Il prestito a Fca dimostra che lo Stato conta di meno

Garantire il prestito di 6,3 miliardi di euro a Fca, dopo che questa ha rinunciato alla nazionalità e residenza fiscale italiane, fa rosicare parecchio. Come se non bastasse, gli azionisti hanno in animo di staccare un dividendo di quasi altrettanti miliardi prima di sostanzialmente vendere la baracca a un concorrente francese, Peugeot. Però. Questo non accade perché Fca è “cattiva” o “ingrata”. Tali categorie non si applicano al campo delle scelte imprenditoriali, per definizione opportunistiche. Fca, siccome residente nella Ue con stabile organizzazione in Italia (i suoi stabilimenti), ha il diritto di non essere trattata meno favorevolmente di qualsiasi altra società residente. È un principio fissato dalla Corte di giustizia sia dai primi anni ottanta e amen. Quella stabile organizzazione è al contempo il grimaldello giuridico per accedere alla garanzia statale oltre che lo strumento di ricatto verso il nostro governo: quei soldi servono a pagare gli operai italiani in cassa integrazione e a non chiudere le fabbriche. La verità è che se per una FCA che si leva dai tre passi ci fossero altre società che investono, potremmo fare spallucce e evitarci questo provinciale piagnisteo; invece, è solo l’ultimo capitolo di un’emorragia che parte da lontano. E attenzione: c’è una bella differenza tra una società che passa in mano straniera (la proprietà di Land Rover è indiana, ma è sempre un marchio inglese) e quella di una società (come Fca) che, a proprietà invariata, fa i bagagli e va via. L’umiliazione subìta ci insegni almeno qualcosa. Va preso atto che, volenti o nolenti, lo Stato in quanto tale conta sempre meno. E non mi riferisco al tema della Ue (alla quale abbiamo sì ceduto importanti quote di sovranità, ma consapevolmente e democraticamente e avendo un posto nella stanza dei bottoni che la governa), ma alla concorrenza internazionale. Essa ha ridotto la sovranità degli Stati senza dare loro in cambio una cabina di regia che, data la sua natura acefala, non esiste proprio.

Il libero sfogarsi delle forze del mercato ci ha restituito un mondo nel quale gli Stati (e quindi non più solo le imprese) devo essere competitivi. Lo Stato del secolo scorso faceva il bello e il cattivo tempo, tanto l’imprenditore dove volevi che andasse? Oggi, invece, i grandi player internazionali dispongono del diritto a’ la carte. Possono segmentare le loro aziende (per esempio separando la proprietà intellettuale dalla tecnologia sottostante o il capitale dal suo proprietario) e distribuire i vari pezzi in giro per il mondo scegliendo gli ordinamenti che meglio tutelano ciascun segmento. Non c’è insomma il “prendere o lasciare”, ma il “diritto fai da te”. Affinché dunque una multinazionale si impianti in Italia e paghi le imposte italiane, devi offrirgli servizi efficienti, trasparenza e non da ultimo vivibilità ai dipendenti e manager. In un mondo simile, risultiamo veramente patetici pensando che qualcuno venga in Italia a fare impresa solo perché gli abbassiamo di qualche punto le imposte ma non affrontiamo alla radice il tema della certezza del diritto, della corruzione e dei tempi biblici della giustizia.

La concorrenza non può essere combattuta, va sfruttata e governata. Sullo sfruttarla, si è già detto. Sul governarla, ci vuole un’autorità sovranazionale che amministri la concorrenza fra Stati, che fissi le regole minime di ingaggio e che emargini gli attori che adottano regimi (non solo fiscali aggressivi, ma anche) manifestamente contrari a buona fede. La concorrenza non è un male in sé, anzi; ma il far west lo è eccome. La Ue e il Wto si occupano di queste faccende. Ma in modo purtroppo assai lento e inefficace. Non si tratta quindi di inventare la ruota, intendiamoci, ma di potenziare e ampliare il raggio di azione di meccanismi che già esistono. Dopodiché, però, basta lacrime di coccodrillo.

