Post Pandemia: Un mondo da rifare

Il dopo covid-19 è tutto un mondo da immaginare e da costruire. Le esperienze, negative e positive, sono state tante e se non vogliamo sprecare quanto ci è stato chiesto in sacrifici personali, energie lavorative ed economiche. Dobbiamo assolutamente trarne lezione per il futuro. Diversamente da quanto può apparire in un primo momento, le vere lezioni che ci stanno arrivando non sono strettamente sanitarie, ma anche economiche, sociali, politiche e riguardano tutti noi, intendo tutti noi che abitiamo il condominio “Terra”. Dobbiamo “mutare”. Non dobbiamo correre il rischio di pensare che alcuni grandi problemi non ci appartengano, accecati da piccole convenienze personali, dal ruolo sociale, condizione economica in cui viviamo. E non dobbiamo pensare che ogni settore abbia confini. Abbiamo imparato che i grandi fenomeni sono orizzontali, cioè coinvolgono trasversalmente diversi settori.

Covid è stato sanità, economia, ambiente, politiche sociali, psicologia, politica e tanto altro. Il meccanismo è unico e imprescindibile: valorizzare la responsabilità collettiva con singole, personali responsabilità individuali. La difficoltà è tutta nell’appropriarsi di tali concetti per interiorizzarli e farli diventare personali, evitando che si traducano in mere imposizioni dall’alto. Abbiamo visto cosa significa gestire i problemi globali con incertezze, senza piani sanitari internazionali ben strutturati. Eravamo impreparati ad affrontare una crisi economica epocale, biblica, come l’ha definita Mario Draghi. La verità è che abbiamo pensato di costruire un mondo globale fatto di esasperati individualismi, senza consolidare le basi di una responsabilità globale. Non possiamo più permetterci di continuare così. Se vorremo salvarci, dovremo aprire la mente e il cuore e sentirci attori di un benessere che può solo essere globale. Attenti, però, a non confondere responsabilità con potere.

*direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Scuola, scorta alla ministra. Ok all’accordo sui concorsi

Gli insulti, i video, i meme, le offese sessiste: ci sono sempre stati nei confronti della ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, ma anche dei suoi predecessori. In queste settimane hanno però raggiunto livelli tali da spingere il comitato per l’ordine e la sicurezza ad assegnare alla ministra una scorta di due uomini della Guardia di Finanza. È una scorta di quarto livello (come quella del viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri) conseguenza di un crescendo di minacce e tensioni, inasprite dalle discussioni sul concorso straordinario ma anche dall’improvvisa attenzione generale ai temi della scuola. Tanto che, confermano dal ministero, ci sarebbe stato anche un tentativo di hackerare i profili Facebook della ministra.

Ieri intanto è arrivato l’accordo in commissione Istruzione al Senato sul concorso per i precari. “È prevista una prova scritta basata su conoscenze e competenze e metodologia didattica – spiega la capogruppo M5s in Senato, Bianca Laura Granato –. Sarà una prova completa, includerà inglese e informatica, si svolgerà al computer e con risposte aperte”. In base alla situazione pandemica si potrà svolgere nella sede di servizio mentre la valutazione sarà fatta da una commissione della regione dove il candidato intende concorrere. “Sono stati giorni durissimi – spiega la Granato – siamo partiti da posizioni antitetiche ma abbiamo trovato la quadra alla fine preservando il merito. Abbiamo subito pressioni inaudite dai sindacati, dirette e indirette, anche attraverso gli altri parlamentari”. Ancora non c’è una data per la prova: si sa che sarà dopo l’estate, poi saranno immessi in ruolo i primi vincitori dal settembre 2021. Per l’anno scolastico 2020 e 2021, i docenti saranno assunti con contratto a tempo determinato sulla base delle graduatorie provinciali che saranno riaperte e aggiornate. Ai vincitori del concorso assunti a settembre 2021 sarà garantita la retrodatazione giuridica della nomina a settembre 2020.

Il 5stelle rischia l’espulsione causa discarica

Un esposto in Procura sulla “scelta contraddittoria” di Virginia Raggi e della sua giunta capitolina nell’indicazione del sito per la nuova discarica di Roma in Valle Galeria. Per questo motivo il consigliere regionale del Lazio, Marco Cacciatore, è stato deferito ai probiviri del M5s e ora rischia l’espulsione dal Movimento. Il procedimento è stato aperto nel mese di aprile, dopo che il 3 marzo 2020 il pentastellato aveva fatto presente ai magistrati romani come la delibera approvata dalla giunta capitolina il 31 dicembre 2019 “potrebbe alimentare il sospetto che, nella contraddittorietà dei diversi provvedimenti della Pubblica amministrazione, lo scenario si sia di fatto evoluto a vantaggio di soggetti privati”.

