte balle. Il 26 febbraio Gallera dichiara: “In Val Seriana i numeri sono non trascurabili, ma è presto per dire se siano tutti legati al contagio di un medico del pronto soccorso di Alzano. Situazione, questa, che abbiamo già individuato e sottoscritto” (o “circoscritto”?). Intanto, in perfetta corrispondenza di amorosi silenzi, la Confindustria bergamasca lancia la campagna “Bergamo is running”.

Running verso la morte: i contagiati salgono del 100% in 24 ore. Il 29 febbraio riecco Gallera: “Nuove zone rosse non sono all’ordine del giorno nell’ordinanza che abbiamo preso, Alzano compreso”. Il 2 marzo, col record nazionale dei contagi in Val Seriana, la Regione è sempre zitta e immobile al servizio degli industriali, mentre a Roma si muove l’Istituto superiore di sanità, raccomandando al Comitato tecnico-scientifico la zona rossa a Nembro e Alzano. Il 3 marzo il documento giunge sul tavolo del premier Conte, che chiede un approfondimento al ministro Speranza e al Comitato. Il 6 marzo centinaia di poliziotti, carabinieri e militari perlustrano la Val Seriana in vista della zona rossa. Ma vengono richiamati, probabilmente dal Viminale, perché Conte ha ormai deciso di chiudere l’Italia intera in “zona arancione”: cosa che fa la sera del 7 marzo. A quel punto Fontana comincia a raccontare di aver “chiesto a Conte la zona rossa” perché “io non ho titoli a (sic, ndr) bloccare un diritto costituzionalmente protetto”. E invece li ha in base alla legge 833/1978, come dovrebbero sapere lui (così geloso dell’autonomia lombarda) e a maggior ragione Gallera, visto che quella legge disciplina i poteri degli assessori regionali alla Sanità rispetto allo Stato.
Quando poi Conte, stufo delle balle di Ric e Gian, osserva che i due potevano disporre tutte le zone rosse che volevano, Gallera va a leggersi la legge (peraltro richiamata in vari Dpcm) e gli si apre un mondo. Tant’è che il 7 aprile si arrende: “Avremmo potuto fare noi la zona rossa? Ho approfondito e effettivamente c’è una legge che lo consente”. Meglio tardi che mai. Avesse approfondito prima, avrebbe potuto chiudere anche altre zone ad altissimo contagio (tipo il Bresciano) evitando altre stragi. Invece, incredibilmente, la Regione col record mondiale dei contagi, non ha disposto una sola zona rossa in tre mesi. Intanto, fra marzo e aprile, Regioni infinitamente meno a rischio ne disponevano ben 47: una l’Umbria, 2 l’Emilia Romagna (più 70 zone arancioni, esclusa purtroppo Piacenza), 5 il Lazio, 3 la Campania, 12 l’Abruzzo, 5 il Molise, 4 la Basilicata, 11 la Calabria, 4 la Sicilia (l’elenco l’ha pubblicato Selvaggia Lucarelli su Tpi). Gli unici a non sapere di poterlo fare erano Fontana e Gallera. Che poi hanno scoperto di poterlo fare, ma dinanzi alla pm hanno ricominciato a negarlo. E la pm – a sentire la sua dichiarazione al Tg3, che in un paese serio indurrebbe la Procura generale ad avocare il fascicolo – se l’è bevuta. Salvo poi precisare che “si tratta di indagini lunghe e complesse”. Se poi, durante l’indagine lunga e complessa, qualcuno desse un’occhiata alle leggi, potrebbe aprirne un’altra per falsa testimonianza.

La Tour, pittore mantenuto e sconosciuto

Georges de La Tour è chiamato “il maestro delle notti” e non solo per il fascino umbratile che emana dai suoi dipinti, percorsi dal lucore fulvo di una candela che d’improvviso illumina enigmatici personaggi sommersi dal buio, cogliendoli nei loro sentimenti più intimi.

Pittore del Seicento francese (1593-1652), avvicinarsi o anche solo lambirne l’universo è accettare di dover fronteggiare insondabili misteri. Di lui si sa davvero poco: figlio di un fornaio, nasce in un villaggio del ducato di Lorena; il matrimonio con una nobildonna gli consente di consacrarsi all’arte, tanto da diventare peintre ordinaire di Re Luigi XIII ed esser tenuto inoltre in grande considerazione dal cardinale Richelieux. Ma alla morte, la discesa nell’oblio è inarrestabile. Le sue opere nei musei d’Europa fino alla fine del XIX secolo vengono attribuite ad altri oppure presentate anonime.

