“Space force”, come ridere di The Donald

Era il giugno del 2019 quando un’idea bizzarra balenò nella mente di Donald Trump: dare vita a una forza armata spaziale. Sembrava una boutade per compiacere gli elettori appassionati di Guerre Stellari e Star Trek, e invece lo scorso 20 dicembre la United States Space Force è nata per davvero. Nel frattempo, però, l’ennesima stramberia partorita dalla fantasia del presidente Usa aveva fatto breccia nella testa di Greg Daniels e Steve Carell, il primo sceneggiatore dei Simpson e creatore di varie comedy di successo (da The Office Usa a Parks and Recreation) e il secondo attore nominato agli Oscar e vincitore di un Golden Globe (l’ultima serie tv è The Morning Show, su Apple Tv+). Ecco com’è nata Space Force, disponibile da ieri su Netflix: dieci episodi di satira graffiante sull’amministrazione Trump e sull’esercito americano.

Carell, oltre che essere il co-creatore della serie, veste i panni del protagonista Mark R. Naird, pluristellato generale dell’aeronautica che il presidente in persona ha voluto a capo dell’esercito spaziale. Accanto a lui c’è un cast di alto livello: John Malkovich è Adrian Mallory, lo scienziato secchione che fa da contraltare all’incompetenza di Naird; Ben Schwartz (Parks and Recreation) è il suo social media manager; Noah Emmerich (The Americans) è il comandante dell’Air Force, grande rivale di Naird; mentre Lisa Kudrow, arcifamosa per il ruolo di Phoebe in Friends, è la moglie carcerata del generale. Una curiosità: la stessa Lisa Kudrow ha confessato, in un’intervista e Entertainment Weekly, che durante le riprese non era a conoscenza dell’esistenza della U.S. Space Force.

Greg Daniels e Steve Carell avevano già lavorato insieme in The Office Usa, il remake americano della sitcom di Ricky Gervais che ha fatto decollare la carriera di entrambi. Le due serie hanno in comune l’ambientazione, visto che anche Space Force si svolge in un luogo di lavoro: in questo caso non si tratta però di un normale ufficio, bensì della base supersegreta delle forze armate spaziali nel deserto del Colorado.

Le prese in giro a Trump cominciano sin dalle prime scene. “Il Presidente vuole un dominio totale sullo spazio” annuncia il segretario della Difesa: “Sono parole sue, si torna sulla luna nel 2024. In realtà ha scritto si tromba sulla luna… Ma pensiamo che si tratti di un refuso”.

Manie di grandezza, gaffe e un uso smodato e irresponsabile di Twitter. In Space Force Trump non viene nominato, non compare, ma è onnipresente (la serie probabilmente piacerà di più al pubblico straniero che a quello americano, sin troppo abituato alle bizzarrie del presidente). Il generale Naird riceve continuamente sms da Potus, l’acronimo per President of the United States; e deve anche difendersi dall’invadenza di Flotus, la first lady, che ha disegnato delle divise fashion per l’esercito spaziale. Il Grande Nemico è, ovviamente, la Cina, che con gli Stati Uniti ingaggia una sfida all’ultimo razzo per la conquista della luna. Considerando ciò che è successo negli ultimi mesi, Space Force è stata profetica nel prevedere un’escalation di tensione fra le due superpotenze: nella realtà, però, la guerra non si sta combattendo nello spazio ma più prosaicamente sulla terra, a colpi di ricatti e dichiarazioni al veleno.

Il tema galattico è comunque attualissimo visto che oggi, meteo permettendo, la compagnia di Elon Musk SpaceX lancerà in orbita il primo razzo con due astronauti a bordo. “Come consulenti abbiamo avuto scienziati, astronauti e militari” ha spiegato Greg Daniels: “Sia io che Steve abbiamo parenti nell’esercito, li rispettiamo molto e speriamo che si divertano a guardare la serie”. “Il comandante in capo della U.S. Space Force avrebbe preferito Bruce Willis al mio posto…” ha ammesso invece Steve Carell. Da parte sua Jay Raymond, il vero generale delle forze armate spaziali, ha confessato di aver guardato il trailer e ha consigliato a Carell un taglio di capelli più consono allo stile militare.

 

Space force

Creata da Greg Daniels e Steve Carell. In onda su Netflix

I festival di tutto il mondo si danno appuntamento su Youtube

Quando non distanzia, il virus può arrivare a unire, anche profondamente. Almeno negli intenti solidal-culturali.

