Plasma, il protocollo chiesto fin da marzo “Avrebbe salvato vite”

“Non dormivo la notte al pensiero delle morti che stavano avvenendo in Italia e solo per non dare ai pazienti una possibilità, quella dell’unica terapia attualmente disponibile contro il Covid-19: il plasma iperimmune”. Alessandro Santin, oncologo della Yale University (Usa) racconta al Fatto dei tentativi, a marzo, di sollecitare l’agenzia regolatoria del farmaco (Aifa), l’Istituto Superiore di Sanità (Iss), e in ultimo il governo italiano, perché iniziassero subito a raccogliere il plasma dei guariti a livello nazionale e infonderlo a chi stava morendo. Perché a marzo, nel pieno dell’epidemia Covid in Italia, era già noto che la terapia del plasma donato dai guariti da Covid, ricco di anticorpi neutralizzanti per il virus, poteva salvare le vite, specie di chi era senza speranza, anche “intubato da settimane”.

È una tecnica che viene usata con successo e in sicurezza, da oltre 120 anni, contro malattie virali per le quali non c’è cura. “Ho scritto a Nicola Magrini, direttore di Aifa, per rendere consapevole la struttura dell’urgenza di attivare una banca del plasma dei guariti per salvare vite umane. Mi è stato risposto che ne avrebbero discusso con la protezione civile”. Ma niente si è mosso. “Non riuscivo a capire come mai in Italia non si usasse questa soluzione: il plasma, in assenza di vaccini o cure, è l’unica alternativa alla morte”.

Quando il Covid è esploso negli Usa, “ci siamo attivati subito: da inizio aprile ad oggi abbiamo trattato 16mila pazienti in 2.500 ospedali su tutto il territorio”, spiega Santin. L’agenzia regolatoria del farmaco americana, la Fda, analogo dell’Aifa italiana e dell’Ema europea, da un lato ha immediatamente autorizzato la terapia in uso compassionevole su tutti i pazienti ricoverati. Dall’altro ha permesso a tutti gli ospedali di partecipare a un studio clinico per arruolare subito migliaia di pazienti su tutto il territorio americano, per verificare in maniera controllata la reale efficacia e la sicurezza della terapia in ambito Covid. Poi ha coordinato tutte le banche del sangue e ha pagato tutti i costi, così da poter curare tutti gli americani, con e senza assicurazione, prosegue Santin. Se fosse stato attivato a marzo, un protocollo nazionale per il plasma iperimmune avrebbe potuto salvare delle vite.

Il racconto di Santin ribatte con quello Giancarlo Liumbruno, direttore del Centro nazionale sangue (Cns) che coordina i centri trasfusionali. Quest’ultimo il 18 marzo scriveva all’allora direttore della Prevenzione del ministero della Salute, Claudio D’Amario. Segnalava “reiterate richieste di autorizzazione a procedere con la valutazione anamnestica e clinica dei soggetti convalescenti al fine di raccogliere da essi plasma” da “utilizzare per la terapia di pazienti affetti da Covid-19”. E invitava ad approvare subito un protocollo terapeutico nazionale. Il 3 marzo Liumbruno ha autorizzato il primo trial clinico su 49 pazienti al Policlinico San Matteo di Pavia, quindi a Mantova, a Novara, Veneto, Toscana, in Abruzzo, nel Lazio e in Puglia. Ma per mesi non c’è verso di avere un protocollo nazionale. Viene approvato solo il 15 maggio, adottando, però, non il protocollo già sperimentato su 49 pazienti di Mantova e Pavia – e che ha mostrato come il plasma avesse ridotto la percentuale di mortalità dal 16 al 6% – ma quello dell’università di Pisa, chiamato “Tsunami”, approvato anch’esso ai primi di marzo ma con cui solo un paziente era stato trattato. Un conto, però, è autorizzare uno studio clinico che può arruolare solo pazienti con certe caratteristiche. Un altro, è dare la possibilità a tutti gli ospedali di trattare tutti i pazienti ricoverati. Ad oggi tra casi inseriti nello studio “Tsunami” e quelli trattati in uso compassionevole negli ospedali di tutta Italia non si superano le 200 persone. “I potenziali donatori sono 5mila, e finora si sono raccolte 300 sacche, con cui si possono trattare 900 persone”, spiega Liumbruno. Se si fosse attivato un coordinamento guidato da Aifa, Iss e ministero già dai primi di marzo, come chiedevano Liumbruno e Santin, forse oggi avremmo potuto leggere un numero diverso nella colonna dei deceduti del bollettino della Protezione Civile. E non 33.142.

“Bergamo, morì la dirigente e saltò il sistema anti-Covid”

Ci sono storie che permettono di cogliere, “nell’analisi del piccolo momento singolo, il cristallo dell’accadere totale”. Quella di Vincenza Amato, 65 anni, responsabile dell’unità Igiene e sanità pubblica dell’Ats di Bergamo, è una di queste. È morta il 24 marzo, con il sorriso fino all’ultimo sotto al casco per l’ossigeno ad alti flussi, come ha raccontato il fratello al Corriere locale. La dottoressa che a Bergamo doveva gestire i focolai, tracciare i contatti dei positivi e disporre le quarantene, aveva contratto a sua volta il Covid-19. Con la sua morte, uno degli uffici principali della sanità territoriale si è ritrovato senza direzione.

