Cassazione: stop ad altre “misure” pro Contrada

In presenza di contrasti giurisprudenziali Bruno Contrada aveva il dovere di informarsi sulla natura giuridica dei propri comportamenti e, in caso di ulteriore incertezza, di astenersi in via prudenziale per evitare il rischio di incorrere in un reato, “rischio tanto più percepito con chiarezza dall’agente quanto più specifico il patrimonio di conoscenze ed esperienze individuali di tipo professionale”. Le sezioni unite della Cassazione bloccano ogni applicazione ulteriore della sentenza Cedu favorevole all’ex 007 del Sisde Bruno Contrada, destinato a restare un unicum per la giustizia italiana, non applicabile ad altri casi, i cosiddetti “fratelli minori”: non è possibile, infatti, “rintracciarvi contenuti che consentano di estrarvi, l’ individuazione di una fonte generale di violazione dei diritti individuali, garantiti dalla Convenzione”.

Lo scrivono le Sezioni unite della Cassazione (presidente Domenico Cardano) nella sentenza n. 22 depositata il 3 marzo scorso con cui hanno respinto la richiesta di Stefano Genco, condannato a 4 anni per mafia, e difeso dall’avvocato Stefano Giordano. Per i giudici i contrasti interpretativi sulla fattispecie di reato sottolineati dalla Cedu (non ascrivibili a una “creazione giurisprudenziale”) “non avevano pregiudicato la possibilità di comprendere e conoscere la possibile punizione per le condotte agevolatrici o di rafforzamento di una formazione di stampo mafioso”, ma al contrario, “costituivano il fondamento giuridico di un dovere di informazione e, nella persistenza dell’incertezza, di astensione in via prudenziale e precauzionale”.

Muore un 34enne nel cantiere del Tap, schiacciato da una saldatrice cingolata

È morto ieri a Vernole in Salento un operaio di 34 anni, schiacciato da una saldatrice cingolata nel cantiere dove Snam sta costruendo l’interconnessione col contestato gasdotto Tap proveniente dall’Azerbaigian. Simone Martena viveva a Squinzano (Lecce) e lavorava come saldatore a tempo determinato per la subappaltatrice tedesca Max Streicher, impegnata nella posa dei tubi. Secondo le prime ricostruzioni il giovane era nello spazio di manovra del mezzo, dove secondo le norme di sicurezza non si dovrebbe stare, per tenere fermo con una corda il gabbiotto per via del forte vento. Sarebbe scivolato e il mezzo lo ha schiacciato. La Procura di Lecce dovrà chiarire se i lavori potessero proseguire in quelle condizioni meteorologiche. Sul posto la pm Elsa Valeria Mignone, il medico legale Alberto Tortorella e gli ispettori del lavoro. “Pagano i più deboli. Questo non è sviluppo, è barbarie”, dice il sindaco di Melendugno (Lecce) Marco Potì. Il Comitato NoTap ricorda che “l’autorizzazione unica di Tap è scaduta lo scorso 20 maggio”.

Rogo Thyssen, i due condannati ancora liberi

Una barzelletta. Una storia grottesca. Con questi termini Antonio Boccuzzi, l’ex operaio sopravvissuto al rogo dello stabilimento della ThyssenKrupp a Torino il 6 dicembre 2007, per il quale morirono sette suoi colleghi, commenta la notizia diffusa da Radio Colonia, emittente del Nord Reno-Westfalia: Harald Espenhahn (sopra in foto) e Gerald Priegnitz, i due manager tedeschi condannati in via definitiva il 13 maggio 2016, sono ancora liberi nonostante a febbraio il Tribunale regionale superiore di Hamm abbia respinto il loro ultimo ricorso.

Devono scontare cinque anni di carcere per omicidio colposo, incendio doloso e omissioni di misure antinfortunistiche, pena massima prevista in Germania per questi reati, ma manca un ultimo atto: per via della ridotta attività giudiziaria durante la pandemia, non è ancora stato emesso l’ordine di presentarsi in carcere. Secondo la procuratrice e portavoce del tribunale di Essen, Anette Milk, questo documento sarà trasmesso nelle prossime settimane. Nel frattempo Espenhahn e Priegnitz hanno chiesto una misura detentiva simile alla semilibertà. Se la loro richiesta fosse accolta, potrebbero uscire dal carcere il giorno, rientrare in cella la notte (con una sorveglianza leggera) e passare i weekend in famiglia. Per la legge tedesca, spiega Radio Colonia, potrebbe giocare a loro favore il contratto di lavoro con la multinazionale dell’acciaio ThyssenKrupp.