A capirlo, in questo caso, è il mondo dei grandi cine-festival, che – al netto di cancellazioni, sospensioni e slittamenti – si è inventato il We Are One: A Global Film Festival, una vetrina di cinema digitale senza precedenti da ogni angolatura la si osservi.

Per la prima volta, infatti, le principali 21 kermesse sparse nel mondo (tra cui Cannes, Venezia, Berlino, Sundance, Toronto, Tribeca, Locarno, San Sebastian, Sarajevo, Londra, Tokyo, New York, Marrakech, Macao, Rotterdam…) hanno deciso di collaborare e proporre gratuitamente in streaming su Youtube una selezione della loro programmazione con la doppia finalità di diffondere cultura cinematografica di qualità, indipendente e in prevalenza sperimentale, e di raccogliere fondi per l’emergenza Covid-19 attraverso libere donazioni.

La mega-rassegna della durata di dieci giorni è già online da ieri e vi resterà fino al 7 giugno, presentando oltre cento film di cui tredici prémière assolute, cinque internazionali e trentuno anteprime online, il tutto da trentacinque Paesi del mondo.

Anche i formati e i linguaggi sono variabili: 31 lungometraggi (tra finzione e documentari), 72 cortometraggi, quindici presentazioni e/o dibattiti e cinque opere in Vr (Virtual reality) di cui la Mostra veneziana è un’indiscussa eccellenza.

Per viaggiare da un capo all’altro del mondo festivaliero, basta dunque sedersi sul divano e navigare sul sito Youtube.com/WeAreOne.

Zak, si gira: il sogno di fare il wrestler

Il 15 giugno riaprono i cinema, sì, ma non fatevi troppe illusioni: tra il dire e il fare, non c’è di mezzo ancora una programmazione.

Stretti tra una domanda rimaneggiata se non improbabile e un’offerta risicata se non risibile, esercenti e distributori faticano a credere nella ripartenza. Si sta, e per un bel po’ si starà, a guardare da casa, ovvero si continua con il salto della sala, disciplina affinata dal lockdown, e l’approdo diretto in Tvod (Transactional Video On Demand).

Va detto, trovare nel novero film non disprezzabili, degni di nota o addirittura d’encomio è sempre più difficile, giacché agli effetti nefasti della pandemia si abbina ormai la cronica siccità cinematografica dell’estate italiana: tra fondi di magazzino, vuoti a rendere e casi disperati, qualche eccezione fortunatamente c’è. The Peanut Butter Falcon, da noi presentato come In viaggio verso un sogno: se amate Mark Twain, Shia LaBeouf, l’indie de core, Dakota Johnson, il volemose bene, il wrestling e gli States meridionali, o non sapete che fare delle vostre serate di Fase 2, non astenetevi, vale il biglietto elettronico.

Da lunedì sarà disponibile sulle principali piattaforme on demand, in America s’è comportato assai bene: plauso critico pressoché unanime e venti milioni di dollari rastrellati al box office, traguardo superbo a fronte dei sei di budget e dell’etichetta di indipendente.

Protagonista, all’esordio sul grande schermo, è Zack Gottsagen, che dà volto, muscoli e desiderio al giovane Zak: affetto da sindrome di Down, recluso in un ospizio, vuole frequentare una scuola di wrestling, quella del suo idolo The Salt Water Redneck (Thomas Haden Church), e l’ennesimo tentativo di fuga è quello buono. Via dalla casa di riposo, dentro l’avventura, on the road e sull’acqua (la zattera ingolosisce…), verso l’ennesima frontiera del cinema, e dello spirito, americano. La marginalità prende campo, e il Tyler di Shia LaBeouf il suo profeta: devastato e smarrito dalla perdita, colposa, del fratello, vivacchia rubando trappole per i granchi e rischia la pelle. L’incontro con Zak è lasco e burbero, ma le affinità non tarderanno a emergere. Due sulla strada, alla mercé del sogno: liberi di, liberi da, rotolando verso Sud e intercettando la bella Eleanor (Dakota Johnson), che si occupava di Zak all’ospizio. Dopo qualche resistenza, mollerà la sorveglianza per la complicità, divenendo la compagna di viaggio che molti, e noi tra questi, agognerebbero: l’amore non marca visita, il ring nemmeno, e non sarà Zak a finire al tappeto.

Buono senza, forse, buonismo, vitale e vitalista, criminale ma perbene, The Peanut Butter Falcon scippa il nome al wrestler Zak e le emozioni a tutti: la disabilità è scommessa aperta sul futuro, l’azzardo partecipato, la sorte misericordiosa, e di ‘sti tempi vale ancora di più. Se Gottsagen è una rivelazione di humour e empatia, LaBeouf conferma: ha la faccia d’attore più intelligente della sua generazione, e non solo quella.