 

Il sogno proibito di una nuova Rai senza padrini

 

“I miei sogni sono irrinunciabili, sono ostinati, testardi e resistenti”

(Luis Sepúlveda)

 

Obbligata dalla pandemia a rivalutare il suo ruolo istituzionale di servizio pubblico, oggi la Rai sovranista si ritrova paradossalmente nel pieno di una crisi di strategia e di gestione, come una crisalide che non riesce mai a completare la metamorfosi e a diventare farfalla. L’ultima tornata di nomine, condizionata come sempre dalla lottizzazione politica, ha distribuito qualche poltrona e poltroncina senza incidere tuttavia sull’identità dell’azienda e sul suo rinnovamento. E adesso – in vista di un’eventuale uscita anticipata dell’amministratore delegato Fabrizio Salini, in procinto a quanto pare di emigrare a Netflix – si cerca un traghettatore o una traghettatrice, per arrivare fra undici mesi alla scadenza del consiglio di amministrazione e all’insediamento del nuovo.

In questa prospettiva, circolano già diversi nomi interni ed esterni. Ma, a parte il fatto che in una prospettiva del genere la logica suggerirebbe di affidarsi a un manager di casa e di provata esperienza che conosca già i meandri di viale Mazzini, sarebbe ora che il servizio pubblico radiotelevisivo affrontasse una transizione definitiva per passare dalla Rai dei partiti alla Rai dei cittadini. Una responsabilità che spetta alla politica, quella stessa politica che però non è riuscita ancora a rinnovare il consiglio dell’Autorità di garanzia sulle Comunicazioni, scaduto ormai da un anno e prorogato di volta in volta nonostante le sollecitazioni del capo dello Stato.

Ha fatto bene il presidente della Camera, Roberto Fico, già presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza, a richiamare recentemente l’urgenza di una nuova legge per riformare la Rai, in modo che diventi “libera, indipendente e meritocratica”. Ma le proposte per la verità non mancano e bisogna innanzitutto affrancare l’azienda dalla subalternità alla politica e in particolare al governo, trasferendo il “pacchetto” di controllo dal ministero dell’Economia a una Fondazione rappresentativa della società italiana. Se invochiamo a gran voce giornali senza padroni, dobbiamo reclamare anche una Rai senza padrini: a cominciare, naturalmente, dalle direzioni delle testate giornalistiche.

Basta aprire i cassetti degli archivi parlamentari, presidente Fico, per ritrovare i progetti di una riforma organica, metterla all’ordine del giorno e approvarla rapidamente. L’Italia non cambierà, se non si cambierà la Rai. E dopo l’epidemia da coronavirus, il Paese non ripartirà senza una nuova coscienza civile; senza uno spirito di solidarietà nazionale; senza un’opera pedagogica che il servizio pubblico può svolgere nell’era digitale come ai tempi dell’alfabetizzazione di massa.

È proprio l’emergenza sanitaria ed economica che offre oggi un’opportunità per rifondare la Rai, rinnovando la sua mission e la sua funzione. Se in questa emergenza abbiamo ritenuto “strategica” l’Alitalia, non possiamo trascurare il valore democratico di una televisione pubblica, e anche di una radio che spesso è più pubblica della tv, continuando a considerarle strumenti di regime per influenzare gli elettori e raccattare il consenso popolare. Al governo e alla maggioranza giallorossa tocca perciò il compito di tagliare una volta per tutte il cordone ombelicale fra la politica e la Rai, per liberarla dal giogo della partitocrazia. E così l’opposizione avrà modo di dimostrare magari che non è più suddita del partito-azienda.

 

