Nissan, perdite oltre i 6 miliardi. E rinnova l’alleanza con Renault

Un’asciutta conferenza in streaming chiude l’epoca del milione di strette di mano, del pluri manager dai tre passaporti in volo intercontinentale per 100 giorni l’anno. Carlos Ghosn ora è davvero il passato, così come la sua idea di alleanza Renault-Nissan giocata nei salotti buoni e potenti, sulla somma delle vendite di due aziende distanti e diffidenti per dare l’assalto alla vetta dei numeri da primo produttore automobilistico del mondo.

Se l’arresto di Ghosn il 19 novembre 2018 aveva aperto un ciclo, l’attuale nuovo numero uno di Nissan Makoto Uchida lo chiude comunicando risultati finanziari in rosso per la prima volta in 11 anni, ma accompagnandoli da un piano di razionalizzazione che punta a costruire una vera collaborazione industriale con l’alleato Renault, a recuperare profitti, ad assumersi costi sociali diventati inevitabili. “Abbiamo imparato dai nostri errori” precisa Uchida, “Nissan ha un potenziale più alto di quello che si percepisce ora”. Il che vuol dire vedere ben oltre il severo riscontro dell’esercizio 2019-20, con una perdita netta di 6,2 miliardi di dollari, fatturato in calo del 14,6% e vendite diminuite del 10,6. Gli effetti della pandemia da Covid-19 hanno però solo accelerato il collasso del sistema di relazioni tra Nissan e Renault, più dialettiche che operative, nelle quali Ghosn non ha mai puntato all’integrazione di strutture e tecnologie, compiacendo piuttosto il nazionalismo di Parigi e l’isolazionismo di Tokyo. Ora l’egemonia che era del personaggio torna ai fatti e alle conseguenza non piacevoli, come la decisione di chiudere lo stabilimento di Barcellona, mentre quello di Sunderland avrà un ruolo cruciale nei rapporti con Renault. Destinati a diventare finalmente pragmatici, con una divisione territoriale che vede Nissan concentrata sui mercati della Cina, del Nord America e del Giappone, riservando ai francesi in Europa, Nord Africa e Sud America una leadership con connotati da decifrare.

Del resto i piani di Uchida sconfessano la forza bruta dei numeri puntando agli utili, con una riduzione della capacità produttiva dai 7,2 milioni di veicoli attuali a 6 entro il 2023, con l’obiettivo di raggiungere una quota ideale di 5,4. Spunta una logica con l’arrivo di 12 nuovi modelli nei prossimi 18 mesi e l’innalzamento del tasso di motorizzazioni elettrificate, che arriverà entro il 2023 al 60% in Giappone, al 23 in Cina e al 50 in Europa, dove è stato annunciato l’arrivo sulle vetture di segmento B e C delle soluzioni ibride e-Power, quelle che richiedevano la maggior collaborazione di Renault. Controparte dell’alleanza voluta da un Ghosn finito latitante. E con cui oggi c’è la libertà di trattare da soci.

Una stella chiamata Marina

“Questa paura non durerà per sempre”. Di questo Marina Abramovicć è certa. Nata a Belgrado nel 1946, la voce calda e bassa dell’artista vivente più famosa al mondo dall’accento americano con accese punte di balcanica melanconia risponde da New York. E di paura, Marina se ne intende: lei che si gettava tra le fiamme, si congelava e si faceva frustare (nella serie Rhythm); lei che puliva un cumulo di ossa dal sangue (Balchan Baroque); lei che è rimasta per tre mesi immobile seduta di fronte a sconosciuti (The Artist Is Present). “La paura”, prosegue, “è una delle forze che muove il mondo come l’amore e il sesso. Ma questa verso il Coronavirus non è la paura di morire con cui conviviamo da sempre, è diversa: è paura dell’ignoto. Perché non si sa com’è nato, quanto durerà, quando finirà. E le persone, invece, sono abituate ad avere una vita piuttosto organizzata in casa/lavoro/vacanze. E adesso sono tutti imprigionati dall’idea dei limiti”.

L’arte può guarirci da questi limiti?

L’arte non ha limiti. L’artista non ha paura dell’ignoto, lo accoglie. In questo l’arte mostra all’uomo come trasformare quest’occasione per reinventarsi. Soprattutto, però, è il momento di comprendere che la ricerca della felicità è sovrastimata. Nella felicità non succede nulla, soprattutto, quando poi capisci che essa può finire, ci si deprime sprofondando nella tristezza. Ecco perché adesso si è tristi.

Come ha vissuto questo periodo?

Io non ho paura. Se ho un muro davanti a me, lo scavalco. Ho lavorato. Non è stato molto diverso dalla mia vita normale perché l’isolamento fa parte della vita dell’artista. È anzi questo il mio compito come artista, trasformare la tragedia e la paura in arte per il pubblico.

Quando ha deciso di essere una artista.

Non l’ho deciso e non me lo sono mai chiesto: l’ho sempre saputo. Nasci con un certo talento, una certa frattura che ti pulsa dentro. L’arte è la mia vita. Anche per questo ho scelto di non essere madre: volevo dedicarmi totalmente a essa. Ho iniziato con la pittura: disegnavo i miei sogni, gli incubi, la mia infanzia in Serbia, il rapporto difficile con i miei genitori. Non mi sentivo capita. Da piccola, per esempio, non mi piaceva il mio naso, pensavo fosse grande e volevo il nasino di Brigitte Bardot (ride). Così, tenendo in mano delle sue foto, mi misi nella mia stanza a girare su me stessa per perdere l’equilibrio e sbattere il naso contro la parete: volevo forzare mia madre a portarmi in ospedale e lì avrei detto “questo è il naso che voglio”.

