Salvini, Lotti, i Renzi e B.: autunno caldo in tribunale

L’estate potrà trascorrere serenamente. Però l’autunno, sul fronte dei processi, sarà molto caldo. Causa coronavirus, parecchie udienze sono state rinviate per la necessità di garantire le misure di sicurezza, compreso il distanziamento. Insomma, non si può permettere che imputati, avvocati, magistrati e testimoni riempiano le aule dei tribunali, aumentando il rischio contagio. Sono slittati così 14 mila processi solo a Roma, altre 10 mila a Napoli, 3.500 a Bologna. E tra questi ci sono anche quelli “eccellenti”: nel prossimo autunno dovranno tornare in aula gli ex ministri Matteo Salvini e Luca Lotti, come pure i genitori di Matteo Renzi.

 

il leghista e il caso “Gregoretti”

Solo pochi giorni fa, la Giunta per le Immunità del Senato ha salvato Matteo Salvini dal processo per la vicenda dei migranti a bordo della Open Arms. Non è andata allo stesso modo per il caso Gregoretti. Il senatore leghista dovrà affrontare l’udienza preliminare sulla richiesta di rinvio a giudizio per sequestro di persona per la gestione nello sbarco di 131 migranti bloccati a bordo della nave Gregoretti dal 27 al 31 luglio 2019. L’udienza è slittata al prossimo 3 ottobre. Sarà il gip a decidere se andare a processo o meno. Su questa vicenda per due volte la Procura di Catania ha chiesto l’archiviazione, poi il Tribunale dei ministri ha chiesto e ottenuto l’autorizzazione a procedere.

 

Consip. slitta anche il processo a Del Sette

Era fissata per oggi l’udienza per l’ex ministro Luca Lotti, accusato di favoreggiamento. Secondo quanto risulta al Fatto però anche in questo caso si deciderà per uno slittamento e si andrà di nuovo in aula il prossimo 10 settembre. Lotti è imputato in uno dei filoni dell’indagine Consip, un’inchiesta più ampia nella quale, in un’altra tranche, era iscritto per traffico di influenze Tiziano Renzi, il padre dell’ex premier: per lui però la Procura ha chiesto l’archiviazione, respinta (tranne per due episodi) dal Gip Gaspare Sturzo che ha chiesto un’integrazione di indagine. Nell’ambito del filone sulla presunta fuga di notizie, invece, Lotti è finito a processo e con lui anche il generale dei carabinieri Emanuele Saltalamacchia e l’ex presidente della fiorentina Publiacqua, Filippo Vannoni, entrambi accusati di favoreggiamento. È stato l’ex amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, ora testimone chiave, a metterli nei guai. Davanti ai carabinieri del Noe, il 20 dicembre 2016, Marroni mette a verbale: “Ho appreso in quattro differenti occasioni da Vannoni, dal generale Saltalamacchia, dal presidente di Consip Luigi Ferrara e da Lotti di essere intercettato”. Ferrara a sua volta, secondo Marroni, lo avrebbe saputo da Del Sette. Tutti hanno sempre respinto le accuse.

Anche per Del Sette – la cui posizione, su richiesta del suo legale, è stata stralciata dalle altre – il processo riprenderà a settembre, il 18. L’ex comandate generale è accusato di favoreggiamento e rivelazione di segreto.

 

Berlusconi, a ottobre la sentenza Ruby ter a Siena

Slitta al prossimo 1 ottobre anche il processo a Silvio Berlusconi, imputato nel troncone senese del cosiddetto “Ruby Ter”. Qui l’ex premier è accusato di aver pagato il pianista senese di Arcore, Danilo Mariani, per indurlo a rendere una falsa testimonianza sul caso Olgettine. La pm Valentina Magnini ha chiesto 4 anni e 2 mesi per l’ex premier, la difesa di Berlusconi ha invece chiesto l’assoluzione “perché il fatto non sussiste” evidenziando che “l’amicizia tra Berlusconi e Mariani è antecedente ai fatti contestati nel processo”. A ottobre potrebbe arrivare la sentenza.

Ma l’autunno per l’ex premier potrebbe essere una stagione impegnativa: il 28 settembre è fissata anche l’udienza del troncone milanese sempre sul caso “Ruby ter”. Berlusconi è imputato con altri 28. Il processo in questo caso è in fase di istruttoria testimoniale.

 

A novembre tocca ai genitori di Renzi

Causa Covid-19, è stata rinviata al 4 novembre anche l’udienza preliminare nei confronti di Tiziano Renzi e Laura Bovoli nell’ambito dell’inchiesta per bancarotta fraudolenta per il fallimento di tre cooperative di volantinaggio: Delivery, Europe Service e Marmodiv. Si tratta dell’indagine che aveva portato i coniugi Renzi, nel febbraio 2019, agli arresti domiciliari, revocati 18 giorni dopo. Per quanto riguarda la Delivery Service, secondo le accuse, con altri, avrebbero omesso di “versare gli oneri previdenziali e le imposte, così determinando, o comunque aggravando il dissesto”. Nel caso della Europe Service, invece, per i pm i Renzi con altri, “sottraevano, con lo scopo di procurarsi un ingiusto profitto e di recare pregiudizio ai creditori, i libri e altre scritture contabili”. In entrambe le cooperative i coniugi sono ritenuti dai pm, ma per gli anni passati, amministratori di fatto.