La sua scoperta inizia agli albori del 900 grazie allo studioso tedesco Herman Voss, cui segue un’importante esposizione parigina Les peintres de la réalité en France au XVII siècle, nella quale il pubblico rimane da lui affatturato, come affatturati rimarranno i visitatori delle sue scene notturne di sconvolgente realismo nella prima monografica italiana: Georges de La Tour, L’Europa della luce, a cura di Francesca Cappelletti e Thomas Clement Salomon, fino al 27 settembre a Palazzo Reale a Milano, che gioiosamente ha riaperto grazie alla solidarietà dei molti prestatori.

Un’occasione eccezionale, se si pensa che nessun museo italiano – gremiti di prodigi seicenteschi come Caravaggio e molti altri – possiede un La Tour, di ammirare l’austera Maddalena penitente, che accarezza con la mano sinistra il teschio delle vanitates (le nature morte allusive alla precarietà della vita) mentre la destra sostiene il volto dall’espressione meditabonda. In un gioco di volumi mistico realizzato dalla penombra, la pudica fanciulla è illuminata dalla luce tremula di una candela, come accade a I giocatori di dadi o nel Denaro versato, in cui il bagliore caldo e insieme incerto rivela volti opalescenti, stavolta avidi e meschini e incupiti, dalla palette di intensi rossi e in uno spazio ridotto all’essenziale.

Ben quindici capolavori del maestro francese dialogano con le opere di altri pittori coevi quali Carlo Saraceni, Jan Lievens, Adam de Coster, tutti appassionati come lui di quella verità che si rivela solo al buio.

Georges de La Tour L’Europa della luce

Palazzo Reale, Milano, fino al 27 settembre

L’amica geniale di Nasti: la portinaia fantasma

Vincitrice del prestigioso Premio Andersen nell’84 per la sua produzione letteraria, un centinaio di opere tra libri fantastici (must assoluto è Il bambino sottovuoto) e racconti di vita vissuta, ognuno venato di una delicata ironia di fondo, l’austriaca Christine Nöstlinger (1936-2018), che piacerà agli amanti di Astrid Lindgren, ha avuto l’enorme pregio, come scrittrice ed essere umano, di rispettare e valorizzare la natura dei piccoli a cui non bisognerebbe mai chiedere di essere buoni, bravi e perfetti ma semplicemente se stessi, tra punti di forza e fragilità. La pensava così anche Roald Dahl. È quella la loro ricchezza.

Pensiero che emerge anche nell’ora ritradotto Rosa Riedl. Fantasma custode (assente dalle librerie dal ’79), con al centro Nasti, giovinetta paurosa – teme i cani, le cantine e le soffitte, il pavimento che scricchiola, la solitudine – contrariamente all’amica Tina che ha coraggio da vendere. I suoi turbamenti, compreso sentirsi diversa, e quindi sbagliata, le fanno desiderare di avere accanto qualcuno che la protegga. Si troverà assistita dal fantasma della vecchia portinaia del condominio di fronte, l’irresistibile Rosa Riedl, morta per difendere un orologiaio ebreo in tempi oscuri. Superare le paure con lei vicina sarà un’avventura, ma anche un prezioso insegnamento per l’adulta che sarà.

 

Rosa Riedl, fantasma…

Christine Nöstlinger

Pagine: 208

Prezzo: 16

Editore La Nuova Frontiera

Donald Trump, il presidente dei ricchi narra la biografia dell’intera nazione

Sembra un libro su Donald Trump, ma è un libro sugli Usa. E senza la storia degli Usa non si capisce Donald Trump. Il volume di Bruno Cartosio, già docente di Storia dell’America del Nord e uno dei più stimolanti studiosi degli Stati Uniti, è un gioiellino che riesce a restituire una visione organica.

Trump è il vero rompicapo della politica di mezzo mondo. “Non è altro che un artista della truffa” scriveva il grande Philip Roth, mentre i due giornalisti Jamelle Bouie ed Eric Levitz hanno riscontrato in Trump otto delle 14 caratteristiche che secondo Umberto Eco aiutano a definire “l’Ur-fascismo”. Per Paul Krugman è solo un “indolente, privo di curiosità”, ma governa “il centro” del mondo. Cartosio sposa le tesi di chi nega che Trump sia fascista, anche se, come scrive Judith Butler, “la sua arroganza, il suo ridicolo senso di sé, il suo razzismo, la sua misoginia sono stati decisamente galvanizzanti per molti che hanno votato per lui”.