“Tutto il sistema delle malattie infettive è saltato nel momento del picco e il servizio d’igiene non ce la faceva più, non sono più riusciti a fare gli isolamenti sul territorio”, racconta al Fatto il presidente dell’Ordine dei medici di Bergamo, Guido Marinoni, che definisce quanto accaduto nella provincia un vero e proprio “Vajont”.

Quello della dottoressa Amato non è stato l’unico caso di contagio, in quelle settimane di marzo, nel dipartimento chiave della sanità pubblica a Bergamo. Secondo Orazio Amboni della Cgil, nelle fasi cruciali dell’epidemia “il 50% del personale era a casa per malattia”. Anche un alto dirigente del dipartimento racconta di aver contratto il virus proprio mentre la curva dei contagi saliva esponenzialmente e le strutture di igiene e prevenzione dell’Ats, ridimensionate negli ultimi dieci anni di quasi il 14% del personale, tentavano di far fronte all’irreparabile: “Da alcuni giorni tornavo a casa sfinito la sera e pensavo fosse per via del superlavoro – confida al Fatto – poi è arrivata la febbre e ho capito che mi ero ammalato anch’io. Ho scelto di curarmi a casa, perché in quei giorni c’era la fila di ambulanze in attesa fuori dal Papa Giovanni e sapevo che altrimenti non sarei sopravvissuto. Nei nostri uffici sono stati diversi i casi, anche se è difficile stabilire se il contagio sia avvenuto al lavoro o altrove”.

Sulla morte della dottoressa Amato è stato aperto un fascicolo dalla Procura di Bergamo, per verificare se si sia trattato di un infortunio sul lavoro. Se n’è andata dopo un breve ricovero all’ospedale di Romano di Lombardia come tanti italiani in quelle settimane, separata dagli affetti più cari. Il giorno dopo, 25 marzo, la Regione registrava altri 296 decessi per Covid-19 e una nuova colonna di mezzi militari allontanava da Bergamo le salme che i servizi funerari non erano più in grado di gestire. Quello stesso giorno sul New England Journal of Medicine compariva lo storico appello dei medici bergamaschi che metteva in guardia il mondo dall’“Ebola dei ricchi” che aveva sconvolto la ricca e avanzata Lombardia: “A Bergamo l’epidemia è fuori controllo – scrivevano 13 medici dell’ospedale Papa Giovanni XXIII –. I sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti attorno al concetto di assistenza incentrata sul paziente, ma un’epidemia richiede un cambio di prospettiva verso un concetto di assistenza incentrata sulla comunità”. Proprio il lavoro che la dottoressa Amato svolgeva da una vita.

Ma da quante persone era composto l’ufficio igiene e sanità pubblica dell’Ats di Bergamo? Impossibile saperlo dall’agenzia regionale, che non ha risposto alle nostre richieste. “In quell’ufficio c’erano un dirigente più due dipendenti – racconta un sanitario che ha lavorato per anni con la dottoressa Amato – in tutto tre persone nella sede centrale di Bergamo”. Erano loro che dovevano gestire, insieme all’unità di Prevenzione e sorveglianza delle malattie infettive, le poche decine di addetti disseminati sul territorio per il coordinamento delle Usca (Unità Speciali di Continuità Assistenziale), la consegna di materiali, la gestione dei pazienti a casa con sintomi, le telefonate per il tracciamento dei contatti. “Abbiamo cercato di fare il possibile – assicura il collega della Amato –. Dei 200 dipendenti del dipartimento, almeno 170 sono stati dirottati sull’emergenza”. Ma ancora non bastava. Il 12 marzo l’Ats aveva pubblicato un annuncio: “AAA cercasi personale in pensione: infermieri e medici, poi psicologi e altri professionisti della sanità. C’è bisogno di tutti in questo momento”.

Cinque Stelle, una scissione in Sicilia

Divorzio doveva essere e divorzio sarà. Dopo mesi di guerre intestine, oggi la scissione dentro il Movimento 5 Stelle in Sicilia diventerà ufficiale. Quattro deputati lasceranno il M5S per annunciare la nascita, con tanto di logo e conferenza stampa fissata per le 10.30, di un nuovo gruppo nell’assemblea regionale assieme a un ex grillino.

Al parlamentare Sergio Tancredi, già espulso dai probiviri a metà aprile con l’accusa di essere venuto meno all’impegno di restituire parte delle indennità, si aggiungono la vicepresidente dell’Assemblea Angela Foti e i colleghi Elena Pagana, Valentina Palmeri e Matteo Mangiacavallo. La resa dei conti tra ortodossi e responsabili, come si sono definiti nei mesi scorsi gli uscenti, prima o poi sarebbe arrivata. Troppi i malumori interni per una formazione politica accusata dai suoi stessi membri di essersi trasformata da movimento orizzontale, capace di ascoltare i meetup sul territorio, a partito verticale con decisioni calate dall’alto e accettate in silenzio dalla base.

Il primo ad aprire la spaccatura in Sicilia è stato il trapanese Tancredi: oltre alle mancate restituzioni, da lui giustificate con l’esigenza di accantonare i soldi per pagare una condanna per diffamazione, ha scontato l’inclinazione al dialogo con il governatore di centrodestra Nello Musumeci. Un’apertura che a inizio mese ha portato il parlamentare epurato a votare a favore della legge finanziaria presentata dalla maggioranza. In quella stessa votazione gli altri quattro che oggi lasceranno il gruppo del M5S si sono astenuti. Ma la vita da separati in casa tra i grillini, che da otto anni rappresentano il primo partito per consensi nell’isola, ha radici più lontane. A pesare, forse in maniera decisiva, è stato il trasferimento a Roma di Giancarlo Cancelleri, che svestiti i panni di leader regionale è andato a occupare la poltrona di viceministro alle Infrastrutture e Trasporti.

