Rider trattati da schiavi. Commissariata Uber Italy

Tribunale e Procura di Milano l’hanno rifatto: come fu commissariato il colosso della logistica Ceva per l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro dei suoi appaltatori, così ieri è accaduto a Uber Italia. Se serve un nome più familiare per capire il contesto eccolo: caporalato. È la legge contro il caporalato che consente oggi ai giudici di Milano, su richiesta dell’aggiunto Alessandra Dolci e del pm Paolo Storari, di commissariare la casa madre non per essere stata direttamente responsabile dei presunti reati, ma per non aver vigilato prima, né allontanato i dipendenti coinvolti poi.

La storia – che riguarda in particolare Uber Eats, il servizio di consegna di cibo a domicilio attivo in 14 città italiane e “spinto” dall’accordo con McDonald’s – non è nuova, ma ha quel più di cinismo digitale che la rendono paradigmatica, una sorta di I Mostri 2.0. Funziona così. Due ditte con sede nella periferia milanese – la Flash Road City e la FRC – dopo un bel ciclo di colloqui coi manager della multinazionale, dal gennaio 2018 iniziano a lavorare per Uber.

La loro forza lavoro è costituita in gran parte da stranieri, soprattutto richiedenti asilo o comunque con permesso temporaneo: più ricattibili e meno inclini alla denuncia. È a loro che viene gentilmente offerto un contratto (informale) che prevede un compenso da 3 euro a consegna qualunque siano la distanza, la fascia oraria, le condizioni meteo: 3 euro l’ora anche se l’app di Uber installata sul loro cellulare riporta compensi maggiori (sempre) e nonostante alle ditte venisse garantito un minimo da 5-6 euro l’ora per rider attivo in ogni caso, anche senza consegne.

I particolari sono i soliti: minacce, condizioni impossibili, punizioni in denaro o “licenziamento”: le decurtazioni, illecite, alla paga scattavano se la percentuale di consegne accettate scendeva sotto il 95% e questo, scrivono i giudici, “obbligava i fattorini a turni di lavoro massacranti”.

I titolari delle società, non bastasse il resto, si sono pure tenuti gran parte delle mance (21mila euro in due anni) e delle cauzioni da 70 euro chieste ai riders per l’attrezzatura da lavoro (61mila euro). Chi provava a protestare veniva minacciato e si vedeva bloccare l’account (“non lavorerai più”): cancellazione, ed è un particolare degno di nota, che poteva essere realizzata solo da Uber.

Pure sulle tasse, non sarà una sorpresa, c’è più di un problema. Lo ammettono gli stessi protagonisti al telefono. Parlando di uno degli imprenditori indagati, un collaboratore spiega come fosse uso non versare la ritenuta d’acconto per i suoi dipendenti: “Vuol dire che lui mezzo milione se l’è inculato…”. E ancora: “Ho scoperto che non ha pagato 400mila euro di Inps”. Curioso che proprio questo personaggio, un eterno classico della nostra commedia, al telefono con una dipendente di Uber si lamentasse dell’elevata pressione fiscale: “Siamo in Italia, mica a Malta”. Sarà un’abitudine di quell’isola, forse, l’abitudine di tenere 550mila euro in contanti in due cassette di sicurezza: i pm glieli hanno sequestrati.

Quanto ai soldi, Flash Road City e FRC risultano aver avuto in due anni pagamenti dalla società olandese di Uber – con cui avevano un contratto di prestazione tecnologica per l’uso della app – per circa 3,4 milioni di euro. I rider “assunti” al dicembre 2019 risultano essere 753 in sette città (Milano, Roma, Torino, Firenze, Bologna, Rimini e Reggio Emilia), ma in due anni sono stati assai più di mille.

Resta la domanda: perché commissariare Uber Italy? Perché alcuni dipendenti e manager della società erano a conoscenza della gestione del personale e anzi – coordinando di fatto la gestione dei turni “massacranti” delle due società milanesi e collaborando alle “punizioni” (il blocco dell’account) – hanno favorito i “caporali digitali”. La società, insomma, è stata negligente nel controllare aziende che subordinava ai suoi bisogni e poi non risulta aver rimosso i dipendenti che oggi sono indagati: ora un amministratore giudiziario dovrà assicurarsi, tutelando in primo luogo Uber, che non ci siano altri casi di caporalato tra le altre società che lavorano per il colosso di San Francisco.

