Caro Salvini, adesso è lei a dire spesso dei no (strumentali)

Caro Matteo Salvini, l’altra sera a Fuori dal Coro le ho fatto recapitare da Mario Giordano la seguente domanda: “Coi 5S vi siete ‘lasciati’ perché, secondo lei, dicevano troppi no. Ora però a dire No è lei, innanzitutto sul Mes, su cui è d’accordo anche Berlusconi. Non le va bene un prestito da 36 miliardi a un tasso agevolato dello 0,1%, mentre promuove i 22 miliardi di Buoni del Tesoro sui cui lo Stato – ovvero tutti noi – dovrà pagare almeno l’1,4%. Quale padre di famiglia sceglierebbe il mutuo più salato? Per lei vengono ‘Prima gli Italiani’ o l’avversione all’Europa?”. Domanda semplice. Infatti ho notato che, mentre mi ascoltava, annuiva sorridendo coi suoi nuovi occhiali, tipo studente che pensa “evvai, questa la so!”. Ma la sua risposta è stata piuttosto deludente.

Ha esordito dicendo: “I soldi per i Btp rimangono in Italia, gli interessi vanno in tasca a cittadini e imprese italiane”. Partenza inesatta: se gli investitori individuali sono stati, come scontato, quasi tutti italiani (in larga parte piccoli risparmiatori), nella seconda fase dedicata agli istituzionali il 48% (quasi la metà) è finito in mani straniere. “Poi – ha proseguito – non ci sono condizioni, mentre i soldi del Mes dovranno essere restituiti a precise condizioni decise tra Bruxelles e Berlino”. Anche su questo qualche precisazione: l’unica condizionalità prevista nell’accordo europeo è l’uso dei soldi per la sanità, spese dirette e indirette dovute all’emergenza Covid. C’è da fidarsi della Commissione Ue che garantisce che i Paesi che attiveranno il fondo non verranno messi sotto sorveglianza sui conti pubblici? Forse no, se uno pensa al passato. Ma se uno invece guarda al presente e al futuro, alla crisi in cui siamo e a come uscirne subito – e questo dovrebbe avere a mente una politica responsabile: gli interessi del Paese, non i propri calcoli elettorali – la risposta forse è sì. Avrebbe chiesto Catalano: non è meglio un prestito a 10 anni da 36-37 miliardi, disponibili subito, su cui pagare un interesse quasi nullo dello 0,1%, rispetto a meno soldi (22 miliardi), da restituire in meno tempo (5 anni), a un tasso superiore (almeno l’1,4%)? Matematica. Anche perché chi paga quel debito agli investitori, anche stranieri? I cittadini italiani. E se è vero che il Mes è limitato alla spesa sanitaria, iniettare 37 miliardi in strutture e personale che, come purtroppo abbiamo visto, ci servono, anche per i tagli che ci sono stati negli ultimi 10 anni (pari proprio a 37 miliardi), non sarebbe un bel sollievo? Potremmo liberare risorse dalla Sanità, su cui anche il decreto Rilancio è costretto a investire, per spostarle su altri settori in crisi: imprese, turismo, scuola, famiglie… Eh ma “se i soldi del Mes fossero ’sto regalo imperdibile – ha concluso –, perché Grecia, Francia, Spagna, Portogallo non li usano? O sono fessi gli altri oppure sono un prestito a rischio”. Al di là del fatto che Paesi come la Francia forse non ne hanno bisogno, visto che già investono in Sanità ben più di noi, che politica è quella che decide il da farsi non sulla base di ciò che serve, ma guardando agli altri? Lo studente di cui sopra è contento del 4 perché i compagni prendono 3?

Caro Salvini, non penso che il Mes sia la panacea dei nostri (tanti) mali, né l’unica strada. Penso però che un leader seguito – come lei – e serio – come lei vorrebbe essere – dovrebbe dimostrare serietà nei fatti, non solo con gli occhiali. Si può dire sì ai Btp, ma anche al Mes (vedi Berlusconi), agli Eurobond (vedi Meloni) e al mega Recovery Fund (sarà come annunciato?): a tutto ciò che può aiutare subito l’Italia. Così potreste anche ricompattare il centrodestra. O siete tornati nella Casa delle Libertà dove, per dirla con Guzzanti, “fate un po’ come c… vi pare”?