 

L’udienza preliminare al cognato di Matteo

Rinviata a dopo l’estate anche l’udienza preliminare davanti al Gup di Firenze nei confronti del cognato di Matteo Renzi, Andrea Conticini (marito della sorella Matilde, ndr) e dei fratelli Alessandro e Luca. È slittata all’8 ottobre. A luglio 2019 la Procura di Firenze aveva chiesto il rinvio a giudizio per il reato di appropriazione indebita nei confronti di Luca e Alessandro Conticini, accusati di essersi appropriati di 6,6 milioni di euro dei 10 donati per assistere i bambini africani da enti benefici internazionali, “facendo transitare gran parte del denaro” dai conti correnti di tre organizzazioni no profit di cui era titolare “effettivo” Alessandro Conticini “ai conti personali” di quest’ultimo. “Denaro poi impiegato – continua il capo di imputazione – in operazioni mobiliari e immobiliari, e dunque destinando a scopi umanitari in Africa solo la residua somma di circa 2,8 milioni di dollari”. Andrea Conticini è invece accusato, per altre circostanze, di impiego di denaro o beni di provenienza illecita.

Si dimise dopo le pressioni. Genova apre un’inchiesta

“Mi è stato chiesto di fare delle cose incompatibili con la mia coscienza. E anche con la legge. Comandati dalla Lega, che sta egemonizzando ogni settore, con strategie clientelari. Quelle contro cui in teoria dovremmo combattere. Ho sbagliato ad assumere questo ruolo”. Così Elisa Serafini, ex assessore alla Cultura del Comune di Genova – nella giunta guidata da Marco Bucci, la prima di centrodestra dal Dopoguerra – scrive al presidente di Regione Giovanni Toti, per spiegare le sue dimissioni, nel luglio 2018. Questi e altri messaggi sono finiti nell’inchiesta aperta dalla Procura di Genova. Il pm Francesco Cardona Albini ipotizza il reato di abuso d’ufficio, per ora contro ignoti, per le pressioni denunciate da Serafini in un dettagliato esposto – su consiglio di un famoso whistleblower, Andrea Franzoso, che denunciò gli scandali di Ferrovie Nord – per il finanziamento di una mostra sulla storia dell’acciaieria Ilva. Iinchiesta che preoccupa i due poteri della città, saldamente nelle mani del centrodestra: il sindaco Bucci e il governatore Toti, in corsa per la rielezione.

Il pressing per organizzare la mostra, scrive Serafini agli inquirenti, inizia col suo insediamento, nel 2017. Il progetto viene presentato da Paola Santini e Flavio di Muro, assistenti di Rixi, allora assessore regionale allo Sviluppo economico. La prima proposta è un libro fotografico da 50mila euro sull’Ilva. La maggior parte dei costi (15mila euro), sarebbero andati in consulenza alla curatrice dell’evento, Chiara Mastrolilli De Angelis, nel 2017 tra i candidati non eletti con la lista civica “Vince Genova” a sostegno di Bucci. Serafini trova il libro insolitamente caro e rifiuta. Seguono altre due proposte: un progetto per lezioni in acciaieria alle scuole (costo, 4mila euro cadauna) e una mostra già realizzata in altre città da 30mila euro, soglia sotto la quale, sottolinea Serafini, si possono dare affidamenti diretti. Secondo la ricostruzione della giovane, è il sindaco Bucci a mettere le cose in chiaro, durante una riunione di giunta: “Ma ce l’hai un cervello?”. “Non avrò un cervello ma almeno ho una coscienza”, la risposta, “e io marchette alla Lega non ne faccio”. Pochi giorni dopo, il 20 luglio 2018, l’assessore 28enne rassegna le dimissioni. E riferisce ai magistrati di un ultimo drammatico colloquio: “Bucci mi spiegò che era consapevole che l’erogazione del fondo non fosse legittima, che era una porcata. Mi disse anche: ‘Capisco che ricevere un avviso di garanzia a 30 anni non è il massimo. Io ne ho 60 e ho meno da perdere. Se non facciamo questa cosa saltiamo tutti, Elisa’”.

Fra il 19 e il 20 luglio Serafini scrive due messaggi a Toti, per spiegargli la situazione. La risposta è “un flusso di messaggi”, tutti agli atti dell’inchiesta. “Era furioso – racconta Serafini – e mi scrisse che ‘per fare del bene bisogna saper coltivare anche il male’ e che ‘per fare le rivoluzioni bisogna fare compromessi’”. La mostra verrà approvata un mese dopo. Sulla delibera non c’è la firma del sindaco, in quel momento in vacanza.