“Questa sentenza si sta tramutando in una barzelletta”, ha dichiarato Boccuzzi. “Sono passati 13 anni, ma per noi il dolore è sempre quello. Io non sentirò più la voce di mio figlio, i suoi baci. Sono degli assassini, ma come fanno?”, ha dichiarato Rosina Demasi, madre di Giuseppe, morto a 26 anni per l’incendio. Sui ritardi nell’esecuzione della sentenza la Corte europea dei diritti dell’uomo ha aperto un procedimento contro l’Italia e la Germania.

Tobagi, la “preda” dei figli di papà

C’erano lacrime e pioggia intorno al corpo di Walter Tobagi, steso obliquo sull’asfalto di via Salaino, le gambe giù dal marciapiede, i pantaloni zuppi, il viso dentro una pozzanghera che era per metà il suo sangue. Intorno a lui trenta persone almeno, gli ombrelli neri aperti le facce bianche e chiuse.

Automobili dei carabinieri e due ambulanze stavano parcheggiate di traverso sulla strada a ostruire tutto il mondo di prima che alle 11.10 di quel mercoledì 28 maggio 1980, era inciampato sui cinque proiettili sparati in sequenza, nessuno scampo per la preda.

Abitavo a quattro isolati di distanza. Radio Popolare aveva appena dato la notizia. Sono arrivato a piedi, mentre ancora passavano le volanti a tutta velocità su via Solari e arrivava in frenata una Mercedes nera da cui stava scendendo Angelo Rizzoli, l’editore del Corriere della Sera, i fotografi scattavano con i flash per via dei nuvoloni neri e un paio di poliziotti dicevano permesso, permesso, fate passare.

Walter Tobagi, steso laggiù, aveva 33 anni, ma a noi giovani cronisti da battaglia sembrava molto più vecchio, era una delle prime firme del Corriere, aveva un viso e un portamento antichi, vestiva abiti scuri e cravatta, come già ai tempi del liceo Parini, considerando quel vestire una forma di rispetto per sé e per gli altri, proprio come quando scriveva estraendo dal disordine insanguinato del terrorismo in corso, la limpidezza di una cronaca che non voleva mai stupire, ma raccontare, spiegando il baratro. Cosa che non era facile come dirlo, visto che in quegli anni furiosi almeno 90 gruppi armati inneggiavano alla rivoluzione, dietro la coda insanguinata delle Brigate Rosse, sparavano a magistrati, politici, giornalisti, convinti che il terrore avrebbe sfibrato la falsa democrazia borghese, aumentato la repressione, accelerato i tempi della battaglia.

Dieci anni dopo ho conosciuto e parlato a lungo con il soldato di quella rivoluzione, il titolare di quel corpo ucciso nella pozzanghera. Si chiamava Marco Barbone, figlio di un alto dirigente della Rizzoli, faccia da ragazzo bene, riccioli neri, occhi senza fondo. Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa che lo avrebbe arrestato tre mesi dopo l’omicidio, lo aveva soprannominato “il piccolo dio” perché pentendosi aveva dettato, con la sua erre blesa, 150 nomi dei suoi compagni, confessato ferimenti, rapine, ricostruito l’organigramma di una trentina di gruppi armati, dalle Formazioni comuniste combattenti a Senza tregua, da Guerriglia rossa a Prima linea. Cioè quasi per intero l’apparato militare della lotta armata a Milano. E aveva spiegato le ragioni dell’omicidio Tobagi che aveva ideato e voluto, anche se ne parlava al plurale: “Volevamo fare una azione eclatante, salire nella gerarchia, accreditarci per entrare nelle Brigate Rosse”.

Quella mattina del 1980, appena due ore prima, Barbone aveva schierato la sua Brigata XXVIII Marzo tra via Salaino e via Solari, intorno al portone della vittima designata, sei ragazzi di vent’anni come lui, una pistola a testa. Paolo Morandini in bici a fare da staffetta. Lui e Mario Marano a metà via con il compito di sparare e uccidere. Francesco Giordano di copertura. Gli altri due – Daniele Laus e Manfredi Di Stefano – davanti all’auto per la fuga, una Peugeot rubata due sere prima.