Un cordiale saluto.

Luisella Costamagna

Le correnti togate sono ormai centri di potere: vanno sciolte

Dalle conversazioni intercettate tra Luca Palamara (già potente presidente dell’Anm e membro del Csm) e una miriade di questuanti magistrati emerge, come ha notato il direttore del Fatto, “una magistratura associata che, salvo rare eccezioni, si comporta come le peggiori lobby (per non dire cosche)”. Stiamo parlando di magistrati quasi tutti impegnati, anche ad alto livello, nell’attività associativa, molti dei quali “adoranti” o “emozionati” riconoscono in modo servile (non degno di un magistrato) in “Luca” il “big”, il “grande”, “il riferimento assoluto”, “il dominus”, lo “stratega”, il “capo” che, per difendere i suoi vassalli a caccia di posti direttivi e semidirettivi o di incarichi fuori ruolo, “andrà alla guerra”, “sarà una belva”, promette che chi li avversa “avrà pane per i suoi denti” e “questa volta gli farà male”, ecc. Marco Travaglio propone, per “chiudere al più presto la piaga purulenta”, alcune riforme tra cui quella fondamentale del “sistema misto fra sorteggio ed elezione per la scelta dei membri togati del Csm (proposto da Bonafede, ma poi archiviato su richiesta di Pd e Anm)” .

Le nuove intercettazioni confermano quanto da anni denunziato da questo giornale circa la degenerazione del sistema attribuibile a tutte le tradizionali correnti associative (MI, Unicost, Area) che hanno, da tempo, occupato, presidiato, controllato l’organo di autogoverno condizionandone anche la nomina del vicepresidente. Oggi, quindi, che l’indegno “mercato delle nomine” investe tutte le correnti tradizionali, iniziano le autocritiche, prima fra tutte quella di Giuseppe Cascini – (ex segretario generale dell’Anm, attuale componente Csm, uno dei leader di Area), anch’egli intercettato con Palamara. Nel Plenum del Csm (in relazione al caso Sirignano, intercettato con Palamara e rimosso di ufficio dalla Dna), Cascini ha dichiarato: “Dobbiamo fare una profonda e radicale autocritica. Questa vicenda è lo specchio di un sistema che coinvolge la magistratura nel suo complesso”. Queste autocritiche sono già un passo in avanti, visto che nel giugno del 2019 vi fu un tentativo di fuga, addossando tutte le colpe alla (indifendibile) coppia Palamara-Ferri (rispettivamente capi indiscussi di Unicost ed MI). Ma Cascini incorre in un errore: il sistema che emerge dalle intercettazioni non coinvolge “la magistratura nel suo complesso” ma, come correttamente precisa il direttore, “la magistratura associata”, perché nella magistratura esistono ancora, e per fortuna, magistrati perbene che svolgono il proprio lavoro (e solo quello) con correttezza ed autonomia (anche dalle correnti).

Sabato, i componenti di Unicost e Area sono usciti dalla giunta esecutiva dell’Anm. Si tratta solo di fumo negli occhi; l’unico segnale serio e credibile era quello di convocare l’assemblea generale mettendo all’ordine del giorno lo scioglimento delle correnti perché è lì che si annida il malcostume (per non dire il malaffare), e solo la loro eliminazione cancellerà effettivamente e definitivamente il sistema torbido e perverso da esse – e per esse dai loro “capi-bastone” – creato.

Tutto ciò non significa vietare ai magistrati il diritto di associarsi, costituzionalmente riconosciuto dall’art. 18 della Carta, perché il loro diritto di associarsi viene assicurato e, di fatto, esercitato con l’iscrizione alla Anm per poter liberamente discutere dei loro problemi nel confronto delle diverse opinioni. È evidente che la formazione, all’interno dell’associazione, di gruppi di soci non ha nulla a che vedere con il già esercitato diritto di associarsi, ma finisce per risolversi nella creazione di impropri e anomali centri di potere o di pressione. Riusciremo alle prossime elezioni del comitato direttivo dell’Anm a non vedere liste con i simboli delle (defunte) correnti?