“Caro Michele, Repubblica adesso è sotto padrone”

“Perché resto a Repubblica”. Lo spiega Michele Serra rispondendo all’invito perentorio del lettore Nicola Purgato: “Quello non è più un posto per voi. Siamo in tantissimi a pensarla così. Insieme a Lerner, Deaglio, da qualche altra parte, ricominciate, per favore. Vi seguiremo di sicuro”.

A quanto tu stesso riferisci, caro Michele, hai ricevuto molte lettere che segnalano un malessere diffuso, la sensazione di un brusco cambiamento del giornale su cui scrivi da un quarto di secolo. Anch’io ne ho ricevute, non esagero, migliaia dello stesso tenore. Del resto, il titolo messo con evidenza sul sito per segnalare la tua decisione – “Perché resto a Repubblica – rivela che la domanda, se restare o lasciare, te la sei posta pure tu. Perché questo non è stato un cambio di direttore come gli altri. Conosco e stimo Maurizio Molinari da molti anni, abbastanza per sapere che ha un profilo giornalistico e culturale assai diverso dal nostro. Tu che pratichi l’agricoltura sai che gli innesti sono operazioni delicate. A maggior ragione, nei giornali, quando coincidono con l’arrivo di una nuova proprietà che, al di là di poche dichiarazioni generiche sul potenziamento del digitale, pur avendo insediato da diversi mesi un direttore generale di sua fiducia, non ha ancora ritenuto di rendere noto quale sia il suo progetto.

Naturalmente per prima cosa voglio ricambiare l’identico “totale rispetto” che dichiari nei confronti della mia scelta di andarmene. Rispetto e comprensione che estendo alle “firme storiche” e a tutti i giornalisti che continuano a lavorare a Repubblica.

Anch’io, dopo il licenziamento senza preavviso di Verdelli, che tu definisci “traumatico nei tempi e nei modi”, e per il quale utilizzerei un aggettivo più netto, avevo deciso di fare il tuo stesso identico ragionamento: “Repubblica siamo noi”, stiamo a vedere. Condivido anche il passaggio successivo: abbiamo convissuto con vari editori, dunque “non vedo perché dovrei rifiutare a priori, come editore, un Agnelli”.

Figuriamoci. Come vicedirettore di Ezio Mauro ho lavorato alla Stampa per più di tre anni e ne serbo un bellissimo ricordo. Compresa la sera in cui titolammo a nove colonne in prima pagina su “Romiti indagato nell’inchiesta Mani Pulite” nonostante che il suo avvocato ci avesse avvertito di non avere ricevuto alcuna comunicazione in merito. Certo, erano tempi in cui i quotidiani incrementavano le vendite, e i giornalisti non erano sottoposti al forte rischio di tagli occupazionali. Il rapporto fra editore e redazione è soggetto a variabili, o se preferisci rapporti di forza, non riconducibili soltanto al sano imperativo di risultare credibili di fronte ai lettori e alla concorrenza.

Mi ero dunque imposto di attendere e verificare, sebbene le modalità del licenziamento di Verdelli, così brutali, senza avvertire il bisogno di fornirne alcuna motivazione, e senza che il successore ritenesse come d’uso di rivolgergli neppure un saluto e un ringraziamento, suonassero già come inequivocabile avvertimento: da oggi in poi si cambia, qui comandiamo noi, adeguatevi. Evidentemente anche lo stile degli azionisti, o meglio la maniera in cui scelgono di rappresentare i propri interessi, cambiano nel tempo. Io ci ravviso un ritorno a metodi che il primo giornale in cui hai lavorato, l’Unità, avrebbe definito “padronali”. Che mal si conciliano col profilo del giornale d’opinione che dal 1976 riusciva felicemente a conciliare la difesa del libero mercato con le istanze e le passioni del popolo di sinistra.

Chi vivrà vedrà. Dopo alcune settimane, io mi sono convinto che il giornale d’opinione che era il nostro stesse rapidamente mutando i suoi connotati. E ho deciso di conseguenza.

Oggi evidentemente abbiamo percezioni e sensibilità diverse, il che non ci impedisce di volerci bene. Alla fine saranno i lettori a decidere chi aveva ragione.

