Crisi Ucraina Russia: “Nostro attacco è invenzione Usa: in Iraq fecero così”

La battagliatra Usa e Russia sulla vicenda ucraina si è trasferita al Palazzo di Vetro durante il Consiglio di sicurezza dell’Onu. Il “dispiegamento di forze militari nel territorio” russo non significa che ci sarà “un atto di invasione, sono accuse prime di fondamento” ha affermato il rappresentante di Mosca, Vasily Nebenzya, che ha provato ieri, inutilmente, a bloccare la riunione dedicata a Kiev al Consiglio di Sicurezza. L’Ovest non fa altro che alimentare isteria russofobica, ha riferito il diplomatico, ricordando che nel 2003 l’allora Segretario di Stato Colin Powell denunciò la presenza di inesistenti armi di distruzioni di massa in Iraq. “Le vostre azioni parlano da sole” ha risposto l’ambasciatrice americana Linda Thomas-Greenfield, che ha accusato Mosca di aumentare la sua presenza militare in Bielorussia di 30 mila unità. “L’Ucraina è libera di plasmare il proprio futuro” ha scritto sui social la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola per rafforzare il lavoro della delegazione di eurodeputati della commissione Affari Esteri in missione a Kiev. Oggi nella Capitale arriverà anche il premier polacco Mateusz Morawiecki: all’Ucraina il suo Paese ha inviato decine di migliaia di munizioni. Nei prossimi giorni arriverà anche il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Usa e alleati sono pronti sanzionare personalità russe vicine a Putin in caso di invasione, ha riferito l’Amministrazione Biden.

BoJo e la “leadership fallimentare”: scuse e imbarazzo a Londra

“Gravi carenze nel rispetto non solo degli alti standard che ci si aspetta da chi lavora al cuore del governo, ma anche di quelli richiesti alla popolazione nello stesso periodo”. E poi: “Un fallimento sia di leadership che di giudizio”. Fra le conclusioni del rapporto Gray questa è forse la più perentoria, perché mette nero su bianco che i festini tenuti a Downing Street in violazione delle regole sul lockdown ci sono stati, che rappresentano un tradimento dall’alto del sacrifici richiesti alla popolazione, e che sono il frutto di una cultura anti-istituzionale prevalente intorno al premier Boris Johnson. Il rapporto è arrivato a Downing Street ieri mattina ed è stato pubblicato nel primo pomeriggio sul sito del governo: ma è stato espunto di molti dettagli, su richiesta di Scotland Yard che la scorsa settimana ha aperto un’indagine formale sugli stessi fatti.

Il documento della Gray, in 12 pagine, è un resoconto parziale di 16 raduni tenuti nella sede ufficiale del primo ministro nei 20 mesi fra il 15 maggio 2020 e il 16 aprile 2021, ed è il risultato di interrogatori a 70 persone e dell’analisi di email, messaggi, documenti ufficiali e database di accesso all’edificio per verificare orari di entrata e uscita. Malgrado questo, e a causa dell’intervento del Met, la Gray chiarisce come “non sia possibile al momento fornire un rapporto che metta in fila e analizzi in modo significativo la vasta mole di informazioni raccolte” e del resto avevamo chiarito come le regole d’ingaggio della Gray non prevedessero sanzioni: e tuttavia la funzionaria, che per giorni si è battuta per ottenere la pubblicazione integrale del suo lavoro, si spinge fino a scrivere che “alcuni dei comportamenti verificati in quelle occasioni sono difficili da giustificare”. Il suo compito è finito: ora la palla è nel campo della polizia, che indagherà solo su 12 dei 16 eventi, visto che 4 non sembrano avere i requisiti per un’incriminazione. E l’indagine della polizia sospende tutto perché può richiedere settimane o mesi per essere completata. È con la certezza di avere ancora tempo che ieri pomeriggio BoJo si è presentato a riferire in una Camera dei Comuni in una seduta surreale, dominata dalla consapevolezza diffusa che quel rapporto non sia di esplicita condanna solo perché azzoppato dall’intervento di Scotland Yard. Che Johnson ha usato apertamente come arma, in una strategia difensiva molto chiara: empatizzare con chi, rispettando le norme, ha sepolto a distanza i propri cari mentre a Downing Street si pasteggiava a vino e snack; scusarsi per quanto è successo nel proprio ufficio, prendendone però le distanze; annunciare la creazione di un nuovo dipartimento per gli affari del premier e una revisione dei codici di comportamento del personale della pubblica amministrazione; sostenere che nel rapporto non ci sia nulla di compromettente ai suoi danni. Con esiti paradossali, come quando un deputato gli chiede se abbia partecipato ad una festa e lui risponde che per saperlo bisognerà aspettare l’esito della nuova inchiesta. E poi rilanciare successi, veri o presunti, del suo governo: l’uscita del Regno Unito dall’Ue, quel Brexit done di cui ieri correva il secondo anniversario; l’efficacia della campagna vaccinale: l’impegno con gli alleati per contrastare l’escalation di un possibile conflitto con la Russia in Ucraina.