Il Csm adesso è fragile. È ora di riformarlo

La sconfinata indagine perugina, per alcuni aspetti rassomigliante, per la sua espansa invasività, al clima regnante nella estinta Ddr e magnificamente raffigurato ne Le vite degli altri, ha offerto una visione grottesca della sensibilità istituzionale di taluni titolari di cariche pubbliche, stretti tra incontri conviviali di rango, reali e decisivi o solo ardentemente e vanamente desiderati, interessi di famiglia, faziosità gruppuscolari, contumelie a colleghi/e. Al tempo stesso, questi scorci di microcosmi da basso impero stanno finalmente spingendo i parlamentari a spremersi le meningi per concepire una incisiva ed efficace riforma del Csm. Il ministro della Giustizia, rinfrancato dalla mancata sfiducia, ha preannunciato la ferma intenzione di intervenire in materia, interpellando la pluralità degli stake-holders attraverso disposizioni allo stato solo accennate. Da quanto si apprende, oltre che sulla questione elettorale, il nuovo provvedimento di carattere organico dovrebbe occuparsi anche della fatidica e scottante questione del conferimento di uffici direttivi e semi-direttivi, quelli sui quali si combattono sia al Csm sia all’esterno battaglie senza esclusione di colpi. In relazione all’ambizioso obiettivo è agevole osservare che il primo traguardo da raggiungere dovrebbe essere quello di limitare quanto più è possibile il potere normativo secondario consiliare che oggi si manifesta attraverso la predisposizione di complessi ed articolati sistemi di regole destinati a disciplinare i vari procedimenti concorsuali.

Attualmente, è in vigore per gli incarichi più ambiti un immodestamente denominato, testo unico sulla dirigenza, espressione alquanto pomposa che tradisce il desiderio di equiparazione del Consiglio al legislatore. Ebbene, quella che avrebbe dovuto essere una miniera di regole oggettive capaci di risolvere in modo netto ed indiscutibile il conflitto tra più aspiranti, si è rivelata un’autentica trappola a causa della compresenza di decine di disposizioni minute che, isolatamente considerate, spesso vengono contraddittoriamente utilizzate per favorire l’uno o l’altro dei concorrenti, a seconda spesso dell’orientamento correntizio del consigliere o del candidato o di entrambi. In pratica, proprio nella asfissiante articolazione di disposizioni speciali manipolabili rispetto a singoli, specifici profili professionali e poggianti su eteree nozioni quali “attitudini “e “merito”, si annida la possibilità di un esercizio arbitrario ed irragionevole del potere di scelta dei consiglieri, esposti alle pressioni correntizie e personali, di cui si sta tristemente leggendo: esemplare di questa inconfessabile tendenza è la messe di ricorsi all’autorità giudiziaria e l’abbondanza di annullamenti di nomine evidentemente viziate. Viceversa, appare di certo preferibile la previsione in via normativa di una griglia stabile, e non mutevole in ragione delle circostanze come è tipico delle circolari e delle risoluzioni del Csm, di regole generali ed astratte, che ne limiti al massimo il potere discrezionale e si fondi su criteri incontrovertibili. Ad esempio potrebbe prevedersi un’anzianità minima per accedere a certi uffici classificati secondo il bacino d’utenza, e tenersi conto del requisito dello svolgimento per un periodo determinato di particolari attività qualificanti, nonché della mancanza di precedenti disciplinari, della continuità delle funzioni giurisdizionali senza interruzioni per collocamenti fuori ruolo negli ultimi anni di carriera, dell’insussistenza di segnalazioni negative da parte di colleghi o ordini professionali, della presenza di pubblicazioni scientifiche collocate nelle fasce superiori, della costante puntualità nell’adempimento dei doveri d’ufficio, della dose di conferma dei provvedimenti da parte dei gradi superiori.

Insomma, si tratta di affidare il delicatissimo compito di selezione dei dirigenti ad indici certi, obiettivamente verificabili, univoci, non piegabili a valutazioni parziali e sfuggenti alle ingerenze correntizie. Sia il legislatore ad orientare, attraverso predeterminati criteri di giudizio, verso la retta via dell’imparzialità un Csm che rivela oggi la propria fragilità, addebitabile alla sbornia di potere individuale e di gruppo; sia sempre il legislatore ad imporre che i candidati alla vicepresidenza presentino un pubblico programma davanti all’assemblea plenaria e si sottopongano ad un trasparente dibattito chiarificatore nella sede istituzionale! Così, la questione morale potrebbe finalmente avviarsi verso una soluzione che reintegri la credibilità dell’organo e dei suoi componenti, in atto e per non breve tempo violentemente vulnerata.