La sua prima performance?

Anche se ho viaggiato in tutto il mondo, certo quella bambina continua a essere accanto a me: non sono mai cresciuta. Ma a dire la verità, accadde verso i diciassette. A un certo punto, mi sono chiesta cosa succederebbe se usassi l’acqua, il fuoco, l’aria, il ghiaccio, me stessa, il mio corpo. E ho iniziato a mettere me al centro della creazione. Quando mi sono esposta di fronte al pubblico, una specie di elettricità percorreva il mio corpo che sprigionava un’energia incredibile e creava un dialogo con il pubblico. Così ho capito di aver trovato il mio mezzo: il corpo è una materia meravigliosa: puoi esplorarlo senza smettere di scoprirlo.

Eppure ha ricevuto molte critiche.

Dicevano che la performance non era arte: ci ritenevano masochisti, malati da internare. Per questo, per rispondere alle critiche mi sono chiesta: cosa succederebbe, se mettessi oggetti di piacere e dolore e restassi immobile di fronte al pubblico vestita normalmente, dando loro la libertà di fare quanto vogliono? (La performance Rhytm 0 del 1974 a Napoli, ndr). Ero così giovane e folle da mettere anche una pistola. Nel corso delle ore – dopo avermi spogliata, tagliuzzata e ferita – c’è anche chi me l’ha puntata. È stato pericoloso ma mi ha mostrato la potenza scatenata da una performance.

Come nasce una performance?

Tutto mi nasce dentro da un’idea. Se l’idea mi piace, allora la scarto. Se invece mi spaventa, è qualcosa di anormale, che mi fa sentire in pericolo di vita, inizio a essere ossessionata dall’idea e dalla sua realizzazione. Il terzo elemento è la fiducia nell’energia del pubblico, perché da esso mi scaturisce la forza di superare i limiti e la paura.

Con il pubblico italiano e l’Italia ha un rapporto speciale.

(Inizia a parlare italiano) Oh, sì. La mia carriera internazionale è iniziata in Italia. Ma amo soprattutto il coraggio che avete di manifestare i sentimenti e il vostro romanticismo. E poi mi piace questa lingua incredibile, una lingua emozionante. Parlo italiano con molti errori, ma è una lingua che mi tocca.

Il 2 giugno si riapre, solo Parigi resta sorvegliata

I francesi torneranno a una vita “quasi normale” dal 2 giugno con la riapertura di ristoranti, teatri, musei e di tutte le scuole. “I risultati sul piano sanitario sono buoni”, ha detto ieri il premier Philip (nella foto) presentando la nuova fase di ripartenza del paese, uscito dal lockdown l’11 maggio. Solo l’1,9% dei test risulta positivo e il famoso indice R0 è di 0,77. La piantina di Francia dell’epidemia è ora tutta “verde”. Spariscono le “zone rosse” e solo Parigi e la sua regione (insieme a due territori d’Oltremare, Guyana e Mayotte) restano sotto osservazione, passando da “rosso” a “arancione”. Il 2 dunque caffè e ristoranti riaprono, ma a Parigi e regione i tavolini potranno essere installati solo negli spazi esterni. Dopo le materne, elementari e medie, riapriranno anche i licei. Si potrà tornare al teatro, al museo, nei parchi e giardini, in spiaggia e, nelle zone verdi, anche in palestra e piscina. L’apertura dei cinema è rinviata al 22 giugno. Cadrà anche la regola dei “100 km”, i francesi cioè si potranno spostare su tutto il territorio nazionale, ma fino al 15 sono mantenute le restrizioni alle frontiere con i Paesi Ue. “La libertà tornerà a essere la regola”, ha detto Philippe, annunciando però un’altra battaglia, quella contro la “recessione storica” che arriva. Solo ad aprile si contano in Francia 840 mila disoccupati in più.

Seul paga la voglia di vita, il virus torna: è lockdown

Se all’inizio della pandemia la formula lockdown più tracciamento digitale messo a punto dalla Corea del Sud è stata giudicata la più efficace per contenere la diffusione del contagio, ora Seul viene monitorata dagli esperti di tutto il mondo per capire cosa succede quando le restrizioni vengono tolte e la gente torna a incontrarsi in gran numero senza precauzioni. Le autorità sudcoreane sono state costrette a imporre nuovamente le misure di quarantena per almeno 15 giorni nella capitale e nelle aree metropolitane: ieri 82 infezioni, 11.344 in totale nel Paese con 269 decessi: fino al 5 aprile i morti erano stati appena 81.

