Il Mef ha deciso: Gasbarra a capo della società Eur

Enrico Gasbarra è il nome che il ministero di Economia e Finanza porterà in assemblea dei soci come nuovo vertice di Eur Spa. Fonti informali del Fatto confermano la volontà del ministro Roberto Gualtieri di proporre l’ex vicesindaco di Roma – oggi suo consigliere politico al dicastero, con indennità lorda da 75.000 euro annui – a capo dell’ente che amministra gran parte degli immobili di pregio del quartiere razionalista romano, fra cui il Nuovo Centro Congressi (noto come “Nuvola”). Il fatto che il Mef detenga il 90% delle quote, contro il 10% del Comune di Roma, fa di Gasbarra il candidato in pole position.

La casella che potrebbe liberarsi a breve, infatti, è quella dell’ad Enrico Pazzali, il quale tecnicamente ha ancora un altro anno di mandato da espletare. Nel frattempo, però, il manager è stato nominato anche a capo della Fondazione Fiera di Milano e il doppio incarico ha spinto, alcuni mesi fa, il ministro Gualtieri a chiederne l’uscita, al varo del bilancio 2019.

L’approvazione del documento finanziario è al punto 3 della riunione del cda convocata per oggi. Al punto 2, invece, sono previste “comunicazioni del presidente e dell’amministratore delegato” e in quella sede Pazzali dovrebbe presentare le dimissioni. Cosa che, a quanto risulta, non è scontato che avvenga. Persone molto vicine a Gasbarra invece smentiscono “categoricamente” sia l’imminente nomina sia il fatto che l’ex deputato sia effettivamente interessato alla carica.

Il nome dell’ex vicesindaco di Roma non piace all’attuale prima cittadina, Virginia Raggi, che in più occasioni ha chiesto al ministero di favorire ai vertici della società un “profilo manageriale” e non “nomine prettamente politiche”. A conferma di ciò, va registrato il sostegno che Pazzali ebbe all’atto della sua conferma come amministratore delegato, pure essendo stato nominato dal centrosinistra.

Le chat di Ferri (Iv) e Palamara contro l’emendamento 5S

Non solo brigavano per le nomine dei vertici delle principali procure. Ma a quanto pare Luca Palamara e Cosimo Maria Ferri, leader di Magistratura indipendente oggi in politica con Italia Viva, erano capaci di arrivare anche più in alto, nel cuore delle dinamiche parlamentari. “Subito dopo aver presentato il mio emendamento per alzare l’età di pensione dei magistrati a 72 anni mi chiamò Ferri per capire se era una mia iniziativa personale o se era il M5S a volerlo”, spiega il senatore pentastellato Mattia Crucioli. Che con la sua proposta di modifica alla Legge di Bilancio 2018 aveva terrorizzato il duo Palamara-Ferri, come testimoniano i messaggi che si erano scambiati in chat.

Il 15 dicembre di due anni fa Ferri aveva informato dell’emendamento Palamara che lo aveva così commentato: “Cazzo. Speriamo di no, sarebbe una sciagura”. Il perché di tanto timore è presto detto: rischiavano di saltare gli avvicendamenti negli uffici giudiziari che più interessavano ai due, come Roma o Perugia. Che fare? Lo stesso giorno si mobilitò l’Anm per stroncare la proposta Crucioli. Rimasto di stucco perché nel 2016 il sindacato dei magistrati aveva perorato la sua stessa causa. “Ma quel che più mi sconvolse – racconta il senatore M5S- “è che mi chiamò anche la segreteria di Bonafede per dirmi che il ministro si sarebbe dissociato pubblicamente dal mio emendamento che, prima della telefonata di Ferri e della nota dell’Anm, non aveva ricevuto alcun veto da Via Arenula. E che peraltro si limitava a riproporre una proposta di Vito Crimi”. Contattato dal Fatto il ministro fa sapere che apprese della proposta Crucioli solo dalle agenzie e che semplicemente non la condivideva. Ma in queste ore sulla questione è in corso un parapiglia nel M5S. Specie dopo che il presidente dell’Antimafia Nicola Morra ha sottoscritto un emendamento per innalzare l’età di pensione dei magistrati presentato da Elio Lannutti.

