“Non dormivo la notte al pensiero delle morti che stavano avvenendo in Italia e solo per non dare ai pazienti una possibilità, quella dell’unica terapia attualmente disponibile contro il Covid-19: il plasma iperimmune”. Alessandro Santin, oncologo della Yale University (Usa) racconta al Fatto dei tentativi, a marzo, di sollecitare l’agenzia regolatoria del farmaco (Aifa), l’Istituto Superiore di Sanità (Iss), e in ultimo il governo italiano, perché iniziassero subito a raccogliere il plasma dei guariti a livello nazionale e infonderlo a chi stava morendo. Perché a marzo, nel pieno dell’epidemia Covid in Italia, era già noto che la terapia del plasma donato dai guariti da Covid, ricco di anticorpi neutralizzanti per il virus, poteva salvare le vite, specie di chi era senza speranza, anche “intubato da settimane”.
È una tecnica che viene usata con successo e in sicurezza, da oltre 120 anni, contro malattie virali per le quali non c’è cura. “Ho scritto a Nicola Magrini, direttore di Aifa, per rendere consapevole la struttura dell’urgenza di attivare una banca del plasma dei guariti per salvare vite umane. Mi è stato risposto che ne avrebbero discusso con la protezione civile”. Ma niente si è mosso. “Non riuscivo a capire come mai in Italia non si usasse questa soluzione: il plasma, in assenza di vaccini o cure, è l’unica alternativa alla morte”.
Quando il Covid è esploso negli Usa, “ci siamo attivati subito: da inizio aprile ad oggi abbiamo trattato 16mila pazienti in 2.500 ospedali su tutto il territorio”, spiega Santin. L’agenzia regolatoria del farmaco americana, la Fda, analogo dell’Aifa italiana e dell’Ema europea, da un lato ha immediatamente autorizzato la terapia in uso compassionevole su tutti i pazienti ricoverati. Dall’altro ha permesso a tutti gli ospedali di partecipare a un studio clinico per arruolare subito migliaia di pazienti su tutto il territorio americano, per verificare in maniera controllata la reale efficacia e la sicurezza della terapia in ambito Covid. Poi ha coordinato tutte le banche del sangue e ha pagato tutti i costi, così da poter curare tutti gli americani, con e senza assicurazione, prosegue Santin. Se fosse stato attivato a marzo, un protocollo nazionale per il plasma iperimmune avrebbe potuto salvare delle vite.
Il racconto di Santin ribatte con quello Giancarlo Liumbruno, direttore del Centro nazionale sangue (Cns) che coordina i centri trasfusionali. Quest’ultimo il 18 marzo scriveva all’allora direttore della Prevenzione del ministero della Salute, Claudio D’Amario. Segnalava “reiterate richieste di autorizzazione a procedere con la valutazione anamnestica e clinica dei soggetti convalescenti al fine di raccogliere da essi plasma” da “utilizzare per la terapia di pazienti affetti da Covid-19”. E invitava ad approvare subito un protocollo terapeutico nazionale. Il 3 marzo Liumbruno ha autorizzato il primo trial clinico su 49 pazienti al Policlinico San Matteo di Pavia, quindi a Mantova, a Novara, Veneto, Toscana, in Abruzzo, nel Lazio e in Puglia. Ma per mesi non c’è verso di avere un protocollo nazionale. Viene approvato solo il 15 maggio, adottando, però, non il protocollo già sperimentato su 49 pazienti di Mantova e Pavia – e che ha mostrato come il plasma avesse ridotto la percentuale di mortalità dal 16 al 6% – ma quello dell’università di Pisa, chiamato “Tsunami”, approvato anch’esso ai primi di marzo ma con cui solo un paziente era stato trattato. Un conto, però, è autorizzare uno studio clinico che può arruolare solo pazienti con certe caratteristiche. Un altro, è dare la possibilità a tutti gli ospedali di trattare tutti i pazienti ricoverati. Ad oggi tra casi inseriti nello studio “Tsunami” e quelli trattati in uso compassionevole negli ospedali di tutta Italia non si superano le 200 persone. “I potenziali donatori sono 5mila, e finora si sono raccolte 300 sacche, con cui si possono trattare 900 persone”, spiega Liumbruno. Se si fosse attivato un coordinamento guidato da Aifa, Iss e ministero già dai primi di marzo, come chiedevano Liumbruno e Santin, forse oggi avremmo potuto leggere un numero diverso nella colonna dei deceduti del bollettino della Protezione Civile. E non 33.142.