 

Post-Covid? Torneremo gli stessi italiani di prima

Finita la pandemia, saremo un popolo migliore di uomini e donne più responsabili verso gli altri, più rispettosi della legalità, sinceramente grati ai nostri concittadini che si sacrificano per difendere la vita e la salute di tutti, più caritatevoli verso i deboli e gli indifesi; o saremo un popolo peggiore di uomini e donne chiusi al sentimento di civile fratellanza, felici di affermare la propria individualità violando le leggi, abili a declamare parole di ammirazione per chi assolve i doveri mentre dentro di noi li derideremo come poveri fessi, indifferenti nei confronti delle vittime della condizione umana e delle ingiustizie?

Per tentare di rispondere alle domande importanti e difficili è sempre consigliabile consultare i maestri del passato. Ci soccorre il buon Machiavelli che, per una volta, offre una considerazione rassicurante. Dopo le pestilenze, le carestie e le alluvioni, scrive nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, II.5, “gli uomini sendo divenuti pochi e battuti”, vivono “più comodamente”, e diventano “migliori”. Diventano migliori perché riscoprono i principi del vivere civile: si riconoscono, ovvero ritrovano il loro vero essere, e quindi rinascono come popolo.

Sarebbe bello se, superata per il momento la fase più nera della pandemia, avessimo riscoperto i principi del vivere civile e fossimo diventati migliori. Purtroppo, non è così. Siamo lo stesso popolo che eravamo prima del corona virus. Da una parte medici, infermieri, forze dell’ordine, volontari, amministratori pubblici che per senso del dovere affrontano fatiche enormi, e in molti casi sacrificano le loro vite, e tanti cittadini che rispettano le regole necessarie per combattere il virus. Dall’altra migliaia d’irresponsabili e di arroganti che si riversano nelle vie, nelle piazze, nelle spiagge senza mascherine e senza osservare la distanza prescritta.

Si legga l’ottimo articolo di Leonardo Coen sul Fatto (25.05). I titolari di un pub milanese, che hanno chiuso di fronte all’arroganza degli avventori, si sono sentiti dire frasi del tipo: “Non metto la mascherina perché il Covid non esiste”, “fammi vedere dove c’è scritto che devo mettermi la mascherina”. “Altro che ‘saremo migliori dopo’ commenta Coen, il dopo è già peggio del prima”. Confermo per esperienza diretta. Dalla finestra di casa nostra in piazza Santo Spirito a Firenze vedo tante persone le une appiccicate alle altre, senza mascherine, e agenti di polizia e vigili urbani assistere immobili alla palese violazione delle norme. Vedo l’arroganza di chi passa davanti agli agenti ostentando di non avere la mascherina, e l’astuzia di chi la mette quando gli agenti si avvicinano e la toglie appena si allontanano. A chi crede nel dovere di osservare le leggi queste scene fanno male. Dovrebbero fare male anche a chi ha a cuore la dignità delle forze dell’ordine. Leggo che in altre città italiane i trasgressori incorrono nelle sanzioni previste dalla legge. Mi chiedo perché a Firenze non avvenga.

Non sono un epidemiologo e quindi non sentenzio sugli effetti degli assembramenti di centinaia di persone senza mascherine. Mi fido di chi è competente in materia e sostiene che sono pericolosi e quindi vanno proibiti o seriamente regolati. Da studioso di teoria politica ritengo che quando lo Stato emana norme, deve farle rispettare. Se non lo fa, non è più uno Stato, ma una finzione di Stato. Temo non sia ancora chiaro: questa epidemia non porta solo morte, sofferenze e povertà; può portare anche alla resa dello Stato repubblicano, se chi governa non lo sa difendere con saggezza e determinazione.