Reddito di emergenza, Caf tagliati fuori. Per ora sono arrivate 100mila domande

Non è un assalto selvaggio, ma l’esordio del Reddito di emergenza (Rem) segna numeri importanti: in cinque giorni sono arrivate 100 mila domande. Di queste, 63 mila direttamente sul sito dell’Inps, le altre attraverso i patronati costretti a gestire i flussi negli uffici rispettando le distanze, quindi rallentando le attività. Sono invece fermi i centri di assistenza fiscale (Caf), che hanno gestito le richieste di reddito di cittadinanza ma sono ancora in attesa di definire la convenzione con l’Inps sul Rem. Quando sarà sbloccata, le domande potrebbero quindi lievitare. “Per la firma – spiegano dalla Consulta dei Caf – bisogna definire le questioni sulla privacy”. I centri, infatti, trattano molti dati sensibili degli utenti e questo ha bisogno di una regolamentazione sulla quale ancora non c’è un accordo. L’obiettivo del sussidio – che va dai 400 agli 800 euro, necessita dell’Isee ed è partito assai in ritardo – è raggiungere chi è rimasto fuori dagli altri sussidi per l’emergenza Covid-19, anche chi lavora in nero. La platea era stimata in oltre 2 milioni di beneficiari.

Ridateci il pallone ecco il mio Diario di laziale schizofrenico

Per quanto possa dispiacermi, alla luce delle splendide prestazioni della mia squadra del cuore (la serie di risultati favorevoli, la Juventus strapazzata due volte in 15 giorni con lo stesso rotondo punteggio, il nostro centravanti capocannoniere), prestazioni che facevano sperare in un campionato non impossibilmente vinto dalla formazione cui tengo, pur tuttavia la mia coscienza civile mi fa ritenere che, considerando le problematiche ancora non risolte, non sia opportuno riprendere la competizione calcistica.

Pippe! Qua dovemo ripartì subbito sennò ce cala ‘a tenzione agonistica! Le portamo ‘e mascherine? Sì! A tenemo a distanza? Sì! Perciò er campionato po’ ricomincià, più presto possibbile! Sennò vor di’ che ‘a Juve c’ha paura. Sa che Ciro nun perdona, sente er fiato biancoceleste sur collo, anzi ha capito che stamo a mette ‘a freccia e usa tutto er potere d’influenza su, coso, Spatafora, pe’ chiudela qua e nun fasse male! E nun ce vonnò sta’!

Sarebbe davvero irresponsabile da parte di tutti, Stato, enti sportivi e tifoserie, rischiare di precipitare di nuovo il Paese in drammatici percorsi che purtroppo ben conosciamo, mettendo a rischio la salute degli stessi atleti. Dispiace, certo; congiunture positive come quella che stava attraversando il mio team non capitano ad ogni stagione, anzi, per sdrammatizzare, potrei dire che ai nostri cugini non capitano mai proprio, ma è il momento di essere seri e guardare la realtà, invocando prudenza.

Aòh, ma che sei scemo? Se er campionato nun ricomincia, pe’ i romanisti è ‘a fine de ‘n’incubbo, se stavano già a organizzà pe’ er suicidio de massa come i Lemmings! Io vorei dì alle autorità: tranquille, famo i bravi, esurtàmo composti, se Sergej segna strillamo dentro i sacchetti come in aereo, ner caso famo a botte da lontano. Ma fate ricomincià ‘sto campionato! L’Aquila va a vince, i gobbi li famo piagne e er trionfo lo dedicamo a Totti, tanto è autoironico.

Per concludere, da tifoso biancoceleste ma soprattutto da cittadino responsabile, ho i miei dubbi sull’opportunità di tornare in campo.