“Non ti potrai più ricandidare a niente, mi fu detto. Né alle Europee, né alle Regionali. Ma ho considerato le mie dimissioni – spiega Serafini – un modo per dire a persone del mio territorio che non siamo costretti ad accettare cose sbagliate. Anche se lo fanno tutti ed è normale, dare fondi a persone che non sono legittimate ad averli, è sbagliato”. Agli atti c’è anche una misteriosa telefonata arrivata il giorno delle dimissioni dal ministero dello Sviluppo economico, in pieno governo gialloverde: “Volevano sapere se mi fossi dimessa e chi rispondeva delle azioni civili e penali. La cosa mi spaventò molto. Del tipo ‘Cara Elisa, sappiamo che hai dato le dimissioni, magari non hai il controllo degli uffici, ma sei ancora penalmente perseguibile. Forse è meglio se te ne vai’”.

“Non ho smesso di occuparmi di politica – racconta Elisa – Oggi penso che non siano importanti solo le ideologie, ma anche il metodo. Ci sono centinaia di migliaia di euro che ogni Comune eroga e che i cittadini non sono in grado di controllare. E l’Italia ha un disperato bisogno di trasparenza”. Ecco perché ha deciso di caricare tutto in un sito di leaks.

Ma la Regione poteva chiudere

Chi ha il potere di istituire le zone rosse nei Comuni più a rischio? competenza del governo o delle Regioni?

“Da quello che ci risulta” l’istituzione di una zona rossa “è una decisione governativa”. Parola del Procuratore facente funzione di Bergamo Maria Cristina Rota, che ieri al Tg3 ha dato la sua versione dei fatti sulla mancata chiusura dei Comuni di Nembro e Alzano lombardo (Bergamo), divenuti a inizio marzo due dei più intensi focolai del coronavirus del Nord Italia.

Ma è davvero il governo l’unico che può intervenire? Non è così: l’esecutivo può senz’altro disporre zone rosse (così come ha fatto, per esempio, a Codogno e a Vo’), ma lo stesso provvedimento può essere adottato dai presidenti di Regione. Per scoprirlo basta rileggere quel che sosteneva l’assessore lombardo Giulio Gallera lo scorso 7 aprile, ospite ad Agorà: “Ho approfondito ed effettivamente c’è una legge che lo consente”. L’ammissione arriva in diretta tv dopo settimane di scaricabarile tra la Lombardia e il governo. A lungo la giunta Fontana ha sostenuto di non avere poteri per mettere in sicurezza i Comuni, prima del dietrofront di Gallera in diretta tv.

E in effetti “la legge” c’è. È la 883 del 1978, che determina le competenze sanitarie tra Stato e Regioni. Nel testo si legge che il ministro della Salute “può emettere ordinanze di carattere contenibile e urgente in materia di igiene e sanità pubblica”, ma la stessa decisione può essere presa anche dagli enti locali: “Nelle medesime materie sono emesse dal presidente della giunta regionale o dal sindaco ordinanze di carattere contenibile e urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più Comuni e al territorio comunale”.

Il governo poteva dunque disporre la zona rossa, ma lo stesso poteva fare la Lombardia in autonomia. Né Roma né il Pirellone, invece, ritennero di dover intervenire (il lockdown per gran parte del Nord sarebbe partito il 7 del mese).

A dimostrazione del fatto che le Regioni potessero agire senza aspettare il governo, ci sono diverse misure restrittive adottate negli ultimi mesi dai governatori. Appena due settimane fa Vincenzo De Luca, in Campania, blindava il Comune di Letino (Caserta), dopo che nelle settimane precedenti aveva già chiuso tra gli altri Ariano Irpino, Lauro, Saviano e Paolisi. Stesso metodo adottato da Stefano Bonaccini e da alcuni sindaci in Emilia-Romagna, che durante l’emergenza hanno imposto misure ancor più restrittive a diversi Comuni tra cui Piacenza, e Rimini. E così anche in Toscana, dove a marzo certe zone dell’aretino sono diventate zona rossa dopo un’accelerazione dei contagi. Il modello è stato più o meno lo stesso in tutta Italia: essendo più a contatto con i territori, gli enti locali hanno potuto muoversi anche senza l’ok da Roma. Sarebbe potuto succedere anche a Nembro e Alzano Lombardo.