Dietro Fayez al Sarraj c’è mia zia; dietro Khalifa Haftar, la vicina

La Libia è da tempo il teatro di guerra dove mia zia e la sua vicina, una patologica compilatrice di lettere anonime, tentano di affermare la propria egemonia. Benché in buoni rapporti diretti, sono nemiche sul piano geopolitico: dietro Fayez al Sarraj, il premier dell’Accordo Nazionale riconosciuto dall’Onu, c’è mia zia; dietro il comandante Khalifa Haftar, il guappo della Cirenaica appoggiato da Putin, c’è la vicina. Come in Siria, si combattono indirettamente al solo scopo di avere ragione. L’altroieri, mia zia ha inviato a Sarraj numerosi addestratori del proprio esercito e un agguerrito gruppo di turcomanni della Siria nord-occidentale, che erano impegnati al fronte contro il regime di Assad.

La vicina ha replicato mandando a Haftar aerei, droni e un centinaio di mercenari della società di sicurezza privata russa Wagner, grazie all’intercessione di Putin, che per i suoi sostenitori leghisti, si sa, fa questo e altro. Due anni fa, mia zia trovò tutti i suoi piccioni viaggiatori, che tiene in una colombaia sulla terrazza condominiale, sgozzati. Chi poteva essere stato, se non il Kgb? “Adesso si chiama Fsb!”, mi urla zia dal bagno, dove sta cagando. “Grazie, zia”. (È ancora una gran gnocca, me la scopo con gusto.) E l’anno scorso il suo account TikTok restò fuori uso per una settimana: un gioco da ragazzi, per degli hacker russi.

Sul mandante, zia non ha dubbi, ed è passata al contrattacco, usando un drone armato per spezzare la catena dei rifornimenti della vicina: il nipote contadino che le portava la spesa ogni giorno con l’Ape.

Nel parcheggio, al posto dell’Ape, adesso c’è una buca di venti metri, i rottami sparsi nel raggio di chilometri.

Il sabotaggio ha disorientato la vicina per qualche giorno, dando alle truppe di Sarraj il tempo di riconquistare basi e città lungo la costa occidentale, al confine con la Tunisia. La tensione è così nuovamente altissima.

La Russia ha negato che suoi jet militari abbiano sorvolato la Libia orientale. “Negavano anche con la Politkovskaja e con Litvinenko”, ha detto il pizzicagnolo sotto casa, chiedendo l’anonimato. Mia zia, intanto, sta indagando su 11.000 tonnellate di carburante per aerei da caccia spediti dagli Emirati Arabi Uniti a Bengasi (la roccaforte di Haftar in Cirenaica). La prova che l’embargo internazionale è stato violato è una ricevuta del corriere Bartolini di cui zia è entrata in possesso grazie a una sua cugina, che da Bartolini ci lavora. Ma la parrucchiera di zia, il cui nonno era fra i golpisti del generale De Lorenzo (era il complice che faceva conversare le belle ragazze mentre De Lorenzo usava il bastone da passeggio per sollevar loro le gonne e guardargli le mutandine col suo monocolo) invita a non trarre conclusioni affrettate: “Le forze di Haftar sono un branco di incapaci. Non riuscirebbero a far volare un jet neppure se glielo pilotasse Tom Cruise!”.

Ieri l’ambasciatore americano in Libia, Richard Norland, ha avuto un colloquio telefonico con mia zia, che stava prendendo un tè con la vicina.

Le ha ribadito “l’urgente necessità di porre fine al flusso destabilizzante di equipaggiamenti militari e mercenari russi”. E la zia, passando il cellulare alla vicina: “È per te”.