Che Odissea l’“Ulisse”: il più censurato del 900

Altro che Coronabond, Joycebond dovrebbero chiamarli, dal nome dello scrittore che ha chiesto più prestiti nella storia tra Dublino, Parigi e Trieste inaugurando l’idea del debito collettivo europeo. A volte li restituiva la mattina e nel pomeriggio tornava a riprendersi quel che aveva restituito. Il suo eroismo è stato tirare dritto sulla strada dell’arte accettando le miserie della vita. Lo ricorda Richard Ellmann in Joyce (Castelvecchi), monumentale biografia.

Se un capolavoro deve passare inosservato, come ha detto Bolaño, il quale ha chiamato Ulisse il protagonista di Detective selvaggi, il capolavoro di Joyce è passato anche sotto la mannaia della censura inaugurando la battaglia per la libertà espressiva nel 900. In Italia questo Odisseo moderno, in parte ispirato a Svevo, allievo di inglese di Joyce a Trieste, arriverà solo nel 1960. Il 21 gennaio del ’61 – giusto il tempo di leggere le 1.025 pagine dell’edizione Mondadori – verrà denunciato a Genova. Il fascicolo passerà a Verona, dove l’opera era stata stampata. “Dobbiamo ancora imparare a essere contemporanei di Joyce”, scrive Ellmann. In Italia ci abbiamo messo più che altrove, ma non dimentichiamolo: l’anno della prima edizione è lo stesso della marcia su Roma.

Per celebrare il sessantesimo della pubblicazione la Nave di Teseo manda in libreria una nuova traduzione. Tra l’altro per il Bloomsday, il festeggiamento dell’Ulisse. Si tiene il 16 giugno, ma quest’anno verrà rinviato, almeno a Dublino, come mi spiega Fulvio Rogantin, guida turistica joyciana in Irlanda: “I pub sono chiusi”. Vuoi festeggiare Joyce senza bere?

Essere contemporanei di Joyce significa penetrare nella mente messa a nudo della futura moglie del protagonista, Molly (si sposano nell’ultima, celebre riga): aspetti sessuali compresi. L’istanza realistica (“Che idea farci così con quel gran buco in mezzo…” ecc.), la mancanza di una finalità “afrodisiaca”, ha messo l’autore in una luce penalmente positiva. È un elemento fondamentale. Lo ritroveremo in vari processi e viene reso esplicito nel processo dei processi: “The United States versus a book called Ulysses”. Condannato negli anni 20 negli Usa dopo una pubblicazione a puntate sulla Little Review, interrotta dalla “Lega per la soppressione del vizio”, l’Ulisse finisce di nuovo in tribunale ma viene assolto e stampato nel ’34 dalla Random House. Il giudice John M. Woolsey, padre di uno dei magistrati di Norimberga, lo definisce appunto “emetico”, piuttosto che “afrodisiaco”.

Una delle foto più belle di Marilyn Monroe la ritrae con il ponderoso volume in mano in un parco giochi mentre sta leggendo una delle ultime pagine: il monologo finale di Molly Bloom a letto. Lo stream of consciousness senza veli e sotto le lenzuola ha dato fastidio anche ai denunciatori di Genova.

Il libro è un omaggio senza dedica alla moglie Nora, a partire dalla data di ambientazione: la stessa del primo appuntamento della coppia, in cui Joyce ha un primo rapporto sessuale, sia pure non completo (hand-job). Nora non ci si riconosceva (“Non sono tanto grassa”) e non lo ha neanche mai letto. Sotto il segno femminile anche l’esordio dell’Ulisse: è stata Sylvia Beach, della libreria parigina Shakespeare&c., a stampare le prime copie nel ’22 (oggi valgono intorno ai 30 mila euro l’una, il doppio se con dedica) ed è stata sempre una donna, Margaret Anderson, l’editore della Little Review, a stampare i primi estratti, i primi incerti, avversi passi dell’Ulisse nel mondo.