Zona rossa, no del Viminale. La pm: “Tocca al governo”

Poche ore, anzi pochi minuti e due telefonate. Tanto è bastato al governo per tornare sui propri passi e decidere, dopo averla disposta, di non istituire più la zona rossa attorno ai comuni bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro. Nessun documento scritto, solo ordini a voce. Il particolare inedito emerge, a quanto risulta al Fatto, dalla testimonianza di chi in quei primi giorni di marzo aveva il compito di approntare i check point nelle aree della zona rossa. L’interlocutore ai vertici di comando è il ministero dell’Interno. Questo avvenne per testimonianza diretta. L’inchiesta della procura di Bergamo è senza indagati, epidemia colposa l’accusa. Ieri il presidente della Regione Lombardia è stato interrogato dai pm come testimone. Sul tema zona rossa ha spiegato che la decisione spettava al governo. Ipotesi rilanciata dal procuratore di Bergamo Maria Cristina Rota ai microfoni dei tg: “La zona rossa, per quel che ci risulta, era decisione del governo”.

Al termine del verbale, Attilio Fontana è uscito scortato dalla polizia. Ad attenderlo un gruppo di manifestanti che dietro a uno striscione con un esplicito insulto, lo ha additato come uno dei colpevoli della diffusione del contagio. Il colloquio con i magistrati è stato molto cordiale. Fontana ha spiegato i due punti critici dell’inchiesta: la zona rossa e la non chiusura dell’ospedale di Alzano Lombardo la sera del 23 febbraio quando si ebbe la certezza dei primi due pazienti Covid. Il 20 a Codogno era emerso il paziente 1. Da lì a poche ore il governo avrebbe chiuso dieci comuni del Basso lodigiano. Per quanto riguarda la struttura sanitaria, il governatore ha assicurato di aver seguito i protocolli. Due giorni fa l’assessore al Welfare Giulio Gallera interrogato ha spiegato che la scelta di mantenere attivo il presidio fu presa dopo l’assicurazione dell’avvenuta sanificazione. Particolare incerto. Diverse testimonianze di chi, medici e infermieri, era presente in ospedale smentiscono che fu effettuata una sanificazione adeguata al rischio Covid. Oltre a questo non furono disposti triage ad hoc per separare i pazienti infetti. Sulla zona rossa, lo stesso Fontana ha spiegato che attendeva la decisione del governo nonostante la legge consenta alle regioni di chiudere i territori per motivi di salute pubblica in modo autonomo. In questo quadro investigativo rientrano le due telefonate del Viminale. Una responsabilità ipotizzata dalla stessa magistratura. Tanto che ieri nei corridoi della Procura non si escludeva la possibilità di interrogare anche il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Di certo il 28 febbraio un tale scenario non era preso in considerazione dalla Regione. Solo il precipitare della situazione ha imposto una riflessione. Il 4 marzo militari e forze dell’ordine sono stati inviati sul posto e alloggiati in alberghi della zona. In quel momento il piano è di procedere. La fonte interpellata dal Fatto assicura che in quelle ore erano già stati predisposti i check point. Circa cento in tutta la zona. “Con l’ordine di partire – ci viene spiegato – saremmo andati a regime in pochissime ore, ma così non è stato”. E il perché sta in una seconda telefonata di stop arrivata tra sabato 7 e domenica 8 marzo sempre dal Viminale e sempre senza atti formali. Da lì a poche ore il Dpcm avrebbe istituito la zona rossa in tutti i comuni della Lombardia. Insomma, chiarire il quadro delle responsabilità non è semplice. Ieri doveva essere sentito anche il presidente di Confindustria Lombardia Marco Bonometti. Al centro del suo interrogatorio una intervista nella quale ha sostenuto l’accordo comune con la Regione per non chiudere le fabbriche. Bonometti non si è presentato per motivi di salute e sarà ascoltato nei prossimi giorni.

La commissione segreta della renziana lombarda

Se il buon giorno si vede dal mattino, la vita della commissione regionale d’inchiesta sull’emergenza sanitaria in Lombardia si annuncia pessima. Già la scelta del presidente aveva generato polemiche durissime. Ora Patrizia Baffi, renziana di Iv, eletta al vertice della commissione con i voti di Lega e Forza Italia, ha anticipato che i lavori della commissione saranno segreti e si svolgeranno a porte chiuse.

La presidenza di una commissione d’inchiesta spetta all’opposizione (Pd, Cinquestelle, Italia Viva, +Europa). Il Pd aveva indicato come presidente Jacopo Scandella, raccogliendo anche il sostegno dei Cinquestelle. Ma la maggioranza leghista e forzista ha votato Patrizia Baffi, che aveva ben meritato la loro fiducia non partecipando al voto di sfiducia che il Pd con il sostegno dei Cinquestelle aveva promosso contro Giulio Gallera, l’assessore che sta gestendo il disastro sanitario lombardo di questi mesi.

Risultato: il Pd ha deciso di non partecipare ai lavori della commissione, ritirando i suoi membri, Scandella, Gian Antonio Girelli e Carmela Rozza. Stessa decisione del Movimento 5 Stelle, annunciata subito dopo che Patrizia Baffi aveva ribadito che non si sarebbe dimessa, malgrado gli inviti che le erano arrivati anche dal suo partito.