Copione lanciato già al mattino presto per monopolizzare l’attenzione dei media al risveglio. Il leader dell’opposizione, il segretario laburista Keir Starmer, lo chiama “uomo senza vergogna” e fa appello alla decenza dei colleghi conservatori perché ne chiedano le dimissioni. È un richiamo sentito da un parte dei Tories. L’ex premier Theresa May è durissima: “Il rapporto Gray dimostra che il primo ministro non ha osservato le restrizioni imposte al pubblico. Quindi o non le ha lette, o non le ha capite, o ha pensato che a lui non si applicassero”. Il leader degli indipendenti scozzesi Ian Blackford denuncia la responsabilità di Johnson nella “dissoluzione della fiducia dell’opinione pubblica nel governo”; viene poi espulso dall’aula per averlo accusato di aver ‘”mentito e ingannato il Parlamento”.

La denuncia di aver creato un vulnus grave e permanente alla credibilità delle istituzioni è ripetuta da molti altri, ma questo Parlamento ha solo il potere di gridare che l’imperatore è nudo, non quello di disarcionarlo. Gli unici a potere imporre le sue dimissioni sono i suoi colleghi di partito. Dopo la battaglia alla Camera dei Comuni, Boris ha affrontato separatamente i deputati conservatori già, secondo alcune indiscrezioni, ammansiti nel fine settimana. Ma l’impatto di questa crisi va ben oltre gli equilibri interni alle fazioni Tories: secondo la sempre ben informata Pippa Crear, capa della redazione politica del Daily Mirror, ieri Johnson avrebbe dovuto parlare con Putin, una telefonata cruciale alla vigilia della visita di Johnson a Kiev, ma l’appuntamento coincideva con le fasi più convulse della crisi ed è stato cancellato.

Anche lo starnuto ci terrà lontani

Lo scorso ottobre 2021, arrivava l’allerta della ECDC (European Centre for Diseases Control) riguardo alla nuova stagione influenzale. L’ipotesi paventata era di andare incontro a un’infezione impegnativa, certamente più importante di quella della scorsa stagione 2020-2021. Il colpo sarebbe arrivato dal principale sottotipo virale segnalato nei casi registrati in Europa durante l’ultimo mese (settembre), l’A/H3N2, particolarmente aggressivo negli anziani. A spiegarlo è Pasi Penttinen, capo del programma antinfluenzale dell’ECDC: “Un forte aumento delle infezioni influenzali durante la pandemia di Covid potrebbe avere gravi conseguenze per gli anziani e le persone con un sistema immunitario debole”. Fortunatamente spesso a fare pronostici sui virus si sbaglia e così, contrariamente a quanto detto, stiamo assistendo a un periodo influenzale molto blando. Purtroppo, malgrado i dati evidenti, non si finisce di far apparire la scuola come un luogo di pericolo di contagio. In realtà si sta verificando ciò che è accaduto lo scorso anno. Le misure di contenimento adottate per prevenire Covid-19, ivi compresa una minore circolazione della popolazione, stanno funzionando anche nei confronti dell’infezione da virus Influenza. La prova è che anche altre infezioni respiratorie continuano ad avere un declino della casistica, almeno per quanto riguarda gli adulti. I più piccoli, meno aderenti alle misure di contenimento, sono stati colpiti dall’RSV (Virus respiratorio sinciziale) che, soprattutto a dicembre, ha affollato i reparti di Pediatria, comprese le terapie intensive. Anche quando il Covid non sarà più una minaccia, è molto probabile non l’abbandoneremo del tutto. Se sarà un bene dal punto di vista igienico, non so quanto lo sarà simbolicamente. Abbiamo perso “la sicurezza” di stare l’uno accanto all’altro. La necessità di proteggerci è stata tatuata nella nostra mente. Virus e clima di terrore ci hanno tolto il piacere di stare insieme, persino di darsi il buongiorno in ascensore. L’influenza, le polmoniti, le altre malattie respiratorie c’erano anche prima del Covid e stavamo vicini, ma oggi è un’altra epoca!

*direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Mail box

 

Domande e risposte sugli esiti dell’elezione

Il bis di Mattarella sancisce de facto il cambio della Costituzione, ora i presidenti non durano più sette anni ma come minimo otto o nove, il bis sembra che diventerà la prassi e questo dimostra a che punto sia ridotto il panorama politico. Possibile che non ci fosse nessuno meglio dell’attuale ottuagenario? Tra l’altro ha fatto come Napolitano: ha dichiarato più volte che non voleva essere rieletto, e ora ha accettato con piacere di restare al suo posto. Non parliamo poi delle pagliacciate viste dai vari capi partito: se si è arrivati a Mattarella vogliamo credere che si sia deciso all’ultimo? Infine ribadisco quanto scritto un anno fa, Di Maio è un peso per il M5S, è un Andreotti 2.0 che lavora dietro le quinte, da non sottovalutare e quello che ha fatto mette una bella pietra tombale sul reale potere di Conte. Consiglierei a Conte di lasciar perdere e partire da zero con una squadra di persone competenti e affidabili.

Simone Lucchi

 

E chi gliel’ha detto che Mattarella durerà solo un anno?

M. Trav.

 

È successo quello che auspicavo: i partiti sono andati da Mattarella a chiedergli di accettare una nomina condivisa. Mancano alcuni passaggi: 1) È ora di modificare la Costituzione per impedire la rielezione del capo dello Stato: i partiti in futuro sarebbero costretti ad assumersi la responsabilità di una scelta che vada al di là di una maggioranza di governo; 2) Bisogna scegliere una legge elettorale adatta al nuovo Parlamento a ranghi ridotti, quello che uscirà dalle prossime elezioni; 3) Per Mattarella neoeletto si pone un problema che solo con la sua sensibilità potrà risolvere: si avverte uno scricchiolio nel fatto che lui, eletto da un Parlamento “grasso”, continui nella sua funzione quando il Parlamento avrà una forma del tutto diversa, e non esisterà più il corpo elettorale che lo ha nominato?

Paolo Tomatis

Caro Paolo, il numero dei parlamentari è cambiato più volte e mai nessuno ha ritenuto il vecchio Parlamento delegittimato nelle sue scelte per questo.

M. Trav.

 

Per la seconda volta, per giunta consecutiva, assistiamo alla rielezione di un presidente della Repubblica: al di là del consolidamento di un brutto precedente per la nostra democrazia, ci troviamo nuovamente davanti a un capo di Stato che, dopo aver giurato e spergiurato ai limiti della stizza che non avrebbe accettato un secondo mandato, si smentisce con grande rapidità (visto che anche in questo caso, come in quello del Napolitano bis, non eravamo certo alla millesima votazione). Quanto può valere la parola di chi si comporta così? Nonostante non abbia apprezzato tutte le decisioni di Mattarella, creazione del governo Draghi in primis, questa proprio non me l’aspettavo

Gabriele

Forse dovrebbe rivedere il suo giudizio anche sulla ”creazione del governo Draghi” (definizione peraltro perfetta).

M. Trav.

 

In questi ultimi giorni mi è parso di rivivere lo stesso incubo vissuto un anno fa con il Conticidio e la successiva sciagurata chiamata di Draghi. In seguito si è capito che era già tutto preparato, e che a Renzi era stato dato il compito di fare il lavoro sporco. E stavolta? Quelli che volevano Draghi, quando si sono accorti che era troppo malvisto in Parlamento, hanno decisamente virato su Mattarella, bloccando qualsiasi alternativa. Eppure venerdì sera, quando sembrava che la candidatura della Belloni prendesse quota, ho sperato, seppur per poche ore, che finalmente potessimo avere una presidente della Repubblica su cui riporre fiducia e speranza. A parte l’isterico gracchiare dell’Innominabile, perché gli altri (il Pd soprattutto) si sono tirati indietro? Poi, su Mattarella: non sarebbe stato meraviglioso se ai parlamentari che lo pregavano di restare avesse risposto: “Ho sempre detto di non essere disponibile alla rielezione, che considero una forte torsione costituzionale, quindi tornate in Parlamento e trovate, come è vostro dovere, un autorevole personaggio da eleggere. Non dite che non c’è nemmeno una persona degna di questo ruolo”.

Attilio Luccioli

Sì, condivido: ma a un democristiano queste scelte nette non si possono proprio chiedere.

M. Trav.

Neo vaccinato “Sono stato obbligato dal governo. Ma non si può scrivere…”

Mentre il governo dei Migliori crolla miseramente sotto una Babele di norme senza senso alcuno e controsenso rispetto al resto del mondo, con l’unico effetto di dimostrare ed esaltare una talebana acrimonia contro chi non vuole vaccinarsi, l’introduzione dell’obbligo del vaccino per gli aver 50, proprio quando l’efficacia dello stesso appare in clamorosa caduta libera, genera grandi dubbi e soffia sul fuoco di chi sostiene che questa sia ormai una dittatura sanitaria. Ma scendendo più su un terreno quotidiano, voglio raccontare la mia esperienza di vaccinando over 50 che vuole rispettare la legge.