Zuckerberg fa le moine a The Donald

Quando, il 10 aprile 2018, era stato ascoltato dal Senato sui due scandali che avevano compromesso la reputazione di Facebook, Mark Zuckerberg, co-fondatore e presidente del social network, uno degli uomini più ricchi e più influenti al mondo, a soli 36 anni, era apparso pallido e contrito e aveva recitato una sorta di ‘mea culpa’. Il ruolo di Facebook nelle interferenze russe in Usa 2016 e il coinvolgimento nello scandalo del furto di dati da parte della società Cambridge Analytica, ai cui vertici c’era John Bolton, erano minacce sul futuro di Facebook: Zuckerberg promise nuove regole stringenti. Che non sono poi venute, almeno non in misura tale da impedire a Facebook di continuare a essere il veicolo preferito dagli untori di fake news. Chiamato, ora, dalla Fox a schierarsi nel conflitto tra il presidente Donald Trump e il suo social network preferito, Twitter, Zuckerberg sta con la Casa Bianca, salvo poi sentirsene tradito quando Trump firma un ordine esecutivo, non subito operativo, che priva social i network dell’immunità legale contro eventuali cause per i loro contenuti o anche per interventi su account e post. Zuckerberg critica Twitter per avere fatto ‘fact checking’ sui tweet di Trump. “Credo fortemente che Facebook non debba essere l’arbitro della verità di tutto ciò che la gente dice online”, dichiara su Fox News. “In generale, le società private, specialmente queste piattaforme, probabilmente non dovrebbero essere nella posizione di farlo”. Poi, commentando il provvedimento del presidente, sempre alla Fox, dice: “Devo ancora capire che cosa intenda fare l’Amministrazione. Ma in generale penso che la scelta di un governo di censurare una piattaforma perché è preoccupato della sua censura non sia la giusta reazione”. “Segnalare le informazioni errate non ci rende un arbitro della verità”, risponde a Zuckerberg (e pure a Trump) il numero uno di Twitter Jack Dorsey. “Continueremo a segnalare informazioni errate o contestate sulle elezioni a livello globale”, aggiunge. E Twitter dimostra di essere determinato a tenere testa a Trump, segnalando, ma non cancellando, un tweet del magnate sui disordini per l’uccisione di George Floyd: “Non posso star qui a guardare quel che succede a Minneapolis. Una totale mancanza di leadership. O il debolissimo sindaco di estrema sinistra Jacob Frey si dà una mossa, o manderò la Guardia nazionale per fare il lavoro che serve … questi TEPPISTI stanno disonorando il ricordo di George Floyd, e io non permetterò che accada … Se ci sono difficoltà, assumeremo il controllo, ma quando parte il saccheggio, si inizia a sparare. Grazie!”.

“Questo tweet viola le regole di Twitter sull’esaltazione della violenza, ha scritto il social network sulla pagina di Trump, ma ha stabilito che è nell’interesse pubblico che resti accessibile. E quando la Casa Bianca ha rilanciato il tweet presidenziale, Twitter ha ‘censurato’ il post con la stessa motivazione.

Minneapolis e la guerra civile dei Boogaloo Boys

“Tutti voi stasera avete salvato delle vite”. Nessuno dei manifestanti di Minneapolis aveva mai visto prima quell’uomo, bianco, che martedì, durante la prima notte nera di disordini per l’uccisione di George Floyd, si è presentato in mezzo a loro di fronte alla polizia. L’unica cosa evidente era che fosse bianco, armato fino ai denti e che appoggiasse le proteste. Non lo conosceva neanche Nekima Levy-Armstrong, uno degli avvocati dei diritti civili che ha partecipato alle manifestazioni contro i poliziotti che hanno soffocato George e che da tre giorni incendiano le strade della città del Minnesota. “È un suprematista bianco, pieno di armi, uno di quelli che chiunque di noi sarebbe in grado di identificare”, ha precisato l’avvocato Levy-Armostrong al quotidiano The Daily Beast. E non era il solo. Tra la folla che urla: “Sto soffocando” ricordando le ultime parole di George bloccato a terra, di bianchi armati fino ai denti se ne sono infiltrati a decine. “Boogaloo Boys” si chiamano, la loro missione è la guerra civile e benché possa sembrare paradossale, la breccia di Minneapolis è la loro occasione per farla esplodere. “Se ci fosse mai un tempo in cui essere solidali con tutti gli uomini e le donne liberi di questo paese, è ora”, ha scritto sulla pagina Facebook a 30mila follower uno degli amministratori.

Bianchi sì, ma non monoliticamente razzisti o neonazisti, di destra sì, ma avversi a qualunque discussione politica che possa alimentare questa o quella fazione, abbandonati i legami con la sottocultura misogina e queerfobica, i Boogalloo Boys – dal titolo di un film del 1984, Civil War 2: Electric Boogaloo – usciti dal dark web, discutono di ogni tipo di arma, dai coltelli ai fucili da caccia: gran parte dei loro post e della loro attenzione è rivolta a equipaggiamenti tattici, storie militari o guerre in corso. Le loro pagine risalgono a 4chan, la parte misteriosa del web, ma negli ultimi mesi la piattaforma preferita del gruppo è Facebook, dove è più ampio il margine di proselitismo nella speranza che il clima caldo tra Covid e scontri con la polizia dia finalmente loro lo slancio per organizzare a una guerra civile. Usano slogan che volano sui meme, coniati o distorti per la campagna reclutamento, come quello – piegato a scopi variegati negli ultimi anni – di definirsi “Electric Boogaloo” anche su Twitter o Instagram.

