“Ho preso il muro fratellì”: Instagram, la banalità del male

Sapete cosa guarda vostro figlio adolescente su Instagram mentre voi leggete il giornale? Un tizio con la faccia scarabocchiata – un pit bull tatuato su una guancia e un ragno sull’altra – che armeggia col cellulare mentre guida. Trasmette in diretta la sua probabile morte cruenta: sfreccia a 130 all’ora in una stradina urbana in evidente stato di alterazione. Si chiama 1727 wrldstar, al secolo Algero Corredini. Anni 24, romano di Malagrotta, il quartiere che prima di lui era noto per la discarica più grande d’Europa. Cosa fa nella vita? L’influencer. Ha provato con la musica trap, poi ha scoperto il suo vero talento: è una calamita di odio sui social. Un Malausséne di borgata, che ha trovato la fortuna e la ragione di vita nella sua formidabile sgradevolezza.

Su Instagram lo seguono oltre 150 mila persone. Su Twitch – un social network di cui probabilmente ignorate l’esistenza – le sue dirette sono un must per migliaia di ragazzi. Immaginate un palazzetto gremito per un concerto, lui ne riempie due o tre con una webcam e un click. Tipo Fedez e Chiara Ferragni. Solo che Algero non fa le storie coi marchi griffati e il figlioletto Leone, ma mette in scena la malavita. Un bignami di microcriminalità. Cocaina, risse, perquisizioni, questure; generica e indiscriminata violenza.

Nel suo momento di massimo splendore artistico, come detto, 1727 si lancia con la macchina verso l’incidente letale. Gli va bene: schianto lieve, auto solo ammaccata. È qui che Algero spicca il volo definitivo verso la stratosfera social. In un delirio da stupefacenti, adrenalina e follia generica, comincia a strillare: “Ho preso il muro fratellì!”. Lo ripete ossessivamente, lo recita a migliaia di inebetiti collegati allo smartphone. La potenza tragicomica della scena buca la Rete. Diventa un meme che dilaga ovunque, magari l’avete già letto senza capire perché. “Ho preso il muro fratellì”: Algero è lo Schettino di Instagram, un pazzoide che si è pavoneggiato sfidando la morte e ne è uscito inopinatamente vivo, con uno sfregio sulla fiancata e un’aria da fesso impunito. Un Joker pasoliniano, ancora più pazzo e infinitamente più cattivo. Odiarlo è molto facile, ma attorno a questo personaggio c’è pure simpatia, identificazione.

Le sue prodezze sono molteplici. C’è un video in cui viene fermato dalla polizia con la madre mentre rubano i pezzi di uno scooter; un altro in cui il padre lo accompagna in caserma e per tutto il viaggio, dal finestrino dell’auto, Algero insulta i passanti: “Famme ’n boc…!”, “A coccia pelata!”, “A zozza!”, “A ladro de gatti!”, “A stecco de m…”. Cruciani & Parenzo – gli impareggiabili stercorari della Zanzara – gli hanno chiesto cosa gli avessero insegnato i genitori. La risposta è impeccabile: “A fa’ le rapine”.

Vi chiederete: perché scrivere di un personaggio così? Perché esiste. E la sua esistenza non è marginale: macina centinaia di migliaia di follower. C’è un universo che si muove su piattaforme nuove, su logiche incomprensibili per chi ha più di 20 anni.

Twitch, ad esempio, è il social di Amazon nato (un tempo) per trasmettere le partite di eSport e videogames. Oggi ci si trova di tutto. C’è una videochat a inviti a cui partecipano solo influencer italiani di un certo livello. Il titolare si chiama Homyatol. È un gamer, uno che è diventato famoso con le sue partite alla Playstation. A voi farà ridere, ma è un idolo per migliaia di ragazzini e guadagna 70 mila euro al mese. Homyatol è il mecenate di questo cenacolo virtuale: partecipano prestigiosi morti di fama. C’è Fedez, il pornoattore Max Felicitas e altre ragazze e ragazzi che campano della promozione di sé. Una sera è stato invitato pure 1727 wrldstar. L’hanno messo in mezzo come una scimmietta del circo: tra risatine e silenzi imbarazzati gli hanno cucito la parte dell’influencer troglodita al cospetto dei suoi colleghi “presentabili”. Un coatto, un pagliaccio. Poi l’hanno cacciato dalla chat. Sembrava una scena di Ferie d’Agosto di Virzì (intellettuali contro cafoni) ma ambientata in un futuro tragico. Invece è il presente. Il video è stato visto da 270 mila persone. Benvenuti.