Montecitorio riapre e si fa in tre: i deputati temono di finire in corridoio o in tribuna

È scattata l’ora X alla Camera dove dalla prossima settimana l’Aula si farà in tre: oltre che nell’emiciclo e in tribuna, i 630 deputati potranno accomodarsi anche in Transatlantico. In modo che possano essere tutti presenti con le debite distanze di sicurezza imposte dall’emergenza coronavirus e senza dover ricorrere all’idea tentatrice dello smart working da casa. Ma adesso è la nuova logistica che fa discutere: perché la piccionaia delle tribune è davvero un ottimo osservatorio: ne sanno qualcosa i giornalisti che in tempi ordinari si appostano proprio lì per raccontare al meglio le sedute. Ma è altrettanto certo che sedere in Aula ha sempre il suo fascino oltre che un sicuro vantaggio, specie se c’è la diretta della seduta trasmessa sulla Rai. E allora è meglio il belvedere, le postazioni a favore di telecamera, o l’ormai ex corridoio “dei passi perduti” dove le grandi finestre sul cortile assicurano il continuo ricambio dell’aria?

Il cruccio è grande e non si scherza: perché c’è chi briga per rimanere in Aula, chi è tentato da spazi più larghi e più salubri. E chi di fare il saliscendi tra piani non ci pensa proprio: il rischio che anche sui posti a sedere ci si azzanni tra colleghi insomma c’è. Tanto che il collegio dei questori che ha organizzato la nuova logistica ha adottato un criterio preciso. Lo spiega il questore anziano, il forzista Gregorio Fontana: “Ogni gruppo potrà far sedere il 53 per cento dei suoi deputati in aula, il 19 per cento in Transatlantico e il 18 in tribuna in modo da mantenere una certa proporzione in tutte e tre le aree di questa aula allargata. Poi i gruppi sceglieranno autonomamente chi siede dove. L’importante è che ciascuno stia nel suo settore”. Insomma i deputati di un singolo gruppo non potranno colonizzare un solo settore facendo come gli studenti più smagati, quelli che pur di assicurarsi i posti migliori sono disponibili ad arrivare anche prima a scuola. “Del resto – spiega ancora Fontana – non ci sono posti di serie A o di serie B: io stesso ho assistito ai lavori dai palchi in alto. E si sta benone anche lì”.

Quel che è certo è che le nuove regole imporranno ai capigruppo un esercizio di diplomazia non indifferente, perché spetterà principalmente a loro decidere se riservare l’Aula agli onorevoli di grido o organizzare una rotazione democratica. Per Federico Fornaro che guida la pattuglia di LeU a Montecitorio non si tratta di un grande problema: “Finora ho notato che per la tribuna si sono offerti i più giovani, un po’ per rispetto dei colleghi più anziani, un po’ perché sono più disponibili alla novità. È pur vero che questa concentrazione di natura anagrafica in un solo settore può avere un impatto: nei giorni scorsi durante il dibattito sulla gestione lombarda dell’emergenza Covid 19 le tribune a un certo punto si sono trasformate in una specie di stadio”.

Ora però l’aula che si fa in tre può avere altre implicazioni anche più rilevanti, innanzitutto per la disciplina di partito. “Sicuramente la distanza favorisce un voto più libero dalle indicazioni di gruppo. E per la verità pure chi si vuole imboscare” dice ironico Fornaro che comunque un’occhiata ai tabulati la dà sempre, tanto per non sbagliare. “Io guido un gruppo di 11 deputati e non credo che avrò mai grandi problemi. Ma per le fruste degli altri partiti (ossia quei deputati che hanno l’ingrato compito a ogni votazione di segnalare con gesti o urlacci se va spinto il tasto verde o il rosso, ndr), sarà più dura”.

Formigoni accusa e non fa i conti con la sua sanità

Da settimane che a Roberto Formigoni fischiano le orecchie, è stato più volte citato, nelle discussioni sul sistema sanitario lombardo che si è fatto trovare largamente impreparato ad affrontare la pandemia. È Formigoni, per vent’anni presidente della Regione Lombardia, il “padre” della riforma che ha aperto ai privati la sanità mettendoli sullo stesso piano delle strutture pubbliche. È lui che ha creato quell’“eccellenza lombarda” che ha fatto di una delle regioni più ricche d’Europa anche una di quelle con più morti e infetti da Covid-19.