La sua partenza con destinazione governo è stata il preludio per una prima crepa all’interno del gruppo, nel momento in cui pentastellati hanno dovuto scegliere il sostituto di Cancelleri alla vicepresidenza dell’Ars. A spuntarla, con i voti del centrodestra e la regia del luogotenente berlusconiano Gianfranco Miccichè, è stata Angela Foti. La deputata, giunta al suo secondo mandato, ha beffato il collega Francesco Cappello, che gli stessi grillini avevano individuato per il dopo Cancelleri. C’è poi il capitolo restituzioni: secondo il portale Tirendiconto.it a essere parecchio in ritardo sui versamenti è anche la giovane deputata ennese Elena Pagana, ferma con le restituzioni a febbraio 2019.

Pagana, in passato, si è trovata anche costretta a difendersi dalle allusioni su una presunta vicinanza al centrodestra, perché legata sentimentalmente all’assessore regionale alla Salute Ruggero Razza. Cosa succederà adesso? “In questi mesi sono state fatte troppe illazioni, il nostro primo atto sarà fare chiarezza sui motivi dell’addio – spiega al Fatto Quotidiano Tancredi –. Questa resta una vicenda molto dolorosa. Saremo comunque una formazione d’opposizione: altro per il momento non posso dire”.

“Il M5S deve cambiare. Col Pd nessun obbligo”

Arriva quasi correndo di fronte alla videocamera: “Mi chiede come sto? Teniamo duro”. La sindaca di Torino Chiara Appendino sta come molti altri sindaci alle prese con l’emergenza da coronavirus. Ma ha voglia di parlare, di tutto.

Il reggente del M5S Vito Crimi ha aperto alla cancellazione del vincolo del doppio mandato per i sindaci, ma lei ha preso tempo sulla ricandidatura: “Non escludo che si possa allargare l’orizzonte”. Cosa intendeva?

Intendevo che prima dei nomi e dei partiti vengono le idee e le cose da fare per la città. Come amministrazione abbiamo lavorato su alcune priorità, come la seconda linea della metropolitana, la mobilità sostenibile, l’ambiente, l’innovazione. E allora dico: chi ci sta a portare avanti questi temi?

Dovrebbe chiederlo innanzitutto al Pd, con cui governate l’Italia. Tanti dem, e anche diversi tra voi 5Stelle, ritengono che l’alleanza vada replicata a livello locale.

Non è affatto detto che un’alleanza a livello nazionale vada riproposta anche nelle città. Il concetto va capovolto: bisogna chiedersi se c’è una comunità che crede in determinati temi e progetti. Noi abbiamo un modello di governo: per esempio, abbiamo recuperato il Moi (l’ex villaggio olimpico, ndr), dove c’era la più grande occupazione d’Europa, senza l’uso della forza. Poi è anche complicato prevedere che quadro politico avremo tra un anno, anche se io auspico che questo esecutivo rimanga dov’è: sta lavorando bene.

Il Pd torinese ha già fatto muro a un suo bis. Pretattica?

Tutte le reazioni sono legittime. L’opposizione fa l’opposizione.

Cancellando il doppio mandato per voi sindaci poi lo toglieranno anche per i parlamentari, non pensa?

Su questo non mi esprimo, perché mi riguarda direttamente. Non posso che augurarmi che venga discusso in modo approfondito e poi votato sulla piattaforma Rousseau dagli iscritti. Di certo siamo cambiati molto rispetto a dieci anni fa, quindi è giusto che il M5S si interroghi su cosa fare da grande e su quale forma avere. Alcuni temi che ponevamo ormai sono superati.

Per esempio?

Abbiamo vinto alcune battaglie e altre le abbiamo perse. Dobbiamo prenderne atto.

Quindi sul Tav…

Abbiamo perso, è evidente. Il presidente Conte ha fatto tutto quello che poteva fare, ma è andata com’è andata. Dopodiché abbiamo portato a casa una misura fondamentale come il Reddito di cittadinanza. Negli Stati generali dovremo trovare una nuova identità, sempre nell’ottica di essere forza di governo.

Da ago della bilancia equidistante da destra e sinistra come predica Luigi Di Maio, o puntando a governare sempre con il Pd?

Governando con il Pd stiamo portando a casa alcuni dei nostri temi: abbiamo fatto bene a varare questo esecutivo.

Lei potrebbe essere il nuovo capo politico del M5S?

Il punto non è chi ricoprirà quel ruolo, ma il futuro del Movimento. Sono concentrata sulla mia città, e ho altro a cui pensare.

Sul doppio mandato si deciderà in queste settimane?

Non è il momento di discuterne, abbiamo altre urgenze. Andrà fatto dopo l’estate.

Nel Nord il M5S è crollato, nelle urne e nei sondaggi. Magari perché imprese e tanti cittadini vi vedono come il partito dell’assistenzialismo, non pensa?

Ho sempre cercato di dialogare con certi mondi mantenendo i nostri princìpi. Dopodiché le cose vanno fatte senza pensare ai voti. Il Reddito di cittadinanza ci ha fatto perdere consensi? Può essere, ma era giusto realizzarlo. Neanche parlare di ambiente porta necessariamente voti, perché chiedi alla gente di cambiare abitudini. Ma se vuoi rimanere forza di governo devi concentrarti su ciò che va fatto: ragionare in base ai consensi è una logica da partito di opposizione.