Il ministro della Sanità, Park Neung-hoo ha dichiarato che le prossime due settimane saranno fondamentali per arginare ulteriormente la diffusione del coronavirus tra i crescenti timori di una nuova e più forte ondata di infezioni. Le strutture pubbliche della zona, tra cui gallerie e parchi, rimarranno chiuse fino al 14 giugno. Park ha anche invitato i titolari dei luoghi di intrattenimento a sospendere le attività, ha inoltre chiesto alle persone di astenersi dal partecipare a riunioni e a momenti di convivialità di massa. Già alla fine della prima settimana di maggio, i responsabili della sanità avevano dovuto spegnere un grande focolaio generatosi nel distretto della movida di Seul e quindi quello innescatosi in un centro logistico nei dintorni della capitale. Il cluster scoppiato in un gruppo di locali notturni nel distretto del quartiere Itaewon aveva provocato un centinaio di nuovi casi di contagio e le persone sottoposte a test erano state 7.272. “Oltre il 36% dei casi è asintomatico e il tasso di diffusione è molto elevato”, aveva reso noto il ministro, avvertendo che si sono verificati più casi di infezione secondaria. Si stima che 10.905 persone si trovassero nelle vicinanze dei club di Itaewon. La municipalità di Seul ha inviato messaggi ai cellulari delle persone venute in contatto con il “grande diffusore”, come venne chiamato l’uomo, asintomatico, che passò una intera nottata andando da un locale all’altro. Dopo aver identificato coloro che erano entrati in contatto con lui, le autorità li hanno sottoposti al tampone. Il numero di persone che sono state testate è raddoppiato dopo che i funzionari governativi hanno iniziato a offrire test anonimi, ha affermato il ministro Park. Ma il paese ha contato ieri 82 nuovi casi, circa il doppio rispetto al giorno precedente. Per questo il governo provinciale ha emesso un ordine di “no assembly” per il centro logistico Coupang a Bucheon, a ovest di Seul, per due settimane, vietando di fatto tutte le attivitá commerciali. Nei grandi capannoni di stoccaggio di Coupang il virus ha lavorato sodo. La società, che è supportata da SoftBank, è il più grande operatore di e-commerce del paese e per questo si sono dovute sottoporre ai test ben 4.000 persone. Va comunque sottolineato che il contagio si è diffuso di nuovo con grande celerità perché è partito da Seul, metropoli con quasi 11 milioni di abitanti su una popolazione totale di 52 milioni.

Insomma, i sudcoreani tornano a rinchiudersi per due settimane nel tentativo di non farsi sfuggire di mano la situazione. Non sarà invece revocata la riapertura delle scuole. Le limitazioni erano state revocate lo scorso 6 maggio.

“Putin si veste da eroe della patria, ma il Covid potrebbe battere lui”

La Russia continua a essere il terzo Paese al mondo più colpito dalla pandemia; ieri 8.371 nuove infezioni, circa lo stesso numero del giorno precedente, il totale ha superato i 379.000 casi. I morti 4.142. Eppure il presidente Putin ha annunciato che la parata per il 75esimo anniversario della Giornata della vittoria, tradizionalmente celebrata ogni 9 maggio da milioni di russi, si terrà il prossimo 24 giugno.

“La scelta di Putin – racconta Kirill Martinov, redattore capo di Novaya Gazeta, il giornale più indipendente di Mosca – ci suggerisce che al Cremlino pensano che la situazione epidemiologica stia migliorando e che non bisogna sprecare il capitale simbolico legato alla parata. È una mossa legata al rating del consenso presidenziale: comunque hanno sotto gli occhi l’esempio di Lukashenko, che ha dichiarato il virus “una psicosi” e ha celebrato l’evento. I nostri autocrati lo hanno invidiato, ma nessuno sa se c’è una catastrofe umanitaria in corso in Bielorussia. Forse le autorità del Cremlino faranno un passo falso, un errore pesante che costerà moltissimo al Paese. Ma chi batterà chi, se sarà il virus a battere Putin o Putin a battere il virus, noi non lo sappiamo ancora”.

Era già molto difficile essere un giornalista in Russia, ma con la pandemia in corso è diventato ancora più faticoso?

Per quanto sia complesso a causa del Covid-19, assieme ad altri colleghi indipendenti, continuiamo ad investigare la gestione governativa e il contenimento del virus nel Paese. Sappiamo per certo che le statistiche ufficiali, i dati sul contagio e decessi, sono mendaci. Di questo abbiamo prove. Le faccio un esempio: in Daghestan, regione del Caucaso, moltissimi medici sono rimasti vittime del virus, le persone hanno preferito non chiedere aiuto e sono morte in casa. Sono stati in seguito le stesse autorità a confermare che le stime dei contagi, che loro stessi avevano diffuso, erano inferiori alla realtà. Questo è solo un esempio dell’enorme sistema di manipolazione dei dati in Russia, a livello generale.

Di quali dati parliamo?

Finora erano quelli economici ed elettorali: ora c’è un gruppo di giornalisti che si occupa solo delle falsificazioni dei dati medici. Lo scopo della manipolazione è sempre uguale: mostrare che tutto è in ordine. Quando il Covid-19 si diffondeva nel mondo, le statistiche russe dicevano che, per qualche motivo, era assente dal nostro territorio. A marzo i numeri riferivano che i casi di contagio nella popolatissima regione di Mosca erano minori di quelli della poco abitata Estonia. Noi stiamo investigando, grazie a tutti i medici che non hanno paura di parlare, ma non percepiamo ancora completamente lo stato reale delle cose.

Lei lavora al giornale di Anna Politovskaya dal 2014, anno dell’annessione della Crimea: all’epoca Putin troneggiava nei sondaggi con un consenso massivo tra la popolazione. Adesso cade a picco.