Formigoni ora si difende: “La nostra riforma fu varata nel 2012 con una delibera di giunta votata anche dalla Lega, ma poi fu ignorata dalla giunta a guida leghista che, invece, prevedeva un forte indebolimento della medicina territoriale”. Colpa insomma del successore, dice Formigoni: il leghista Roberto Maroni. “Durante le giunte che ho presieduto tra il 1995 e il 2012 la sanità lombarda nelle statistiche è sempre stata al primo posto, tranne due anni quando si è classificata al secondo. Dopo la riforma Maroni finì al settimo”, dichiara al Corriere della sera. Salva invece l’attuale presidente della Regione, Attilio Fontana: “Non ha fatto gli errori che gli imputano, forse ha un po’ tardato a chiedere l’aiuto dei privati che poi, però, hanno fatto il loro dovere”. Formigoni dimentica che la sua apertura ai privati ha indebolito il settore pubblico e ha ridotto i posti letto e le terapie intensive, creando quel sistema sanitario che non ha saputo affrontare la grande crisi del febbraio-marzo 2020. Ha però ragione su un fatto: chi è venuto dopo di lui ha proseguito l’opera di smantellamento e di iper-ospedalizzazione del sistema, indebolendo la sanità di base e la rete territoriale dei medici di famiglia. Chi stava completando l’opera, con la sua riforma dei “gestori sanitari” per i malati cronici, era l’attuale assessore Giulio Gallera.

Manduria, tre condanne per reato di tortura. Ma Cosimo Stano non morì per le sevizie

Cosimo Stano, il 66enne disabile psichico di Manduria (Ta), è stato torturato dalla baby gang ma non è morto per le conseguenze dirette di quegli episodi. È quanto emerge dalla sentenza con la quale il giudice di Taranto Vilma Gilli ha condannato i tre maggiorenni della comitiva che per mesi ha vessato l’uomo nella casa dove viveva da solo. Condannati a 10 anni il 20enne Gregorio Lamusta e il 24enne Antonio Spadavecchia, a 8 anni e 8 mesi il 20enne Vincenzo Mazza, riconosciuti colpevoli di tortura escludendo l’aggravante della morte come concausa di quegli episodi. Il pm aveva chiesto 20 anni per i tre, ma la difesa è riuscita a dimostrare che gli atti di violenza non erano stati la causa del decesso. Stano, infatti, dopo le ultime aggressioni (riprese con i telefonini), si chiuse in casa senza mangiare e senza curare le ferite che le violenze avevano provocato. Quando fu ricoverato in ospedale, il quadro clinico era compromesso: morì circa 20 giorni dopo. L’inchiesta coinvolse anche altri 13 “orfanelli” minorenni, tutti affidati in prova ai servizi sociali.

Mail Box

 

L’Ecobonus danneggerà le piccole imprese edili

Sono l’amministratore di una piccola impresa di costruzioni e rappresentante di piccole imprese della provincia di Avellino, che hanno da tre a dieci dipendenti. Vi invito a riflettere sul decreto Rilancio e precisamente sull’Ecobonus. Esso prevede per il beneficiario 3 possibilità: 1) può detrarre l’importo dell’Irpef e, se utilizza i due bonus – energetico e sismico –, può detrarre 90.000 euro, quindi dovrà avere un reddito annuo di circa 60.000 euro. Pochissimi potranno utilizzarlo. 2) Può utilizzare lo sconto del 110% in fattura per i lavori eseguiti, cedendo all’impresa il credito spettante. 3) Può cedere la detrazione d’imposta alla banca. In tutti i casi il beneficiario dovrà affidare a una impresa i lavori. Quindi le imprese dovranno anticipare somme enormi (materiali, manodopera, Iva e oneri sociali), che recupereranno a lavori ultimati, non con liquidità, ma conguagliando gli oneri fiscali in 5 anni oppure cedendo il credito alle banche (se accetteranno e a quali condizioni). Mi chiedo: quale piccola impresa ha la liquidità per poter anticipare il costo dei lavori?… Quindi, altro che “Rilancio”, questo Ecobonus sarà la morte delle piccole imprese e una manna per le banche e la delinquenza.

Lettera firmata

 

Mi associo a voi, gruppo del “libero pensiero”

Caro Marco, chi ti scrive non ha l’abitudine all’inchino, ma non può sottrarsi al dovere, nonché al piacere, di esprimere sentimenti di gratitudine a tutto il gruppo dal libero pensiero. Mi ero allontanato dall’informazione a causa dell’untuosità dell’inchiostro riverente e ipocrita delle pagine che sfogliavo, anche dei più rinomati quotidiani. Ora le vostre pagine mi hanno fatto ritornare quel piacere della lettura, della sintesi, del fil di spada coraggioso alla ricerca della verità, di quell’essere un po’ guasconi e non genuflessi al furbastro potente, di costituire un punto di riferimento per i giovani che si accingono alla professione. Siete non rivoluzionari: di più, un nuovo modello di vita per le nuove generazioni. Continuate… e lo dico per il bene del Paese. Grazie.