La commissione d’inchiesta, protesta l’opposizione, non solo sarà guidata da una consigliera scelta dalla maggioranza, ma si svolgerà anche a porte chiuse: “Sarà una commissione segreta, chiusa e sorda, dispiace per i lombardi che non sapranno mai la verità”, protesta Marco Fumagalli, capogruppo M5S Lombardia.

“È legittimo che i lavori di una commissione d’inchiesta siano segreti”, spiega il consigliere Pd Piero Bussolati, “se è fatto per tutelare quelli che sono auditi. Era successo con la commissione d’inchiesta sull’ospedale San Raffaele. Ma qui la decisione di lavorare a porte chiuse è stata anticipata dalla presidente, che non la può prendere: la decisione deve essere presa dalla commissione. È un segnale che Baffi manda alla maggioranza che l’ha eletta”.

“Il regolamento dà la possibilità di lavorare anche a porte aperte”, aggiunge Fumagalli, “quindi se la scelta sarà invece quella del segreto, vuol dire che avevamo ragione: non solo sarà una commissione chiusa e sorda, ma dimostrerà che la Baffi esegue la volontà della maggioranza, non avrà la libertà di agire secondo coscienza. Chiusi nel palazzo del loro potere, occulteranno le malefatte avvenute per imperizia della giunta, lavoreranno con il favore delle tenebre”.

Indignato anche Michele Usuelli, consigliere radicale di +Europa e medico, che ricorda il regolamento: “Le sedute della commissione d’inchiesta non sono pubbliche, salvo diversa decisione della commissione stessa: così dice la norma. Invece Patrizia Baffi, in maniera del tutto arbitraria, ha anticipato che saranno segrete”.

Il Cinquestelle Fumagalli punta sulla commissione alternativa, che sarà costituita dalle opposizioni: “La nostra commissione parallela sarà itinerante sui territorio, aperta a tutti in modo trasparente”.

Fumata bianca: si riapre il 3 giugno (ma con riserva)

Dal 3 giugno ci si potrà spostare tra le Regioni, senza differenziazioni. E i confini verranno riaperti agli altri Paesi dell’Unione europea, senza obbligo di quarantena per chi arriverà in Italia. A patto che da qui a mercoledì i numeri confermino “il trend positivo” come l’ha definito il ministero della Salute. Perché in caso di peggioramento potrebbe slittare tutto almeno al 10 giugno. Nell’attesa, il vertice di maggioranza di ieri sera ha di fatto ratificato la linea del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: riaprire mercoledì, ovunque. Perché i dati del monitoraggio sono “incoraggianti” per dirla come il ministro della Salute Roberto Speranza, e perché le imprese hanno bisogno come ossigeno di confini aperti: anche per far ripartire il turismo, schiantato dal coronavirus.

Così si è deciso nella riunione con Conte, i capidelegazione di Pd e M5S Dario Franceschini e Alfonso Bonafede, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro e vari ministri. Attorno alle 21.30 lo ha spiegato Speranza: “Al momento non ci sono ragioni per rivedere la programmata riapertura degli spostamenti tra regioni, fissata per il 3 giugno. Monitoreremo ancora nelle prossime ore l’andamento della curva”. Eppure era stato proprio il ministro della Salute, come sempre il più cauto anche per il suo ruolo, a portare in videoconferenza anche l’opzione di un rinvio delle riaperture al 10 giugno. Anche se nel pomeriggio aveva dato buone notizie: “I dati del monitoraggio sono incoraggianti, i sacrifici del lockdown hanno prodotto questi risultati”. Ma il comitato tecnico scientifico gli aveva chiesto di aspettare un altro po’, spingendo per un rinvio di un’altra settimana. Per questo Speranza lo ha detto già prima del vertice: “Dobbiamo procedere con cautela e gradualità”. E nella riunione ha ricordato che non è obbligatorio aprire tutto mercoledì. Ma da palazzo Chigi lo hanno scandito sin dal pomeriggio: “Bisogna riaprire il 3, dappertutto”. Anche in Lombardia, nonostante l’evidente ansia dell’assessore al Welfare della giunta lombarda, Giulio Gallera: “Ho sempre ritenuto la prudenza un elemento fondamentale, abbiamo avuto una settimana di riapertura, e la data dell’8 giugno sarà fondamentale per capire se c’è una ripresa del contagio”. Quasi un invito a far slittare le riaperture, hanno osservato fonti di governo. Ma Conte e gran parte dell’esecutivo avevano già in testa altro. Non si può aspettare, anche per l’immagine a livello internazionale dell’Italia.

Lo sa anche Speranza, che nel vertice non ha insistito per il rinvio. Ma c’è sempre il caso Lombardia. Perché ora bisogna convincere i governatori delle altre Regioni a non blindare i confini per chi arriverà da lì, dall’epicentro del Covid.