Sabato scorso mi sono recato a un hub vaccinale vicino casa per sottopormi alla mia prima dose obbligatoria; dopo le varie code introduttive sono arrivato all’incontro col medico che valuta l’anamnesi e davanti al quale va sottoscritto il consenso informato, documento dove il vaccinando dichiara in sintesi di approvare e richiedere il trattamento vaccinale; a quel punto ho aggiunto e controfirmato una postilla in cui dichiaravo di acconsentire al vaccino “in quanto obbligatorio per legge”; il medico controfirmava il documento e io mi recavo alla postazione vaccinale, ma qui l’incaricato alla somministrazione del vaccino, una volta letto il documento, si rifiutava di adempiere al suo ufficio; a fronte della mia richiesta di spiegazioni su cosa lo infastidisse nella dichiarazione che il vaccino per me era obbligatorio non ricevevo nessuna risposta sensata, ma il rifiuto rimaneva. Uscito dall’hub mi recavo presso le forze dell’ordine per denunciare l’accaduto e qui ricevevo una attenta accoglienza, ma anche l’indicazione che giuridicamente il solo modo di procedere sarebbe stato con una querela per abuso d’ufficio o interruzione di pubblico servizio, cosa che proprio non era nelle mie intenzioni; oltre a questo però le stesse si adoperavano per mettermi in contatto con i responsabili della AUSL locale; la mia corrispondenza con gli stessi però riceveva solo stucchevoli risposte (“se non vuole vaccinarsi si rifiuti”) e pilatesche affermazioni (“questo è il modulo e non si può cambiare”), nonostante facessi notare, su indicazione proprio delle forze dell’ordine, che il documento che viene fatto firmare è datato marzo 2021, quando il vaccino non era obbligatorio, almeno per la mia categoria. In sintesi, oggi, un italiano come me che vuole, nonostante tutto, rispettare la legge, deve sottoporsi a un trattamento sanitario obbligatorio, ma per farlo è pure costretto a firmare un modulo dove deve dichiarare il falso. Qui non è questione di no vax e sì vax, è questione di onestà e buonafede, elementi che nel nostro Paese, ormai in tanti ambiti, sono un mero ricordo. Alla fine di questa mia inutile piccola battaglia, ieri, visti i tempi di entrata in vigore della norma, che prevede l’obbligo, mi sono sottoposto con grande tristezza alla vaccinazione, firmando obtorto collo il famigerato modulo. Giusto così? Non credo proprio.

Pierbruno Emiliani

Le trame sghembe di Salvini & C. sul capo dello Stato

Facciamo un gioco: ditemi cosa sto inventando e cosa no.

Prima del disastro. Venerdì scorso. Salvini ha mandato a sbattere la Casellati. Pd, LeU e M5S si accordano su tre donne: Belloni, Severino, Cartabia. In quest’ordine.

Salvini c’è. Conte, tutt’altro che all’insaputa degli alleati, vede Salvini. Il leader della Lega è sotto un treno dopo il disastro Casellati e cerca una via di fuga. La trova nell’ipotesi Belloni. Dice a Conte che proporrà quel nome agli alleati: “Dammi un’ora”. Salvini ottiene il no di Berlusconi e il sì di Meloni. È di parola perché accetta Belloni, non è di parola perché non aspetta l’ora e va in tivù per intestarsi l’operazione: “Stiamo lavorando a un Presidente donna in gamba”.

Sognando Draghi. L’obiettivo di quasi tutto il Parlamento è Draghi. È il primo sogno di Letta, che spera di logorare tutti i nomi per poi convergere sull’unico rimasto: Draghi, appunto. Il presidente del Consiglio segue febbrilmente le operazioni, incontra i leader delle varie correnti e telefona ai leader persino durante il voto (wow!). Come dirà Monti, non proprio un bolscevico, la sua fregola di andare al Quirinale destabilizza lo scenario istituzionale. Coraggio Italia (chi?) vuole Draghi e già prepara la lista dei ministri del nuovo governo. Sognano Draghi anche Giorgetti e Di Maio, che per testare le loro forze votano “Crosetto” al mercoledì per contarsi. Purtroppo per loro i numeri sono bassini (20-25 dimaiani). Giorgetti comincia a minacciare le dimissioni, Di Maio accelera il redde rationem con Conte. Anche buona parte del Pd vuole Draghi. Per esempio Orfini (Draghi o Mattarella), ma soprattutto Guerini, che gestisce un esercito parlamentare di 60-70 fedelissimi. L’altro “sogno” è Casini, il nome di Renzi, il cui unico obiettivo è come sempre quello di ammazzare politicamente Conte.