Al Cremlino hanno certamente capito che i tempi sono difficili, proprio per questa ragione la scelta più importante delle ultime settimane riguarda il referendum costituzionale e “il voto a distanza”, digitale. Le persone avranno paura che il loro voto non sarà segreto, perché accederanno al portale dei servizi governativi con i loro dati. In ogni caso le autorità potranno manipolare i voti ancora più facilmente di prima. Per la prossima stagione politica ci saranno problemi gravi legati alla salute, non solo della popolazione, ma dell’economia. Ora il popolo è seduto in casa e Putin non lo vede, come la popolazione non vede più lui: da due mesi non esiste più una fase pubblica della politica in Russia.

Le alte cariche del Cremlino, positive al virus, rimangono dietro i monitor. Ma la politica degli schermi e della propaganda continua.

Quello su cui sta puntando la propaganda governativa sono le prossime elezioni e il referendum, che probabilmente si terrà a luglio, eventi descritti come il primo passo verso la fine della catastrofe epidemica. È importante ora per la narrativa statale presentare il presidente come l’uomo che porterà il Paese alla normalizzazione, con una nuova Costituzione che, sinceramente, non serviva a nessuno.

Con questi drammatici eventi in patria, perché interessarsi alla Libia e inviare aerei e militari ad Haftar?

Un tentativo di interferenza contro Europa e Stati Uniti, un aiuto a quelli che Putin ama chiamare partner stranieri, ma anche mettere un piede in un contesto complesso, solo un proseguimento di ciò a cui abbiamo assistito già in Ucraina: si tratta di storie ibride, in cui noi russi ci siamo ma non ci siamo, supportiamo ma non supportiamo. Una specie di gioco d’azzardo.

La fondatrice di Alleanza dei medici, Anastasia Vasilevna, ha criticato il governo per la carenza di materiale protettivo per i medici che muoiono in tutta la Federazione. Eppure Mosca ha spedito aiuti all’estero con un aereo dove c’era scritto ‘Dalla Russia con amore’.

L’Unione sovietica non c’è più, la Guerra Fredda è finita ma la tendenza rimane la stessa: la Russia è un grande Paese che aiuta il mondo, proprio come prima facevano i comunisti. Una logica però andrebbe chiesta ad uno psichiatra.

Meloni s’è fatta moderata: freccia a destra su Salvini

I cicli della politica e del consenso ormai sono più rapidi delle foto usa e getta che scattiamo una volta e dimentichiamo per sempre nella memoria del telefono. Sono talmente brevi che da un giorno all’altro si scopre una Giorgia Meloni non diciamo europeista, ma sicuramente meno scettica di come ce la ricordavamo fino all’altroieri.

Nell’intervista di ieri su La Stampa, la sorella d’Italia mostra di apprezzare – con tutti i distinguo del caso – l’intesa sul Recovery fund: “Qualcosa in Europa si muove, quello che è successo oggi è sicuramente un passo avanti”. Per lei che una volta definiva l’Unione “un comitato di usurai” è un bel cambio di registro. Ma questa intervista non è un fatto isolato. Meloni è in piena ristrutturazione dell’immagine. Ricordate la ruspante Giorgia “sono una donna, sono una madre, sono cristiana?”. È la foto di ieri. Oggi Meloni è quella che scrive una dotta analisi economica sul Mes e se la fa pubblicare sul Corriere della Sera (27 maggio). Ed è quella che si fa intervistare dai “giornaloni” moderati e europeisti con una frequenza notevole: solo nell’ultimo mese è finita altre due volte sul Corsera, una su Repubblica e un’altra appunto su La Stampa.

Nello stesso periodo il suo dirimpettaio a destra, Matteo Salvini, ha compiuto il processo opposto. Si è marginalizzato. Ha parlato quasi esclusivamente con la stampa corsara di destra: un’intervista a Libero, una al Giornale, una alla Verità e soltanto una al Corriere (alla penna amica di Marco Cremonesi). È apparso appannato e immalinconito. Sembra mancargli la capacità d’innovare la sua immagine (se si eccettuano i brutti occhiali marroni inforcati di recente) e una strategia capace di intercettare i cambiamenti che attraversano l’opinione pubblica dall’inizio della stagione del Covid.

Meloni ha dimostrato sangue freddo e versatilità: ha tenuto duro nel lungo periodo post 4 marzo 2018, quando il grande consenso leghista sembrava dover ingoiare Fratelli d’Italia per farli scomparire in un progetto sovranista dominato da Salvini.

Ora gli equilibri sono molto diversi. Mai come adesso l’ipotesi di un affiancamento a destra (più che un sorpasso) sembra prendere una forma concreta.

Lo mostrano alcune spie. Intanto i sondaggi, dove alla costante decrescita della Lega corrisponde un aumento speculare delle percentuali di FdI: l’ultima “supermedia” YouTrend dice 26,3% per il partito di Salvini e 14,5% per quello di Meloni. Non erano mai stati tanto vicini.

Poi ci sono i numeri dei social network: l’indagine della piattaforma Human pubblicata dal Fatto ha mostrato che Giorgia Meloni cresce a ritmi molto più sostenuti del suo alleato su Facebook e ha livelli di engagement e sentiment migliori; nonostante in termini assoluti i suoi numeri siano inferiori, la qualità delle interazioni con la sua fanbase è più alta. In parole povere: anche sui social, il regno incontrastato di Salvini, Meloni sta recuperando terreno.

Infine c’è un dato intangibile, ma ancora più prezioso perché contiene tutti gli altri: lo slittamento dell’opinione pubblica. Per mesi Salvini è stato percepito come invincibile, era al centro del microcosmo politico italiano. Poi ha perso l’aura del vincente e non l’ha ritrovata più. In quello spazio che si è aperto a destra si è infilata Meloni. Che sta lavorando (bene) per trasformare la fessura in voragine.