La Fca ha chiesto allo Stato di garantire gran parte dei 6,3 miliardi di prestito che ha chiesto alla banca. Lo trova giusto da parte di un’azienda che ha la sede fiscale fuori dell’Italia?

C’è un tema che riguarda il dumping fiscale in Europa, e l’esigenza di una fiscalità europea. Ma questa è un’altra vicenda. La Fca impiega tante persone in Italia e a Torino. Il prestito può permetterle di continuare a operare nel nostro Paese, garantendo piena occupazione come le ha chiesto il governo. Mi pare strumentale porre il nodo della sede visto che lo si sapeva da anni.

Riaperture, decidono tre governatori del Sud

Che succede mercoledì? Si potrà uscire dalla propria Regione per andare a trovare un familiare, passare un weekend fuori o farsi una vacanza? Se lo domandano tutti, ma proprio tutti: se lo domandano, cioè, pure i ministri e il presidente del Consiglio che a quelle domande dovranno rispondere.

La situazione è a suo modo paradossale: il punto non è tanto sanitario quanto politico. Di fatto, a decidere come e quanto sarà ristabilito il diritto costituzionale alla libertà di movimento saranno tre Regioni del Sud, quelle cioè che minacciano di chiudere le loro (immaginarie) frontiere: Campania, Sardegna e Sicilia in rigido ordine alfabetico, ma qualche sospetto c’è pure sulla Puglia.

Per capire, serve una breve spiegazione. I dati del monitoraggio che affluiscono al ministero della Salute – dovrebbero essere resi noti oggi – vengono ritenuti buoni: ieri 593 contagi (il 65% in Lombardia) ma col record di tamponi fatti, tremila malati in meno in un solo giorno e terapie intensive occupate sotto quota 500, come non accadeva dal 6 marzo.

Tradotto: tutte le Regioni saranno nella categoria “basso rischio”, anche quelle del Nordovest che pure hanno numeri di contagi più sostenuti. La posizione più prudente, al solito, è quella degli esperti del ministero e del Comitato tecnico scientifico (e del ministro Roberto Speranza): questi numeri, per quanto buoni, non intercettano ancora l’effetto delle aperture del 18 (bar, parrucchieri, etc.) e 25 maggio (palestre), meglio sarebbe ritardare tutto di una settimana. Proposta, questa, già scartata: ci sono Regioni con quasi zero contagi e decessi a cui sarebbe difficile spiegare il perdurare delle limitazioni.

Da regola, in realtà, con “rischio basso” dovunque si dovrebbe riaprire la circolazione tra tutte le Regioni, affidandosi solo alla responsabilità dei comportamenti individuali e alle regole stabilite per le attività economiche. Non è detto, però, che sarà così. E qui torniamo alle tre Regioni meridionali o, meglio, ai loro presidenti: Vincenzo De Luca, Nello Musumeci e Stefano Solinas (con Michele Emiliano sullo sfondo).

Sono loro, infatti, che vogliono bloccare gli untori del Nord a colpi di frontiere chiuse, “passaporti sanitari” impossibili da ottenere e minacce di quarantena. E con loro il governo dovrà trovare un accordo che permetta a tutti gli italiani di muoversi senza discriminazioni incostituzionali.

La posizione di De Luca e soci, però, ieri è stata – ove ne avessero bisogno – rafforzata da un report della Fondazione Gimbe sul periodo 4-27 maggio in cui si sostiene che Lombardia, Piemonte e Liguria non sono in grado di riaprire mercoledì perché “la curva del contagio non è adeguatamente sotto controllo”. In sostanza le tre Regioni non fanno abbastanza “tamponi diagnostici”, cioè esclusi quelli di controllo sui pazienti già positivi, e la percentuale di tamponi diagnostici positivi è “superiore alla media nazionale (2,4%) in maniera rilevante in Lombardia (6%) e Liguria (5,8%) e in misura minore in Piemonte (3,8%)”. Pure quanto ai nuovi contagiati ogni 100mila abitanti, “rispetto alla media nazionale (32), l’incidenza è nettamente superiore in Lombardia (96), Liguria (76) e Piemonte (63)”.

I sindaci minacciano la piazza. Conte promette altri soldi

Quando prende la parola, la sindaca di Roma Virginia Raggi spiega a Giuseppe Conte che quello appena illustrato dal presidente dell’Anci Antonio Decaro non è il solito cahier de doléances degli amministratori locali. È lì che, dall’altro capo della call, Luigi Brugnaro non riesce più a trattenere l’insofferenza: “Basta col latino!”, sbotta, per ricordare a tutti che sono lì riuniti per parlare di schei, mica a fare sfoggio di francesismi (o latinismi, direbbe lui). Meno male che c’è il sindaco di Venezia: perché quelle due ore – a parte un paio di battute sulla triste epopea degli “assistenti civici” e lo svarione dell’imprenditore prestato alla laguna – tutto sono state tranne che una chiacchierata tra amici.