E i 5 Stelle? L’accelerata di Salvini pone i 5 Stelle a un bivio: o abbandonano Salvini e seguono le paturnie di LeU e Pd (divenuti di colpo freddini o freddissimi su Belloni), oppure perseguono la strada Belloni e cercano di fare uscire allo scoperto le correnti altrui. Viene scelta la seconda strada. Conte, da sempre, vuole Belloni come opzione A e in alternativa Mattarella come opzione B (ne è prova il successo di Mattarella alla sesta votazione: molte preferenze vengono dai 5 Stelle). L’importante, per lui, è bloccare Draghi, Casini, Amato, Casellati e derivati.

L’epilogo. La mossa di Conte, che fa una dichiarazione analoga a quella di Salvini, ha per i 5 Stelle un effetto positivo e uno negativo. Quello positivo è che Draghi salta, quello negativo è che salta pure Belloni. La colpa è anzitutto di Di Maio e Letta. Quest’ultimo, che sognava Draghi, non forza su Belloni perché ha mezzo partito contro (anche Serracchiani punta dall’inizio su Mattarella), perché Belloni verrebbe letta come una vittoria di Conte (e Salvini) e perché teme di perdere la leadership. Pure Salvini vira su Mattarella, dando ragione a Lercio: “Quando dicevo Nordio, Pera, Moratti e Casellati in realtà intendevo Mattarella”. La Meloni si incazza (e fa bene), ma ormai è fatta. La mossa Belloni di Conte e Salvini rovina (per ora) i sogni di Draghi, che altrimenti sarebbe stato eletto venerdì o sabato. E per fortuna salta anche Casini, celebrato in Parlamento neanche fosse Churchill (i primi a omaggiarlo sono Letta e Di Maio: daje compagni!). Viene eletto Mattarella, un galantuomo, ma la “trama” è avvilente come quella del 2013.

Secondo voi quanto c’è di vero e quanto di inventato in questa ricostruzione? Buona catastrofe!

 

Il bis di Mattarella: una mina (reale) per la Costituzione

La rielezione di Sergio Mattarella non è stata affatto un colpo di scena inaspettato, l’estremo atto di responsabilità di un anziano leader riluttante, una scelta dei parlamentari contro l’incapacità (questa, sì, autentica) dei loro capi: è stato l’esito obbligato, e largamente previsto, di un processo iniziato con l’eliminazione del secondo governo Conte, e con l’affidamento forzoso dell’Italia a Mario Draghi. Era tutto ovvio fin dall’inizio. Io stesso (che non sono un addetto ai lavori né ho doti divinatorie) l’avevo scritto, su questo giornale, il 2 marzo 2021: “Quella larghissima formula fino a ieri impensabile potrebbe essere la base per la rielezione dello stesso Mattarella al Quirinale: in un cortocircuito che avrebbe implicazioni inedite. Ancor più se questo secondo mandato, di cui si inizia a sentir parlare, avesse termine precoce: magari proprio per permettere l’ascesa di un successore (lo stesso Mario Draghi) che sarebbe così in qualche modo un erede designato, in una torsione dal sapore monarchico”. Non era una previsione difficile: nel momento in cui Mattarella decideva di uscire dal binario costituzionale, promuovendo e garantendo un “governo (a suo dire) di alto profilo” e “senza formula politica”, era ovvio che quell’esecutivo non avrebbe potuto proseguire senza la sua copertura presidenziale. Delle due l’una: o Draghi stesso ascendeva al Colle continuando a guidare di fatto il governo, o Mattarella si faceva rieleggere per continuare a garantire l’impegno assunto (e nessuna delle due situazioni era accettabile, nella sostanza, a Costituzione vigente). E così, di fronte all’impraticabilità dell’elezione di Draghi (rivelatosi drammaticamente privo di senso delle istituzioni), Mattarella si è visto costretto a rimanere. Le sue dichiarazioni, irritualmente insistite, sulla necessità di evitare un altro secondo mandato quirinalizio, la propaganda sugli scatoloni e sulla casa in affitto, sono oggi leggibili come le mani avanti messe da chi prevede di essere costretto a fare ciò che sa di non dover fare. L’errore del presidente è tipico della sindrome del salvatore della patria: pensare che un uomo solo, o un piccolo gruppo di capi (tutti maschi e anziani, ovvio), possano salvare la situazione: il “culto degli uomini provvidenziali” (Primo Levi) che affligge gli italiani. Se Mattarella non ha detto no (sarebbe stato uno dei ‘no che aiutano a crescere’ di cui parlano i manuali di puericultura) è per lo stesso motivo per cui ha ascoltato Renzi, facendo cadere Conte e dando tutto a Draghi: per una sfiducia di fondo nello stato della democrazia italiana, giudicata ormai così marcia da pensare di poterla salvare solo attraverso la sua temporanea sospensione dall’alto, attraverso il suo commissariamento. Il drammatico errore di chi, credendosi medico, fa invece parte della malattia. Lo stesso Mattarella aveva detto – citando fondate preoccupazioni dei suoi predecessori Segni e Leone – che la prospettiva della rielezione può indurre i presidenti a porre le basi perché essa avvenga, facendo saltare così la funzione di garanzia della massima carica dello Stato. Ebbene, non è forse ciò che è avvenuto sotto i nostri occhi? E se domani avremo un presidente cinquantenne, a quanti mandati potrà ambire? E che ne sarà dei diritti dell’opposizione con questa clamorosa fusione tra sorte del governo ed elezione del Presidente della Repubblica (tremenda, in questo senso, l’immagine dei capigruppo di maggioranza che vanno al Quirinale a chiedere la rielezione)? La trasformazione da “eccezionale” (così la definì Napolitano nel discorso di re-insediamento) a normale della rielezione del Capo dello Stato mina profondamente la Costituzione, creando molti, ma molti, più problemi di quelli che sperava di risolvere. La stessa, immediata, ripetizione dell’eccezione dovrebbe far capire che le eccezioni non riportano alla normalità: ma a nuove, più gravi, eccezioni.