Non è la prima volta che noi Italiani ci troviamo di fronte al bivio fra rinascita o declino civile. Non sarà neppure l’ultima. Anche se i segni del declino sono più forti di quelli della rinascita, non è ancora finita. Gli Italiani consapevoli dei doveri civili potrebbero ancora vincere contro gli arroganti che vogliono vivere in spregio delle leggi. Molto dipenderà dalla determinazione dello Stato, in tutte le sue componenti. Ma molto dipenderà anche dalle autorità morali che possono insegnare con la parola e con l’esempio. Il “riconoscersi” che Machiavelli indicava come chiave della rinascita civile è riscoperta interiore di valori nuovi o dimenticati. Proprio perché esige il cambiamento radicale di modi di vivere consolidati, la rinascita civile è più difficile della decadenza. Eppure, dobbiamo tentare, non fosse altro per debito di gratitudine nei confronti di chi ha dimostrato con l’esempio che vivere da cittadini vuol dire assolvere i doveri, soprattutto quando costa fatica e sacrificio.

 

Maternità Riapriamo le sale parto ai (quasi) papà: per l’Oms è un diritto

Gentilissimi, sono una (quasi) mamma. Vi scrivo per riportarvi un appello: spero che possiate essere d’aiuto a noi mamme ai tempi del Covid-19.

Carissima presidente Santelli, sono tra quelle donne che hanno vissuto il Covid “in attesa”. Siamo state discrete e in disparte per alleviare il peso della preoccupazione che cresceva insieme alle nostre pance. Diventare mamma in tempo di pandemia ha significato imparare a preservarci dall’ansia e dalle paure, oltre che dal pericolo, per poter coltivare uno spazio dentro di noi sereno e luminoso come ogni vita merita, in ogni tempo. Abbiamo reimparato a sentire che tutto andava bene, in modo diverso. Dopo aver immaginato di respirare mano nella mano con altre donne nei corsi pre-parto, ci siamo trovate sole di fronte a uno schermo. A chi – rispetto alla preoccupazione che in molte Regioni, compresa la Calabria, sia ancora vietata la presenza dei papà in sala parto, nonostante il diritto ribadito dall’Oms – mi dice “ce la farai lo stesso”, rispondo che non è questo il punto: quando nasce un bambino non nasce solo una mamma, ma anche un papà, una famiglia. Abbiamo riaperto estetiste e ristoranti. Tutto giusto, se nel rispetto dei morti e con la cautela per i vivi. Ma chiediamo di riaprire anche ai papà le sale parto per poter accogliere, insieme, il futuro.

Nausica Tucci

 

Gentile Nausica, la sua lettera mi fa tornare a ricordi dolcissimi quando le mie bambine erano dentro di me ed eravamo un tutt’uno. Che esperienza la maternità! Ho letto con attenzione la sua lettera e da donna e mamma ho condiviso ogni sua parola. Non solo la condivisione del parto è un diritto, ma anche un momento di grande condivisione affettiva e un simbolo sociale. Da virologa non posso non dirle che questo periodo ci obbliga a qualche attenzione in più. Negli ospedali si sono creati percorsi Covid e Covid-free ma anche nelle zone più colpite dal virus non si è impedito lo svolgersi del parto. Riferisco quanto pubblicato sul sito del ministero della Salute: “All’ospedale Del Ponte di Varese i bambini continuano a venire al mondo con entrambi i genitori presenti in sala parto, nonostante l’epidemia”. Sinceramente, non riesco a vedere una differenza in termini di pericolosità tra presenza in sala parto o al tavolo del ristorante. Spero che la sua richiesta venga accolta e che, dopo una gravidanza non priva di paure e di ansie, possa condividere la guadagnata gioia del parto. I miei più sentiti auguri.

Maria Rita Gismondo

Il modello Formigoni: la competizione fra ospedali (e religioni)

L’ex presidente della Lombardia Formigoni ha incolpato la giunta Maroni dell’indebolimento della medicina territoriale, uno dei motivi della disfatta della Sanità lombarda. L’altro motivo è il modo in cui Fontana e Gallera hanno gestito l’emergenza (indagini in corso), ma Formigoni li difende: “A Fontana posso solo dire che semmai ha chiesto in ritardo l’aiuto degli ospedali privati”. (Va ricordato allora un terzo motivo della débâcle: la riduzione degli ospedali pubblici e l’aumento di quelli privati, che hanno orientamento profit e meno reparti di terapia intensiva. La riforma Formigoni del 1997 favoriva il più possibile l’entrata dei privati nel Servizio sanitario regionale, sul modello inglese di quegli anni). Quando fu condannato al carcere per corruzione, nel processo sui fondi neri della clinica Maugeri e del San Raffaele, mi venne in mente l’intervista che gli feci a Barracuda (1999). Eccone uno stralcio:

Lei parlava della riforma sanitaria regionale. È stato lei l’artefice di questa cosa?