Si danno del tu, i sindaci e il presidente del Consiglio. Ma non è la confidenza che impedisce di arrivare alle minacce. “Sono stati fatti errori politici, ci avete trattato male anche umanamente – è lo sfogo del milanese Beppe Sala – O arrivano i soldi o metteremo in campo delle iniziative forti”. È qui, quando capisce che si evoca la piazza, che Giuseppe Conte cambia tono. Perché un conto è sentirselo dire da Luigi de Magistris, che ha preso Napoli al grido di “amm’ scassat’” e adesso ripete: “Le persone vengono a bussare ai nostri portoni per avere risposte: noi ci mettiamo la faccia e voi non ci date un euro?”; un conto se a parlarne è il moderato Sala. Che chiarisce subito a Conte cosa c’è sul piatto di questa assemblea, convocata dal premier – va detto – subito dopo aver ricevuto la lettera dei 13 sindaci delle città metropolitane, in allarme per i bilanci da chiudere entro luglio: “Chi la consiglia non l’ha preparata a questa riunione”, dice il primo cittadino di Milano, imbufalito dalla litania del “tavolo tecnico” da convocare al più presto al ministero dell’Economia. Tanto più, che mentre loro ne parlavano, il viceministro (al Mef) Antonio Misiani abbandonava la videoconferenza, scatenando l’ira dei presenti. “Doveva andare in Senato a votare la fiducia”, è toccato a Conte giustificarlo.

Il punto è che i sindaci non vogliono essere trattati “come un dossier qualunque”, né hanno più voglia di sentire il ritornello su quanto sono stati bravi a gestire il lockdown. “Se non arrivano fondi dovrò dire che sono in dissesto – annuncia Chiara Appendino – Così non ci state mettendo in condizione di svolgere il nostro lavoro”. La Raggi è ancora più dritta: “Servono altri tre miliardi: dove non arriviamo noi, arriva la criminalità. Che per sua natura arriva prima”. Idem Dario Nardella da Firenze: “In una intervista ho detto che sono infuriato, forse non è la parola giusta: sono disperato”.

Così il premier ha capito di doversi impegnare personalmente: “Vi do la mia parola, non permetterò che i Comuni vadano in dissesto”. La parola prevede che si aggiungano altri tre miliardi di euro a quelli già previsti dal dl Rilancio, oltre alla copertura dei mancati introiti di questi mesi. “Ora ci aspettiamo i fatti – chiosa il sindaco di Bari Antonio De Caro – Al più presto il ministero delle Finanze individui norme e risorse per metterci a disposizione i tre miliardi indispensabili a far fronte ai servizi essenziali per i cittadini”.

Opacità, imperizia, propaganda: tutti i dati allegri della Lombardia

Il “ragionevole sospetto” è un’accusa sanguinosa per la Lombardia, tanto più che la fonte è autorevole: Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, che ha prodotto in questi mesi ottime letture dei dati sull’epidemia di coronavirus. Il “ragionevole sospetto” di Cartabellotta riguarda il fatto che, così ha detto ieri a Mattino 24 su Radio24, la Regione guidata da Attilio Fontana abbia “aggiustato” i suoi dati per evitare di rimanere ancora chiusa dopo mercoledì, quando scadrà il divieto alla mobilità extra-regionale.

Il catalogo è ben noto ai lettori del Fatto: “In Lombardia si sono verificate troppe stranezze sui dati nel corso di questi tre mesi: soggetti ‘dimessi’ dagli ospedali che venivano comunicati come ‘guariti’; alternanze e ritardi nella comunicazione dei dati, cosa che poteva essere giustificata nella fase dell’emergenza, quando c’erano moltissimi casi, ma molto meno ora, eppure i riconteggi sono molto più frequenti in questa fase 2. È come se ci fosse una sorta di necessità di mantenere sotto un certo livello quello che è il numero dei casi diagnosticati”.

Accuse che la Regione definisce “gravissime, offensive e soprattutto non corrispondenti al vero”, chiamando a testimone l’Istituto superiore di sanità, che quei dati ha validato, e annunciando querela. Chi ha ragione? Quanto al retropensiero (tengono giù i contagi per poter riaprire) non si sa, sulle stranezze non c’è da discutere: a stare solo agli ultimi giorni abbiamo avuto i “decessi zero” di domenica che non erano zero (seguiti nei quattro giorni successivi da 134 morti da/con Covid-19) e soprattutto l’asterisco nella slide di mercoledì in cui – scritto piccolissimo – si diceva che ai 216 contagi dichiarati ne andavano aggiunti 168 dovuti a “tamponi effettuati a seguito di test sierologici fatti su iniziativa dei singoli cittadini processati dall’Ats di Bergamo negli ultimi 7 giorni”.

Può sembrare sorprendente che a 90 giorni dall’esplosione dell’epidemia la Lombardia non disponga o non comunichi dati certi e/o razionali sull’epidemia, ma non lo è affatto per chi si occupa di questa vicenda tutti i giorni. Il consigliere regionale del Pd Samuele Astuti è membro della commissione Sanità e ogni giorno produce sul suo sito decine di slide sul Covid-19 in Regione: “La scarsa trasparenza è un fatto incontrovertibile: noi non abbiamo quasi avuto risposte sui nostri accessi agli atti e in questi giorni dobbiamo mendicare i dati sui test sierologici. I database poi sono costruiti male, basti dire che gli esiti dei (pochi) tamponi sono ‘pubblicati’ senza dire a che giorno risale il prelievo. Non solo: manca anche la capacità di leggerli i dati. E dire che in Lombardia abbiamo accademici bravissimi nel settore. Senza buoni database e senza capacità di leggere i numeri semplicemente non si può sapere cosa è giusto fare”.