Repubblica vs. Corriere: il primo derby del lecca-lecca ai proprietari finisce 3 a 1

Trattiamola come una partita di pallone, un derby delle marchette. La situazione dei due maggiori quotidiani italiani è nota: il Corriere della Sera è il giornale di Urbano Cairo, Repubblica quello della Fiat e della famiglia Elkann-Agnelli. Editori impuri, si diceva una volta: nella fattispecie i proprietari non fanno proprio nulla per mascherare i loro interessi privati nella detenzione di quel bene pubblico che si chiama informazione. E qui torniamo alle marchette: una volta c’era solo la “Caireide”, la promozione quotidiana delle notizie positive sul presidente Cairo dentro i giornali del presidente Cairo (c’è pure la Gazzetta dello Sport, sensibile al Torino e al suo patron). Ora la sfida è pari: anche dentro Repubblica fioccano notizie – date e non date – sui nuovi proprietari e sull’azienda di famiglia.

Ecco il derby, dunque. Proviamo a giocarlo a ritroso, con le pubblicazioni dell’ultima settimana. Corriere della Sera di ieri, pagina 35: “Via Solferino, primo successo per Rcs. ‘Possibile il risarcimento del danno’”. Si parla della vendita della sede storica del Corriere. Cairo è in causa con il fondo che l’ha acquistata. Good news: potrebbe avere un risarcimento. Yuppie! Articolo sul giornale con fotina del presidente che sorride. Uno a zero per il Corsera.

26 maggio, pareggio di Repubblica. Si scomoda Corrado Augias, con la sua rubrica della posta, per difendere la testata. Augias risponde a un lettore infuriato per la perdita d’indipendenza del quotidiano, che gli scrive: “Il vostro recente proprietario ci ha comunicato che i 5,5 miliardi di dividendi per i soci di Fca, tra cui 1,6 destinato agli Agnelli, sono scolpiti nella pietra”. Augias risponde che sì, quella di Elkann è forse una frase di cattivo gusto, “nel merito però non aveva torto”. E poi en passant, sulla questione della sede fiscale di Fca all’estero: “Aggiornate la legislazione italiana, fate che la nostra società possa funzionare più agilmente. Il giorno dopo la sede di Fca tornerà a Torino”. Golasso di Augias: 1 a 1. Tecnicamente è una meta-marchetta: una marchetta che si riferisce a un’altra marchetta precedente. Cioè un articolo su Repubblica del 21 maggio in cui (con ampio richiamo in prima pagina) si riportavano le parole del presidente: “Elkann e l’extradividendo Fca. L’accordo con Psa scritto nella pietra”. Per poi aggiungere: “Il prestito garantito dallo Stato serve a tutta Italia”. 2 a 1 per Repubblica.

Il giorno prima, ancora un eurogol sulla testata degli Agnelli. Sezione cinema, intervistone a Ginevra Elkann, giovane regista esordiente, incidentalmente sorella di John: “Infanzia, famiglia, separazione. Per il mio esordio alla regia guardo dentro le emozioni”. Slurp. 3 a 1 per Repubblica. Ma è solo il derby di andata, primo di una lunga saga.

Afroamericano ucciso: polveriera Minneapolis

Mascherine e cartelli con su scritto “no giustizia, no pace”, “black lives matter”, “basta linciarci”, e “non posso respirare“: a Minneapolis centinaia di persone hanno manifestato ieri chiedendo giustizia per George Flyod, il ragazzo nero ucciso dalla polizia. Ad affrontarli per disperderli sono intervenuti gli agenti in tenuta anti sommossa con i gas lacrimogeni. Sul caso oltre all’agenzia investigativa del Minnesota sta indagando l’Fbi, come richiesto anche dal candidato democratico alla presidenza Joe Biden. I 4 poliziotti sono stati licenziati in tronco dopo il video della tragedia girato da un passante e diventato virale sui social in cui si sente la vittima implorare: “Non posso respirare… ti prego… non posso respirare”. La famiglia di George chiede che siano messi immediatamente in carcere e processati per omicidio. Uno di loro, Derek Chauvin, 44 anni, da 19 anni in polizia, colui che ha premuto sul collo della vittima, sarebbe stato già coinvolto in sparatorie, uso eccessivo della forza e violazione delle regolari procedure.