Allora dillo che sei d’aa Roma, er virus l’hanno spruzzato loro, poi j’è scappato de mano, tipico.

Lei è matto, sono laziale da generazioni, si tratta solo di buon senso.

Ma statte zitto, romanista!

Taccia, incosciente!

Forza Lazio. Forza Lazio.

È un salto nel buio certi manovratori senza coraggio: Non mi fido di loro

Dicono che il ritorno del calcio rappresenti un segnale per la Nazione. Non lo escludo. E il fanciullino pascoliano che è in me, dopo questi mesi di arresti domiciliari, ne sarebbe pure ringalluzzito. Ma ho paura. Se la Germania è già al terzo turno post virus, la realtà non può e non deve farci dimenticare che a Berlino la mortalità è stata un quarto della nostra. E il modello tedesco è molto più efficace: sia nella sanità sia a livello sportivo. Anche se poi, all’atto pratico, il Bayern si accinge a conquistare l’ottavo titolo di fila, a conferma che nemmeno i bilanci sani garantiscono l’equilibrio tecnico.

Gli scandali del passato non ci hanno insegnato nulla. Abbiamo cambiato facce, non teste. Ecco: solo una cesura forte, profonda, lacerante come un campionato sospeso avrebbe potuto buttarci giù dal letto. Le squadre dell’area prof continuano a essere cento: uno sproposito. Da anni si parla di riforme, ma da Carlo Tavecchio a Gabriele Gravina siamo sempre lì, a metà del guado.

Per tacere della Serie A a 20, una camicia di forza che sta sfiancando persino francesi, inglesi e spagnoli; non la Bundesliga, scesa a 18 in epoca non sospetta. Non vorrei, inoltre, che la ripartenza del calcio d’élite soffocasse e sotterrasse i problemi dell’”altro” calcio, dai dilettanti alle donne. Senza trascurare, naturalmente, l’angoscia che accompagna i rischi immanenti di contagio, come documenta l’ultimo caso del Bologna (al di là dei tamponi che hanno fugato, per ora, gli scenari più foschi).

Insomma: ho la sensazione che gli straordinari d’estate possano contribuire a ingessare il nuovo di cui avremmo urgentemente bisogno. Non è il panorama degli stadi vuoti ad angustiarmi: azzera il fattore campo, ma il calcio resta calcio, comunque. Certo, dodici giornate senza popolo trasformano l’eccezione in regola. Una triste regola. Per rispetto della quale sarei disposto a turarmi il naso a patto di recuperare dirigenti all’altezza di un’emergenza così selvaggia, così inquietante che, sul piano strutturale, va ben oltre la pandemia.

Basta la guerriglia televisiva per fotografare la giungla del Paese, dove i colpi sotto la cintura sono tollerati, se non addirittura suggeriti. Oppure le risse per promozioni e retrocessioni. Non so se sia il coraggio di aver paura o la paura di aver coraggio. So solo che non mi fido dei manovratori.

I padroni del calcio hanno sempre giocato

Ormai da tre mesi non si gioca una partita di campionato. La ripresa è fissata al venti giugno. Eppure ogni giorno da tre mesi le lobby del calcio – al plurale, ma saldate da legittimi interessi di potere e di denaro – giocano per non perdere. I patron Claudio Lotito (Lazio), Enrico Preziosi (Genoa), Aurelio De Laurentiis (Napoli) hanno giocato, ricorrendo spesso a falli di confusione, a interventi degli arbitri politici, soprattutto dem e renziani, per non perdere i milioni di euro che le televisioni devono pagare per i diritti tv. E le televisioni, capeggiate dal gruppo Sky con la sorellina Dazn, hanno giocato per non perdere i 212 milioni – ultima rata per la stagione sospesa – con uno spettacolo finto e poco, o per niente, invocato dal pubblico pagante (in poltrona). Urbano Cairo (Torino), Giampaolo Pozzo (Udinese), Massimo Ferrero (Sampdoria), insomma squadre terrorizzate dalla retrocessione o indifferenti all’esito formale del campionato o in più complessi e speciali rapporti con Sky Italia (come Cairo), hanno giocato per non perdere posizioni già acquisite o vantaggi per domani.