Metà dei prestiti al Nord. E il Sud rischia l’usura

Quella dei prestiti garantiti dallo Stato resta una battaglia estenuante che si gioca sul filo dei numeri. A più di un mese dall’avvio della macchina, da una parte ci sono i dati annunciati dalla task force bancaria che si incensa per le quasi 400mila richieste di finanziamento arrivate al Fondo centrale di garanzia che gestisce i mini prestiti da 25mila (presto saliranno a 30mila) e 800mila euro, che però fino a oggi sono arrivati solo a metà degli imprenditori. Dall’altra parte ci sono i numeri che arrivano dal territorio, elaborati dal sindacato dei bancari Fabi, che mostrano una spaccatura tra Nord e Sud: il 50,7% dei prestiti garantiti che è appannaggio di Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna. Quattro Regioni dove, però, è attivo solo il 38% di partite Iva e pmi. Mentre il resto d’Italia, dove opera il 62% di questi professionisti, deve spartirsi l’altra metà dei soldi. “Alcune banche – spiega il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni – per loro convenienze stanno penalizzando determinati territori favorendone altri. Così si allarga il rischio usura: chi non ottiene finanziamenti in banca finisce molto probabilmente in mano alla criminalità organizzata”. Un allarme lanciato negli scorsi giorni dal premier Giuseppe Conte, quando dal “mettetevi una mano sul cuore” è passato a chiedere alle banche “di fare subito”, per il pericolo che “le mafie possano nutrirsi delle difficoltà dei cittadini”.

Ma sulla disperazione degli imprenditori, prevale il fattore territorio. Su 17,1 miliardi di euro di prestiti richiesti al Fondo centrale di garanzia per le pmi fino al 25 maggio, nelle 4 Regioni del Nord andranno ben 8,6 miliardi. In particolare, in Veneto le domande valgono 1,9 miliardi (l’11,5% del totale), mentre la quota di pmi e partite Iva si ferma al 7,9%; situazione simile a quella dell’Emilia-Romagna con 1,7 miliardi di richieste (10,1%) e il 7,4% di imprese e partite Iva; in Piemonte c’è un sostanziale equilibrio: le domande valgono 1,1 miliardi (6,5%), mentre la quota di pmi e partite Iva si attesta al 7%; in Lombardia le domande ammontano a 3,9 miliardi (22,5% del totale), ma imprese e partite Iva rappresentano il 15,7% del totale. È soprattutto a Bergamo e a Brescia che si registra una fervida attività: Ubi sta erogando i prestiti con percentuali bulgare come possibile mossa per difendersi dall’offerta pubblica di Intesa Sanpaolo. Alle altre 16 Regioni non resta che dividersi le briciole. Ad esempio, nel Lazio le domande di prestiti valgono il 9,4% del totale (1,6 miliardi), ma le pmi e partite Iva rappresentano il 10,9% del bacino nazionale; in Campania, i prestiti arrivano al 7,7% (1,3 miliardi) e le pmi e partite Iva sono il 9,8% del totale; mentre in Toscana il 6,2% dei prestiti è andato al 6,8% dei professionisti.

L’Associazione bancaria non ci sta però a far passare l’idea che le banche possano scegliere gli imprenditori ai quali dare i soldi. E al report della Fabi risponde con uno suo in cui spiega che, anzi, “c’è una forte correlazione tra la distribuzione territoriale delle domande di finanziamento fino a 25.000 euro garantiti al 100% e la loro potenziale domanda”. Ma i due rapporti non sono paragonabili: quello del sindacato include anche i prestiti fino a 800mila euro, elargiti fino a oggi solo a 1 imprenditore su 4. E, sempre secondo l’Abi, a influire sulle domande ci sarebbero “gli effetti del Covid” che dovrebbero giustificare il minor numero di richieste presentate “a Bolzano e Trento, così come in Sicilia e in Campania”. Tralasciando il fatto che la chiusura ha comunque interessato tutto il Paese: bar e negozi di Milano, come quelli di Catania.

Ecco chi ha ricevuto (e chi no) i miliardi stanziati dal governo

Di cosa parlava il 6 aprile il premier Giuseppe Conte quando ha annunciato una “potenza di fuoco” da 400 miliardi per le imprese? Perché il ministro dell’Economia Gualtieri ha poi parlato di “un bazooka da 750 miliardi”? Diciamo che detta così è una speranza: è il totale delle risorse che potrebbero essere mobilitate da soldi, garanzie e iniziative della galassia pubblica (Cdp in testa) varate coi tre decreti approvati durante l’emergenza (Cura Italia, Liquidità e Rilancio). I fondi “veri”, per così dire, sono 80 miliardi più i 30 di garanzie alle imprese che richiedono i prestiti. Questi soldi e il loro “effetto-leva” dovrebbero aiutare un Paese ferito dalla peggior recessione in tempo di pace. Un primo bilancio: al netto di burocrazia, errori e farraginosità varie, il “bazooka” sta colpendo più velocemente in caso di sussidi, bonus e fondi ai ministeri, mentre è meno efficace nel sostegno alle imprese o sul fronte degli ammortizzatori sociali. Vediamo come e a chi sono andati i soldi stanziati (della difficile concessione dei prestiti prevista alle imprese scriviamo diffusamente nella pagina accanto).