Ma ora lo scherzo è finito. Sulla scrivania del Consiglio per la sicurezza nazionale americano, così come su quelle di alcuni membri del Congresso dei dipartimenti di Difesa, Sicurezza e Giustizia è arrivato un rapporto, stilato dal Network Contagion Research Institute (Ncri), un’organizzazione indipendente di scienziati e ingegneri che traccia disinformazione e discorsi di odio sui social media. “I Boogaloo sono estremisti interni, ispirati da ideologie marginali e teorie cospiratorie e costituiscono una minaccia imminente”. scrive Paul Goldenberg, membro del Consiglio consultivo per la sicurezza, e il suo dossier ora circola tra le forze dell’ordine e l’intelligence. D’altra parte il resoconto è chiaro: “Nelle ultime settimane, il termine Boogaloo è diventato popolare dopo mesi di crescente fama e le proteste anti-lockdown hanno offerto l’opportunità a queste milizie di radunarsi, armate e in pubblico”. Poi è arrivata la protesta dei neri di Minneapolis contro gli agenti, “che vogliono vietarci di portare le armi”, si legge nei post raccolti dai ricercatori. “Non è una gara. Per molto tempo abbiamo permesso loro di ucciderci nelle nostre case e nelle strade. Dobbiamo stare con la gente di Minneapolis. Dobbiamo sostenerli in questa protesta contro un sistema che consente alla brutalità della polizia di essere incontrollata”, scrivono. Si preparano allo scontro con le forze dell’ordine che limitano il loro “diritto di possedere armi”. E con il Paese del post-Covid destabilizzato, portare la violenza per le strade sembra un gioco da ragazzi.

Cina contro Stati Uniti – La sfida di Pechino: è l’era post-americana

Uno degli obiettivi principali in politica estera del deep state statunitense, che persegue la propria agenda indipendentemente da chi siede alla Casa Bianca, era stato in parte volutamente svelato nel 2012 da Leon Panetta a Singapore in una conferenza sulla sicurezza per “avvertire” la Cina con la pretesa tuttavia di non allarmarla. L’allora segretario alla Difesa aveva cercato di far ingoiare il rospo al Dragone assicurando che la concentrazione militare americana nell’area asiatica e del Pacifico però non è intesa a minacciare Pechino: “Siamo entrambi consapevoli delle nostre differenze e capiamo i conflitti che abbiamo ma capiamo anche che non c’è alternativa se non migliorare le nostre comunicazioni e le nostre relazioni militari”.

L’intervento di Panetta era stato organizzato per spiegare le nuove strategie difensive americane, incentrate soprattutto nell’Oceano Pacifico dove entro il 2020 sarebbe stato trasferito il 60% della flotta americana mentre quell’anno la marina americana aveva già dislocato circa 285 navi fra Atlantico e Pacifico.

Il 2020 non solo è arrivato, ma è giunto a metà stravolto dalla pandemia di coronavirus che, essendo partita proprio dalla Cina e avendo colpito al massimo gli Stati Uniti, è stato subito usata dal presidente outsider Donald Trump per accusare di fatto il presidente a vita cinese Xi Jinping di essere un tiranno disposto a nascondere l’esistenza del virus per bieche ragioni di interesse geopolitico.