Sui social cresce l’indignazione anche di personalità dello sport e dello spettacolo, come LeBron James e Madonna: “Fuck the Police!”, ha scritto su Instagram la cantante.

Editore e fact checker: la nuova vita del cinguettio

A febbraio 2019, alla domanda se fosse lecito consentire a Donald Trump di usare la sua piattaforma per attaccare individui e istituzioni, il Ceo di Twitter, Jack Dorsey, aveva risposto: “È uno dei molti leader mondiali che usano la piattaforma continuamente e senza restrizioni, perché sanno che è l’unico canale di comunicazione diretto con la gente. Io credo che sia di interesse pubblico capire chi sono davvero questi leader attraverso le loro esternazioni dirette, e che sia necessario offrire la possibilità di aprire un dibattito su quello che scrivono sullo stesso canale in cui lo scrivono”.

Twitter come strumento indispensabile di dibattito pubblico. Niente censure per nessuno quindi? Non proprio. Come nota Kara Swisher, punto di riferimento giornalistico della Silicon Valley, negli ultimi anni Twitter ha “censurato” anche molti pubblici ufficiali. Trump è stato finora l’unica eccezione. Ma negli ultimi tempi ha passato il segno. Oltre le dichiarazioni folli sul Covid, ha falsamente accusato l’ex deputato repubblicano Joe Scarborough di aver ucciso, molti anni fa, una giovane collaboratrice. Il vedovo si è rivolto pubblicamente a Dorsey chiedendo di intervenire. E questo sembra aver dato a Twitter la spinta decisiva ad applicare anche al presidente le restrizioni sulla disinformazione adottate ufficialmente un mese fa. “Contrapporre menzogna e verità mi sembra naïve e inefficace, perché le bugie hanno già fatto il giro del mondo quando la verità si sta ancora mettendo le scarpe” ha commentato la Swisher sul New York Times. “Del resto, buttare fuori Trump da Twitter avrebbe ripercussioni pubbliche e finanziarie non gestibili dalla piattaforma. Io sono per eliminare i tweet offensivi: darebbe il segnale che certi comportamenti non sono tollerati”. Ma c’è un altro aspetto, sottolineato fra gli altri da Wolfgang Blau, presidente delle operazioni internazionali di Conde Nast: “Twitter ha agito da editore aggiungendo un link di verifica al tweet di Trump. Sono favorevole, ma mi chiedo se abbia i mezzi per offrire questo tipo di verifica in modo costante anche in futuro”.

È un punto cruciale nel dibattito sulla natura giornalistica dei social, e infatti il tweet di Blau è piaciuto anche ad Alan Rusbridger, ex direttore del Guardian e membro dell’Oversight Board di Facebook, il gruppo di esperti chiamato da Mark Zuckerberg a prendere decisioni sulla moderazione dei contenuti del social. Una frontiera complicata: se è vero che i social veicolano notizie, vere e false, che influenzano milioni di persone, devono essere considerati testate giornalistiche ed essere quindi tenuti alle stesse responsabilità? Quali sono i confini etici e i rischi di censura che questo comporta. Chi li definisce?

“Twitter da chiudere”. Trump si crea l’alibi del “nemico social”

Il match Trump vs Twitter va in scena su Twitter per tutta la giornata. E, possiamo scommetterci, proseguirà per tutta la campagna elettorale Usa 2020, che abbandona di colpo i lugubri scenari della pandemia e s’anima di cinguettii. Non che il magnate presidente li avesse mai fatti mancare, ché di Twitter e di tweet è bulimico – al punto che il suo staff tenta talora di smorzarne il flusso –; ma questa volta non è un assolo, c’è il contrappunto e pure l’accompagnamento del coro.