La scelta di Orbán e i sovranisti italiani

Quando il primo ministro ungherese, Viktor Orbán giudica “assurdo e perverso” il Recovery Fund proposto dalla Commissione europea, dice qualcosa di perfettamente coerente con la dottrina sovranista di cui appare come l’alfiere più convinto. C’è il giudizio di merito sul piano Von der Leyen che nel fondo per la ripresa da 750 miliardi di euro, all’Ungheria ne riserverebbe 15 in tutto, di cui 8,1 a fondo perduto e 6,9 in prestiti. Infatti Orbán sostiene che “finanziare i ricchi con i soldi dei poveri non è una buona idea”. Il suo no, inoltre, rientra in pieno nella definizione politica di “sovranismo” secondo l’enciclopedia Larousse: “La preservazione della sovranità nazionale da parte di un popolo e di uno Stato in contrapposizione alle istanze e alle politiche delle organizzazioni internazionali o sovranazionali”. Nel pieno rispetto di questo principio, il premier magiaro avrebbe già dovuto annunciare l’uscita dell’Ungheria dall’Unione europea, tipica organizzazione sovranazionale (cosa possibile visto il pugno di ferro con cui ha messo in riga il Paese). Lecito anche chiedersi cosa diavolo ci fa questo autocrate di razza nel Partito popolare europeo, accanto alla Merkel, a Berlusconi e ai repubblicani di Giscard d’Estaing, ma non sottilizziamo. Veniamo al punto: poiché il Paese più finanziato dall’Unione risulta essere l’Italia (172 miliardi) è probabile che ciò avvenga anche con i “soldi dei poveri” di cui si duole Orbán. Infatti, l’Ungheria riceverebbe meno di un decimo di quanto destinato alla “ricca” Italia. Sarebbe interessante conoscere sull’argomento il pensiero di Giorgia Meloni e Matteo Salvini, che con Orbán mantengono un affetto stabile. Daranno ragione al caro Viktor, battendosi in tutte le sedi perché l’Italia rinunci a una fetta del RF, per correre in soccorso del “povero” sovranismo magiaro? Oppure difenderanno le casse della Patria sulla base del principio più sovranista di tutti: padroni a casa nostra?

I giovani e la folle “sfida” al virus

Quando ci colpisce una tragedia, un evento che provoca immenso dolore, in noi umani si sviluppano sentimenti impensabili che, addirittura, nell’intento di scongiurarne gli effetti, finiscono per peggiorarli. In particolare, di fronte alla realtà di un evento naturale tragico , così sorprendente, drammatico e intenso, la maggior parte delle persone adotta una gamma di reazioni inconsce. Spesso ciò che addolora maggiormente non è l’evento, ma l’impossibilità di opporsi a qualcosa che esiste, ci sovrasta nostro malgrado e ci trasmette la sensazione della nostra impotenza. Ogni essere umano è unico anche in queste situazioni. Dopo un primo momento di grande fragilità e comune paura, i comportamenti possono essere di diverso tipo. Alcuni individui, davanti all’impossibilità di eliminare la causa del dolore, l’evento tragico che stanno vivendo, cercano di liberarsi dall’opinione costruita dall’evento e cercano di guardarlo con obiettività in modo da affrontarlo con una certa freddezza. Purtuttavia spesso la reazione è molto diversa. Ci si lascia prendere dal panico, non tanto per l’evento, quanto per ciò che questo potrebbe causarci e si generano i comportamenti più irrazionali e dannosi. Il più frequente è il tentativo di esorcizzare la paura con atteggiamenti di “sfida”. Purtroppo questa reazione è molto frequente nei giovani che difficilmente accettano la sofferenza, la consapevolezza dei propri limiti. Forse c’è anche questo negli assembramenti delle movide, nei ragazzi che tengono abbassata la mascherina, che scherniscono chi li richiama. Forse a questi ragazzi, noi genitori ed educatori che, reduci da un’educazione spesso troppo repressiva, abbiamo permesso che sviluppassero un super-io, avremmo dovuto insegnare che la consapevolezza dei propri limiti non è una debolezza: è un grande punto di forza.

direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Difetti di trojan: non esiste traccia di una cena Pignatone-Palamara

Sottoposta all’incrocio di circa tremila chat, migliaia di intercettazioni telefoniche e persino di un trojan, che ha trasformato il suo telefono in una microspia potenzialmente attiva h24, la vita di Luca Palamara è un puzzle dove ogni minuto rappresenta una tessera da incastrare. A patto di trovarla.