FORMIGONI: È stata la mia giunta, è stata la mia maggioranza. Certo, c’è molto anche di mio, mi ci riconosco pienamente.

La maggior novità di questa cosa?

F: La maggior novità è che abbiamo messo al centro di tutto il malato, che ha totale libertà di scelta: può scegliersi il medico che ritiene più confacente ai propri desideri, può scegliere l’ospedale in cui andarsi a fare ricoverare, e abbiamo introdotto un concetto di competizione, per cui gli ospedali sono spinti a essere i migliori possibili, sapendo che il malato può scegliere di non andare più a farsi ricoverare da loro, e quindi se funzionano male sono i malati che li abbandonano e gli ospedali sono costretti a chiudere (…).

Quando si parla di competizione fra ospedali a me viene sempre un po’ di brivido perché penso, ok, dopodiché taglieranno sui costi, non si trova il filo di sutura…

F: No, quando parlo di competizione parlo di competizione sulla qualità della prestazione effettuata, sul risultato, perché il malato andrà evidentemente dove ha più speranza di essere curato bene, dove ha più speranza di guarire.

Però tramite vox populi, nel senso che uno si informerà col vicino qual è il meglio, perché poi, in realtà…

F: Quando c’è di mezzo la salute o addirittura il pericolo di morte o di vita le assicuro che ciascuno di noi si informa bene e quindi va a colpo sicuro. (La Regione non informa i lombardi neppure su chi siano i proprietari delle strutture private del Ssr che li curano).

Poiché Formigoni è un uomo di fede laureato in Filosofia, gli chiesi infine della nuova enciclica, Fede e ragione, dove Wojtyla sosteneva che l’uomo si deve affidare alla fede per approdare alla verità cui la ragione non arriva. Feci presente che uno può credere a verità diverse da quella cattolica. Risposta di Formigoni: “Il problema non è credere scegliendo quello che più aggrada”. (A differenza dei pazienti lombardi). “La sfida che il cristianesimo lancia all’uomo è quella di dare alle esigenze più profonde dell’uomo delle risposte più soddisfacenti che qualunque altra filosofia o scelta di vita”. (Competizione fra religioni come fra ospedali lombardi).

 

È ancora presto per dire “post covid”

Proliferano i titoli giornalistici con la frase “post Covid”. Temo che si possa scivolare verso la convinzione che la pandemia sia finita, con conseguenti pericolosi comportamenti. Non è così, né a livello nazionale, né internazionale. Non siamo ancora riemersi alla luce del giorno: la intravvediamo intensa alla fine di un tunnel, forse, più breve di prima. Se ci sfuggisse questo concetto, faremmo un gran favore al “nostro” virus.

Questo è anche un invito a noi tutti ricercatori a essere cauti davanti ai risultati di laboratorio preliminari. Mentre nei mesi scorsi eravamo tutti protesi a dimostrare la “cattiveria” del SarsCoV2, oggi siamo tutti impegnati a evidenziare qualsiasi risultato che possa darci un respiro ottimistico. Credo che sia normale perché, prima che scienziati, siamo donne e uomini segnati, anche professionalmente, da questa esperienza.

Voglio perciò cogliere l’occasione per congratularmi con il collega e amico virologo di Brescia che sta lavorando in questo senso, annunciandoci già dei primi risultati meno pessimistici. L’invito che gli rivolgo è di concludere il più presto possibile gli studi che possano confermare scientificamente le caratteristiche geniche del virus bresciano “meno forte”.