Osvaldo Casto

 

Bello il nuovo “Fatto”: complimenti a tutti

Con voi dal primo numero, volevo farvi i complimenti per il nuovo Fatto, bella veste grafica e contenuti distribuiti meglio. Mi è piaciuto molto il pezzo di Fini su Tobagi. Complimenti e avanti così!

Alessandro Monti

 

Andate a ruba: il mio edicolante ha confessato

Giovedì mattina l’edicolante mi dice: “Mi dispiace, ma il Fatto Quotidiano è già terminato! Dovrò chiedere più copie, perché chi prima prendeva Repubblica, adesso compra il Fatto!”. Saranno o no soddisfazioni? Bravi a tutti.

Sandra Ferretti

 

DIRITTO DI REPLICA

In relazione a quanto pubblicato giovedì a firma Giorgio Meletti, specifichiamo che il Paese sta per affrontare una crisi di proporzioni enormi (perdita Pil stimata 10-15%), la spesa pubblica in infrastrutture è l’unico modo per dare lavoro a milioni di persone. 400 miliardi di Pil persi possono essere in parte controbilanciati da un investimento in infrastrutture di 100 miliardi. I nuovi progetti daranno lavoro a Pmi travolte dalla crisi, dai cronici ritardi dell’avvio lavori e dai mancati pagamenti della pubblica amministrazione. La pretesa bontà del sistema di affidamenti e gestione degli appalti pubblici ordinari, il Codice appalti pubblici, è testimoniata dalla quantità di opere ferme e non realizzate, da 120 mila imprese fallite, da 650 mila posti di lavoro persi. La costruzione del Ponte di Genova è stata una esperienza collettiva di grande valore e il fastidio che provoca in alcuni risiede nel fatto di aver mostrato un modello-Paese che funziona, con una collaborazione costruttiva di istituzioni e aziende, applicando la normativa europea per gli appalti. Il ponte è stato dai noi costruito per spirito di servizio e ogni eventuale margine di gestione lo devolveremo in beneficenza. Abbiamo impegnato le nostre migliori risorse ed è stata ricostruita con il lavoro l’immagine di un made in Italy che aveva subito un grave danno. Il crollo del ponte di Genova ha dimostrato che c’è bisogno di manutenzione, e che si possono fare bene ospedali, scuole, metropolitane, ferrovie ad alta velocità, senza perdere tempo e nella legalità. Webuild, che occupa 70 mila dipendenti, tra diretti ed indiretti, di cui 11 mila solo in Italia, dà lavoro nel nostro Paese a 1.500 aziende fornitrici, di cui il 90% Pmi con una rigorosa procedura di selezione, con requisiti rigidi in termini di legalità, severa sicurezza sul lavoro, procedure di formazione del personale, impiego di giovani, sviluppo dell’innovazione e applicazione delle migliori policy per la diversity.

Luigi Vianello, WeBuild

 

Ringrazio Webuild di queste precisazioni che, nulla precisando, arricchiscono il mio articolo mostrando ai lettori come sarebbero gli articoli sul letamaio degli appalti se i costruttori se li scrivessero da soli. Saranno contenti l’ex ministro Graziano Delrio e l’ex premier Matteo Renzi (amicissimo di Pietro Salini, boss della Webuild) di leggere che il Codice appalti di cui da anni menano gran vanto è accusato di aver fatto fallire 120 mila imprese creando 650 mila disoccupati. Mentre l’autore dell’articolo “precisato” è, più modestamente, contento di aver visto e scritto giusto, come conferma questa orgogliosa descrizione di un mercato degli appalti gestito non dallo Stato secondo le leggi, ma dall’impresa unica Salini-Impregilo, oggi Webuild, secondo il suo arbitrio.

G. Me.

Crisi. Dopo il Reddito di cittadinanza ne servirebbe ora uno “universale”

 

Buongiorno, sono un semplice cittadino italiano che ha sempre lavorato nell’ambito della ristorazione, con un’esperienza di 30 anni tra Irlanda e Regno Unito. La mia prima osservazione è: com’è possibile che in un Paese come l’Italia non esista un sistema definitivo di assistenza a chi non lavora, ma solo misure temporanee (una persona ha diritto alla disoccupazione solo se dimostra di avere lavorato 12 degli ultimi 24 mesi)? Da questa situazione drammatica si delinea la nascita del Reddito di cittadinanza, che a mio parere è la più bella scommessa finanziaria di un nostro governo dal dopoguerra: tuttavia, mi sembra anche questa una misura temporanea e continuamente “attaccata”. Ritengo che sia ora di fare una legge definitiva, come in tutti i Paesi europei, per l’assistenza ai disoccupati e senza vincoli… Pensate, poi, cosa succederebbe se il nostro governo avesse la possibilità di ridurre drasticamente il cuneo fiscale per le medio-piccole aziende e azzerare i debiti dei piccoli imprenditori con l’agenzia delle entrate: questa potrebbe essere la vera mossa per creare lavoro. Grazie.