Tobagi, appena uscito dal portone, camminava con l’ombrello aperto, ignaro di quanti occhi lo stessero seguendo. “Eravamo dall’altra parte della strada. Attraversammo per prendergli la scia. Marano accelerò il passo per avvicinarsi, quasi correva, gli arrivò troppo vicino. Ho pensato: adesso se ne accorge. Invece niente. Camminava tranquillo. Marano ha una 7,65, estrae, spara tre volte. Tobagi fa ancora due passi nel vuoto, barcollando. Crolla a terra. Mi avvicino, gli sono sopra. Ho una 9 millimetri, gli sparo due volte alla schiena. Per non lasciare i bossoli per terra ho una retina intorno alla pistola, una di quelle retine che si usano per le arance. Il silenzio copre tutto. Ce ne andiamo fino alla macchina. Mentre saliamo, una Bmw inchioda davanti alle nostre pistole e corre via a marcia indietro. Partiamo troppo veloci: al primo incrocio andiamo a sbattere contro una 127. Penso che siamo perduti. Invece la macchina riparte. In piazza Piemonte lasciamo l’auto, prendiamo ognuno strade diverse. Io scendo in metropolitana e salgo sul primo treno. Appuntamento due ore dopo al bar Basso. Arrivando compro il giornale del pomeriggio che aveva un titolo enorme in prima pagina: ‘Assassinato Walter Tobagi’. Era andato tutto bene”.

Dieci anni dopo, Barbone raccontava senza troppa emozione. Aveva cambiato nome e mistica. Era diventato devoto di Comunione e liberazione. Dirigeva per loro la copisteria accanto all’Università Cattolica. Si era sposato in chiesa. E viveva una sua clandestinità speciale, in un ricco appartamento, dopo averla fatta franca al processo, anno 1983, nessuna condanna per la sua fidanzata di allora, Caterina Rosenzweig, pena ridotta per lui a 8 anni, scarcerazione immediata, clamori in aula, insulti, rabbia dei colleghi di Tobagi, rabbia del padre, Ulderico, il pianto silenzioso di Stella, la moglie, le polemiche furibonde sui giornali per “l’assassino in libertà”.

Ci teneva a dirmi che il famoso volantino di rivendicazione – dove veniva analizzato il ruolo della stampa e delle nuove tecnologie, strumenti di dominio politico che andavano attaccati e disarticolati – lo aveva scritto lui copiando da certe riviste specializzate. I mandanti occulti non esistevano. Quel sangue e quell’inchiostro li aveva fabbricati lui. Scelse Tobagi dentro una rosa di tre nomi, scartando quelli di Giampaolo Pansa e Marco Nozza perché non avevano orari, né percorsi fissi. “Era il più facile”.

I socialisti, Craxi in testa, provarono per anni a intestarsi la figura di Tobagi, cattolico e riformista, vittima di lotte intestine al Corriere a quei tempi egemonizzato da sindacalisti comunisti. Ma per Barbone era una faccenda “che venne costruita dopo, sfruttando l’omicidio”. Come la storia dell’infiltrato Rocco Ricciardi che nel dicembre del 1979 informò i carabinieri che Tobagi era nel mirino dei terroristi. Fu un errore o un complotto? In realtà fu un allarme che si perse insieme con altre decine di informative, in quegli anni di incalzante guerriglia. Parlava molto sicuro di sé, Marco Barbone. Parlava a coprire il vuoto. In fondo era rimasto il figlio della razza padrona che aveva ucciso il figlio di un calzolaio. E sapeva come sopravvivere.

 

Mail box

 

Credo molto in ciò che fate e nella vostra libertà

Gentile Marco, giorni fa raccontavo a mia moglie di quando, in pieno berlusconismo, a L’Aquila un gruppo di amici nauseati organizzò un incontro pubblico a proprie spese: “Regime”. Gli ospiti della serata sarebbero stati lei, Gomez e Curzio Maltese. Ricordo ancora l’emozione delle telefonate preparatorie. Alla fine Gomez e Maltese non furono presenti e lei, da solo, raccontò con la sua lucidità e brillantezza il clima di quel periodo. Da quella sera raramente è passato un giorno senza che leggessi un suo articolo. Prima sull’Unità; poi sul Fatto. In questi mesi ho avuto l’abbonamento online perché non mi era possibile uscire, ma mi manca tanto il cartaceo. Non voglio solo celebrarla. Vorrei farle sapere che credo moltissimo in quello che fate, nella vostra libertà e nel fondamentale ruolo che svolgete nel consolidamento della nostra democrazia. Vi chiedo di svolgere sempre al meglio il vostro lavoro. Grazie.

Marco Francia

 

Il mistero della De Girolamo “opinion leader” in tv

Caro direttore, lei è riuscito a capire in base a quali requisiti personali e professionali la ex on. De Girolamo è chiamata da Giletti come opinion leader nelle sue trasmissioni? Ho chiesto anche a Giletti, ma non mi ha risposto.