All’indomani della notte tra l’8 e il 9 maggio, dopo aver scoperto che il trojan ha intercettato i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri, la procura di Roma scrive al Gico della Guardia di Finanza di ricordare la regola: se emerge che Palamara “sia prossimo a incontrare un parlamentare, se per esempio prende un appuntamento direttamente, o conversando con un terzo emerge con certezza la presenza di un parlamentare, sarà vostra cura NON (il maiuscolo è testuale, ndr) attivare il microfono, perché non sarebbe più un’intercettazione indiretta”. E quindi non sarebbe consentita. Non fu quello il caso, poiché è allegata agli atti. C’è però una cena che nessun trojan ha intercettato.

È quella dello stesso 9 maggio 2019 in cui Palamara e con il suo procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che è appena andato in pensione e fu dedicata al suo commiato dalla procura. Ve n’è traccia ovunque, a spulciare le carte dell’inchiesta, ma alla fine, bisogna dedurne, poiché Pignatone non ha particolari guarentigie, il trojan non deve aver funzionato.

La prima traccia è del 4 maggio 2019 alle ore 17.20. “Mi ha appena chiamato Pi. Gio o ven a cena con loro. Adesso ti chiama”. A scrivere questo messaggio è Alessandro Casali, presidente e amministratore delegato del Gruppo Meet, azienda che si occupa di comunicazione. A riceverlo, rispondendo “ok”, è invece Luca Palamara, il pm romano, ex presidente dell’Anm e consigliere del Csm, intercettato un anno fa mentre brigava per gestire la nomina del procuratore di Roma. Il resto è semplice da decifrare: “Pi” sta per Giuseppe Pignatone e tra venerdì e giovedì era stata organizzata una cena.

Il giorno dopo, alle 17.32, il Gico della Guardia di Finanza – che è quello di Roma e utilizzava le strutture della procura capitolina – intercetta Palamara mentre parla con sua moglie, Giovanna Remigi. La donna gli dice di aver ricevuto un “invito da Piera, i cui presenti saranno anche Paola Roia e Alessandro”. Paola Roia è Presidente dell’ottava sezione del tribunale di Roma. L’appuntamento è al ristorante “Mamma Angelina per venerdì”, annota il Gico, “ma Palamara le dice di comunicarle che lui non ci sarà, perché starà a Castelvetrano”. I due “concordano di chiamare Piera e avvisarla”.

Ulteriore traccia della cena con il procuratore Pignatone arriva alle alle 15.54 del 9 maggio. Il trojan, almeno fino a quell’ora, è perfettamente funzionante e intercetta Palamara mentre parla con un’altra donna alla quale è molto legato, Daniela Attisani. Le riferisce che ha una cena alla quale dovrebbe partecipare anche Michele Prestipino, oggi procuratore capo di Roma, all’epoca procuratore aggiunto. In realtà, Prestipino, a quella cena non parteciperà. Dalle 16 circa del 9 maggio non si trova più alcuna traccia di conversazioni captate dal trojan fino al giorno successivo.

L’ultima traccia avviene attraverso un’intercettazione telefonica. Alle 18.08 del 9 maggio, Palamara, che al ristorante Mamma Angelina è di casa, chiama il proprietario, Andrea, per chiedergli l’orario della prenotazione. Andrea gli risponde di sapere soltanto che la prenotazione è per 8 persone. E qui si aggiunge una nota di colore per i tifosi di calcio, in particolare i laziali. Quando Andrea gli comunica che a un altro tavolo siederà Stefano Palazzi, ex procuratore federale della Federazione italiana gioco calcio, Palamara gli dà una dritta sui biancocelesti: “Oh – gli dice – mi sa che te lo manda via Inzaghino”. Il riferimento a Simone Inzaghi è chiaro. E Palamara parla spesso con Claudio Lotito, patron della Lazio. Le notizie finiscono qui. Con questa nota di colore. Siamo certi che nulla di penalmente rilevante, tantomeno imbarazzante, sarebbe emerso dalle loro conversazioni in una cena di commiato tra amici. Ma il trojan di Palamara, che ha intercettato magistrati di ogni ordine e grado, quella sera fece cilecca.