Sanità. Dopo i 3,2 miliardi stanziati a marzo per aumentare i posti letto nelle terapie intensive e in rianimazione (1,4 miliardi), incrementare il numero di medici e infermieri (431 milioni) e implementare l’assistenza sanitaria (1,25 miliardi), con il decreto Rilancio il governo ha previsto altri 3,2 miliardi di risorse per assistenza territoriale, ospedali, interventi sul personale sanitario e per finanziare 4.200 contratti di specializzazione medica in più. Soldi arrivati a destinazione.

Scuola. Agli 85 milioni di euro previsti dal Cura Italia per il potenziamento della didattica a distanza, tra piattaforme e-learning, aiuto alle famiglie meno abbienti e formazione del personale scolastico, si sono aggiunti ora 1,45 miliardi destinati all’acquisto di guanti e mascherine, dispositivi per la didattica a distanza e misure per l’adattamento degli spazi interni ed esterni delle scuole. Un miliardo e mezzo di euro è andato all’Università anche per l’assunzione di almeno 4mila ricercatori. I bonifici per le scuole sono arrivati.

Bonus 600 euro. Dopo la pessima partenza, con il sito dell’Inps in tilt, sono serviti 12 giorni per iniziare ad accreditare 2,37 miliardi sul conto di poco meno di 3,9 milioni di lavoratori autonomi. Meno di 1 milione di domande sono ancora in fase di istruttoria o respinte. Dal 20 maggio sono partiti gli accrediti previsti dal dl Rilancio: stanno andando a oltre 4 milioni di assegnatari la cui platea si è allargata ai lavoratori del turismo, spettacolo e ai professionisti che hanno subito perdite di fatturato di almeno il 33%. Non hanno avuto nulla i professionisti iscritti alle casse di previdenza. Le colf stanno ricevendo 500 euro di aprile e maggio se non convivono col datore di lavoro.

Babysitter, congedi e smart working. A destinazione senza problemi anche le misure richieste dai genitori ad aprile (1,4 miliardi erogati) e prorogate dal decreto Rilancio. Il pacchetto famiglie va dai 600 euro per il bonus baby sitter ai congedi (un’indennità al 50% della retribuzione) fino al lavoro agile che resta la modalità prevalente per chi ha figli fino a 14 anni.

Lavoratori. Nella lunga e sofferta attesa di ricevere gli aiuti statali, ai 7,7 milioni che hanno chiesto la cassa integrazione è andata peggio di tutti: ad oggi è arrivata solo a 5,5 milioni di persone, ma a 4 milioni è stata anticipata dal datore di lavoro. La situazione si è sbloccata solo negli ultimi 10 giorni. Non è un problema di fondi (agli ammortizzatori sono andati 15 miliardi su 25 stanziati dal dl Rilancio per il pacchetto lavoro): è il meccanismo della cassa in deroga ad aver imbarazzato governo, Inps e Regioni. Ora è stata introdotta una procedura veloce che consente all’Inps di anticipare il 40% dell’assegno, ma si applicherà solo dal 19 giugno. Resta il divieto di licenziare fino a metà agosto. Il reddito di emergenza per le famiglie più bisognose, l’altra novità da 1 miliardo, si può richiedere online dal 22 maggio.

Imprese. Disco verde anche per le misure che rimandano il pagamento delle tasse, dell’Irap e dell’Iva. Stop anche alle cartelle esattoriali. A segno pure il credito d’imposta del 60% per chi continua a pagare il canone di locazione. C’è, invece, da aspettare per i 6 miliardi di contributi a fondo perduto per imprese con cali di fatturato: la procedura web sarà disponibile solo dalla seconda metà di giugno. A rilento, l’erogazione dei prestiti miliardari garantiti Sace: ne sono stati concessi 27 per la miseria di 204 milioni di euro. In attesa di assegnare 6,3 miliardi a Fca e 1,25 ad Autostrade.

Fca, che succede se poi non paga?

La discussione sulla garanzia statale per il prestito di 6,3 miliardi, che Intesa Sanpaolo intende concedere a Fca, appare pienamente giustificata dalle dimensioni dell’operazione. Con questo debito, il gruppo Fca aumenta del 50% la propria esposizione con il sistema finanziario. Di più: al soggetto giuridicamente debitore, Fca Italy, gli analisti attribuiscono un valore inferiore alla somma che questo chiede alla banca. L’argomento è dunque troppo serio per trattarlo ponendo condizioni improprie come il rimpatrio della sede legale e della sede fiscale di Fca che, ove deliberate, escluderebbero dalle provvidenze post Covid-19 le attività italiane delle multinazionali con probabili danni per dipendenti e fornitori. (Il rimpatrio delle sedi può essere favorito adottando un diritto societario all’olandese).

Il governo pretende dal soggetto garantito impegni su occupazione e investimenti. Sono richieste giuste, da gestire però con prudenza. Ricordate i piani per l’Alfa Romeo del 1988 lanciati da Agnelli e Romiti o il progetto Fabbrica Italia di Marchionne? Si vide poco. Purtroppo, c’è spesso una buona ragione per non tener fede alle belle promesse. In quei casi fu triste, ma almeno lo Stato non prendeva rischi. Adesso, invece, i rischi lo Stato se li prende. E fa bene, intendiamoci: l’emergenza è reale. E tuttavia ci si chiede se saranno previste clausole di tutela dell’interesse pubblico nella garanzia per Fca Italy e come intanto si regolano i governi dei principali Paesi di interesse per Fca. Che fa Trump per la Chrysler? E Bolsonaro per Fca Brasil? E Macron, come funziona il suo piano da 8 miliardi per Renault e Psa, prossima sposa di Fca? In questi Paesi che cosa sta negoziando Fca? Saperlo aiuterebbe a valutare l’azione del governo italiano, tenendo ovviamente presenti i vincoli di finanza pubblica.