Noi virologi che ci stiamo occupando di SarsCoV2, sequenziando e isolando, siamo in attesa fiduciosa. Fino a oggi, i ceppi isolati nel mondo, anche dal nostro laboratorio, le cui sequenze geniche sono anche reperibili in banca dati, ci dimostrano che il virus muta molto poco, anzi quasi per niente. E purtroppo non possiamo gioire fino a quando l’intuizione empirica del gruppo bresciano non verrà confermata dall’individuazione di nuove mutazioni. Dunque, buon lavoro al gruppo bresciano.

*Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Briatore, Casini e Montezemolo: i frugali d’Italia

Sere fa, inquadrato su Rete4, Luca Cordero di Montezemolo sembrava uscito dalla cornice ovale di un ritratto museale, tipo: uomo con turbante rosso, oppure dama con liocorno. Infatti apparentemente non dava segni di vita fino a quando Barbara Palombelli non gli ha chiesto cosa pensasse del governo Conte, al che arricciando le aristocratiche labbra LCdM ha mormorato qualcosa come: “Inadeguato”. Quindi i custodi lo hanno riposto delicatamente in magazzino. Da giorni ci perseguita il termine “frugale” che nei tg è associato ai quattro Paesi (Austria, Danimarca, Olanda e Svezia) timorosi che qualsiasi prestito fatto all’Italia poi ce lo sputtaniamo col Gratta&Vinci o in qualche osteria. Davanti al ritratto del gentiluomo disgustato con ermellino, mi sono detto che anche noi abbiamo la fortuna di annoverare miliardari frugali, che notoriamente si nutrono di bacche e licheni, pensosi sui destini del Paese finiti nelle mani di un avvocato pugliese, inadeguato fin dal 740.

Gente sobria nel collezionare Cda e mandati parlamentari, come il senatore emerito, Pier Ferdinando Casini, promotore dell’imminente rivolta dei Forconi pariolini contro il governo affamatore dei poveri. Vip dalle abitudini frugali, come Flavio “Billionaire” Briatore, fustigatore talk della inettitudine di premier e virologi con argomentazioni implacabili (“ma sono scemi?”). Lui che per curarsi ha brevettato un nuovo formidabile antipiretico: la “Tachipirigna” (testuale), da servire con lime, distillato di canna e molto ghiaccio tritato. Ma il nostro frugale preferito resta il deputato leghista Claudio Borghi, da tempo legato e imballato in un trumeau

di Montecitorio, dopo che a ogni sua dichiarazione lo spread spiccava il volo. Riesumato d’urgenza quando all’annuncio del maxi-piano Ue da 172 miliardi per l’Italia gli è stato chiesto di sparare la prima cazzata che gli veniva in mente. Questa: “Il Recovery fund

è una fregatura”. Poi uno si chiede perché i Paesi frugali ce l’hanno con noi.

Plusvalenze, maglie e tifo: ecco il “Pennemercato”

Il Pennemercato. Ingaggi stellari nel campionato dei giornalisti. Il colpaccio lo fa Urbano Cairo. Il patron del Torino, con gli stadi chiusi e in mancanza di gol in campo, si assicura Carlo Verdelli, il Ronaldo delle edicole. L’ex direttore di Repubblica, cacciato dagli Agnelli, non cede alle lusinghe di Carlo De Benedetti che lo vuole con sé al Domani – il giornale che verrà – e torna al Corriere della Sera. L’editore di Rcs blinda il suo Ronaldo con un contratto gold del tipo “ora e sempre Resistenza” che onora ben tre liquidazioni.

Col grande calcio in sosta forzata fino al 20 giugno per il Covid-19, agli italiani non resta altro che l’avvincente campagna acquisti delle prime firme. A bordo campo si prepara Walter Veltroni che non è solo maestro di penna al Corriere ma anche – è la sua cifra distintiva – pronto alla nomina di direttore di La7 così da raggiungere, dopo la plusvalenza imposta dall’arrivo di Ronaldo-Verdelli, un monte ingaggi a lui più consono.

Tutti vogliono tutti ma nessuno vuole Gianni & Riotto detto Johnny. Come un calciatore a fine carriera diventa direttore tecnico, Joe Severgnini si propone per il ruolo di direttore galattico di tutto il campionato ma Cairo, per placarne il vorace sogno, lo proclama Gran Mogol di via Solferino con delega alla consolazione di Johnny, ancor più disperato perché Marcello Sorgi detto Marcel, per godersi il mare di Lipari rifiuta non una bensì sette direzioni europee, cose tipo Frankfurter Allgemeine o The Guardian.