Lezione di Mattarella a Salvini: “Csm non si può sciogliere ora”

E adesso Matteo Salvini forse la smetterà di fare richieste a vanvera. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con una nota molto articolata, ha spiegato al leader della Lega perché il Csm, a pieno regime, non si può sciogliere, Costituzione alla mano, anche se magistrati intercettati con l’ex consigliere Luca Palamara hanno parlato male di lui. Fermo restando, però, la condanna della lottizzazione delle nomine emersa un anno fa e deflagrata in questi giorni con la pubblicazione di decine di intercettazioni ordinate dai pm di Perugia, che accusano Palamara di corruzione.

“Il presidente della Repubblica – si legge nella nota – ha già espresso a suo tempo, con fermezza, nella sede propria – il Csm – il grave sconcerto e la riprovazione per quanto emerso, non appena è apparsa in tutta la sua evidenza la degenerazione del sistema correntizio, l’inammissibile commistione fra politici e magistrati” e ricorda di aver sollecitato una riforma del Csm. Ora che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede l’ha annunciata, d’accordo l’intera maggioranza, il Quirinale si augura che venga approvata “in tempi brevi” e che “contribuisca a restituire all’ordine giudiziario il prestigio e la credibilità, salvaguardando l’indispensabile valore dell’indipendenza della magistratura”.

Veniamo ora alla lezione di diritto costituzionale per Salvini: il presidente della Repubblica “non può sciogliere il Csm in base a una propria valutazione discrezionale”, ma “soltanto in presenza di una oggettiva impossibilità di funzionamento”, in particolare, “il venir meno del numero legale”. Non è questo il caso, dopo il subentro di 5 togati al posto dei dimissionari presenti alla serata con Palamara e i parlamentari del Pd Cosimo Ferri e Luca Lotti per pilotare la nomina del procuratore di Roma.

Inoltre, al centrodestra che sollecitava un intervento di Mattarella rispetto alle chat su Salvini, il Quirinale risponde picche: “Per quanto gravi e inaccettabili possano essere considerate, sull’intera vicenda sono in corso un procedimento penale e diversi procedimenti disciplinari e qualunque valutazione potrebbe essere strumentalmente interpretata come una pressione del Quirinale su chi è chiamato a giudicare”. Pertanto, se si sciogliesse ora il Consiglio, ci sarebbe “un rallentamento, dai tempi imprevedibili, dei procedimenti disciplinari, mettendo a rischio la tempestiva conclusione nei termini previsti dalla legge”.

Su queste vicende, Mattarella tornerà a parlare “nelle occasioni e nelle sedi a ciò destinate senza essere coinvolto in interpretazioni su singoli fattim oggetto del libero confronto politico e giornalistico”.

Di riforma del Csm, che deve garantire “il merito” e la fine della “degenerazione” delle correnti, come auspica Mattarella, ha parlato Bonafede ieri sera ad Accordi & Disaccordi, sul Nove. Non a caso il ministro ha detto che “ancora una volta il presidente della Repubblica ci indica una strada, che è la strada migliore”.

’Ndrangheta stragista, Graviano non parla più

Non ci sarà più alcun interrogatorio di Giuseppe Graviano. Nell’udienza di ieri del processo “’Ndrangheta stragista”, in cui il boss di Brancaccio è imputato per l’omicidio del 1994 in cui morirono due carabinieri, l’avvocato Giuseppe Aloisio ha fatto sapere che il suo assistito ha deciso di non concludere l’esame iniziato in gennaio: “Ovviamente non vi è il timore di rispondere, – ha spiegato il legale alla Corte d’Assise di Reggio Calabria – ma vi è la consapevolezza che quelle dichiarazioni resteranno prive di riscontro”.

Eppure, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, in questi mesi Graviano aveva anticipato rivelazioni importanti (“Vi dirò dov’è l’agenda rossa di Borsellino e chi ha fatto l’attentato al poliziotto Agostino e la moglie”) facendo anche il nome dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi con cui si sarebbe incontrato tre volte a Milano: “Negli anni 70 mio nonno aveva messo i soldi nell’edilizia al Nord. Il contatto è col signor Berlusconi. Si indaghi sul mio arresto e sull’arresto di mio fratello Filippo e scoprirete i veri mandanti delle stragi”.