La voglia di fare “bella figura”, per così dire, esiste. Prendiamo il caso della percentuale di positivi sul totale dei tamponi. Quel dato – grazie al lockdown – è in netto miglioramento tanto che da domenica, il giorno dei “decessi zero”, la Giunta Fontana ha deciso di includerlo nelle sue slide giornaliere: dal 5% di qualche tempo fa, la percentuale è passata al 2,5% del 24 maggio per scendere all’1,7% di martedì e mercoledì, giorno in cui questo lusinghiero risultato si ottiene però solo escludendo dal conto i reprobi bergamaschi dell’asterisco.

Ieri, senza asterischi, i 382 nuovi positivi erano il 2,5% dei 15.507 tamponi fatti: nel resto del Paese lo 0,3%. A pensar male si fa peccato, si sa, ma va se non altro citata la denuncia dei 5 Stelle in Regione: “Ci scrivono in moltissimi per denunciare che le Ats stanno fermando i privati che – di tasca propria – hanno prenotato i test sierologici. Motivo: ci sarebbero problemi a fare tamponi, se il test rivelasse la presenza degli anticorpi che segnalano la malattia”. Così, senza asterischi.

Ricoveri Fund

Il Paziente Zero, ormai è chiaro, non lo troveremo mai. Ma per l’Impaziente Zero c’è solo l’imbarazzo della scelta. Stormi di menagramo appollaiati sui cornicioni di Palazzo Chigi attendevano da mesi l’uscita del feretro di Giuseppe Conte, il noto pirla capitato lì per caso e destinato a morte sicura per unanime decisione dei commentatori che la sanno lunga. Restava solo da stabilire chi avrebbe premuto il grilletto, ma i candidati al ruolo di killer erano legione. L’uno valeva l’altro. Poteva essere il mitico ministro della Giustizia Usa, autore del leggendario Rapporto Barr di imminente pubblicazione destinato a smascherare le trame del premier con i Servizi per passare segreti di Stato a Trump in cambio del celebre tweet pro “Giuseppi”. Poi purtroppo è andata com’è andata: Barr non ha sbugiardato nessuno e l’unica cosa che ha rischiato di uscire non è il Rapporto Barr, ma Barr, a calci. Poteva essere il Cazzaro Verde dopo l’annunciato trionfo in Emilia. Poi purtroppo è andata com’è andata: prima suonava ai citofoni altrui, ora si telefona da solo e non si risponde.

Poteva essere l’Innominabile, da sempre ansioso di liberarsi del premier con i più svariati pretesti (la prescrizione, le manette agli evasori, il Mes, l’Ilva, Alitalia, Atlantia, la Fase1, la Fase2, gli orari delle conferenze stampa del premier, i Dpcm al posto dei decreti, i decreti al posto dei Dpcm, la svolta autoritaria, Bonafede, un’unghia incarnita), per metterci al posto ora Cantone, ora Draghi, ora Giorgetti, ora Franceschini, ora Bertolaso, ora Sassoli, ora Colao, ora sua zia. Poi purtroppo è andata com’è andata: l’unica cosa di cui l’Innominabile s’è liberato è il suo partito, che nei sondaggi rantola sull’1,5% e sta per finire alla voce “Altri”. Poteva essere Di Maio, dato regolarmente in rotta di collisione col premier, come del resto l’intero M5S, sempre descritto nel caos, in rivolta, in scissione, nell’abisso, nel baratro, nella bara. Poi è andata com’è andata: anche grazie a Conte, Di Maio sale nei sondaggi e pure i 5Stelle, anche con un capo provvisorio non proprio carismatico come Crimi. Poteva essere il Pd, da tutti dipinto come scontento e stufo marcio del premier e ansioso di metterci al posto ora Cantone, ora Draghi, ora Giorgetti, ora Franceschini, ora Bertolaso, ora Sassoli, ora Colao, ora Giovanni Rana. Poi è andata com’è andata: Conte è sempre lì e il Pd, fingendosi morto, tallona la Lega. Poteva essere la gestione della Fase1, ovviamente disastrosa perché il governo non si decideva a imitare il prodigioso “modello Lombardia”. Poi è andata com’è andata: il lockdown all’italiana è stato preso a modello da tutta Europa, il modello Lombardia un po’ meno.

Poteva essere la Fase2 della pandemia, chiaramente catastrofica e funestata da rivolte sociali da Nord a Sud per l’incapacità del noto frescone di aiutare l’Italia allo stremo. Poi è andata com’è andata: dl Liquidità da 25 miliardi, dl Rilancio da 55, totale 80 miliardi in due mesi. Che, con tutti i ritardi, gli errori e gli inceppi burocratici, sono comunque una discreta sommetta. Insomma, passavano i giorni, le settimane, i mesi e il più grande premier morente della storia era sempre lì. Ma gli jettatori appollaiati avevano ancora in tasca l’arma-fine-di-mondo: i Paesi “frugali” della Ue che, a bordo dei cingolati tedeschi, avrebbero schiacciato quel pirla di Giuseppi come una sottiletta, spernacchiando le sue barzellette degli Eurobond e del Recovery fund (curiosamente condivise da Francia, Spagna e altri 6 governi) e costringendolo alla resa sul Mes con la mano tesa a cucchiaio. Anzi, a cucchiaino. L’altroieri, purtroppo, è andata com’è andata: la Commissione Ue ha proposto un Recovery con Eurobond da 750 miliardi, di cui 173 andrebbero all’Italia (82 a fondo perduto, 91 in prestito condizionato). Al momento è solo una proposta, che andrà fatta ingoiare a tutti i capi di Stato e di governo dell’Eurogruppo prima di tradursi, non prima di fine anno, in moneta sonante. Ma intanto, a finire spernacchiati, sono i 36 miliardi del Mes e tutti quelli che davano per scontata la resa del premier a quella questua, con apocalisse incorporata modello estate-autunno. Per non parlare di Salvini e Meloni, che da mesi accusavano Conte di alto tradimento e svendita dell’Italia alla Germania per aver “firmato” nottetempo un Meccanismo che aveva siglato il loro ultimo governo 10 anni fa, mentre Conte non ha firmato neppure la lista della spesa.