Nella faida del Covid, il presidente Usa ha accusato l’Organizzazione mondiale della Sanità di aver “coperto” Pechino, decidendo per questo, di interrompere le relazioni con l’Oms. “I fondi Usa saranno diretti ad altre entità internazionali”, ha promesso Trump, aggiungendo che il suo Paese sospenderà l’ingresso ai cittadini cinesi considerati a rischio per la sicurezza. La tensione tra Stati Uniti e Cina, le due superpotenze di questo millennio, si è andata sempre più impennando, con brevi pause, da due anni e su tutti i livelli. A partire dai dazi commerciali che The Donald vuole imporre alla Cina con la motivazione che non essendo più un paese in via di sviluppo bensì un colosso iperavanzato non ha bisogno di essere ancora facilitato dalle esenzioni. Il secondo motivo di frizione estrema tra i due Paesi è la questione cruciale della tecnologia 5G sviluppata dal gigante delle telecomunicazioni Huawei. Washington lo ritiene, in sintesi, un sistema di spionaggio messo a punto dalla Cina per minare le proprie relazioni con i paesi finora sotto l’influenza americana che ne accettano l’installazione. L’esempio principe è la decisione della Gran Bretagna lo scorso gennaio di dare via libera alla partecipazione di Huawei allo sviluppo della rete ma con restrizioni serrate per provare a contenere l’irritazione degli Stati Uniti, del Parlamento e dei membri del governo contrari. Tre le limitazioni: Huawei sarà esclusa dalle aeree sensibili come basi militari e siti nucleari; limitata al 35% del mercato delle parti non sensibili. “Huawei è rassicurata dalla conferma del governo britannico che possiamo continuare a lavorare con i nostri clienti per mantenere l’avvio del 5G sulla giusta strada”, ha dichiarato Victor Zhang, vicepresidente Huawei. E ora assistiamo a un altro braccio di ferro nella crisi dell’ex colonia britannica di Hong Kong. Trump minaccia sanzioni contro Pechino per non aver rispettato il modello “due sistemi, uno Stato” che era stato sancito dopo il ritorno della colonia-isola alla Cina nel 1997 e sarebbe dovuto rimanere in vigore fino al 2047. Con la nuova legge sulla sicurezza a Honk Kong di questo modello rimane solo il guscio e, come ha denunciato ieri il Segretario di Stato americano Mike Pompeo, “Honk Kong non è più autonoma”. Per questo Trump ha annunciato che gli Usa cominceranno il processo per eliminare le esenzioni che conferiscono a Hong Kong un trattamento speciale. L’essenza della competizione sino-americana ruota attorno al primato economico che è strettamente connesso a quello geopolitico.

Allo stato attuale, gli Stati Uniti stanno vivendo un impulso irrazionale a rifiutare le relazioni con la Cina, ma a lungo andare riconosceranno l’importanza di mantenere un equilibrio tra concorrenza e cooperazione. Dato che le due parti portano avanti una concorrenza sempre più agguerrita, è importante che gli organismi internazionali controllino tale competizione per evitare che scivoli in un conflitto che difficilmente vedrebbe vincitori. Vale la pena di ricordare che dall’ascesa al potere di Xi Jinping nel 2013, la politica estera cinese ha subito un cambiamento epocale, votato all’espansione politica, ma anche fisica, acquistando terreni e aprendo relazioni commerciali in aree del pianeta geograficamente vicine agli Usa che le considerano il “cortile di casa” come il Venezuela e i Paesi dell’America Latina. La diplomazia con caratteristiche cinesi è diventata più proattiva, diversamente dall’approccio più cauto e conservatore della Cina in passato.

Geograficamente parlando, il focus diplomatico della Cina non è più limitato ai paesi vicini e alle grandi potenze, ma si estende in tutto il mondo. La diplomazia cinese è sempre più concentrata sul proprio contributo al sistema internazionale, come la creazione di nuovi meccanismi di cooperazione regionali e multilaterali e la promozione di riforme e innovazione nell’ambito dei meccanismi internazionali esistenti. In un certo senso, il mondo sta gradualmente entrando in una “era egemonica postamericana”. Che si tratti di un alleato o di un nemico degli Usa, il funzionamento dell’economia mondiale non ruoterà più attorno agli Stati Uniti e la politica mondiale entrerà in un’era di multipolarità dove la Cina potrebbe svolgere un ruolo dirimente. Nel bene e nel male.