 

La corsa al colle è stata da vera débâcle politica

Raramente ho provato un godimento come in questo periodo di campagna presidenziale. Ho visto profilarsi giorno dopo giorno la completa débâcle non della politica, che è altra cosa, ma della partitocrazia. La crisi prima che di uomini è di sistema, il sistema partitocratico che se non è proprio la mafia molto gli assomiglia.

Naturalmente, parlando di uomini e non di sistema, c’è chi esce peggio e chi un po’ meglio da questa tornata elettorale. La maglia nera spetta di diritto a Matteo Salvini. Ha proposto 23 candidati diversi e ventitré volte se li è visti bocciare. Ha trascinato così nella slavina personaggi peraltro impresentabili come Maria Elisabetta Alberti Casellati, Marcello Pera, Giampiero Massolo (Massolo chi?). Ma anche personaggi più degni sono stati bruciati dall’endorsement salviniano. Il suo era il classico “bacio della morte”.

Il Pd di Enrico Letta ha giocato di rimessa come se avesse di fronte il Bayern di Robert Lewandowski e non il Greuther Fürth o l’Augsburg. E quindi non ha toccato palla. Del resto è molto incerto che esista ancora un Pd se lo si intende come partito di sinistra.

I 5stelle avevano il maggior numero di grandi elettori, ma sono riusciti ugualmente a non contar nulla a causa delle divisioni al loro interno, fra Conte, l’antropodemocristiano Di Maio e il movimentista Grillo che non si è ancora accorto che il suo movimento non esiste più.

Chi esce parecchio ammaccato da questa tornata è Mario Draghi che abbandonata la sua algida figura è stato visto aggirarsi nelle vie intorno a Palazzo Chigi e a Montecitorio con un piattino in mano per pietire i voti da questo o da quello. Del resto l’idolatria per Sua Emergenza non capisco bene da che cosa derivi. I quattrini per il Recovery Fund li ha ottenuti il governo Conte. A Draghi quei soldi tocca solo spenderli. Ma risulta che dei 51 programmi che dovremmo presentare all’Unione europea nessuno è ancora a punto e quindi tantomeno approvato.

In questi giorni non potendo sempre intervistare i leader, o cosiddetti tali, costantemente impegnati in trattative segrete ma a loro detta “trasparenti”, i cronisti si sono sguinzagliati alla caccia di qualche peone. Abbiamo quindi visto gente che non avevamo mai visto né tantomeno conosciuto. Una marmaglia di disperati cui non affidereste l’amministrazione di un condominio. Io mi auguro che in questi giorni gli italiani, vincendo il disgusto, abbiano guardato le tv, perché a quella vista non può che sorgere spontanea la domanda: ma noi dobbiamo farci governare, anzi comandare, da questi qui?