Non è dato sapere se quelle frasi siano state messaggi in codice o altro. Di certo, per l’avvocato Aloisio, quanto detto da Graviano poteva essere riscontrato da alcuni collaboratori come Mandalà e Spataro: “Su alcune domande non ci è stato permesso di approfondire alcuni temi. In particolare quando parliamo di Contorno. Non ci è stata data la possibilità di poter andare ad accertare questi argomenti”. E quindi Graviano è tornato al suo silenzio durato 26 anni.

Ascensori fuoriuso e termometri: caos nelle Procure

Procure e Tribunali ogni giorno si riempiono di centinaia e centinaia di persone. Udienze e indagini implicano la presenza di tanti tra avvocati, imputati, testimoni, magistrati e agenti di polizia giudiziaria. Per questo nel periodo dell’emergenza in tutti i palazzi di giustizia sono state messe in atto una serie di misure per limitare la diffusione del contagio: distributori di gel disinfettante, smart working e ingressi contingentati.

Dopo un iniziale periodo di stop, con migliaia di udienze rinviate, adesso il via vai è in ripresa. Ma non tutti i problemi sono stati risolti, con tanto di proteste da parte dei legali: nella capitale proprio nei giorni scorsi è stata organizzata una manifestazione durante la quale gli avvocati hanno deciso di togliersi la toga.

Roma è la sede giudiziaria più grande d’Italia, dove in tempi pre-Covid, ogni giorno circolavano in media tre mila persone, con circa 27 aule aperte. Nelle scorse settimane è stata lunga la trafila per ottenere i termometri laser, utili per misurare la temperatura di chi entra.

Alla fine la Procura generale è riuscita ad acquistarne parecchi, che però finora sono rimasti in una scatola. Il problema sta nel loro utilizzo da parte della polizia penitenziaria. Gli agenti che controllano gli ingressi obiettano infatti che si tratti di uno strumento sanitario, che quindi esula delle loro competenze e che porta con se dei rischi, come quello di avvicinarsi troppo alle persone che bisogna controllare. Insomma questi strumenti ci sono ma finora sono rimasti inutilizzati. Nella capitale, come in altri tribunali, per provare a limitare i contagi sono state intraprese una serie di iniziative, a cominciare dal limitare gli accessi al palazzo, organizzare lo smartworking – non facile da distribuire in una procura che conta circa cento magistrati, circa 420 dipendenti e altrettanti operatori di polizia giudiziaria -, e poi dare la possibilità agli avvocati di ottenere la copia degli atti a cui hanno diritto da remoto, ossia via pec. Tutto questo per evitare gli affollamenti tipici di uffici così grandi.

Nella capitale sul personale di Procura e Tribunale partiranno adesso anche i test sierologici, a cui seguiranno i tamponi qualora dovessero avere risultati “positivi”. Misura già presa in altri uffici giudiziari.

Napoli non è meno frequentata. Qui, prima dell’emergenza Covid, il Palazzo di Giustizia del capoluogo campano calcolava circa 7500 accessi al giorno. In questi giorni, a fatica, se ne registrano 1000 e nel frattempo la macchina dei processi rischia il tracollo. Diversi fattori vi concorrono. Il Tribunale si sviluppa in verticale per decine di piani e per raggiungere le aule bisogna prendere ascensori che al momento, per rispettare il distanziamento di legge, non posso accogliere più di quattro persone. Non più di due negli ascensori di alcune torri e in quelli della attigua Procura.

Inoltre l’esercito di impiegati di cancelleria che lavora diversi giorni a settimana in smart working non può, in quei giorni, accedere al fascicolo da remoto. Le difficoltà si concentrano particolarmente nei settori del civile e del lavoro. Ma cammina al rallentatore anche il processo penale: a porte chiuse, senza pubblico, così è stato deciso, e solo per i casi urgenti, rinvii a raffica per i processi senza detenuti o lontani dalla prescrizione. Funziona invece perfettamente e sin da fine aprile la procedura del controllo della temperatura col termolaser. Per la procura partenopea provvedono un paio di soldati dell’esercito. Pare che finora non abbiano scoperto nessun febbricitante, mentre sui magistrati i test sierologici sono già stati effettuati nei giorni scorsi.