Francesco Ruggiero

 

Caro Francesco, questioni come queste esulano davvero da ogni umana comprensione.

M. Trav.

 

Dalle occupazioni del ’69 alla “normalità” post Covid

Ciao direttore. Leggendo il tuo fondo di domenica mi sono ricordato di un manifesto del Maggio Francese che poi ripresi in una occupazione alla facoltà di Ingegneria a Pavia nel ’69 con la scritta “Non ritorneremo alla normalità”. Potresti riproporlo sul Fatto (immagine qui a destra) associato alla tua frase “per non tornare alla normalità come prima”.

Tanino Armento

 

Le mascherine potrebbero essere dannose alla salute?

Gentile dottoressa Gismondo, lei ha sempre raccomandato l’uso di mascherine. Ma il famoso dottor Montanari ha rilasciato un’intervista in cui dice che le mascherine non solo sono dannose perché si ri-respira parte della propria anidride carbonica, ma la loro umidificazione per il respiro attira e fa attecchire batteri, virus e microorganismi dannosi. Ma allora siamo stati presi in giro, con spesa di milioni di euro per le mascherine? Lei cosa ne pensa?

Enrico Costantini

Gentile Costantini, se è vero che, in parte, viene ri-respirata parte di anidride carbonica emessa, non credo che sia in quantità tale da mettere in pericolo la nostra salute, visto che l’utilizzo delle mascherine, peraltro, non è particolarmente prolungato. Per quanto riguarda la crescita di batteri è vero, ma non credo si raggiungano cariche batteriche pericolose se si adotta l’igiene necessaria (dispositivi monouso o lavaggio). Ogni cosa nella vita ha il suo prezzo: oggi si pensa che valga la pena difendersi dal Covid-19. Il futuro ci dirà se avremo esagerato. In ogni caso, ammettendo che ci sia stata confusione, non penso che ci sia la volontà di prendere in giro alcuno.

Mrg

 

Amo gli approfondimenti di “Le Monde” e del “Fatto”

Signori, il giornale che leggo con molto interesse è Le Monde: voi fate un giornale simile, con molti approfondimenti. Ormai è inutile dare notizie dei fatti accaduti il giorno precedente. Grazie.

Annibale Ponchielli

 

Caro Annibale, troppo troppo buono.

M. Trav.

 

Proposta utopica: azzerare i debiti dei Paesi

Leggendo l’articolo di Barbara Spinelli, come al solito di una limpidezza disarmante, mi è venuta in mente un’azione di fantaeconomia che vorrei sottoporre ai vostri giornalisti economici. Se ogni x anni (2, 3, 5, decenni), previa legislazione che impedisca abusi di ogni sorta, azzerassimo tutti i debiti pubblici del mondo? O almeno li riducessimo in base a un meccanismo uguale per tutti, che so, della metà o fino al 60 per cento sul Pil? Ciò porterebbe a ingiustizie e caos sociale o a un riequilibrio della forza degli Stati, che magari sono costretti a subire i creditori solo perché sono stati governati da incompetenti in cerca di potere pagato da mancette a debito? (Ogni riferimento all’Italia è puramente voluto). Io ovviamente sono per “i debiti non si fanno, e quando si fanno si pagano”, ma magari c’è un’alternativa.

G. C.

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri, in un titolo a pagina 11, abbiamo chiamato Siani – il giornalista del Mattino trucidato dalla camorra nel 1985 – Gianfranco anziché Giancarlo, Giancarlo Siani. Ce ne scusiamo moltissimo.

FQ

Calcio. Per il mancato servizio d’ordine lo Stato risparmia ben poco

 

Buongiorno. Vorrei darvi un’idea per un’inchiesta: l’importo del risparmio statale per il sospeso servizio di ordine pubblico durante le manifestazioni calcistiche. Grazie a tutti per il vostro giornale.