Diversi governatori hanno già invocato un “passaporto sanitario” per chi entrerà nella loro regione, pensando ai lombardi. E ieri sul Messaggero anche l’assessore regionale alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato, ha manifestato nervosismo: “Se ci dicono che potranno riaprire anche Lombardia e Piemonte, dovremo prendere delle contromisure”. Parole rilevanti, anche perché il governatore del Lazio è il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Per questo il ministro agli Affari regionali, Francesco Boccia, ha già cominciato a consultare i governatori. “In questi giorni – dice al Fatto – ci siamo confrontati continuamente con i presidenti sulle riaperture, il lavoro di raccordo con le Regioni è continuo”. Oggi farà il punto. Sperando di scongiurare il tutti contro tutti.

Indice di contagio sotto l’uno: non ci sono “situazioni critiche”

Quello che ha più dubbi è il ministro della Salute, Roberto Speranza. Il report della Fondazione Gimbe, che denuncia l’incompletezza se non la manipolazione dei dati della Regione Lombardia, la più colpita, consiglia molta prudenza sul “liberi tutti” del 3 giugno. Perché i tamponi diagnostici, quelli alla ricerca del virus, sono circa la metà, quindi il rassicurante 2,4 per cento di casi positivi corrisponde a poco meno del 6. Perché la confusione tra dimessi e guariti può indurre una sottostima delle persone contagiose in circolazione. Perché per un gran numero di casi manca ancora la data di inizio dei sintomi, quindi del contagio.

 

Così ci è voluta mezza giornata di riunioni prima di far sapere che “i dati del monitoraggio sono incoraggianti”, come scrive Speranza in una nota che accompagna lo screening della terza settimana dalla riapertura parziale del 4 maggio, quella dal 18 al 26. “Al momento in Italia non vengono riportate situazioni critiche relative all’epidemia di Covid-19”, si legge nel rassicurante comunicato dell’Istituto superiore di Sanità (Iss). Poi Gianni Rezza, passato dall’Iss alla direzione Prevenzione del ministero della Salute: “Il trend è buono pressoché in tutte le Regioni il che mostra che gli effetti del lockdown sono stati estremamente positivi. Naturalmente il virus continuerà a circolare per cui bisognerà continuare a tenere elevata la guardia”.

Dice “pressoché tutte le Regioni” perché l’ormai noto tassi Rt, che misura la media delle persone che ogni infetto contagia, è in genere inferiore a 1. Il Molise è a 2,2 ma “il numero di casi è molto piccolo” scrive l’Iss (436 in totale) e quindi “piccoli focolai locali finiscono per incidere sul totale regionale, senza che questo rappresenti un elemento preoccupante”. L’Umbria è a 0,96, molto vicina a 1, ma vale lo stesso discorso. La Lombardia è a 0,75 e ha registrato 16,68 nuovi casi ogni 100 mila abitanti nei sette giorni presi in esame: naturalmente è il valore più alto. Rimanendo sulle regioni con maggiore incidenza cumulata (casi totali per 100 mila abitanti) il Piemonte (Rt 0,5) è a 12,46 come incidenza settimanale ogni 100 mila abitanti, l’Emilia-Romagna (Rt 0,55) a 6,32, la Liguria (Rt 0,58) a 6,12, il Veneto (Rt 0,65) solo a 1,63, come il Lazio (Rt 0,74) che è a 1,2 casi in sette giorni ogni 100 mila abitanti. Il Molise ne ha avuti 2,62, l’Umbria 6,37. Abruzzo, Basilicata, Calabria e Campania non hanno trasmesso i dati dell’incidenza settimanale.

L’attenzione di tutti resta puntata sulla Lombardia che ieri ha notificato 354 nuovi casi di contagio (totale 88.537 dall’inizio dell’epidemia) che sono oltre la metà (il 68 per cento) dei 516 contati in tutta Italia (232.248 totali), in linea con l’andamento degli ultimi giorni. I decessi sono stati 38 in Lombardia (16.012 totali) su 87 in tutto il Paese (33.229 totali). A livello nazionale continua il calo dei pazienti attualmente positivi, al netto cioè dei dimessi/guariti e dei deceduti: sono 46.174 di cui 22.683 in Lombardia. Aumentano ancora i tamponi processati, ieri 75 mila in tutto il Paese di cui 14.708 in Lombardia. E prosegue la discesa dei pazienti ricoverati, iniziata ai primi di aprile quando ce n’erano oltre 29 mila nei reparti ordinari e oltre 4 mila nelle terapie intensive. Ieri se ne contavano 7.094 e 475. Ma in Lombardia, per la seconda volta da quando è iniziata la discesa a metà aprile, i ricoverati con sintomi sono aumentati: 82 in più (2,4 per cento), dai 3.470 di sabato a 2.552, mentre nelle terapie intensive sono ancora 173 come l’altroieri. Secondo alcuni medici lombardi questi ricoverati sono in gran parte anziani provenienti dalle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa), quindi non sarebbero la spia di una ripresa generalizzata dei ricoveri. Vedremo nei prossimi giorni.