L’esposto di Cacciatore prende spunto da una notizia pubblicata in anteprima sul Fatto Quotidiano, il 21 gennaio scorso, in cui si svela che la New Green Roma srl – la società proprietaria della cava di via Monte Carnevale che (su pressing dalla giunta regionale di Nicola Zingaretti) il Campidoglio ha indicato come idoneo per la nuova discarica romana – vedeva sin dal 2016 come “socio di fatto” l’imprenditore Valter Lozza, già proprietario di un mega impianto a Frosinone. La notizia è stata poi confermata dal diretto interessato il giorno seguente all’agenzia Dire. La sua Mad srl ha avviato le pratiche per l’ingresso in società il 23 dicembre, otto giorni prima della delibera capitolina, iter concluso il 7 gennaio. Secondo Cacciatore, presidente della commissione rifiuti, “la contraddittoria conduzione amministrativa delle procedure rischia di esporre gli Enti a profili risarcitori”.

Al consigliere – che al Fatto si dice “tenuto alla riservatezza” – viene contestato anche il voto favorevole alla legge sul collegato di bilancio 2019 della Regione Lazio, contenente la cosiddetta “sanatoria” a favore degli occupanti irregolari delle case popolari romane.

Governo e Regioni, l’ultima lite è sul voto. La minaccia di Sala

Il cielo sopra la Lombardia è ancora pallido di dolore, con 385 contagiati e soprattutto 58 morti in più. E l’impennata dei tamponi, oltre 12mila in più rispetto a martedì, spiega in parte quelle cifre ma non può dissolvere le paure. Non lì, nella Regione a cui da qui a breve, forse già venerdì, dovranno dire se potrà riaprire i confini il 3 giugno, come vorrebbero fare le Regioni di tutta Italia. Un altro nodo da gestire per il governo, che ieri sera ha visto scoppiare l’insurrezione dei governatori uscenti sulla data delle Regionali, uniti nell’invocare una finestra elettorale tra fine luglio e primi di settembre.

Ma non sarà un problema del governatore lombardo Attilio Fontana. L’ostacolo più vicino per il presidente leghista è quello della riapertura, e forse non sa neanche lui cosa augurarsi e decidere. Quasi svuotato dalla crisi del Covid, stretto tra la voglia di spalancare tutto delle imprese e timori che non sono solo suoi, perché di “massima cautela” nelle riaperture parla anche il capo politico reggente del M5S Vito Crimi. Per la Lombardia preferirebbe una via dii mezzo, magari “autorizzando solo spostamenti tra aree limitrofe” come dice a Radio Anch’io. In questo quadro, il sindaco dem di Milano Beppe Sala ruba facilmente scena e ruolo a Fontana, rivolgendosi al governo: “Anche noi lombardi vogliamo uscire dalla nostra regione. Applicheremo ciò che deciderà l’esecutivo, però chiedo che non ce lo dicano il giorno prima. E dovremo capire in base a che parametri sarà presa la decisione”. Ma Sala lo sa, si deciderà innanzitutto in base al report settimanale dell’Istituto superiore di Sanità sull’andamento dell’epidemia, e al livello di rischio di contagio, che la scorsa settimana in Lombardia era “basso”. Dovesse schizzare ad “alto”, se ne dovrà riparlare più avanti.

Nell’attesa il sindaco occupa lo spazio politico, nella regione dove Fontana pensa a un rimpasto da qui a un mese, mentre i 5Stelle con Dario Violi invocano le dimissioni dell’assessore al Welfare, Gallera. Ma prima c’è la partita della riapertura. Martedì a Milano c’era il ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, per incontrare Fontana e Sala. Ma nessuno ha promesso o preteso la riapertura. Tanto comanderanno sempre i numeri dall’Iss, che già stasera dovrebbero planare sui tavoli di governo, per poi essere valutati. Non sarà un passaggio burocratico. Soprattutto ora, con i governatori in trincea, perché l’esecutivo vorrebbe tenere le prossime Regionali il 20 e il 21 settembre, assieme alle Comunali e al referendum sul taglio dei parlamentari. Ma gran parte dei presidenti voleva e vuole le urne a luglio, o comunque prima del 20 settembre. E ieri sera lo hanno detto a voce molto alta in videoconferenza al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. “Ci siamo orientati per il 20, ma chi vuole può anticipare già ai primi di settembre con una legge regionale” ha rilanciato Lamorgese.