Il governo ha tutti i mezzi per analizzare nel modo più penetrante i conti di Fca Italy e i suoi rapporti con Fca. Carlo Calenda ricorda che la holding Fca ha 28 miliardi di mezzi propri con i quali potrebbe garantire i debiti di Fca Italy. Se Fca chiede ugualmente la garanzia pubblica, conclude Calenda raccogliendo su questo giornale il consenso di uomini a lui lontani come l’ex segretario Fiom, Giorgio Airaudo, la stessa Fca dovrebbe almeno sospendere l’erogazione dei dividendi per tutta la durata del finanziamento agevolato e non solo per il 2020. È vero che i mezzi propri non sono cassa, perché finanziano gli attivi (partecipazioni e altro). Ed è vero che il gruppo Fca ha 12 miliardi di debiti finanziari consolidati (oltre a 8 miliardi di debiti pensionistici), mentre la sua liquidità, 15 miliardi, non sembra facilmente disponibile come ci fanno capire le agenzie di rating che continuano a giudicare speculativo il debito Fca.

Ma è anche vero che, al 31 dicembre 2019, Fca aveva 7 miliardi di linee di credito non utilizzate. Evidentemente intende usare il debito, che queste linee di credito le consentono di accendere, per remunerare i soci e non per sostenere le attività industriali per le quali, invece, chiede la garanzia dello Stato.

Il governo avrà da Fca un quadro esauriente sulla destinazione del prestito ottenuto da Intesa Sanpaolo: quanto per i salari e per quanto tempo, quanto per i fornitori e quanto infine residuerà per gli investimenti, ancorché quest’ultima finalità possa essere meglio raggiunta con capitale di rischio e mutui bancari od obbligazioni a lungo termine. Ma il punto cruciale è capire quale sarà la sostenibilità del debito di Fca che pare destinato a crescere qualora siano pagati i dividendi e sia finanziato il post Covid-19 con le banche.

Il maxi dividendo (5,5 miliardi) viene tuttora presentato come necessario per evitare la prevalenza di Fca nella fusione con Psa e arrivare così al merger of equals. Non sappiamo se sia possibile, alla luce dell’emergenza, rinegoziare gli accordi cancellando il maxi-dividendo e varando un aumento di capitale di pari entità in Psa così da rafforzare la combined entity e farne diventare il debito investment grade per meglio sostenere la transizione all’elettrico in questa fase tempestosa. Ove questa operazione non fosse praticabile, si potrebbero sempre limitare i diritti di voto di Exor, la holding degli Agnelli, così da avere l’equilibrio di potere concordato in Psa-Fca e congelare il maxi-dividendo fino a quando Fca Italy non rimborserà Intesa Sanpaolo.

Ma c’è un altro punto non meno delicato, sul quale si misurerà l’accountability dell’operazione. È la risposta alla domanda più semplice: cosa accadrà qualora Fca Italy non facesse onore al suo debito? Ricordiamo che le obbligazioni Fca erano junk bond già prima dell’attuale, drammatica congiuntura e che Fca Italy non poteva avere un merito di credito migliore. Il mancato rimborso è un’eventualità non augurabile e, va detto, nemmeno probabile, ma nessuno lo può escludere a priori. Ebbene, in questo maledettissimo caso, toccherebbe allo Stato rimborsare Intesa Sanpaolo e Fca continuerebbe a essere proprietaria di Fca Italy? Per i più non sarebbe accettabile.

Che fare, allora? Chiedere come controgaranzia le azioni di Fca Italy darebbe forse soddisfazione ai neostatalisti-nazionalisti più spensierati (nel senso di privi di pensiero), ma sarebbe un autogol: lo Stato si ritroverebbe padrone di un’azienda fallita comunque legata al gruppo originario. Meglio lavorare per ottenere una vera e propria seniority della garanzia pubblica in capo alla casa madre olandese, che oggi ha le sue linee di credito inutilizzate e che, in ogni caso, ha tutto il gruppo sotto di sé. La sede di Fca è all’estero? A questo punto, pace: avere come controparte una olandese con qualche risorsa è sempre molto meglio di avere un’italiana in bolletta.

Certo, si può ipotizzare una Sace che si controassicura condividendo con i fondi specializzati il prezzo, peraltro scontato, della garanzia. La probabilità di fallimento dei grandi gruppi prima del Covid-19 era dell’ordine del mezzo punto percentuale. Si potrebbe trovare chi ne controassicuri una percentuale 10 volte superiore? Forse sì. Ma è legittimo temere che la controassicurazione – misura ragionevole – difficilmente coprirebbe per intero la garanzia enorme per Fca Italy.

Tutte queste soluzioni non escluderebbero l’ingresso temporaneo dello Stato nel capitale di Fca per rafforzare la solvibilità del gruppo, come prospetta Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera, e anche per vigilare, come vorrebbe il leader della Cgil, Maurizio Landini. Ma questo sarebbe un altro film.