Tutti i presidenti, distribuiti in correnti al pari dei virologi, quelli che preconizzano catastrofi umanitarie e quelli che ammiccano al complottismo sanitario, erano d’accordo su un punto: non saldare le mensilità ai calciatori milionari e scovare un espediente per scaricare il conto allo Stato. Il sindacato, per modo di dire, dei calciatori (Aic), affidato all’ex centrocampista riflessivo Damiano Tommasi, ha tuonato contro i ritorni affrettati in campo, le gare previste sotto la calura di luglio, la fragilità muscolare dei giocatori, ma mica s’è fatto mai latore di un messaggio, per quanto simbolico, di disponibilità: pronti a ridurci gli ingaggi, spesso milionari in Serie A. Anzi l’Aic ha protestato per i lunghi ritiri, i palleggi in quarantena e pure i tamponi: sacrifici talmente lancinanti da provocare depressione, hanno infine ammesso con contrizione.

La Lega di Serie A, che riunisce le venti società tradizionalmente divise, ha tutelato, a volte in maniera maldestra, gli introiti che nutrono il sistema: i diritti tv. Paolo Dal Pino, il presidente di Lega eletto dopo l’Epifania, s’è ritrovato tirato di qua e di là da fazioni opposte tranne che per il mandato di recuperare quei 212 milioni di euro (di cui 136 di Sky).

La Figc di Gabriele Gravina e il Coni di Giovanni Malagò hanno giocato per non perdere le stimmate di ragionevoli e istituzionali uomini di sport che respingono gli assalti dei famelici patron di Serie A, disposti a incentivare la pandemia pur di raccattare quei milioni. In realtà, la coppia era assortita male. Infervorato da un senso di vendetta nei confronti del calcio che non è riuscito a domare con il commissario Fabbricini, Malagò desiderava imporre la primazia del Coni sulla Figc e, in estrema istanza, sulla Lega. D’altronde Malagò è il padrone del Coni che, temendo un fallimento, ha rinviato i Mondiali di Sci di Cortina dal marzo 2021 al marzo 2022 dopo le Olimpiadi invernali di Pechino. Geniale. Gravina, con spirito politico e ambizioni personali, si è spogliato degli abiti di presidente della Figc per salvare il calcio. Questo calcio. Quello dei diritti tv. Ha lavorato per la Serie A e i suoi grandi elettori in Federcalcio – tipo Lotito e Preziosi – e ha impedito a B e C di chiudere per non scontrarsi in tribunale con De Laurentiis. S’intende De Laurentiis versione proprietario del Bari in C e non del Napoli.

Vincenzo Spadafora, il ministro dello Sport, ha giocato per non perdere la promessa che declamò subito dopo aver giurato sulla Costituzione: sono il ministro dello Sport e non del calcio. Spadafora ha agito con prudenza finché non si è scoperto circondato dalla Lega. Dal Pino ha cercato invano di scavalcarlo per aprire un canale diretto con Giuseppe Conte, addirittura con una lettera firmata e poi cestinata e già in marzo con un parere legale sul contenzioso per i diritti tv dell’avvocato Guido Alpa, mentore del premier. Questi gli schieramenti in campo che hanno generato un duello a tratti davvero appassionante con pressioni e manovre, proposte e persino emendamenti ai vari decreti legge per l’emergenza.