Succede che Twitter osa correggere, per la prima volta, Donald Trump. E lui, The Donald, s’infuria, sostenendo che il social network interferisce nella campagna elettorale.

Ci sarebbe molto altro di cui rendere la giornata storica: per esempio, il lancio, da Cape Canaveral, di Crew Dragon, la navetta della Space X di Elon Musk che, per la prima volta dal pensionamento dello Space Shuttle nel 2011, porta in orbita astronauti Usa dal suolo Usa con un razzo Usa – Trump vi assiste, con la first lady Melania e il suo vice Mike Pence –. Invece, si parla solo di questo, o quasi. Twitter agisce poche ore dopo che il New York Times s’era chiesto se il social network avrebbe prima o poi imposto un limite a Trump, “ben noto per superare i confini di quello che è normalmente considerato un comportamento politico accettabile”. I liberal più ottimisti pensano che il magnate stia creandosi un alibi in caso di sconfitta elettorale – battuto dalla “cospirazione” dei social network –; i più pessimisti, invece, pensano che stia mettendo le basi per un nuovo successo: forte dei suoi 80 milioni di follower, il magnate usa Twitter come strumento di propaganda, megafono degli annunci e arma contro i nemici. Incurante come sempre delle contraddizioni, Trump prima lamenta che la sua libertà d’espressione sia stata conculcata – il che non è vero: Twitter non lo oscura, ma nota che una sua affermazione è fattualmente sbagliata –; poi, in barba alla libertà d’espressione, minaccia di chiudere i social, perché “le piattaforme dei social mettono completamente a tacere le voci dei conservatori”. “Faremo dei regolamenti oppure li chiuderemo, perché non possiamo permettere che questo accada. Abbiamo visto cosa hanno cercato di fare, e non è riuscito loro, nel 2016. Non possiamo permettere che ciò accada di nuovo, in maniera più sofisticata… Come non possiamo permettere che elezioni per posta mettano radici nel Paese”. I cinguettii di Trump corretti denunciavano un rischio di frode elettorale, dopo che il governatore della California Gavin Newsom ha allargato, causa coronavirus, le possibilità di votare per posta: due post del magnate presidente sono stati evidenziati con l’etichetta “get the facts”, verifica i fatti, accompagnato da un link in cui si dice che le affermazioni sono prive di fondamento, secondo Cnn, Washington Post e altri media. Negli ultimi giorni, Trump ha ripetutamente twittato contro il voto per posta, accusando California, Michigan e altri Stati di consentire frodi elettorali incoraggiando, causa pandemia, il voto per posta che sarebbe “sostanzialmente fraudolento”.

Un portavoce di Twitter ha detto che i tweet di Trump “contengono informazioni potenzialmente fuorvianti e sono stati segnalati per fornire ai lettori informazioni addizionali”. Trump e i repubblicani temono che il voto per posta li danneggi. La reazione di Trump alla mossa di Twitter non s’è fatta attendere, ovviamente con un tweet: “Twitter sta interferendo nelle elezioni presidenziali 2020. Stanno dicendo che la mia dichiarazione sul voto per posta, che porterà a una massiccia corruzione e alla frode, non è corretta, basandosi sulle Fake News di Cnn e Washington Post… Twitter sta totalmente sopprimendo la libertà di parola e io, come presidente, non consentirò che ciò accada!”. È un crescendo di post e di toni: “Twitter ha dimostrato che tutto quello che abbiamo detto su di loro (e gli altri loro compatrioti) è corretto. Seguiranno grandi provvedimenti!”.

Di sicuro, la campagna, già incattivitasi nel lungo weekend del Memorial Day, s’infiamma. Trump torna a richiamare l’Obamagate, la sua versione del Russiagate: “Al confronto il Watergate erano small potatoes”, scrive tutto in maiuscolo; è stato “il più grande scandalo politico, criminale e sovversivo nella storia Usa”, di cui solo lui s’è accorto ed è al corrente). Il suo rivale Joe Biden dice che chi (come Trump, ndr ) non mette la mascherina “è un idiota, un idiota totale”. La polemica ha pure echi in Borsa: Twitter apre in calo a Wall Street, meno 1,5%. E Trump gioisce delle difficoltà di un altro media suo nemico, The Atlantic, il magazine di cui è principale azionista Laurene Powell Jobs, la vedova di Steve Jobs: “Una grande notizia. Il noioso… The Atlantic sta fallendo e ha appena annunciato il taglio di almeno il 20% del suo staff. È un momento difficile per l’industria delle Fake News”.