Che l’epidemia non sia finita è chiaro a tutti, ieri il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro ha parlato senza mezzi termini della possibile “seconda ondata” in autunno: “Per gli scenari che immaginiamo, in autunno, una patologia come il Sars-cov-2, che è trasmessa da droplet, si può maggiormente diffondere e si può confondere con altre sintomatologie di tipo respiratorio”. I medici di famiglia chiedono proprio all’Iss di preparare per tempo un piano di prevenzione.

Di chi è l’argenteria

La prima volta che conobbi Piercamillo Davigo era il 1997: presentavamo a Milano il mio libro-intervista al procuratore aggiunto di Torino Marcello Maddalena Meno grazia, più giustizia, a cui aveva scritto la prefazione. Era ancora pm del pool Mani Pulite. Il suo intervento fu uno show di battute taglienti e aforismi fulminanti, come quelli a cui poi assistetti negli anni successivi in tanti convegni e dibattiti insieme. La frase che più mi colpì illuminava la differenza fra responsabilità penale e responsabilità politico-morale: la prima la appura la magistratura, nei modi, nei tempi (biblici) e nei limiti previsti dalla legge; la seconda la accerta chiunque legga le carte giudiziarie, quando emergono fatti incontrovertibili (confessioni, intercettazioni, filmati, documenti, testimonianze oculari) che dimostrano una condotta sconveniente e consentono di farsi subito un’idea sulla correttezza o meno dell’autore. Che, se è un pubblico ufficiale, deve adempiere le sue funzioni “con disciplina e onore” (art. 54 della Costituzione), può essere tranquillamente dimissionato su due piedi, senza attendere la sentenza definitiva. Per spiegare questa fondamentale differenza, Davigo se ne uscì con uno dei suoi cavalli di battaglia: “Se vedo il mio vicino uscire da casa mia con la mia argenteria in tasca, non aspetto la condanna in Cassazione per smettere di invitarlo a cena. E non lo invito più nemmeno se poi lo assolvono. Non è giustizialismo: è prudenza”.

Non so quante volte, in questi 23 anni, gliel’ho sentito ripetere: la gente sorrideva, rifletteva, capiva e conveniva con lui. Tranne, ovviamente, i ladri e gli amici dei ladri, che con l’argenteria altrui ci campano. L’altra sera l’ha ridetto a Piazzapulita ed è scoppiato il putiferio. Politici e commentatori, anche incensurati, hanno cominciato a stracciarsi le vesti, come se la traduzione in italiano dell’art. 54 della Costituzione fosse diventata una bestemmia. E non solo per i ladri e i loro compari. La vera notizia è proprio questa: non la (stravecchia) battuta di Davigo, ma le reazioni, che cambiano a seconda dei tempi. Una volta facevano incazzare B. e i suoi numerosi pali, ora fanno incazzare anche la cosiddetta sinistra. Infatti, a menare scandalo, ha cominciato Repubblica, che fino all’altroieri ospitava fior di interviste a Davigo con risposte come quella e non batteva ciglio perché condivideva con lui il massimo rigore sulla questione morale (ben diversa e più ampia di quella penale). Ora invece le trova improvvisamente scandalose, al punto di squalificarle come “giustizialiste” e addirittura di pubblicare una sfilza di insulti al giudice scagliati sui social dai soliti conigli da tastiera.

Seguono le fesserie dei politici, a partire dal capogruppo Pd al Senato Andrea Marcucci: “Per Davigo la civiltà giuridica sancita dalla nostra Costituzione è carta straccia. Quanto ha detto ieri sera in tv il magistrato, fa tremare le vene dei polsi”. A parte la virgola sbagliata e la citazione sbagliata dell’incolpevole Dante Alighieri (“… ella mi fa tremar le vene e i polsi…”: Divina Commedia, Inferno), il giureconsulto della Garfagnana non capisce o finge di non capire che la Costituzione non dice da nessuna parte che il giudizio politico-morale su un pubblico ufficiale sia riservato alle sentenze. Dice soltanto che nessuno, per la legge, è penalmente colpevole fino a condanna definitiva. Dopodiché, per fare un altro esempio, nessuno sarebbe così incosciente da affidare i propri bambini a un vicino di casa imputato per pedofilia perché non ha condanne: nel dubbio, chiunque abbia un minimo di prudenza li affida a qualcun altro. Poteva mancare, nel festival della scemenza, il contributo dell’Innominabile? Non poteva: “Per i giustizialisti basta la condanna mediatica. Aspettare le sentenze non è un errore: si chiama civiltà. E Davigo fa paura”. Quindi, per dire, sospendere dall’insegnamento un professore imputato di stupro o levare dalla cassa di una banca un impiegato indagato per rapina sarebbe giustizialismo e condanna mediatica, mentre lasciarli al loro posto (per dar loro un’altra chance) sarebbe civiltà. Basta domandare in giro al primo che passa: “Le fa più paura Davigo che consiglia di cacciare quelli che vengono fotografati o intercettati a rubare, o chi li lascia al loro posto?”. E godersi la risposta, casomai non bastassero i sondaggi che danno l’Innominabile all’1,5% (mentre, quando diceva le stesse cose di Davigo chiedendo le dimissioni di ministri “solo” indagati come Idem e De Girolamo, o neppure inquisiti tipo Alfano e Cancellieri, prima che finissero nei guai i suoi fidi e agli arresti i suoi genitori, era giunto al 40,8%).