Tanto movimento senza palla che non è servito a niente. Perché alla fine, sia ammesso, la linea l’ha tracciata la Germania che ha autorizzato la Bundesliga, poi la Spagna con la Liga e infine la Gran Bretagna con la Premier e il Covid-19 che ha allentato la sua morsa. Per una volta ha deciso l’Europa, ma potranno spergiurare che ha vinto Lotito o Gravina. Tre mesi di fantasie e di acrobazie. I presidenti di Serie A si sono inventati consulenti degli uffici legislativi dei ministeri, inondando di bozze deputati e senatori. Alcune società hanno spinto una norma per congelare di un anno il divieto di pubblicizzare le scommesse, simbolo dei 5Stelle al tempo della moralizzazione. Come una sbronza ordinata in pieno proibizionismo. Altri hanno fabbricato un testo di legge per il credito d’imposta alle sponsorizzazioni. Il calcio ha sognato di mettere in cassa integrazione gran parte dei calciatori professionisti, ma il governo ha garantito un sostegno ai giocatori con retribuzioni non superiori a 50.000 euro. Gravina ha corretto la giustizia sportiva ottenendo un comma in un decreto che annulla i ricorsi alle strutture di Figc e Coni e gli conferisce la facoltà, inedita, di riformare la composizione dei campionati a sua discrezione. Un bel successo anche per il suo vice, nonché presidente dei Dilettanti e deputato di Forza Italia, Cosimo Sibilia.

Sarà memorabile in eterno l’audizione, il 7 maggio scorso, del professor Paolo Zeppilli, capo della commissione medica della Federcalcio, davanti ai colleghi del Comitato tecnico scientifico al ministero della Salute: litigio da tempi supplementari di una coppa del mondo sul protocollo da seguire per tamponi e positivi al virus. Allora Gravina ha smentito Zeppilli. Come smentire se stesso.

La Lega ha fatto causa a Sky per il canone di maggio non saldato, ma la sentenza più delicata l’aspetta Maximo Ibarra, l’amministratore delegato dell’azienda. In carica da ottobre e assente dalla sede di Milano da febbraio, Ibarra sente la crisi in arrivo per sé e Sky, vuole recuperare col calcio i profitti che mancano e che gli azionisti americani di Comcast pretendono. Se perde male, perché le vittorie non s’intravedono, rischia. Nel frattempo l’ex ad Andrea Zappia ha riallacciato i contatti con le società di Serie A. Chi comanda in Sky è un’altra conseguenza del virus. Non s’è capito se per il calcio italiano il gol dell’anno l’abbia segnato Angela Merkel o Claudio Lotito. Nel dubbio, qualcuno avvisi l’aquila che dovrà volare all’Olimpico.

Gli assassini fuori tempo massimo di Tobagi

Solo una postilla agli ottimi articoli scritti da Massimo Fini e Pino Corrias in ricordo di Walter Tobagi e del suo assassino Marco Barbone. Se non ci diamo ancora pace, quarant’anni dopo, è perché la ferocia della violenza politica che imperversava allora nella nostra società è tuttora difficile da spiegare a chi ce ne chiede conto.

Da quel delitto mi sentii colpito due volte. Con Walter Tobagi eravamo diventati amici quando lui aveva cominciato a frequentare la redazione di Lotta Continua, incuriosito dalla battaglia culturale da noi intrapresa contro il “partito armato” e l’ammirazione che esso continuava a riscuotere in sparute minoranze. Quanto a Marco Barbone, da ginnasiale partecipava alle riunioni del collettivo del liceo Berchet di cui ero fra gli animatori insieme ai suoi fratelli maggiori. Era un ragazzino che giocava a fare il duro, le discussioni politiche non sembravano appassionarlo.

La vittima e l’assassino appartenevano a generazioni diverse ma in fondo provenivano dallo stesso ambiente: borghesia progressista milanese. Walter Tobagi si era esposto, come firma del Corriere della Sera, nella ricerca di quali fossero le ragioni sociali, storiche e culturali di una stagione del terrorismo che ormai volgeva al termine.

Marco Barbone si aggirava fuori tempo massimo in un ambiente in via di disfacimento dove il fanatismo soverchiava qualsivoglia analisi politica, riducendosi al culto delle armi e alla ricerca di bersagli da abbattere. La lotta di classe non c’entrava più niente, in quella Milano avvelenata.