Apre l’ospedale di Bertolaso. L’esposto ai pm “Falsi negli atti”

Se l’Ospedale in Fiera a Milano piange, il suo gemello, il Covid Center di Civitanova, non ride. La struttura, made in Guido Bertolaso, inaugurata da una settimana, è sommersa dalle polemiche. L’ultima tegola sull’ospedale da 90 posti letto costato 17 milioni, è l’esposto depositato ieri alla Procura di Macerata da un gruppo di cittadini, comitati e associazioni. Falso in atto pubblico e irregolarità rispetto alle norme sugli appalti pubblici, i reati ipotizzati. Nel mirino le donazioni confluite sul conto del Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta (Cisom) – il soggetto scelto da Bertolaso per assemblare la sua “Astronavina” – secondo l’indicazione fornita dal sito della Regione. Tra queste anche cinque milioni bonificati da Bankitalia.

Per i legali “trattandosi di opera pubblica realizzata con donazioni alla Regione (…) essa non è donata dal Cisom alla Regione, ma è la Regione che paga per avere dalle ditte realizzatrici, con una incomprensibile intermediazione del Cisom”. Ma i problemi arrivano anche dal personale sanitario, che si è visto precettare per lavorare nella struttura. “Era facile prevedere questo epilogo – attacca Oriano Mercante, segretario di Anaao Assomed Marche – da oltre un mese avevamo anticipato che, stante l’inevitabile difficoltà a reperire volontari disposti a svolgere servizio al Covid Hospital, l’unica strada sarebbe stata l’ordine di servizio”.

Per funzionare, il centro, che da oggi accoglierà ben sei pazienti, necessita di 21 medici, 39 infermieri e otto Oss. Tutte risorse sottratte agli ospedali, come sottolinea l’Intersindacale dei medici e veterinari: “Per coprire il servizio e garantire le cure a un numero ormai esiguo di pazienti, provenienti da ospedali, dove potrebbero tranquillamente essere curati in loco, si rischia di non essere più in grado di dare assistenza sufficiente ai cittadini che soffrono di altre patologie gravi. Il Covid di Civitanova rischia di essere non una risorsa aggiuntiva, ma causa di ulteriore indebolimento delle strutture sanitarie pubbliche”.