Ingaggi stellari, dunque. La sfida al tavolo dei procuratori è vinta da Cairo e lo spettacolo è assicurato. Mai come adesso ci sono stati tanti cambi, ritorni e cacciate nei giornali. Non più il pallone ma la redazione. Sky è già al lavoro per mettere il Pennemercato al posto del Calciomercato e così, ogni sera, per due mesi di fila – dalla metà di giugno fino ad agosto – gli abbonati avranno il commento sul passaggio dei campioni da una testata all’altra.

Il Pennemercato, infatti, non conosce soste e le proprietà delle maggiori squadre di calcio coincidono con quelle delle più importanti testate. L’arrivo del fratello di Lapo Elkann a Repubblica determina la fusione con La Stampa. Ancora qualche giorno fa, infatti, c’è stato lo scambio di maglie tra Francesco Bei e Paolo Griseri. Il primo lascia Torino per tornare da vicedirettore nel giornale fondato da Eugenio Scalfari e il secondo – sempre da vicedirettore – fa il viaggio inverso approdando appunto nel quotidiano oggi diretto da Zlatan Massimo Ibrahimovic Giannini, già editorialista di Repubblica e star radiofonica di Campo Massimo.

Il Pennemercato provoca un esodo di campioni verso altre squadre. La prima ad andarsene via, all’arrivo degli Elkann, è stata Lucia Annunziata. Dalla tolda di comando di Huffington Post – oggi diretto da Mattia Feltri, già Leo Messi de La Stampa – l’ex presidente della Rai, titolare della Mezzora di Rai3, è prossima a indossare la maglia del Domani, il sontuoso quotidiano in arrivo, fortissimamente voluto e munificamente finanziato da Carlo De Benedetti e alla cui direzione è stato chiamato l’ex Fatto Stefano Lautaro Feltri.

Il Pennemercato cambia il Dna delle squadre in campo. Con Maurizio Molinari al comando, il giornale della sinistra radical chic è diventato una sorta di Fox News del trumpismo global. Come il Milan con il fondo Elliott è diventato americano – e come l’Inter è cinese, dunque un’altra cosa – così Repubblica subisce una mutazione genetica.

Il Pennemercato va incontro ai lettori senza più un giornale. E siccome siamo amici di Platone ma ancor più lo siamo della verità, non possiamo non dire che la vera Repubblica, quella di un Eugenio Scalfari per capirsi, è oggi Il Fatto Quotidiano. Gad Lerner che pure è amico del Carlo fa marameo ai padroni e già firma su questo giornale. Come Verdelli neppure lui va con De Benedetti, rinuncia dunque allo yacht di quest’ultimo ma non alla barca di soldi e al bonus elicottero guidato personalmente da Marco Travaglio che, da par suo, lo pilota meglio di quanto sapesse fare Gianni Agnelli, l’avvocato.

Il Riformista attacca il Gip che arrestò il suo editore

Il Riformista – quotidiano edito da Alfredo Romeo, accusato di corruzione in un filone dell’inchiesta su Consip, la centrale d’acquisti pubblica italiana – da qualche giorno ha scoperto le chat estrapolate dal telefono sequestrato a Luca Palamara. Parliamo del pm che sussurrava le nomine, riuscendo a eleggere persino il vicepresidente del Csm, David Ermini.

Il Riformista ha un direttore, Piero Sansonetti, che ha finalmente scoperto le chat di Palamara perché le ha lette sui giornali degli altri. Ed è stato uno choc. Ha scoperto che alcuni giornalisti – non volendo leggere le notizie sui giornali degli altri, ma preferendo pubblicarle sul proprio – parlavano con Palamara (certo, ciascuno con il proprio stile) venendo a loro volta intercettati. Sansonetti s’incazza: perché gli altri giornali non scrivono le intercettazioni dei giornalisti intercettati? Intervista il presidente dell’Ordine dei giornalisti, che gli promette: “Approfondirò”.