Antonio Costantino

 

Noi siamo molto d’accordo con lei Antonio, e la crisi da Covid-19 ha dimostrato che quando il lavoro non è garantito, un reddito universale è l’unica soluzione per evitare la povertà di massa. L’istituzione del Reddito di cittadinanza è stata a suo tempo una mediazione per introdurre la nuova misura contro chi non ha mai accettato, e non accetta, che possano esistere forme di reddito svincolate dal lavoro. Il legame artificioso, e inutile, costruito tra il Rdc e le cosiddette politiche attive del lavoro dimostra il pasticcio realizzato e l’ipocrisia che lo giustifica. Lo scoppio della crisi, invece, ha dimostrato che il Rdc è insufficiente tanto che prima si è dovuto creare un “reddito di ultima istanza” e poi anche un “reddito di emergenza”. Andrebbe ora unificato tutto in un “reddito universale” che garantisca chi non ha altri mezzi per vivere. Mi permetta invece di non condividere il taglio del cuneo fiscale, perlomeno quando si tratta di contribuzione sociale. I contributi previdenziali non sono imposte o fisco, ma salario differito. La pensione futura è una parte del salario di oggi. Tagliare i contributi significa tagliare il salario. È bene saperlo.

Salvatore Cannavò

Alla fine tutti i talk sono davvero un Talk Unico

I 100 giorni che (non) sconvolsero i palinsesti, parte seconda.

Sallusti. È apparso sempre, in qualsiasi giorno, con qualsiasi conduttore, in qualsiasi orario, come se tutti i talk fossero uno solo. A volte sembrava sparire, ma poi tornava, un po’ come capita con l’emicrania. Era rimasto intrappolato nel monoscopio? No: tutti i talk sono davvero un Talk Unico. Lascia o raddoppia? Maurizio Costanzo ha proposto di far condurre un quiz al più bravo dei virologi, ma come individuarlo? Forse si potrebbe chiedere a Palamara. Oppure, si potrebbe varare un quiz in cui i virologi sono in lizza tra loro, ognuno nella sua cabina. Il contagio lascia o raddoppia? C’è però un problema: nessuno conosce le risposte esatte. Miracolo a Cologno. Su Tv 2000 va forte il Rosario da Lourdes. Matteo Salvini, sempre pronto a intercettare le nuove tendenze, ha mollato il moijto per la corona e ha lanciato il Rosario da Cologno Monzese. Carmelo Bene è apparso alla Madonna, lui a Barbara D’Urso. Gallera. Il Grande Semplificatore. Se qualcuno aveva dubbi sul valore della classe dirigente, lui lo ha autocertificato. Nuovo idolo dei social, tira dritto, respinge le critiche e rilancia il welfare, pronto ad abbracciare personalmente i positivi. Basta che gli si presentino uno alla volta.

Sardegna infelix? Scelgo la Corsica

La Sardegna non ci vuole a noi lombardi e soprattutto a noi milanesi, gli untori. Bell’esempio di quella solidarietà di cui si riempie sempre la bocca il presidente Mattarella.

Il sindaco di Milano Beppe Sala, parlando da milanese, più che da primo cittadino, di fronte a questa discriminazione ha replicato: “Quando poi deciderò dove andare per un weekend o per una vacanza, me ne ricorderò”. Condivido in pieno. Ma poi chi se la caga la Sardegna? Prendiamo una mappa di quest’isola. In quella che una volta era la splendida Gallura, nord-est dell’isola, a Porto Cervo e a Porto Rotondo, prima l’Aga Khan e poi Berlusconi hanno costruito a manetta violando ogni legge paesaggistica con la complicità ovviamente degli amministratori locali, sardi. Porto Cervo è una trappola, molto costosa, per borghesi scemi. Vi capitai invitato da un’amica. Era un compound o piuttosto un condominio con le case un po’ distanziate, situato nella più infelice delle posizioni, incassato, per cui a destra non vedevi la montagna e a sinistra nemmeno il mare perché la vista era ostruita da altri edifici. La spiaggia era fatta di materiali di risulta delle costruzioni tirate su in fretta e furia per cui ci dovevi andare con dei sandali di gomma trasparenti. Il mare faceva schifo. La grande consolazione, anzi l’unico vero obbiettivo per abitare in quel posto sconfortante, era che nei paraggi Silvio Berlusconi aveva una delle sue ville e ipoteticamente lo si sarebbe potuto vedere e forse, chissà, anche toccare. Peccato che il Berlusca non si facesse vedere mai e sulla spiaggia non ci vada, nemmeno con la scorta, perché non sa nuotare.