Alzano, Fontana e Gallera dai pm

Dopo il direttore generale della sanità lombarda Luigi Cajazzo, ora tocca al governatore della regione più colpita dal Covid spiegare davanti alla procura di Bergamo i motivi della mancata chiusura del pronto soccorso di Alzano Lombardo la sera del 23 febbraio dopo la conferma dei primi due contagiati. Attilio Fontana è stato convocato nei prossimi giorni dal procuratore facente funzione Maria Cristina Rota che da settimane indaga per epidemia colposa. Con lui anche l’assessore al Welfare Giulio Gallera finito nella bufera dopo alcune gaffe sui numeri di replicazione del contagio. Il fascicolo è a modello 44 cioè senza indagati. Fontana e Gallera saranno sentiti come persone informate sui fatti. Ma certo la mossa della magistratura alimenta ancora di più il già incandescente clima politico con le opposizioni che spingono per commissariare la sanità lombarda e il suo assessore che di fatto è già stato messo sotto tutela dalla sua maggioranza. Fontana dovrà spiegare il perché dai vertici della Regione la sera del 23 febbraio arrivò l’ordine di non chiudere l’ospedale che poi si rivelerà uno dei volani del contagio nella provincia di Bergamo, tra le più colpite in Europa. Fontana non risulta indagato. Ma certo il momento non è dei più facili dopo i volantini di minaccia firmati dai Carc e la scorta decisa due giorni fa dalla Prefettura di Varese. La mossa della Procura una volta di più solleva forti dubbi sulla gestione dell’emergenza da parte della Regione. L’indagine non si occupa solo della mancata chiusura dell’ospedale, ma vuole fare luce anche sulle morti nelle Rsa e soprattutto sul perché la Regione, potendolo fare, non ha deciso il 6 marzo di rendere i comuni di Nembro e Alzano zona rossa come era già avvenuto per il Basso lodigiano. Quella, va ricordato, fu però una decisione diretta del governo. Già nelle scorse settimane il Nas di Brescia si era presentato in Regione per acquisire i protocolli per l’emergenza. In quel frangente il dg Cajazzo era stato sentito per ore. Audizione poi ripetuta negli uffici della Procura. Nei giorni scorsi il procuratore Rota ha sentito anche i vertici della direzione generale dell’Asst Bergamo Est Francesco Locati e Roberto Cosentina. Lo stesso Cajazzo ha già riferito di aver preso la decisione di tenere aperto in modo collegiale e dopo l’assicurazione della sanificazione dei locali. Sanificazione confermata da Gallera ma smentita in modo chiaro dalle testimonianze di molti infermieri. Il direttore del presidio Giuseppe Marzulli aveva invece inviato una lettera all’Asst chiedendo la chiusura. Cosa che non avvenne. Da quel 24 febbraio in poi l’ospedale divenne un moltiplicatore di contagi che si sono poi diffusi in tutta la provincia provocando una percentuale di mortalità di oltre il 500% rispetto al 2019. Di questo, dovrà riferire il governatore non poco in difficoltà davanti alle critiche, ma anche davanti ai numeri che ieri sono tornati a salire a cifre da fase uno. Con Bergamo che ha segnato il 50% dei contagi.

Appaltone con scusa Covid. Si muove l’Anticorruzione

Guai in vista per il Comune di Milano e per il sindaco Beppe Sala. Il 27 aprile negli uffici dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) è arrivato un dossier che segnala criticità su un appalto da 39.466.275 milioni per un anno. Il fascicolo è in mano anche al Comitato per la legalità e la trasparenza del Comune presieduto dall’ex pm Gherardo Colombo. Non poca cosa. Soprattutto perché non si tratta di un appalto ma della rinegoziazione di un contratto in scadenza a cui segue un affidamento diretto sopra soglia alla Engie Servizi Spa, ex Cofely, multinazionale francese già affidataria dell’appalto precedente e che nel 2019 è stata sanzionata con 38 milioni dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm), sentenza ora impugnata al Tar.

L’affidamento segnalato all’Anac viene portato avanti nelle delibere di giunta in modo urgente a causa del Covid. E questo nonostante da anni il Comune sapesse della scadenza al 15 aprile. Il procedimento è stato seguito dal capo della direzione tecnica e sovrinteso dal direttore generale di Palazzo Marino Christian Malangone, uomo di fiducia di Sala, già dg di Expo. Al centro c’è il cosiddetto “appalto calore” da 221 milioni per 7 anni che riguarda i servizi energetici di 650 immobili comunali. La partita viene assegnata il 14 aprile 2013. A gestirla c’è sempre la francese Engie servizi Spa vincitrice del bando Consip Sie 2. Fin da allora si sapeva la scadenza dell’appalto. Il Comune però pare accorgersene solo a metà marzo con Milano in piena pandemia. Si legge nella segnalazione all’Anac: “Le motivazioni addotte per astenersi dal tempestivo compimento di idonee procedure di gara sono imputabili all’inerzia del Comune che non è stato in grado di attivarsi in sette anni di durata contrattuale”. E questo nonostante il contratto rientrasse nei bandi Consip, il Sie 3 aggiudicato nel 2016 alla Siram e attivato il 5 febbraio scorso. La Siram oggi annuncia ricorso al Tar. Vi è dunque “una illegittima estensione contrattuale a diretto danno della concorrenza e dei cittadini”. La non adesione alla convenzione Consip viene spiegata dal Comune perché non adeguata alle necessità. Già nel 2019 l’amministrazione sul contratto in essere delibera un extra budget per lavori di manutenzione “sicché – si legge nel documento – già allora l’Ente aveva contezza che il precedente contratto aveva una incapienza economica”. Siram in una lettera al Comune sottolinea come l’affidamento diretto sia sopra “le soglie comunitarie”. Solo l’11 marzo il Comune si attiva. Lo fa, si legge nel dossier inviato all’Anac, “con gli attuali appaltatori per ricevere una nuova offerta per la prosecuzione contrattuale, a quel punto quale unica opzione possibile, ma di fatto autoprodotta”. Torniamo agli oltre 39 milioni. La cifra rappresenta una annualità del contratto aumentata di 15 milioni. La segnalazione all’Anac si concentra in particolare sugli ultimi 7 milioni aggiuntivi. Due le voci: installazione di termovalvole e metanizzazione. Secondo la Direzione tecnica al giugno 2019 le termovalvole da sostituire erano 15.678 contabilizzate a 36,36 euro l’una. “Viceversa – si legge nel documento – , nella rinegoziazione la stessa voce viene indicata in 3 milioni con una modifica abnorme e ingiustificata. Si passa del costo unitario di euro 36,36 a euro 191,35 di marzo 2020”. Il secondo capitolo riguarda la conversione a metano di impianti a gasolio. Al maggio 2019 erano 26. Quell’anno il Comune stanzia 1,25 milioni per riconvertirne 13. In 12 mesi, nella delibera che riguarda la rinegoziazione con Engie il costo degli altri 13 impianti sale a 3,3 milioni con il prezzo per impianto che passa da 90mila a 250mila euro.