Poi Sansonetti legge incautamente l’Espresso, scoprendo che Palamara chattava addirittura con il gip Gaspare Sturzo, l’uomo che non solo arrestò Romeo nel 2017 (arresto poi annullato dal Tribunale del Riesame), ma ha addirittura chiesto di indagare ulteriormente sullo stesso Romeo e Tiziano Renzi, amico di quel Carlo Russo che l’editore incontrò più d’una volta (secondo i carabinieri, Romeo predispose su un foglietto un “accordo quadro” per migliaia di euro da versare a tali “T.” e “C.R.”).

Letto l’Espresso, sdegnato, riscrive sul Riformista: Sturzo chiese a Palamara una “raccomandazione” citando, tra i meriti professionali, l’arresto di Romeo. In realtà i due si scambiano messaggi per film e convegni. E una sola volta Sturzo chiede notizie della sua domanda a sostituto procuratore di Cassazione. Elencate tutte le sue esperienze, aggiunge: “Io ho la settima valutazione, gli altri non mi pare…”.

Sevizie sui migranti nei lager della Libia. Prima condanna per tortura in Italia

Torturati, violentati, a volte uccisi, con le urla di dolore fatte ascoltare ai familiari “in diretta’’ attraverso i cellulari per sollecitare il riscatto: per i tre negrieri della prigione militare di Zawia, in Libia, è arrivata la prima condanna, a vent’anni, per il reato di tortura, introdotto tre anni fa nell’ordinamento italiano, previsto dall’art. 613 bis. Si conferma, dunque, “l’approccio innovativo’’ sviluppato dalla Procura di Palermo, che, come aveva detto nell’ottobre scorso il pm Geri Ferrara, “afferma il principio del rule of law, e cioè la pari dignità di ogni persona di fronte alla legge, e costituisce un primo passo per affermare il principio di legalità anche in Paesi dove sembra regnare il caos”, fornendo “alle vittime tutela e riconoscimento di diritti fondamentali’’. Il verdetto è firmato dal gup di Messina, competente perchè Mohammed Condè, inteso ‘Suarez’, originario della Guinea, 27 anni, Hameda Ahmed, egiziano, 26 anni e Mahmoud Ashuia, egiziano, 24 anni erano detenuti nell’hot spot della città dello Stretto e la condanna è arrivata per associazione a delinquere finalizzata alla tratta di persone, alla violenza sessuale, alla tortura, all’omicidio e al sequestro di persona a scopo di estorsione. Sono stati inchiodati dalle intercettazioni della Squadra Mobile di Agrigento, che ha ascoltato ‘’in diretta’’ le stesse urla udite dai familiari dei prigionieri, e dal racconto di una decina di migranti che hanno riferito al pm Geri Ferrara e all’aggiunto Marzia Sabella, della Dda di Palermo, le sevizie cui venivano sottoposti nei lager libici, da Zawia, al Ghetto di Alì il torturatore, dalla “Casa Bianca’’ al campo di Beni Walid, prima della partenza per Lampedusa: frustate con i fili elettrici, bastonate, percosse con tubi di gomma anche per ore fino alla morte, esecuzioni con l’elettricità, feroci punizioni per tutti.

Racconti che hanno spinto il pm Ferrara a dichiarare al momento dell’arresto, nell’ottobre scorso, che le condizioni in quel lager erano “al limite della sopravvivenza’’, con “vittime di torture, stupri e uccisioni che ricordano eventi che pensavamo ormai far parte della storia e della memoria’’. “Se sbaglia uno veniamo picchiati tutti’’, aveva detto uno dei migranti, che ha denunciato anche la morte per fame di un profugo: “Era denutrito, nessuno gli dava assistenza’’. “Questi delitti vanno inquadrati nella disciplina di cui all’art 10, comma 2 del codice penale – ha spiegato il pm Ferrara, che ha condotto l’inchiesta – ispirata dal principio di universalità, trattandosi di delitti comuni commessi da stranieri all’estero, ai danni di stranieri punibili secondo la legge italiana su richiesta del ministero della Giustizia, e applicata per l’estrema gravità ed efferatezza delle condotte’’.