Ora la Meloni riconosce almeno “il passo avanti”, anche se lei avrebbe ottenuto “molto di più”. Salvini invece è letteralmente scomparso. Dopo un giorno e una notte di afasia, ieri è ricomparso esalando questa dichiarazione striminzita e stiticuzza: “Per aiutare davvero famiglie e imprese italiane, i fondi europei devono arrivare subito, non nel 2021 come previsto da Bruxelles. Gli italiani senza lavoro e senza stipendio non possono aspettare i tempi della burocrazia europea”. Tutto qui? Forse non voleva disturbare gli euroalleati “sovranisti”, che sognavano di affamare l’Italia e ora rosicano perché verrà aiutata, strillando al “colpo di Stato” (l’olandese Jorg) e al “suicidio politico” (il tedesco Meuthen). O forse il Cazzaro Verde era semplicemente finito in osservazione per il classico mancamento da ipossia, come quando abbatté il Conte-1 per andare alle elezioni e a Palazzo Chigi, e si ritrovò il Conte-2. I famosi Ricoveri Fund.

Effetto-lockdown: gli italiani ora sfogliano (pure) l’eBook

Pandemia e lockdown, complice anche un tempo vuoto da riempire, hanno insegnato ai puristi della carta stampata, che gli eBook non sono il male assoluto ma una valida alternativa e a quelli deboli (max due libri l’anno) che la lettura può fare compagnia. Godibili sugli eReader, i più venduti restano Kindle, Kobo e la tedesca Tolino, non tradiscono la tradizione.

Il sito Statista e gli ultimi dati forniti da AIE dicono che nel primo quadrimestre di quest’anno gli utenti che hanno acquistato libri elettronici sono saliti del +7,9 per cento, che gli eBook rappresentano ora il 20 per cento dell’offerta editoriale e gli store online coprono quasi il 50 per cento del mercato.

Dati positivi per un segmento di mercato editoriale che, pur esistendo dal 2002, ha sempre faticato a ingranare, complici i prezzi alti e la citata affezione alla carta, ma è pur vero che solo il 14 per cento degli editori indica un aumento di vendite superiore al 40, non abbastanza per tamponare una crisi ormai profonda.

Gli editori, costretti a mutilare la programmazione e a prediligere per la ripartenza pochi titoli a tiratura ridotta (il calo delle novità da marzo a oggi è del 66 per cento), agonizzano. Con circa 134 milioni di euro di fatturato persi nei primi quattro mesi del 2020 c’è da mettersi le mani nei capelli.

Chi ha potuto/voluto, cioè i grandi gruppi editoriali come Mondadori e Feltrinelli o pochi indipendenti come Sellerio, Adelphi, e/o, La Nave di Teseo (solo 20 su quasi 8mila), ha così giocato la carta eBook, che ora segnano un +22,3 per cento nel lancio delle novità, ideando anche collane ad hoc con prezzi calmierati o download gratuiti.

Tra le neonate collane spiccano, per successo ottenuto, Microgrammi di Adelphi, che ha visto triplicare le vendite digitali anche grazie a Spillover (2017) di Quammen, must sul tema origine-evoluzione delle pandemie e Gli Squali de La Nave di Teseo, (+80 per cento a marzo e +126 ad aprile) racconti e romanzi brevi di autori come Richard Powers, Michael Cunningham, Joyce Carol Oates.

Nave di Teseo che ha anticipato in eBook l’attesa autobiografia di Woody Allen, A proposito di niente, poi uscita in cartaceo un mese dopo. Un’operazione inedita ma che ha pagato: oggi il titolo è al primo posto in entrambi i formati nella sezione Biografie di IBS e al quarto in quella di Amazon.

Ma quali eBook hanno letto gli italiani in quarantena? Saggi, manuali di self help, romanzi rosa, thriller e narrativa per ragazzi.

Ai primi posti su IBS figurano il saggio Il risveglio dell’umano. Riflessioni da un tempo vertiginoso di Julián Carrón (BUR) e Appuntamento in terrazzo di Felicia Kingsley (Newton Compton).

Su Bookrepublic, piattaforma nostrana di distribuzione di volumi esclusivamente digitali, l’ebook più scaricato, gratis, è stato il thriller Il tempo della verità di Glenn Cooper (Nord) seguito da Emma di Jane Austen.

Su Feltrinelli.it è andata bene la graphic novel Zlatan. Un viaggio dove comincia il mito di Paolo Castaldi (Feltrinelli Comics) seguita da l’Odissea di Omero mentre su Amazon hanno sbancato La ragazza della neve di Pam Jenoff (Newton Compton), Stai calmo e usa le parole giuste nel giusto ordine (Wide edizioni) di Paolo Borzacchiello e l’ormai classico Harry Potter e il Calice di Fuoco di J.K Rowling.