Il vertice Bonafede: “La riforma del Csm non è punitiva”

Obiettivi mai raggiunti quelli che si prefissa il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: riforma del sistema elettorale del Csm e soprattutto modifica dei criteri delle nomine dei vertici giudiziari per provare a dare un duro colpo al mercato delle correnti. E ancora: paletti per magistrati in politica e fuori ruolo, insomma porte girevoli bloccate. Ieri, Bonafede ha prima parlato alla Camera per un question time e poi ha tenuto un vertice di maggioranza sulla sua proposta di riforma che, dai toni della riunione, aggiornata a oggi pomeriggio, sembra sostanzialmente condivisa. Bonafede, alla Camera, ha voluto tranquillizzare la platea dei magistrati che nulla hanno a che fare con il sistema spartitorio delle nomine dettato dalla deriva delle correnti, come platealmente dimostrano le intercettazioni del caso Palamara: “È importante sottolineare che non si tratta di un impianto normativo nato sull’onda emotiva del momento buio che stiamo vivendo e che non si tratta affatto di norme punitive contro la magistratura”. Ha pure indicato le linee guida: introduzione di “oggettivi criteri meritocratici nell’assegnazione degli incarichi da parte del Csm” e “un meccanismo elettivo che sfugga alle logiche correntizie”. Quanto al blocco delle porte girevoli, non ci devono essere incarichi direttivi “per un determinato periodo di tempo successivo” per i magistrati che hanno appena concluso un fuori ruolo, compresi i consiglieri uscenti del Csm.

Quella chat su Woodcock tra Palamara e Pignatone

Il 24 luglio 2017 al Csm c’è una doppia audizione particolarmente delicata. E in Prima commissione c’è Luca Palamara. Il procedimento in corso riguarda il pm anglo napoletano Henry John Woodcock e l’inchiesta – da lui avviata prima del trasferimento per competenza a Roma – che ha fatto tremare il governo, guidato in quel momento da Matteo Renzi. Parliamo dell’indagine su Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione italiana. Tra gli indagati c’è per esempio Luca Lotti, all’epoca ministro per lo Sport, accusato di rivelazione del segreto e favoreggiamento nei riguardi per rivelato all’ex ad di Consip, Luigi Marroni, l’esistenza dell’inchiesta in corso. Tra gli intercettati, ma non indagati a Napoli, anche il padre dell’ex premier, Tiziano Renzi, che sarà poi indagato a Roma per traffico d’influenze (sarà chiesta l’archiviazione ma il gip Gaspare Sturzo chiederà nuove indagini, ndr).