Ma Trump è una biografia della nazione, presidente di quella che Warren Buffett ha definito “la classe che ha vinto”, i ricchi, forgiatasi nella restaurazione liberista di Reagan e Friedman, Da quella vittoria è nato il declino industriale, la desertificazione delle cinture operaie, i fenomeni di food desert, con squilibri anche nell’alimentazione dei più poveri.

Un “policentrismo” dove al declino di Detroit è corrisposta l’ascesa della Silicon Valley, ma senza che si creasse una nuova classe media: “I grandi capitalisti che nella loro guerra di classe hanno vinto non hanno dato vita a un loro nuovo baricentro sociale, una classe-basamento come è stata per tanto tempo la cosiddetta middle class”. Per le élite mondiali la rappresentanza trumpiana non è certo la più ideale ed educata, ma Trump dà anche voce a coloro che, in un contesto di crisi puntano, come notava Immanuel Wallerstein, “ad accaparrarsi tutto quello che possono finché possono”.

 

Dollari e no

Bruno Cartosio

Pagine: 220

Prezzo: 18

Editore: DeriveApprodi

 

Tra noia e caldo, il deludente ritorno di Tempe Brennan, l’anti-Scarpetta

Temperance Brennan detta Tempe è uno dei personaggi più longevi del serial-thriller al di là dell’Oceano. È un’antropologa forense, come la scrittrice che l’ha inventata nel 1997, Kathy Reichs. Una sorta di anti-Scarpetta. Dalle ossa al colpevole, nell’arco di quattro-cinquecento pagine. L’avevamo conosciuta sin dall’esordio nel 1997 con Corpi freddi e ne avevamo un ricordo positivo: suspense e ritmo e tutti gli ingredienti cupi e tremendi per un buon thriller da divano domenicale.

A distanza di ventitré anni la ritroviamo non più in Québec ma nella natìa Charlotte, nel North Carolina e al posto delle neve canadese c’è l’afa insopportabile, anzi killer visto il tema, di luglio. L’esperta Tempe si cimenta con un cadavere mangiato dai maiali selvatici. Il volto irriconoscibile. Sull’antropologa gravano un po’ di sciagure: un aneurisma pronto a scoppiare; la mamma ammalata di cancro ma che progetta un matrimonio; un fidanzato-compagno-amante rimasto in Québec; un nuovo capo donna che la odia, ricambiata ovviamente. Le prime duecento pagine devono fare i conti con tutti questi guai personali. Il racconto di Tempe è in prima persona. Nonostante tutto, l’antropologa risale all’identità dell’uomo e scopre che era un maniaco complottista, collegato alla scomparsa di alcuni bambini. Sarà l’afa, sarà il North Carolina ma ci aspettavamo tutt’altro che lunghe disquisizioni sui complottisti dell’orbe terracqueo, compresi quelli che credono alle scie chimiche. Una delusione, tra noia e lentezza questo Predatori e prede, nuovo romanzo di Kathy Reichs. I tic dei personaggi invadono tutta la letteratura di genere, però in questo caso sovrastano la storia e a sua volta la trama non è quella che ci si aspettava. Un ricordo tradito, Tempe Brennan.

 

Predatori e prede

Kathy Reichs

Pagine: 458

Prezzo: 19

Editore: Rizzoli

Gli Incas ci conquistano (colpa di una vichinga)

Laurent Binet, il 47enne professore francese che ha avvinto i lettori nel 2018 con La settima funzione del linguaggio, torna in libreria sempre per La nave di Teseo con Civilizzazioni. Se nel primo la storia era riscritta trasformando la morte per incidente di Roland Barthes in un omicidio dai contorni spionistici, in questa nuova fatica l’autore preme il pedale dell’ucronia fino a tenere in ostaggio della sua immaginazione smodata nientemeno che il XVI secolo. Del resto il titolo stesso del romanzo rimanda a uno dei videogiochi più popolari di strategia, Civilization, nel quale i giocatori si misurano per costruire imperi alternativi.

Binet si diverte per quasi 400 pagine – sulla scorta di una impareggiabile erudizione storica – a impiegare tutti i generi letterari: diari, cronache, poemi, epistolari. Il romanzo è la risposta a una suggestione. Cosa sarebbe successo se anziché colonizzare le Americhe, fossero stati gli europei a subire la dominazione delle cosiddette civiltà precolombiane?