Alfonso Boraschi

 

Gentile Alfonso, all’improvviso ci siamo ritrovati tutti senza calcio per l’emergenza Coronavirus. Gli appassionati sono piombati in crisi d’astinenza o ne hanno approfittato per disintossicarsi. Qualcun altro, invece, il pallone non ha mai potuto vederlo, e come lei si chiede se per lo Stato italiano non sia un vantaggio rinunciare al campionato. Il pallone, come qualsiasi evento, ha un costo per le casse pubbliche. In questo caso parliamo essenzialmente degli oneri per la sicurezza. All’interno degli impianti la responsabilità è delle società, con gli steward, ma per garantire l’ordine pubblico all’esterno ogni anno serve un esercito. Secondo l’ultimo report disponibile del ministero dell’Interno, nella stagione 2018/2019 sono stati impiegati 169mila agenti per controllare le partite dei campionati professionistici, 200 a gara solo in Serie A. Questo schieramento di forze è difficile da quantificare: dati ufficiali non ce ne sono, considerando tutte le variabili (straordinari, indennità, spostamenti, ecc.) le stime partono dai 20 milioni l’anno in su. La politica più volte ha provato a scaricarli sui club: nel 2014, sotto il governo Renzi, fu approvata anche una legge per una tassa tra l’1 e il 3% sui biglietti venduti, ma è rimasta lettera morta; più di recente era tornato alla carica Matteo Salvini, quando era ministro (voleva portare il prelievo dal 5 al 10%), ma non se n’è fatto nulla. Se non si gioca, lo Stato risparmia questi soldi. Però c’è l’altra faccia della medaglia. I club svicoleranno pure sulla sicurezza, ma il mondo del pallone riversa ogni anno nelle casse pubbliche oltre un miliardo di contribuzione fiscale, senza dimenticare il gettito erariale delle scommesse e l’indotto complessivo. Si può obiettare che comunque le spese per le forze dell’ordine dovrebbero ricadere sui club, ma le cifre impallidiscono al confronto dei benefici. Potrà piacere o meno, il pallone ormai è diventato un grande business (e non a caso le squadre vogliono tornare disperatamente a giocare). Economicamente conviene a tutti. Pure allo Stato.

Lorenzo Vendemiale

Expo2015, il sindaco di Milano s’inventa l’utile da 40 milioni

A tornare sull’argomento Expo è stato lui, Giuseppe Sala. “La società Expo 2015 in liquidazione presenta dei conti che riassumono dieci anni di percorso con un avanzo, quindi un utile, di 40 milioni”, ha dichiarato qualche giorno fa. “Il tormentone del buco da 200 o 400 milioni è finito. Questa storia per me finisce ieri”. È una storia italiana di successo, di “competenza, onestà e dedizione”. Proprio così: “Vi dico queste cose al di là del fatto che per me è una grande soddisfazione anche perché penso che in momenti difficili come questi bisogna poter dire e poter pensare che pur in un Paese difficile come il nostro, pur in momenti storici a volte anche cattivi come questo, si può fare. Si può fare se si ha competenza, onestà e dedizione, le caratteristiche di chi ha lavorato con me”.

Tutto a posto, tutto bene, dice dunque il commissario Expo diventato sindaco di Milano: la storia di Expo finisce con un “utile” di 40 milioni. Un “utile”? Proviamo allora a spiegare al manager Sala, in maniera facile facile, che cos’è successo davvero, visto che evidentemente non si è ancora ripreso dall’aperitivo sui Navigli di #milanononsiferma e continua a mostrarsi appannato e mal consigliato (vedi foto a braccia conserte sul tetto del Duomo con in cielo le Frecce tricolori).

Metti che un padre consegni al figlio preferito una cifra consistente, diciamo 2 miliardi e 300 milioni di euro, affinché apra un’attività. Il figlio progetta e realizza un grande bazar internazionale provvisorio. Le spese sono molte, i clienti sono meno del previsto, per attirarli è necessario fare prezzi stracciati e alla fine gli incassi non superano i 700 milioni. Chiusa l’attività e fatti i conti, il figlio si ritrova in tasca 40 milioni. Che cosa racconterà? Di aver chiuso l’operazione con 40 milioni di utili?

A Expo è andata esattamente così. Sono stati messi nell’impresa 2 miliardi e 300 milioni di denaro pubblico. Impiegati per la realizzazione dell’evento (1,3 miliardi) e per la sua gestione (circa 1 miliardo). Gli incassi (da biglietti, sponsorizzazioni, royalties) sono stati 700 milioni. A questi si aggiungono 75 milioni pagati da Arexpo per l’urbanizzazione delle aree su cui si è svolta l’esposizione universale. Dunque sono stati spesi 1 miliardo e 525 milioni, da cui vanno tolti i 40 milioni avanzati. So che è brutto chiamarlo “buco” o “rosso”, allora chiamatelo come volete, ma 1 miliardo e 485 milioni non sono mica rientrati nelle casse del padre premuroso.