Woodcock nel ciclone

Quel giorno il Csm sente il procuratore generale di Napoli, Luigi Riello, e il reggente Nunzio Fragliasso. È stata aperta un’istruttoria: i consiglieri vogliono comprendere se esistono gli estremi per aprire una pratica di incompatibilità ambientale e funzionale nei riguardi di Woodcock e Celeste Carrano, i pm che per primi hanno indagato su Consip. A Fragliasso, per esempio, viene chiesto se Tiziano Renzi fosse stato indagato dai due pm. Risposta negativa. Poi gli viene chiesto se fosse stato invece intercettato. Questa volta la risposta è affermativa. Nel pomeriggio, alle 18 circa, Palamara invia un messaggio al procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, che ha ereditato il fascicolo Consip e, peraltro, ha iscritto Woodcock nel registro degli indagati con l’accusa – dalla quale sarà archiviato – di aver passato notizie riservate al Fatto. Non solo. Pochi giorni prima ha iscritto Woodcock anche per l’accusa di falso, perché avrebbe indotto Gianpaolo Scafarto, l’investigatore del Noe dei Carabinieri, a predisporre un capitolo dell’informativa Consip pur essendo consapevole che non fosse veritiero. Saranno archiviati entrambi sul punto, ma per Scafarto restano altre ipotesi di falso.

“Torchiato Riello”

Ecco il messaggio di Palamara: “Riello torchiato da Ardituro (Antonello, consigliere del Csm, ndr) dopo il mio esame nel quale ha detto tutto”. E Pignatone risponde: “Molto bene”. Circa un’ora dopo, praticamente in tempo reale, Palamara torna a scrivergli: “Fragliasso molto, molto bene”. E Pignatone: “Ottimo”. Alcuni giorni prima, il 18 luglio, è Pignatone che invia un messaggio a Palamara: “La Musti era sconvolta”. Lucia Musti è il procuratore di Modena che, proprio il 17 luglio, era stata sentita dal Csm sulla trasmissione di alcuni atti – il fascicolo Cpl Concordia gestito sempre da Scafarto e con pm Woodcock – da Napoli a al suo ufficio. Scafarto, secondo alcuni quotidiani, le avrebbe detto frasi del tipo: “Lei in mano ha una bomba se vuole può farla esplodere” e “scoppierà un casino arriveremo a Renzi”. In realtà nella deposizione la sua versione sarà molto più sfumata e non collegherà la parola bomba a Renzi. La Musti sarà sentita a ottobre da Pignatone come persona informata sui fatti.

Incontri con Legnini

Il Fatto ha provato a chiedere al procuratore Pignatone, oggi presidente del Tribunale del Vaticano, il senso di queste e altre comunicazioni. “No, grazie” è stata la risposta.

Oltre agli scambi con Palamara sulle audizioni in corso, tra settembre e novembre 2017, ci sono anche due incontri, fissati insieme a Palamara, con l’ex vice presidente del Csm Giovanni Legnini. “Nei quattro anni in cui sono stato vice presidente credo di averlo incontrato decine di volte per ragioni legate alla mia funzione, ma mai abbiamo discusso di audizioni in Prima commissione della quale, peraltro, non potevo far parte e non mi sono mai occupato”.

“Ricorda la Consiglio”

Il 14 dicembre commenta il successo di Riccardo Fuzio per la procura generale della Cassazione. Palamara gli scrive: “Stravinto in commissione ma aspettiamo il Plenum. 4 voti Fuzio, 1 Salvi, astenuto Balduzzi”. E Pignatone: “Addirittura incredibile! Complimenti”.

Sempre a dicembre Pignatone ricorda a Palamara il nome di una sua collega, il giudice Antonella Consiglio, dal 2018 presidente aggiunto della sezione gip a Palermo. “Ti ricordo la Consiglio” scrive l’11 dicembre. “Ti confermo pst (presidente sezione tribunale, ndr) Palermo” risponde Palamara. E Pignatone: “Ok”.

Pignatone non è ovviamente coinvolto nell’inchiesta di Perugia che vede Palamara indagato per corruzione, in virtù di alcuni viaggi pagatigli dall’imprenditore Fabrizio Centofanti. Anzi, fu proprio la procura guidata da Pignatone a inviare gli atti su Palamara a Perugia dove, oltre a intercettarlo e perquisirlo, gli fu sequestrato il telefono con tutti i messaggi che aveva in memoria.