Si parte da una premessa collocata nell’anno Mille: Freydis, figlia di Erik il Rosso, dalla Groenlandia in virtù del suo “cattivo carattere” si spinge fino al continente americano e dota i nativi dell’uso del ferro e dei cavalli. Ecco che secoli più tardi abbiamo Colombo fatto prigioniero a Cuba e meno di duecento uomini Incas capitanati dal sovrano Atahualpa che rifanno all’inverso il viaggio del marinaio genovese e sbarcano a Lisbona. Tra intrighi politici e battaglie cruente gli Incas (con Atahualpa che si fa leggere Machiavelli per orientarsi) riescono anno dopo anno a estendere la loro egemonia e a fare capitolare l’Europa di Carlo V.

Non c’è evento conosciuto del Cinquecento che non subisca contraccolpi clamorosi, dalla Santa Inquisizione alla riforma luterana, dai rovesci delle monarchie alla scoperta della stampa. In coda al romanzo troviamo persino Cervantes, vittima di un nuovo rovescio storico (anche gli Incas subiscono a loro volta il dominio di nuovi colonizzatori…), prima rinchiuso in Francia in una torre con Montaigne e poi rivenduto come schiavo a Cuba.

La provocazione che Binet immette dentro quella temperie è uno sguardo liberale degli Incas (e forse qui c’è una forzatura di troppo) che porta in dote al XVI secolo una discreta tolleranza religiosa e un riconoscimento dei diritti degli umili. In una corrispondenza tra Tommaso Moro e Erasmo da Rotterdam – mirabilmente inventata alla luce del nuovo culto del Sole introdotto da Atahualpa –, Erasmo scrive fugando i timori di Moro: “La saggezza di un pagano, se è guidata da Dio, anche a sua insaputa, può fare di più per l’umanità che un cristiano assetato di sangue”. Sembra di leggervi in filigrana il movente ideologico che sottende alla fabula di Binet: il mondo che conosciamo non è per forza una fatalità storica.

Sarebbe bastato il “cattivo carattere” di una vichinga e oggi vivremmo un altro mondo.

 

Civilizzazioni

Laurent Binet

Pagine: 384

Prezzo: 19

Editore: La nave di Teseo

La favola bella di “Central Park”, tra il musical e il cartoon per adulti

Un po’ sitcom e un po’ musical, la prima serie animata di Apple Tv+ (disponibile da ieri) s’intitola Central Park e ruota attorno ai Tillerman: una famiglia che abita dentro il polmone verde di New York. Owen, il papà, è il custode del parco e ha dedicato la sua vita a preservarne gli alberi e i fiori. Molly, la mamma, lavora come giornalista in un piccolo settimanale; la figlia 13enne Molly disegna fumetti mentre il fratello minore Cole adora gli animali. L’esistenza dei Tillerman e di Central Park, però, rischia di cambiare da un momento all’altro per colpa di Bitsy Brandenham, ricca ereditiera che possiede un hotel affacciato sul parco e progetta una gigantesca speculazione edilizia nel centro della Grande Mela.

Ordinata inizialmente da Fox, Central Park è finita nelle mani di Apple che ha confermato due stagioni da 13 episodi l’una. I creatori della serie sono Josh Gad, Nora Smith e Loren Bouchard, famoso per il cartone Bob’s Burgers. “Il nostro obiettivo, sin dall’inizio, è stato dare vita a un vero e proprio musical”, hanno spiegato: in effetti la musica è presente sin dalla prima scena e ogni puntata contiene in media quattro pezzi cantati e interpretati. Accanto alle canzoni c’è però anche un’idea forte, quella di “una famiglia che rappresenta qualcosa. In questo caso, un luogo pubblico importante, ma fragile, a disposizione della collettività”, nelle parole degli autori.

Nel cast compaiono anche due nomi noti al grande pubblico: Kristen Bell, la protagonista di Veronica Mars e The Good Place, che dopo aver prestato la sua voce ad Anna in Frozen fa lo stesso con Molly; e Stanley Tucci, famoso per Il Diavolo veste Prada e Amabili resti, che impersona la cattivissima Bitsy. Con Central Park Apple Tv+ fa il suo ingresso in un settore sempre più affollato, quello delle serie animate per adulti. Fra gli ultimi titoli d’autore val la pena ricordare Undone (Amazon Prime Video), dal creatore di BoJack Horseman, e Disincanto (Netflix) dell’inventore dei Simpson Matt Groening.