Poi si puo dire che Expo ha fatto benissimo a Milano e all’Italia, che si sapeva fin dall’inizio che manifestazioni come l’esposizione universale non hanno il fine di chiudere in pareggio ma di sviluppare l’economia, che il famoso indotto ha portato soldi e benefici, che Milano pesa per il 12 per cento del pil nazionale e c’è chi giura che Expo 2015 sia stata la magica svolta che l’ha fatta diventare una delle grandi metropoli del mondo.

Io aspetto pazientemente le prove di questa melassa autocelebrativa, i numeri e gli argomenti capaci di dimostrarlo. Negli ultimi anni è cresciuta a dismisura una retorica stucchevole che ha celebrato in modo irragionevole una città che ha perso le sue fabbriche, indebolito il suo tessuto produttivo, venduto i gioielli di famiglia a cinesi (Pirelli) e arabi (Porta Nuova), ridotto la sua gloria ad aperitivi e food, locali e movida. Ora la pandemia rischia purtroppo di mostrare che il re è nudo, che l’eccellenza lombarda è fragile. La ripartenza andrà realizzata con un po’ più di modestia e senso di realtà. Senza spacciare, per favore, gli avanzi per utili.

 

La feroce nemesi del Covid-19 sugli stereotipi di Beppe Sala

In quest’epoca di pazzi ci mancavano i sindaci supereroi in posa assertivo-volitiva sul tetto del Duomo, in piedi tra le guglie con mascherina e fascia tricolore in suggestivo pendant con le frecce omonime che gli saettano sopra la testa. “‘Patria’ deriva dall’aggettivo patrius, paterno. E così che mi piace pensarla”, recita la didascalia dell’intenso ritratto di Beppe Sala affidato a Instagram dopo chissà quante ore di riunioni di comunicatori e imagologi, ed è così peraltro che prescrive il dizionario etimologico, laddove la terra dei padri è chiaramente non tanto l’Italia, ormai ridotta a una trapunta di regionalismi villani, quanto Milano stessa, sineddoche, anzi epitome dell’Italia migliore.

Teniamo d’occhio da tempo la retorica di Sala: gagliarda sotto Expo, efficientista, proiettata al futuro, tranne che nella retrodatazione dei verbali (“processo Piastra”, condanna per falso ideologico e materiale), sotto Coronavirus s’è fatta schizoide, dissociata, stolida come la mosca intrappolata nel bicchiere. Come proteggere i cittadini e al contempo assicurare ad essi la continuazione del loro “stile di vita”, cioè l’esercizio del diritto all’apericena, forma locale del diritto globale alla felicità?

L’imagologia di Milano la riassunse un video commissionato da 100 “brand della ristorazione” che Sala rilanciò giocondo il 27 marzo, mentre si accendevano i focolai di Codogno, Bergamo, Nembro e Alzano Lombardo: le scritte “facciamo miracoli ogni giorno” e “abbiamo ritmi impensabili” (come fossero pregi) sottolineavano frame nervosi e patinati dell’alacre capitale morale, illuminata dai led e dai catarifrangenti delle bici dei rider a cottimo. Oggi Sala, dopo 16mila morti lombardi, notifica: “Sulla movida Milano ha un problema, capisco il bisogno di socialità ma il rischio è molto elevato… da stasera più pattuglie della Polizia Locale e chiusura dei locali che non rispettano le regole”. Sembra un secolo fa, quando la movida la faceva lui: sempre 27 febbraio, una foto filtrata vintage lo ritrae insieme a Alessandro Cattelan con una birra in mano (orli dei boccali pericolosamente sfiorantisi): “Un’altra dura giornata di lavoro… #finalmenteaperitivo #milanononsiferma”. Milano poi si dovette fermare. Adesso è un casino riacchiappare quella retorica e riallinearla al rischio verificato dei contagi che scendono ma poco, ed è di nuovo Milano passo carrabile, Milano divieto di sosta, Milano retorizzata sotto steroidi. Altro che Patria: principio universale del provinciale è scimmiottare chi sta avanti, “la grande area ‘car-free’ di Londra, i ‘super isolati’ pedonali di Barcellona, le piste ciclabili di Parigi che diventa ‘città in 15 minuti’, fino alle ‘slow streets’ di Los Angeles”, tutte priorità in una regione con 16 mila morti e una Sanità pubblica umiliata, perché “questo è il destino di Milano, sfuggire a una visione chiusa e sapersi grande città solidale e internazionale”. Intanto martedì c’è stato il primo incidente sulla nuova pista ciclabile.