La sola a uscire vincente, come è stato ammesso da tutti, è Giorgia Meloni. A parte la parentesi di “Berlusconi for President” è entrata in conclave con un’idea e coerentemente, a differenza degli altri, con quell’idea ne è uscita. Se alle prossime elezioni vince il cosiddetto centrodestra sarà lei il premier.

Molto bene si è portato Pier Ferdinando Casini, l’eterno Pierferdi. Aveva tutti i numeri per fare il Presidente della Repubblica soprattutto in questa tornata. Non è un tecnico, è un politico di lunga percorrenza con alle spalle un non irrilevante curriculum istituzionale (è stato presidente della Camera), è un centrista “naturaliter”, un moderato che sarebbe potuto andar bene sia alla cosiddetta sinistra che alla cosiddetta destra. Ma quando ha capito che la sua candidatura stava prendendo consistenza e poteva essere d’intralcio all’ipotesi Mattarella, che era la carta della disperazione, si è fatto da parte, col consueto garbo, invitando i suoi potenziali elettori a non votarlo. Insomma è uno dei pochi che ha dimostrato di avere ancora la testa sulle spalle.

Un discorso a parte merita Silvio Berlusconi. È sua la responsabilità di aver proposto la propria candidatura impossibile e quindi anche della rumba che è seguita al suo abbandono. Stupisce che persone politicamente navigate come Salvini e Meloni abbiano accettato di supportare la candidatura di un uomo che, con tutta evidenza, è finito. Berlusconi è stato dato più volte per finito, ma questa volta lo è davvero, non ci saranno supplementari. L’età non glieli permette e nemmeno la salute più che malferma. C’è da chiedersi quale sarà la sorte di quest’uomo che ha sempre inseguito grandi obiettivi ora che l’obiettivo degli obiettivi, il Quirinale, è scomparso all’orizzonte. Dubito molto che si possa accontentare di un tranquillo “viale del tramonto”. Lo choc di una sconfitta senza ritorno è stato per lui fortissimo. Tant’è che dopo il forzato abbandono della sua candidatura è stato ricoverato al San Raffaele per “esami di routine”, ma il fratello Paolo ha rivelato che in quei giorni l’ex Cavaliere ha rischiato la vita.

Sergio Mattarella. Ha accettato la ricandidatura con “grande spirito di sacrificio” come si è ripetutamente detto e scritto in questi giorni. Ma se in un Paese diventare o ridiventare Presidente della Repubblica è “un grande sacrificio” ciò ribadisce che c’è del marcio, e molto, nel “regno di Danimarca”.

 

Per il Quirinale ci vuole l’“X-Factor”: Letizia canta Lizzo e Carlo fa la trap

L’indecoroso show di chi ha scambiato l’elezione del presidente della Repubblica con le audizioni di “X-Factor” dimostra una sola cosa: bisogna far scegliere il presidente direttamente ai cittadini (Matteo Renzi, 27 gennaio).

24 gennaio. “Vogliamo un presidente condiviso”. Parte così la nuova stagione di X-Factor 2022. Dagli studi di Montecitorio, con tanto di scenografia grandiosa, i 4 giudici (Letta, Salvini, Meloni e Conte) iniziano a cercare chi possiede l’x-factor tra le migliaia di aspiranti presidenti che si sono presentati alla chiamata del talent di Sky. Il livello visto finora è davvero elevato. Storie personali cariche di emozioni e di trascorsi difficili. La vera sorpresa è l’auto-candidatura di Silvio Berlusconi. Che ha iniziato salutando il suo predecessore Mattarella. Dopo essere stato presentato come un sirenetto, dice: “Io ci provo”. Ma è finta modestia. Naturale e spigliato, non ha ancora imparato a dissimulare: la sua faccia, nonostante i lifting, dice molto di quello che pensa davvero: canta My Way e si ritira. A rompere il ghiaccio è la milanese Letizia. Canta la sua versione di Better in color di Lizzo, con una strofa inedita composta da lei che pare riassumere dove vuole andare quest’anno il talent: “Ho fatto schifo come sindaco e ministro? Tu non etichettare, altrimenti lo dirò a tua madre”. 4 sì e X-Factor 2022 parte alla grande. Menzione speciale per il demolitore d’auto Marcello, in arte Pera. La sua versione di Don’t let me down dei Beatles è da pelle d’oca. Tutti d’accordo sul sì. Carlo invece fa pianobar nei club per scambisti. Il suo inedito brano crossover spazia dal soul alla trap ed emoziona i giudici, lasciandoli senza parole. Conte addirittura in lacrime: “Mi hai fatto dimenticare dove sono”, gli dice. Dissente Letta: “Trovo veramente difficile avere un’erezione con questa musica”. Tutti d’accordo comunque per mandarlo al prossimo step. L’ultima concorrente della puntata è Elisabetta C. La sua storia è quella di un’artista che si definisce non binaria. “Il pronome sarebbe lui, non lei”, spiega ai giudici. Si considera “un essere umano senza alcun limite”. Porta Can’t help falling in love di Elvis (la canzone preferita da Giorgia Meloni). Tutti in piedi per lui, applausi e occhi lucidi. “Che bomba”, gli dice Salvini, trattenendosi a stento dalla monta. Ne vedremo delle belle.