Troppo facile addebitare colpe che non hanno alla bellissima famiglia Barbone o a quella del suo complice Paolo Morandini, il cui padre fu un ottimo critico cinematografico. Chi s’accontenta di indicare un nesso causale fra la cultura democratica di quelle famiglie e il sangue versato dai loro figli, non ci aiuta a venirne a capo.

“Tariffe usate per fare utili: perciò è crollato il Morandi”

La città di Genova e la sua società civile contro Autostrade per l’Italia. Cinque associazioni rappresentative di interessi diffusi hanno presentato un esposto in Procura argomentando per 22 pagine con allegati le loro ragioni. Cittadini e categorie professionali colpite dal crollo del ponte Morandi chiedono ai pm di valutare eventuali profili penali. Nel mirino c’è il comportamento del concessionario – cioè Aspi facente capo alla famiglia Benetton – anche se non è una denuncia specifica contro qualcuno per un determinato reato. A presentare l’esposto sono stati cinque avvocati: Raffaele Caruso, Andrea Ganzer, Andrea Mortara e i professori Ruggiero Cafari Panico e Andrea Pericu, a nome del Comitato Zona Arancione Ponte Morandi; della Cna di Genova e della Liguria; dell’Unione Sindacati Agenti e Rappresentanti di Commercio Italiani, Usarci-Sparci; di Trasporto Unito e infine di Assiterminal.

La tesi di fondo è che il crollo del ponte Morandi abbia avuto “riflessi impressionanti sulle attività economiche e sulla vita quotidiana di moltissime persone, in città, nella regione”. Nell’esposto si descrive “l’infarto delle infrastrutture al servizio della città di Genova con riflessi diretti su tutta la Liguria”. I cittadini e le imprese nell’esposto lamentano di aver subito “le conseguenze di tale interruzione di servizio pubblico” e lamentano “un calo di fatturato” e “un aumento dei costi”.

Le associazioni dei cittadini che abitano nella zona arancione, degli agenti di commercio, dei terminalisti, degli artigiani e degli autotrasportatori però non si fermano qui. Chiedono alla Procura di andare alla radice del problema verificando “l’ipotesi che il crollo del ponte non sia stato un tragico e imprevedibile evento inseritosi per malasorte su di un terreno di conduzione virtuosa, ma l’ordinaria, prevedibile e accettata conseguenza di una gestione viziosa del servizio autostradale che si è palesata con effetti disastrosi nell’infrastruttura più fragile: il Ponte Morandi”.

Le domande poste dall’esposto presuppongono concetti noti ai lettori del Fatto e del libro del nostro autore Giorgio Ragazzi (La svendita di Autostrade, 122 pagine, marzo 2020, Paper First): “A monte di questa tragedia e dei successivi disservizi qualcuno ci ha guadagnato? Dietro i problemi di degrado e mancata implementazione dell’infrastruttura, così diffusi e allarmanti, è possibile che vi fosse un disegno sistematico con obiettivi finanziari? Fino a che livello si estendono le responsabilità in seno al gruppo che controlla la società Autostrade per l’Italia? Come è stato possibile che le autorità deputate al controllo abbiano permesso tutto questo?”.