Che cosa accadrà nei prossimi mesi? Difficile fare previsioni ma il pensiero espresso da Riccardo Cavallero, fondatore di SEM Libri, merita una riflessione: “Nessuna attività al mondo ha resistito tanto ottusamente alla digitalizzazione quanto l’editoria, almeno in Italia, ma ora, per necessità, tutti abbiamo imboccato la strada della tecnologia e difficilmente l’abbandoneremo. Con probabilità la percorreremo con la saggezza che deriva dall’essere gli ultimi arrivati, entusiasti dei nuovi strumenti ma attenti a non perdere i valori antichi alla base della nostra attività”.

Il tempo dirà.

I doni dell’eroe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti si spegneva a Milano nella notte tra il 1° e il 2 giugno del 1970. Mezzo secolo dopo la sua fama di poeta resta inalterata. Non c’è sovvertimento di canone che lo abbia relegato su uno scaffale a prendere polvere (a dispetto del destino un po’ avverso che insegue Saba e Quasimodo).

Il suo nome persiste a echeggiare tra i banchi di scuola, tappa ineludibile per generazioni di studenti. Basta sfogliare una qualsiasi antologia per riconoscere il suo timbro: macchie nere verticali che sporcano appena la pagina. Dietro pugni di sillabe come “M’illumino/ d’immenso” o “Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie” sono sublimati i sentimenti del dolore e della sopraffazione provocati dalla guerra e il conseguente senso di attaccamento alla vita che da essi scaturisce.

Soldato volontario sul fronte carsico durante la Grande guerra, Ungaretti scrive le sue strofe asciutte su pacchetti di sigarette, cartoline, carta di imballaggio delle cartucce. Parole distillate che se da una parte raccontano l’orrore, dall’altra mordono la speranza. È questa parabola umana e letteraria che, riprodotta in trepide interrogazioni sull’Ermetismo, ogni adolescente assorbe nelle sue lunghe mattinate di scuola. Proprio come accaduto a tre voci illustri della poesia contemporanea nati tra la fine degli anni 40 e l’inizio dei 50 – che offrono la loro testimonianza: Franco Buffoni, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis.

Buffoni ricorda: “A scuola, oltre alla triade Foscolo-Manzoni-Leopardi ci venivano inculcate, come formule chimiche, altre più recenti triadi: Carducci-Pascoli-D’Annunzio e una modernissima: Ungaretti-Montale-Saba. Ma centrale è rimasta la figura di Ungaretti, e il Meridiano a lui dedicato, a distanza di decenni, rimane il più venduto”. Gli fa eco Cucchi: “Ho incontrato da ragazzo la sua poesia e subito ho trovato decisiva la sua volontà iniziale di isolare la parola nel silenzio, nel bianco, per dare risalto alle potenzialità aperte, alle virtualità della parola stessa nel corpo del testo poetico. Ne ho ammirato poi la capacità di cercare ogni volta nuove strade espressive, in una continua ricerca inquieta di linguaggio e di forma”. De Angelis: “Ho scoperto Ungaretti come tanti di noi alle scuole medie. Ma non attraverso i celebri e stupendi versi di guerra. L’ho scoperto leggendo Giorno per giorno dedicato al figlio Antonietto e alla sua precocissima morte. Il poemetto fa parte della raccolta Il dolore, e questo dolore viene raccontato nel modo più asciutto, evitando ogni concessione al lamento e giungendo così al nucleo essenziale della sofferenza: sua e di tutti noi”.

Un uomo e un letterato, Ungaretti, che pur nato sul finire dell’800, ha saputo abbracciare la modernità come pochi altri. Dai caffè parigini delle avanguardie di inizio 900 in compagnia di Picasso e Apollinaire alla tv degli anni 60 frequentata con disinvoltura. Milioni di spettatori ricordano i suoi occhi ridotti a fessure e rivolti al cielo mentre alterna scoppi della sua voce roca a pause di silenzio o recita i suoi versi tra sussurri soffocati. Per essere un maestro riconosciuto della nostra poesia gli è stata sufficiente una produzione di versi in fondo non particolarmente nutrita. Ungaretti ha saputo amministrare la sua ispirazione in pochi volumi capaci di incidere con l’investitura di un classico in vita.

Aleggia un interrogativo in questa commemorazione e cioè che cosa resta della sua eredità a cinquant’anni dalla sua uscita di scena mentre Mondadori riporta in libreria Visioni di William Blake, volume di traduzione di Ungaretti dell’amato poeta inglese. Buffoni è secco: “La letteratura italiana dell’ultimo secolo credo abbia prodotto le sue opere migliori in poesia. E se devo insegnare a un adolescente di oggi che cosa siano stati i due conflitti mondiali del 900 gli offro in lettura Il porto sepolto di Ungaretti e Diario d’Algeria di Sereni. La poesia vince sempre sui tempi lunghi”. Cucchi non ha esitazioni: “Oggi ci parla come un classico, nella moralità alta, esemplare, della sua avventura espressiva, alla quale è necessario tornare spesso”. De Angelis batte su un tema caro: “Profondi sono i doni di Ungaretti a cui oggi siamo riconoscenti. Sempre a proposito del ‘dolore’ – sia quello personale di una perdita sia quello storico di una guerra – colpisce ogni volta la forza con cui Ungaretti sa rappresentarlo, una sorta di energia cosmica che lo getta nell’universo intero, spogliandolo da ogni contingenza privata e consentendo a tutti noi di farne parte”.