Il sindaco aspirazionale d’Italia – che ogni giorno s’affaccia all’Angelus dei social cinguettando “Buongiorno Milano, da Palazzo Marino”, “Buongiorno Milano, oggi dall’Arena Civica”, come Robin Williams in Good morning, Vietnam – ieri ha minacciato i presidenti di Regione del Sud che chiedono una “patente di immunità” ai vacanzieri del Nord: “Quando deciderò dove andare per un weekend o per una vacanza, me ne ricorderò”, cioè li minaccia di fare esattamente quello che vogliono che lui faccia: starsene a casa sua, villeggiare a Gallarate.

Sala si sente isolato, e non è lo splendido isolamento di Los Angeles, ma il contrappasso del razzismo intercity, la nemesi del “non si affitta ai meridionali” giocata sulle IgG, la livella del Covid, cioè per una volta la vittoria della realtà, perfino biologica, sul potere dell’imagologia

 

Ora un “Rinascimento” della magistratura

Le comunicazioni telefoniche acquisite dalla Procura di Perugia nel “caso Palamara” squadernano un groviglio di manovre e baratti (per molti un “suk”) sulle nomine di competenza del Csm. Devastanti gli effetti. C’è persino chi evoca con nostalgia il presidente Cossiga che trattava il Csm a colpi di carabinieri spediti in piazza Indipendenza; o chi definisce il Csm un “verminaio” del quale qualsiasi cosa sarebbe meglio, per cui a casa tutti i consiglieri! Si può dissentire da questi giudizi trancianti, ma è bene conoscerli perché non è consentito sottovalutare il problema lacerante ripropostosi in queste ore (dopo la crisi di circa un anno fa dovuta agli incontri fra politici e magistrati nell’hotel “Champagne” di Roma). Dico “riproposto” per sottolineare che un’ulteriore non secondaria gravità del problema deriva proprio da spiacevoli gemmazioni del ceppo di partenza. Diventa allora necessario e urgente un vero e proprio “Rinascimento” delle diverse articolazioni del mondo della magistratura. Un Rinascimento che non è utopia, perché i giudici italiani han dimostrato di esserne capaci in tempi anche più difficili.

Mi riferisco a come la magistratura riuscì a liberarsi dalle vischiosità che all’inizio e per un lungo periodo segnarono la democrazia repubblicana. Processi alla Resistenza e impunità per i gerarchi fascisti più compromessi. Vertici giudiziari in continuità col fascismo (un procuratore generale della repubblica di Salò e un ex presidente del tribunale della razza rispettivamente alla presidenza della Cassazione e della Corte costituzionale).

L’invenzione della categoria delle norme soltanto programmatiche per depotenziare la Costituzione. 695 fascicoli sugli eccidi nazifascisti del 1943-’45 occultati per decenni dalla Procura generale militare di Roma in un armadio scoperto dal giornalista Franco Giustolisi e da lui giustamente definito “della vergogna”. Negata l’esistenza della mafia; gli infortuni sul lavoro una fatalità; la procura di Roma un “porto delle nebbie”; vertici della magistratura a braccetto con personaggi impresentabili; Sindona beneficiato dall’affidavit di un alto magistrato…

Solo a partire dagli anni Sessanta-Settanta la magistratura (nella sua gran parte) cominciò ad affrancarsi da una massiccia commistione col potere politico, imboccando la strada di una reale indipendenza secondo l’art. 101 Cost., che vuole i giudici “soggetti soltanto alla legge”. In questa lunga marcia un ruolo decisivo ebbero le “correnti”.

Strumenti di dibattito e orientamento culturale (pubblico e trasparente), le “correnti” furono utili per incrinare l’estraneità dei giudici rispetto alla società e per cercare di introdurre in un corpo burocratico il rifiuto del conformismo (inteso come gerarchia, logica di carriera, giurisprudenza imposta dall’alto, passività culturale). Con lo Statuto dei lavoratori ai giudici fu attribuita la funzione inedita di garanzia dei diritti sociali. Via via il sistema giudiziario divenne anche strumento di emancipazione dei cittadini. Finché alla magistratura toccò misurarsi con terrorismo, stragismo, poteri occulti e deviati (la P2), mafia, corruzione sistemica. Di qui la funzione, anch’essa inedita, di controllo dell’esercizio dei poteri “forti”, pubblici e privati. I quali, si sa, preferiscono i “servizi” alle decisioni imparziali. Ed ecco una tempesta di accuse e controriforme trasversali per delegittimare la magistratura. Mentre le “correnti”, invece di continuare nel confronto delle idee per meglio resistere agli attacchi contro la giurisdizione, registravano – quale più quale meno – la progressiva degenerazione in cordate per il conferimento clientelare di incarichi e la nomina di dirigenti.