Ladislas, il sindaco che sterminava i “nemici” tutsi

Qualcuno aveva deposto una rosa sui resti calcificati. Il rosso risaltava sul bianco della calce e nell’intenso odore dolciastro emanato dai cadaveri che continuavano a fermentare anche dopo esser dissotterrati. Prefettura di Butare, una delle tante scuole – con sempre una chiesa accanto – in cima a una delle “mille colline” del Ruanda. Aprile 1994, l’aereo del presidente viene abbattuto: si scatena la vendetta pianificata degli Hutu contro i Tutsi (sì, i Watussi della canzone, gli “altissimi negri”). I tutsi longilinei, naso diritto, portamento regale (tutsi era la monarchia dell’ex colonia belga) e, soprattutto, assai meno degli hutu, tarchiati, naso schiacciato, più “semplici” (secondo i missionari che convertono il paese al cristianesimo). Sulle colline di Butare, come in ogni altra, si compie il genocidio della minoranza: 800 mila persone eliminate in meno di cento giorni, dall’esercito, dalle squadre di Interamhwe (“quelli che lavorano insieme”), fomentati e guidati dai tanti “volenterosi carnefici”, ingranaggi dell’articolata amministrazione statale che doveva schiacciare gli “scarafaggi” tutsi. Burocrati del machete, come Ladislas Ntaganzwa, ex sindaco di Nyakizu, servitore del potere Hutu, che arringa la folla che attornia la chiesa di Cyahinda, dove si erano rifugiati i tutsi. Compiuto il lavoro con raffiche di mitra e granate gettate dentro l’edificio, resta un tappeto di poltiglia di carne, ossa e indumenti che verranno spalati e gettati dentro tre fosse comuni insieme alla calce per fermare il ribollire della terra che le ricopre. Ieri Ntaganzwa è stato condannato all’ergastolo per la morte di 25mila persone da parte del tribunale internazionale per il genocidio ruandese. Una vittoria della giustizia postuma, una vittoria per il presidente di lungo corso del Ruanda Paul Kagame, tutsi, leader assoluto di un regime efficiente e lungimirante, che si è guadagnato la stima internazionale con l’appellativo di “israeliani d’Africa”.

I buoni consigli degli ex cattivi esempi

Giovedì sera, come sempre quando l’etere ci porta notizia d’una sua epifania, abbiamo ascoltato religiosamente l’intervento su La7 di Carlo De Benedetti, detto l’Ingegnere perché l’Avvocato, com’è noto, era già preso. L’abbiamo ascoltato, per dire, con la stessa attenzione che riserveremmo a Matteo Renzi se, accompagnandoci all’ascensore, ci svelasse che sta per fare un decreto sulle Popolari, ma senza – ci teniamo – chiamare poi il nostro broker per dirgli di comprare azioni (e comunque, se non la Consob, almeno la Procura di Roma ha detto che non c’è problema: nella capitale l’insider trading è raro quanto l’abigeato a Manhattan).

Bene, abbiamo ascoltato con attenzione e dobbiamo dire che l’Ingegnere ci ha convinto pressoché su tutto: dai pensierini della sera (“il cambiamento che il Covid 19 ha comportato nel mondo è di una dimensione che nessuno ha previsto in politica”; “l’Italia ha da sempre un problema di implementazione”) fino alle dichiarazioni filosoficamente più impegnative. Dice, ad esempio, De Benedetti: “Il sistema che abbiamo gestito negli ultimi trent’anni, diciamo il sistema Reagan-Thatcher, era già molto traballante perché le disuguaglianze sono arrivate a un livello insostenibile. Il Covid è stato l’acceleratore di un cambiamento storico: quel ciclo è finito e non si torna indietro”. E ancora: “La bilancia tra lavoro e capitale sarà molto riequilibrata a favore del lavoro, la frenesia liberista sta per finire, ci sarà maggiore intervento dello Stato”. Un profeta: peraltro, ma andiamo a memoria, probabilmente il primo che la Svizzera fornisce al mondo.

A proposito di residenze all’estero, l’Ingegnere non si è fatto mancare neanche un passaggio sul prestito garantito a Fca: “Credo che debbano essere poste delle condizioni. L’Olanda ha detto no a distribuire i dividendi, a fare acquisti di azioni proprie e ad aumentare lo stipendio dei manager. Copiamo l’Olanda” (cristallino e condivisibile, ancorché ci lasci una curiosità: e la Svizzera, che fa?).

Va detto che De Benedetti si è lasciato intervistare in tv per fare due cose: lanciare nuove contumelie pubbliche contro i suoi figli che hanno venduto Repubblica (“a me hanno insegnato che i regali non si vendono”) e lanciare il suo nuovo giornale, Domani, in edicola da metà settembre e che sarà diretto dal nostro Stefano Feltri (in bocca al lupo Stè, nda).

Ora, a questo proposito, l’Ingegnere spiega che la linea editoriale sarà “liberaldemocratica con particolare attenzione alle disuguaglianze (…) sempre dalla parte di chi ha meno e con l’occhio critico nei confronti di tutti i poteri” (e qui va notato che il conduttore Formigli per qualche motivo pronuncia vaste programme come fosse un’espressione tedesca, ma tant’è).

Dice De Benedetti che lui, al Gruppo Espresso, mai fatto pressioni, per carità, però quello “è un periodo chiuso” (nonostante abbia provato a riaprirlo) e “in un mondo ideale” lui preferisce l’editore puro (pensate quanto ha sofferto negli ultimi decenni). “Preferisco – dice – lanciare un giornale che per la fase di start up avrà un’azionista unico, che sono io anche se il presidente della società è il senatore Zanda” (altro liberaldemocratico da paura), ma poi “l’azienda sarà di proprietà di una Fondazione come la Faz e il Guardian”. A pensarci bene quant’è vero che la gente dà buoni consigli quando non può più dare il cattivo esempio.