25 gennaio. In conferenza stampa, Salvini (cioè il giudice senza filtri: ne hanno fatto le spese alcuni concorrenti) parla di un rapporto a tratti burrascoso tra i giudici. Affermazione prontamente ridimensionata dai colleghi e dalla produzione. Proseguono dunque le selezioni, e la prima impressione è di grande divertimento. Pier Ferdinando canta T’appartengo di Ambra, e Giorgia cerca di far capire a Letta l’importanza di questo brano “simbolo degli anni 90”. Lei e Salvini la cantano col concorrente, che alla fine passa con tre sì. Elisabetta B ha superato i suoi attacchi di panico grazie alla musica. Canta No time to die di Billie Eilish. Ha una voce bellissima e crede in quello che sta cantando. “Stile e bravura: tanto potenziale”, dice Conte. Scontato il poker di sì. Questa ragazza farà strada. Franco suona musica elettronica. Azzarda Cry baby di Janis Joplin. Tra versi e smorfie “ha fatto quello che dice la canzone: ha fatto piangere tutti i bambini”, dice Giorgia. 4 no, logicamente. Giuliano, 83 anni, arriva alle audizioni di X-Factor 2022 con la nonna. Propone Dancing in the dark di Bruce Springsteen. Una cosa inascoltabile, ma la nonnina che fa la breakdance non scherza, tanto che Conte la paragona ai grandi cantautori della scuola genovese.

(1. Continua)

 

Il megafono dell’addio e gli smemorati di Attilio Regolo

Mantenere la parola data è un principio universale, comune a tutte le società e a tutte le culture. A scuola studiammo del console romano Attilio Regolo che, prigioniero dei Cartaginesi, era stato mandato a Roma dopo aver promesso che sarebbe tornato, e che onorò il patto pur sapendo che lo attendeva una fine atroce. Il rispetto degli impegni è alla base del sistema creditizio, dell’ordinamento giuridico e della civiltà dei rapporti umani. Esiste una sola eccezione a un siffatto vincolo d’onore: la politica. Una vecchia battuta definisce il politico come colui che s’invita a pranzo, ti ruba le posate, ti corteggia la moglie e poi ti chiede il voto (e magari lo ottiene pure). L’abitudine a considerare “normale” l’abuso costante dell’uso coerente delle parole spesso c’impedisce perfino di vederlo. Prendiamo la rielezione di Sergio Mattarella, che è servita come una provvidenziale ancora di salvezza a un sistema dei partiti collassato e indeciso a tutto. Infatti, la sua permanenza al Quirinale viene considerata un elemento di stabilità, oltre che un segno di generosità e di responsabilità nei confronti del Paese. Nell’associarci al coro festoso sul “dopo” non possiamo esimerci, tuttavia, dall’interrogarci sul “prima”. Ovvero, sulle ripetute dichiarazioni di congedo che il Presidente ha disseminato negli ultimi mesi del suo mandato. Pur di fronte agli interessi supremi della nazione, alla celebrata eccezionalità della situazione (non tanto, poi, visto il precedente Napolitano), alla indubitabile correttezza del personaggio (circondato da una vasta e affettuosa popolarità), ci sia consentita una domanda. Questa: era proprio indispensabile insistere con l’interminabile rosario degli addii quando l’eventualità di un arrivederci era nei fatti più che possibile, come si è visto? Ok chiedere di introdurre la non rielezione del Capo dello Stato, che tutti comunque hanno inteso come una determinazione riferita a se stesso. Ma perché quel battere e ribattere sulla stanchezza (“Io sono vecchio, tra qualche mese potrò riposarmi”), o sugli scatoloni già pronti e imballati in direzione del nuovo appartamento (e che subito hanno ripreso la via del Colle)? Lo chiediamo con grande rispetto: si sarebbe forse potuto dire, “prima”, un po’ di meno in modo tale da restituire, “dopo”, alla credibilità della politica (e delle istituzioni) qualcosina di più? Altrimenti non sarebbe più opportuno cassare dai testi scolastici il modello Attilio Regolo? Per non ingenerare nelle giovani menti attese purtroppo infondate?