Si parte dai principi del diritto comunitario (l’articolo 106 del Tfeu, la sentenza Altmark della Corte di Giustizia europea del 24 luglio 2003 e la decisione della Commissione 2435/2018/Ue sulla tariffa “socialmente sostenibile”) per postulare “i ricavi riconosciuti al concessionario non devono andare oltre quanto necessario per la restituzione dei costi sostenuti, maggiorati di un utile ragionevole”. Principio che potrebbe essere saltato: “quel che si ipotizza nel caso di Aspi (…) è che gli investimenti già previsti nel nodo di Genova (la c.d. Gronda o Bretella Voltri-Rivarolo), per 1,8 miliardi di euro, non siano stati effettuati ma, la tariffa, che presupponeva ex ante tali investimenti (art. 18 Convenzione Unica), sia rimasta invariata”. Il punto è la destinazione dei soldi non spesi: “La tariffa anziché essere utilizzata per lavori sulle opere potrebbe essere stata utilizzata, almeno in parte, per rimborsare altre poste economiche, comunque non legate all’erogazione del servizio, bensì a beneficio degli azionisti di controllo”. Il peccato originale sarebbe accaduto: “Successivamente al 2002 dopo l’approvazione del IV atto aggiuntivo con lo ‘spostamento’ di una serie di opere in un nuova componente tariffaria”. Da allora “sarebbe entrata nel patrimonio di Autostrade, tramite la tariffa base forfettaria una somma oltremodo significativa”. Secondo l’esposto “l’effettiva quota destinata ai lavori di manutenzione e implementazione sarebbe stata sempre fortemente limitata, con l’esito dei gravi disservizi” fino ad arrivare all’ammaloramento del ponte con il crollo del 2018. Nell’esposto si citano alcuni reati come l’interruzione di servizio pubblico e la messa in pericolo della sicurezza dei trasporti “che potrebbe trovare un collegamento anche con lo stesso crollo del Ponte Morandi (art. 432, comma 3 c.p.)”. La tesi contenuta nell’esposto è stata più volte contestata da Autostrade. Fonti di Aspi spiegano: “I lavori della Gronda non sono iniziati per ragioni non imputabili alla società e le manutenzioni non pesano sulla tariffa. Inoltre sono state effettuate con ritmi superiori a quelli precedenti alla cessione al privato nel 1997, e comunque non inferiori a quelli degli altri concessionari europei. Nel 2019, dopo il crollo del ponte, con la nuova gestione di Roberto Tomasi, le manutenzioni sono aumentate del 40 per cento”. Ora saranno i pm di Genova a valutare la fondatezza delle tesi dell’esposto.

Distanza e mascherine, ma niente temperatura

Settembre, si riparte. Il piano per il rientro a scuola è pronto, ultimato ieri dopo il vaglio del Comitato tecnico scientifico che ha messo dei punti fermi alla confusione degli ultimi giorni. Facciamo quindi chiarezza.

La premessa. Il documento riconosce che la situazione delle scuole in Italia non è la stessa e che ogni realtà dovrà fare una mappatura degli spazi destinati alle attività, cercando di assicurare il più possibile la didattica in presenza, pur con una rimodulazione o riduzione delle ore. “La didattica a distanza – si legge – sia un momento integrativo e non sostitutivo”.

La temperatura. Nessuno potrà accedere a scuola con sintomi di tipo respiratorio o temperatura superiore a 37,5 gradi (anche nei tre giorni precedenti). Non dovranno essere stati in quarantena o isolamento nei 14 giorni precedenti o a contatto con persone positive. Ma non sarà rilevata la temperatura all’ingresso. “Si rimanda alla responsabilità genitoriale”.

Distanziamento. Dovrà essere garantito in base a ciò che hanno a disposizione le strutture e si dovranno favorire accordi con le realtà del territorio per identificare altri spazi per le lezioni. I banchi dovranno essere ad almeno un metro di distanza, anche considerando lo spazio per muoversi. La scuola deciderà se fare turni sulla didattica in base all’età. Viene indicato, per medie e superiori, di riproporre “forme di didattica a distanza”. Due metri, invece, la distanza per l’educazione fisica al chiuso. “Nelle prime fasi sono sconsigliati sport di gruppo”.

Altri spazi. Il metro dovrà essere garantito anche negli altri spazi, dai laboratori al teatro, mentre in quelli comuni e di ricreazione si dovranno assicurare percorsi che evitino assembramenti, anche con “apposita segnaletica”. Si dovrà poi privilegiare lo spazio esterno il più possibile.

La mensa. Ci sarà, assicurando il distanziamento anche con le turnazioni. Se necessario, con “lunch box” in classe.