A Porto Rotondo i malcapitati ma colpevoli turisti erano conciati anche peggio. Ci andai all’inseguimento di una bella donna soprannominata “fascino discreto della borghesia”, il che dice tutto. Il grande obbiettivo era la “spiaggia di Ira” che sarà stata anche bella quando ci andava la Fürstenberg ma all’epoca, siamo all’incirca nei primi anni Novanta, era un deserto di sabbia che avrebbe spaventato anche Lawrence d’Arabia con alle spalle una rada sterpaglia. Le belle borghesi in tanga si abbronzavano al sole assassino di Sardegna e non di rado si scottavano a tal punto che dovevano essere portate al neurodeliri. Che a Porto Rotondo ci si annoiasse in modo mortale lo si vedeva, tra le altre cose, da un dettaglio: alle undici di mattina si creava una lunghissima coda, erano i turisti che, ansiosi, davanti all’edicola aspettavano i giornali del Continente. C’era un porto, è vero, ma non ho mai visto uno yacht puntare verso il largo. La grande attrazione qui erano le feste di Marta Marzotto dove l’ospite, suprema trasgressione, si aggirava per le sale tenendo in mano un fallo finto ma istoriato. C’era un esorbitante profumo di fiori che ricordava molto il camposanto, perché Porto Rotondo in realtà non esiste, il giornalaio, il tabaccaio, i proprietari delle lussuose boutique finita la stagione se ne tornano a Olbia. Tutto, a Porto Rotondo, era e forse è ancora (perché non ci ho mai più rimesso piede) provvisorio e c’era un inquietante sensus finis’.

E veniamo al sud dell’isola. A sud-ovest c’è Villasimius con spiagge indubbiamente splendide, ma altrettanto care. Qui il problema sono proprio i turisti, radical chic, insopportabili con quella loro puzzetta sotto il naso. Molto meglio l’area del Sulcis Iglesiente dove, essendo storicamente terra di miniere di carbone, nessuno ha osato costruire e sconciare il paesaggio. Ma anche qui qualche problema c’è: il beghinismo sardo. Io c’ero andato pilotato da un mio giovane amico, Alberto Cossu, venendo da Cagliari dove ero stato per altre ragioni, ero quindi vestito da cittadino. Mi spogliai al riparo di una specie di asciugamano improvvisato da Alberto e mi cacciai a mare in mutande facendo un bagno bellissimo con sullo sfondo l’Isola, enclave ligure, di Carloforte. Quando uscii venimmo circondati da delle vecchie zie che tutte vestite di nero se ne stavano da quelle parti: “Ma vi rendete conto di quello che avete fatto?” ci dissero scandalizzate. Poiché ci incalzavano ulteriormente, Cossu che è un bel ragazzo, aitante, le disperse con un bastone e quelle se ne andarono schiamazzando come galline impazzite.

La Sardegna è quasi completamente piatta a parte il gruppo del Gennargentu che in genere, esclusa Punta La Marmora 1.834, supera di poco i mille metri. Non c’è nulla da vedere perché i Nuraghi una volta che ne hai visto uno li hai visti tutti.