Oggi che si è toccato il fondo, serve uno scatto d’orgoglio dell’Anm e del Csm, per puntare – partendo da posizioni di sincera autocritica – a un robusto recupero di credibilità. Senza la quale non è neppure ipotizzabile una valida interlocuzione sulle ormai inevitabili riforme. È certo che si attiveranno anche forze ansiose di chiudere i conti con il fastidioso incomodo di una giurisdizione autonoma. In gioco vi è quindi l’indipendenza stessa della magistratura. Per evitarne il tracollo occorre appunto un “Rinascimento”, presupposto per ribadire che tale indipendenza non è un privilegio di casta dei giudici ma dei cittadini, che solo così possono sperare in una giustizia che non mostri gli occhi dolci a qualcuno e la faccia feroce agli altri.

 

Il gatto dei Benetton, tre amici al bar e quello scemo di Leonardo

Unicuique suum. Non praevalebunt.

L’altro giorno, il gatto dei Benetton, un persiano bianco dalla mente finanziaria raffinatissima, durante una riunione della Spectre (Atlantia-Autostrade-Ponte Morandi) ha consigliato il suo boss, che lo stava accarezzando, di ricattare con una minaccia legale il governo italiano per ottenere garanzie pubbliche su due miliardi di prestiti: così, se la Spectre non li onorerà, dovrà pensarci lo Stato. Il mio gatto, Romeo, è un suo secondo cugino, e ieri si è collegato con lui via Zoom per rampognarlo. L’altro, che è un figlio di buona donna come pochi, ha finto di cadere dalle nuvole: “Per legge, abbiamo diritto a quelle garanzie”. “E grazie al cazzo”, ha replicato Romeo. “Lo Stato vuole togliere le concessioni ad Autostrade per tutte le manchevolezze omicide della Spectre. Ma senza più concessioni, Autostrade salta, e non potrà restituire i prestiti, che a quel punto dovrà pagare lo Stato. Il tuo ricatto è schifoso!”. “Grazie”, gli ha detto quello, prima di pigiare un pulsante rosso che ha carbonizzato il mio gatto con una scossa elettrica sulla sua poltroncina.

Carlo De Benedetti pubblicherà un nuovo giornale. Si chiamerà Domani. Il nome non è felicissimo: nel romanzo di Eco Numero zero, il quotidiano Domani era una macchina del fango. E prima di Eco, nel film di James Bond Il Domani non muore mai, Tomorrow (“Domani”) era il giornale del malvagio Elliot Carver. Il neo-direttore sarà Stefano Feltri, uno dei tre italiani ammessi all’ultimo Bilderberg. Non so voi, io non vedo l’ora di leggere il primo numero.

In certi supermercati americani, quando una cliente va a lamentarsi all’ufficio reclami, il funzionario convoca un certo signor Smith e lo licenzia seduta stante. La cliente se ne va, contenta di avere stravinto; ma se il giorno dopo si ripresentasse con una nuova lagnanza, ritroverebbe il funzionario che convoca di nuovo il signor Smith per licenziarlo su due piedi, perché il signor Smith è pagato dall’azienda per fare quella parte almeno una dozzina di volte al giorno. Alle conferenze stampa di Conte, i giornaloni fanno sempre il tiro al piccione. A Conte farebbe comodo un signor Smith. O è Casalino?

Nel 1680, Papin osservò che il coperchio della pignatta si solleva per la pressione del vapore acqueo, e intuì che in quella pentola bollente c’era “materia per produrre con poca spesa delle forze estremamente grandi”. Passarono 80 anni prima che Watt, sfruttando l’idea di Papin, costruisse la prima macchina a vapore. Ora: le pignatte le mettevano sul fuoco anche all’epoca di Leonardo da Vinci. Ma a Leonardo da Vinci non venne mai in mente l’idea di Papin. Che cretino!

Ritorno alla normalità. Roma, tre amici al bar. Il conto è 30 euro. Ognuno dei tre dà 10 euro al cameriere. Il gestore chiede al cameriere se i clienti sono stati soddisfatti. “Hanno detto che è un po’ caro”, risponde il cameriere. E il gestore: “Col Coronavirus abbiamo più spese. Vabbè, restituiscigli 5 euro”. Poiché è difficile dividere 5 per 3, il cameriere intasca 2 euro e ne restituisce 3 ai clienti. Così avranno pagato 9 euro ciascuno. Ora: 9 x 3, 27. Più i 2 che si è tenuto il cameriere, 29. Dov’è finito l’euro che manca?