Pulizia. Sanificazione prima della riapertura, ma anche particolare e costante attenzione alle superfici più toccate – maniglie, banchi, cattedre, braccioli – e ai servizi igienici con disinfettanti e detergenti neutri e virucidi dovesse intensificarsi l’epidemia. Per i bambini più piccoli bisognerà prestare attenzione al risciacquo. E ancora: dispenser con igienizzanti in più punti dell’edificio e in ciascuna aula.

Mascherine. Al personale sarà garantita ogni giorno una mascherina chirurgica e gli alunni dovranno indossarla “per l’intera permanenza nei locali scolastici” anche di comunità “fatte salve le dovute eccezioni” ovvero attività fisica e pausa pasto, ma precisano dal ministero, anche interrogazioni. L’obbligo non vale per i bambini sotto i 6 anni. Nelle scuole dell’infanzia, i docenti potranno utilizzare anche altri dispositivi di protezione come guanti in nitrile e visiere.

Milano, 380mila euro per misurare la febbre

La febbre costa. Misurarla a chi entra negli ospedali della fascia a nord di Milano farà spendere più di 380 mila euro. Denaro pubblico che sarà incassato da Temporary spa, l’agenzia di lavoro interinale che manderà, nei prossimi sei mesi, da giugno a novembre, venti addetti armati di termo-scanner per misurare la temperatura corporea di chi entrerà negli ospedali e nei poliambulatori pubblici di Garbagnate, Bollate, Rho, Passirana, Arese e Paderno.

È una misura a cui abbiamo ormai fatto l’abitudine: uomini o donne in guanti, mascherina e visiera, ci puntano addosso la “pistola” misura-febbre all’ingresso del supermercato, della boutique, dell’ufficio pubblico. Ancor più utile il controllo della temperatura alle porte degli ospedali e delle strutture mediche.

Niente di strano, dunque, che i termo-scanner entrino in funzione anche nei centri sanitari di una delle zone più colpite d’Europa dalla pandemia da coronavirus. Strano sarebbe il contrario.

Le contestazioni nascono dal metodo con cui il servizio è stato predisposto. La Asst Rhodense (le Asst sono le aziende sociosanitarie pubbliche territoriali, che un tempo chiamavamo Asl) ha emanato una delibera, la numero 448 dell’11 maggio, firmata dal direttore generale Ida Ramponi e dai tre funzionari della direzione strategica, che assegna a Temporary la misurazione della temperatura corporea di chi accede nelle sue strutture.

Tra le proteste del personale sanitario, dei volontari e delle onlus. “Perché spendere ora una cifra così considerevole, appaltando il lavoro all’esterno”, dicono i dipendenti, “dopo aver per anni tagliato le spese per la sanità? Perché non utilizzare i dipendenti interni, magari con un piccolo incentivo?”.

Altri ospedali, in effetti, hanno risolto il problema dei controlli delle temperature agli ingressi coinvolgendo il personale interno. Un addetto alle ambulanze aggiunge: “Sarebbe comunque costato molto meno coinvolgere noi, che già operiamo in quelle strutture”. Oppure le associazioni di volontari.

Invece la Asst di Rho ha indetto una regolare gara a cui si sono presentate sei aziende. Ha vinto Temporary, poiché ha chiesto il costo d’intermediazione più basso tra quelli proposti dai concorrenti, 0,14 euro per ora lavorata, a cui va aggiunta la tariffa oraria (16,39 euro) da moltiplicare per il numero delle ore lavorate previste (18.995).

Il totale, Iva compresa, supera i 380 mila euro. I venti addetti mandati da Temporary spa cominceranno dunque a fare i loro presidi armati (di termometro elettronico) negli ospedali e negli ambulatori della fascia nord dell’hinterland milanese. Le proteste continuano sotterranee.

“Chi gestisce la sanità pubblica in Lombardia”, osserva un operatore del settore, “non perde occasione per sprecare soldi, già scarsi, anche in un momento così delicato come quello che stiamo vivendo”.