 

Mail box

 

M5S, è ora di modificare il limite dei due mandati

Caro Direttore, dopo averla seguita ad Accordi & Disaccordi di venerdì scorso e aver letto l’editoriale di sabato, sono perfettamente d’accordo con la sua proposta di riforma necessaria per un Csm libero da correnti. Su un punto però ho una perplessità: lei propone il sistema misto (sorteggio e poi elezione) per i membri togati del Csm, ma non sarebbe più incisivo che avvenga prima l’elezione e poi il sorteggio? Non credo che questo produca l’effetto di incostituzionalità. C’è un altro punto su cui vorrei esternare una mia riflessione: il passaggio del suo editoriale che riguarda la rotazione dei capi degli uffici. Mi viene in mente la regola del M5S sui politici che, dopo 2 mandati, devono lasciare il posto, anche se il primo mandato è stato fatto come consigliere comunale in un piccolo Comune. Se fossimo in un Paese normale, in un tempo normale, non avrei nulla da obiettare. Ma siamo in una Italia in cui per decenni tutto è stato fatto tranne le riforme, e quando sono arrivate hanno fatto ancora più danno. In questo momento di vera emergenza, abbiamo la fortuna di avere un governo normale. Perché allora – per il M5S – non rivedere la regola dei 2 mandati? Come lei dice, chi fa bene rimanga al suo posto e chi fa male venga cacciato. Grazie ancora a tutti i suoi collaboratori e a lei di dirigere un giornale di cui non si può fare a meno.

Lidia Tarenzi

 

Cara Livia, credo che la politica – diversamente dalla magistratura – non debba per forza essere una professione a vita. Dunque concordo con la regola dei due mandati, anche se per le cariche (al massimo) decennali come quella di sindaco e presidente di Regione trovo giusto prevedere una deroga.

M. Trav.

 

Complimenti a Lerner per l’onestà intellettuale

Caro Marco, faccio i complimenti a te e tutta la tua squadra per la nuova “veste” del Fatto, sia come grafica sia per i contenuti, organizzazione compresa. Inoltre ti prego di inoltrare il mio più cordiale benvenuto a Gad Lerner. Non sempre ho condiviso le sue posizioni ma ho sempre riconosciuto il suo talento e la sua onestà intellettuale che non potranno che fare bene al “nostro” quotidiano (scusa se uso l’aggettivo “nostro” ma sono un abbonato da settembre 2009 e un pochino lo sento anche mio). Per me le incursioni di Lerner a Pontida nelle piazze fascio-leghiste non hanno prezzo… Magari dalla (ex, per me) Repubblica ne arriveranno altri…

Gian Sartori

 

Che bello il nuovo “Fatto”: sempre avanti così!

Complimenti! Il Fatto era bello prima, ed è più bello adesso. Non fermatevi, noi vi seguiamo.

Ugo Garaffa

 

Grazie a tutta la redazione e ai grafici: la “veste” è super

Complimenti! Oggi ho avuto il piacere di leggere il nuovo Fatto e di apprezzare ancora di più il “mio” quotidiano. Chiara e pulita l’impaginazione, ottima la leggibilità, accattivante l’impatto visivo. Vi leggo tutti i giorni da nove anni. Purtroppo, in tempi di lockdown, ho dovuto delegare mia figlia all’acquisto. E se un giorno non poteva andare, niente paura: un whatsapp alla mia edicolante e il “mio” Fatto veniva tenuto da parte, così il giorno dopo ne avevo due da leggere! Grazie per la vostra informazione sempre precisa, per i fondi di Travaglio, i commenti di Padellaro, le riflessioni di Fini, l’ironia di Scanzi… Grazie a tutta la redazione!

Maria Grazia De Vivo

 

I ritratti di Pino Corrias sono illuminanti e sagaci

Caro Marco Travaglio, i miei complimenti a Pino Corrias: è sempre un grandissimo piacere leggere i suoi ritratti sagaci e illuminanti. L’articolo di ieri, che celebra l’anniversario della morte di Walter Tobagi, si discosta dalla consuetudine descrittiva: Corrias si concentra sulla figura del suo assassino e, come in uno specchio deformato, ci restituisce la grandezza di questo “figlio di un calzolaio”, un uomo libero. Grazie, Fatto Quotidiano, continuate così!!!

Laura Bellandi

 

Un quotidiano “estetico”, snello e accattivante

Volevo complimentarmi con la nuova versione del Fatto! Snello, estetico e diretto come giustamente segnalato dal direttore nel video pubblicato online. Personalmente, l’abitudine di sfogliare il quotidiano cartaceo è nata con la quarantena ed è diventata parte integrante della giornata. La nuova formula sarà particolarmente efficace con il progressivo ritorno alla normalità. Splendido servizio davvero!

Simone Dell’Oso

 

Anche il mio edicolante si è “innamorato” di voi

Nel fare i più calorosi auguri al giornale per la nuova veste grafica, volevo farle sapere che martedì ho dovuto girare diverse edicole per trovare il Fatto. Ci sono riuscito al terzo tentativo, ma la cosa che mi sembra bello condividere è che l’edicolante di Montesilvano (Pe) mi ha ringraziato.

Ps: sono un ex lettore di Repubblica.

Lucio Pianamente

 

Da melomane, condivido l’appello della Mingardo

Complimenti per la nuova grafica del giornale: si legge meglio e, da appassionato melomane, grazie anche per l’accorato appello dell’accorata lettera della cantante lirica Sara Mingardo, che ben conosco.

Luca Tommaso Pontello