Il bello è che questi fresconi cianciano di “primato della politica” e poi delegano ai magistrati le decisioni politiche che potrebbero assumere in proprio, e in anticipo. Ma è proprio questo che i vecchi politici non sopportano in Davigo: che smascheri davanti a tutti, con esempi di vita quotidiana, le loro pretese impunitarie classiste e castali. Lorsignori non inviterebbero mai a cena chi li ha derubati, né affiderebbero i loro bambini a un indagato per pedofilia e strillerebbero come aquile se il prof delle loro figlie fosse imputato per stupro. Ma per mazzette, intrallazzi, mafierie e altre specialità della casa, le regole di quotidiana prudenza e precauzione diventano orrore: perché lì l’argenteria non è la loro, ma la nostra.

Macron leader negli incentivi statali. E gli altri cosa fanno?

La Francia di Macron diventa portabandiera dell’auto in Europa. Il piano del presidente francese prevede otto miliardi di euro di aiuti ad un comparto in sofferenza, avendo il mercato perso perso il 72% delle vendite a marzo e l’89% ad aprile. Un sostegno economico distribuito con intelligenza. In primis, perché potranno usufruirne tre francesi su quattro. Poi perché, oltre a elettriche e ibride, è previsto un incentivo da 3.000 euro anche sui modelli benzina e diesel di ultima generazione. Ovvero il cuore del mercato: quei tanto bistrattati Euro 6d che le evidenze scientifiche hanno dimostrato avere un impatto ambientale molto basso, ma che continuano a scontare la demonizzazione post-dieselgate. I soldi saranno disponibili dal 1° giugno, e serviranno anche per implementare una rete nazionale di 100 mila punti di ricarica per veicoli a batteria, nei prossimi anni. Ad inizio del mese prossimo anche la Germania presenterà il suo recovery plan per il settore automobilistico: anche se il mercato tedesco ha sofferto meno degli altri, le sue aziende dipendono strettamente dalla catena di approvvigionamenti europea. E, si sa, a Berlino da sempre proteggono i loro interessi a quattro ruote. L’Italia, per ora, si è limitata al rifinanziamento degli incentivi già fissati per i veicoli a bassissime emissioni, ovvero elettriche e ibride plug-in. Non certo il bersaglio grosso, come hanno sottolineato le varie associazioni di categoria. La partita, però, non è chiusa: sul tavoli di trattativa rimangono ancora margini per correggere il tiro.

Dalla Francia pronti tagli per 2 miliardi

Nissan si muove, ma Renault non resta ferma. La costola europea dell’Alleanza, anch’essa alle prese con i danni economici da Coronavirus, ha presentato in settimana una strategia di integrazione coi giapponesi (anche quelli di Mitsubishi, parte del sodalizio) per lo sviluppo congiunto dei modelli del futuro, che permetterà risparmi sugli investimenti fino al 40%. Annunciando anche una rifocalizzazione sui mercati di Russia, Sud America e Nord Africa. Oltre naturalmente all’Europa, per la quale proprio nella giornata di oggi il costruttore francese annuncerà un piano riduzione dei costi da due miliardi di euro in tre anni. Renault prevede di tagliare 15 mila posti di lavoro nel mondo, di cui 4.600 in Francia. Il problema adesso è il braccio di ferro della casa della Losanga con il governo francese, che aveva promesso finanziamenti per 5 miliardi di euro a patto però che da Boulogne-Billancourt garantissero la tutela dei posti di lavoro francesi e il ritorno su suolo nazionale di diverse attività di ricerca, sviluppo e produzione, attualmente dislocate nel resto d’Europa. Un impegno difficile da portare avanti. Ed è per questo che nei giorni scorsi c’è stata più di una frizione a livello politico, al punto che il ministro dell’economia francese Bruno Le Maire è arrivato a dichiarare che “Renault si sta giocando la sua stessa sopravvivenza”. Spigoli che, nel piano che presenta oggi, l’azienda transalpina dovrà cercare di smussare. Perché il governo francese, oltre a sostenerla economicamente dopo un primo trimestre 2020 in cui le vendite sono calate del 29%, è anche il suo maggior azionista con il 15% del capitale.