“Limiti agli editori impuri e stop ai dividendi per Fca”

I prestiti garantiti dallo Stato a Fiat-Chrysler e Atlantia devono avere precise condizionalità e servire per “avviare una politica industriale diversa dal passato”. Insomma, basta essere subalterni alle grandi imprese. Emanuele Felice, economista, 43 anni, da due mesi è il responsabile economico del Pd e negli ultimi giorni ha avuto molto lavoro da fare.

Felice, adesso si apre la trattativa con il governo per la garanzia a Fca.

Sì, come hanno detto il premier Conte e il ministro Gualtieri, non è un privilegio che stiamo dando a Fca, ma non possono nemmeno pensare che la garanzia sia senza condizioni.

Quali?

Il problema di Fca è che fra meno di un anno si fonde con i francesi di Psa, la direzione operativa del gruppo sarà in Francia, e Macron ha già chiesto che le auto elettriche si facciano lì. Fca ha in programma di fare la Cinquecento elettrica a Torino, ma a quel punto l’auto elettrica da noi si fa o no? Questa è la domanda: dobbiamo imporre le condizioni perché investano in Italia.

È giusto prevedere lo stop ai dividendi? Fca ne ha uno in programma da 5,5 miliardi…

Per un anno sicuramente, ma andrebbero bloccati per tutta la durata del prestito. Il punto però è vincolare Fca a mantenere la produzione in Italia e a fare gli investimenti, anche dopo la fusione con i francesi.

Questione Autostrade: i Benetton minacciano di non rispettare gli impegni senza la garanzia statale su un prestito da 1,2 miliardi.

I Benetton si sono impegnati a fare degli investimenti, e oltretutto hanno responsabilità molto gravi. Come per Fca, la garanzia va data a condizioni chiare e stringenti e non è pensabile concederla se c’è un contenzioso aperto con lo Stato o se Atlantia continua a minacciare o ricattare. Detto questo mi sembra che ora, grazie al lavoro del ministro De Micheli, si stia arrivando a una soluzione: con ogni probabilità non ci sarà la revoca della concessione, ma imporremo garanzie su investimenti e tariffe più basse. Se non ci stanno, lo Stato entrerà nel capitale e garantirà un servizio migliore.

In entrambi i casi, il governo e il Pd non rischiano di doversi piegare alle imposizioni delle due aziende?

La musica è cambiata. Noi siamo il più grande partito di sinistra, non possiamo essere subalterni agli interessi di questo o quell’industriale perché abbiamo una visione più ampia e l’obiettivo di fare uscire l’Italia da un declino ventennale. Non possiamo distribuire soldi a pioggia a chiunque, senza condizioni. Noi facciamo gli interessi del Paese. Fca vuole le garanzie? Deve impegnarsi.

Proprio su Fca avete ricevuto dure critiche dai giornali della famiglia Elkann. Come rispondete?

Appunto, è un caso emblematico. Per me la questione dei giornali controllati dagli editori spuri è un problema per l’economia e la democrazia. Serve una legge sul conflitto d’interessi, come ha proposto il ministro Provenzano.

In cosa consiste?

Un’ipotesi è quella di impedire a un editore spurio di avere più di un giornale nazionale. Così garantiamo il pluralismo dell’informazione, la democrazia liberale. Ci siamo stracciati le vesti per i conflitti di interessi di Berlusconi, ma bisogna anche prevenirli al di là di questo o quell’episodio.

Quindi Elkann dovrebbe scegliere tra Stampa e Repubblica?

Sì, ma vale per tutti.

Che cosa vuol dire il Recovery Fund per il futuro dell’Europa?

È una svolta storica. L’Europa uscirà più forte e unita, se passerà la proposta della Commissione porremo le basi di un’unione fiscale. Gli eurobond erano ritenuti impossibili: abbiamo lottato con un fronte di Paesi e alla fine anche Berlino ci ha dato ragione.

Sul Mes siete spaccati: voi lo volete, il M5S no.

Il Mes è senza condizioni e a tassi di interesse molto bassi, ma il problema è che se lo chiediamo solo noi si può creare un “effetto stigma” sui mercati che può far salire il tasso sul resto del nostro debito. Così è difficile dire se ci guadagniamo. Di certo se passa il Recovery Fund e c’è fiducia su un’Italia saldamente nell’euro, anche l’effetto stigma sul Mes svanisce.