A nord della Sardegna, separate da uno stretto braccio di mare, le Bocche di Bonifacio, c’è la Corsica. La Corsica ha una dorsale di monti alti quasi tremila metri (il Cinto è 2.700). Il che vuol dire fiumi, vuol dire foreste, vuol dire paesaggi quasi dolomitici. È un piccolo continente, c’è il maquis, c’è il deserto (des Agriates dove un tempo stazionava la Legione Straniera e che produce vini squisiti come quello che sto bevendo in questo momento alla faccia dei sardi) ci sono dei laghi. Siccome le montagne sono a ridosso della costa basta inerpicarsi un po’, tre o quattro chilometri al massimo, e tu vedi sotto, in un paesaggio stupendo, il mare con tutti i suoi golfi. Ha un suo microclima, la temperatura di giorno non supera quasi mai i 30 gradi, di sera fa 17 o 18. È molto ventosa, piacevolmente ventosa, e le rarissime volte che il Mistral cede e si crea quell’afa che noi milanesi conosciamo benissimo, ma anche in Sardegna in certe aree non si scherza, basta prendere la macchina e fare una decina di chilometri e si è a 1.700 metri, in salvo. Consiglio la Corsica del Nord da Ajaccio in su (la città natia di quel teppista di Napoleone non ha nulla a che vedere con la Corsica, è di stile francese e i corsi odiano i francesi, non vedono nemmeno il Tour) perché i prezzi sono modesti, i turisti normali. Con i corsi, che io chiamo degli “afghani minori”, bisogna saperci fare, se non gli vai a sangue è meglio che giri al largo, se invece li capisci ed entri nel loro mondo mentale sono molto ospitali e tutto si basa sulla parola. Quante volte alla fine di una lunga vacanza, in genere ci passo un mese, mi è capitato di accorgermi di non avere i soldi. “Pagherai quando sarai rientrato in Italia”. Sono molto orgogliosi di essere corsi e sulle loro magliette, che il prefetto di Ajaccio tenta sempre, inutilmente, di togliere dalla circolazione, c’è scritto: “Corsica, un’isola sempre conquistata, mai domata”. Le ragazze sono belle, la Casta non è un’eccezione, fan le studentesse a Corte e d’estate, per guadagnare qualche soldo, scendono al mare per fare le cameriere con una grazia che è un misto fra la finesse francese e l’anima selvaggia che alberga in ogni corso. Ma i motivi per preferire la Corsica del Nord, in particolare il Dito nel lato che dà verso la Spagna, è che il Sud dell’isola risente già della Sardegna, dei suoi prezzi e delle sue facce di culo.

L’estate prossima quindi, con il Covid alle spalle e la riapertura delle frontiere internazionali, ce la fileremo in Corsica. Ma chi se la caga la Sardegna?

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Caro Massimo, non censuro mai nessuno, dunque pubblico integrale la tua – per me dolorosissima – invettiva contro la Sardegna. Ma sappi che sono parecchi anni che, dopo aver battuto in lungo e in largo la Sicilia, la Toscana, l’Elba e la Puglia, trascorro le vacanze proprio in Sardegna (non quella mondana e vippesca, ovviamente, ma un posticino isolato e tranquillo). E ho intenzione di continuare a farlo per molte estati ancora. Anche se non escludo di saltare un giorno sul traghetto per venire a romperti le palle in Corsica.

(m.trav.)

Sicilia: quegli appalti-fotocopia sempre uguali di anno in anno

Il modello Morandi fa scuola e sbarca in Sicilia. Il servizio aereo antincendio per il terzo anno consecutivo è stato affidato allo stesso costo (3,1 milioni di euro per un massimo di 1.400 ore di volo) allo stesso raggruppamento di società che si è aggiudicato l’appalto con lo stesso ribasso di sempre (tre per cento).

Nessun intoppo, né ricorso, né accidenti burocratico. Tutto è filato via liscio e le società Helixcom e E+S Air anche questa estate sono pronte e attrezzate per aggredire le lingue di fuoco e spegnerle dall’alto, con i propri elicotteri. A ben vedere la Sicilia ha usato criteri assai più restrittivi di quelli in uso a Genova, dove il ponte è stato appaltato praticamente senza gara e senza una base d’asta, e il modello, sebbene assai più piccino, ha dato prova di funzionare meravigliosamente. Il caso ha voluto che fossero sempre gli stessi pompieri a vedersela con gli incendi, anch’essi ogni anno identici a quelli degli anni precedenti. Perciò la stima del costo è stata mantenuta invariata cosicché gli appaltatori, ambedue siciliani, forse anche per tenersi coerenti alla realtà hanno esposto il loro proposito: riprodurre lo sconto nella stessa percentuale del passato. Tutti felici per l’appalto tris e soprattutto pronti a combattere chi da terra brucia ma anche un po’ a benedirli. Infatti se nessuno bruciasse i boschi nessuno sarebbe chiamato a volare per spegnerli.

La polemica in Sicilia è però dietro l’angolo e un occhiuto consigliere regionale, Nuccio Di Paola, ha presentato un’interrogazione all’assessore competente avanzando il sospetto che si siano posti in essere criteri restrittivi della concorrenza. In verità anche l’Antitrust tre anni fa, indagando sul mercato nazionale dell’antincendio aereo, aveva percepito che solo e sempre sette aziende, addirittura soprannominate “le sette sorelle delle pale”, si aggiudicano gli appalti in Italia ribassando il meno possibile. Ma sono i sospetti dei soliti cacadubbi.