Però i presidenti hanno fatto muro: “Tra settembre e ottobre i contagi possono risalire”. E i toni sono saliti. “Così fate cadere il castello costituzionale della sovranità” ha sostenuto il governatore pugliese Michele Emiliano. “Mi fate decidere quando riaprire le discoteche e ora volete decidere voi quando si voterà?” ha protestato un altro dem, il governatore campano Vincenzo De Luca. “Siamo tutti uniti”, ha riassunto l’emiliano Stefano Bonaccini. E la richiesta al governo è di ritirare il decreto sulle elezioni (ieri approvato in commissione alla Camera), ottenendo una finestra elettorale “perché a votare a fine luglio si fa ancora in tempo”. Ma c’è un altro problema, quando fare le Comunali e il referendum. “Così potreste far saltare l’election day e i risparmi conseguenti” ha ammonito Lamorgese, che ha promesso: “Riferirò al presidente Conte”. Ma i cinque governatori uscenti, quelli di Campania, Puglia, Veneto, Liguria e Marche, hanno già scritto al presidente della Repubblica Mattarella: “Non si può giustificare la compressione dell’autonomia legislativa regionale e il diritto di voto degli elettori”. Ed è scontro, istituzionale.

“Riapro cinema e discoteche. Crisanti la smetta con la tv”

Celebrato come il nuovo Messia che trionfa su epidemie, sondaggi e avversari, Luca Zaia ha una sola richiesta: evitare paragoni con la Lombardia. “Sarebbe come discutere su come si pilota un aereo: dipende dalle turbolenze in volo”. E ha detto tutto.

Come la vive questa sorta di idolatria?

Da piccolo, l’aia dei miei nonni era strapiena di bambini, mia mamma ha 11 fratelli, mia nonna ne aveva adottati sei.

Una situazione un po’ da terroni, io glielo lo dico.

Ci sta, veniamo tutti dalla terra.

Che c’entra l’idolatria con la famiglia numerosa?

Mi ha insegnato a conoscere le dinamiche umane, i ritmi della vita. Sono stato allevato meno in cattività di qualcun altro.

E quindi?

Sallustio diceva che dopo la gloria arriva l’invidia. Penso al concetto del Sabato del villaggio: quando il consenso è così alto sei già alla domenica sera.

Chi la invidia?

Di spilli piantati sulla mia sagoma ce ne sono un bel po’.

Normale, è un uomo di potere.

Sono un uomo di responsabilità. La parola potere mi fa paura perché vivere per il potere è qualcosa di patologico.

Come sta il Veneto?

In salute. La sanità l’ho disegnata in questi 10 anni con molte riforme. I miei veneti, quando era off limit recarsi in un ambulatorio, non avevano bisogno di andare dal medico per la ricetta: te la trovavi sul pc.

La accusano di aver cercato di privatizzare la sanità.

Una boiata. Delle 464 terapie intensive che avevamo, solo il 5% era di privati. Siamo tra le regioni con meno privati in Italia. E non gli ho dato le cardiochirurgie, le grandi attività. Sono principalmente opere religiose, alcune più vecchie della sanità veneta, non gruppi quotati in Borsa.

Cappelletti del M5S dice che lei ha cancellato il 25% dei posti letto.

Dovrebbe studiare di più. Sono circondato da gente che studia sul Bignami e vuole fare lezione.

Quindi è falso?

Se fosse vero avrei avuto la rivoluzione. Qui il paziente viene curato meglio e la degenza dura meno che nel resto d’Italia. Ho messo la chirurgia robotica in tutte le sedi provinciali, investiamo 70 milioni l’anno in nuove tecnologie: qui si fa la sanità del futuro.

Sbaglio o la sanità l’appassiona più di altri temi?

Non voglio avere morti sulla coscienza. So cosa vuol dire mettersi in coda per una visita o chiamare il numero verde senza avere risposta. Provi a fare quello del Covid in Veneto e veda quanti squilli deve fare prima che rispondano.

Lei ha provato?

Nell’emergenza chiamavo con nomi di fantasia e, se gli operatori erano efficienti, richiamavo per complimentarmi. Qualcuno pensava a uno scherzo.

Un attimo di scoramento?

Il 27 marzo. Il peggior compleanno della mia vita. Il crash era vicino, contavamo i posti liberi in terapia intensiva sulle dita di una mano.

Se fossero finiti?

La tragedia della scelta. E non puoi morire perché la tua colpa è essere vecchio.

Ci siete andati vicino.

Non me lo sarei mai perdonato. Ho svuotato le sale operatorie dove c’era sempre un respiratore e le ho trasformate in terapie intensive. La ricerca dei respiratori è stata anche rocambolesca, ne abbiamo comprato un camion in Svizzera, per due settimane me lo rimandavano indietro, alla fine li ho portati a casa.

Ha detto che il virus potrebbe essere artificiale…

La comunità scientifica nel 2014 ha fatto la lista dei virus che non si possono più manipolare, ed esclude i Coronavirus.

Vuole scatenare un altro caso diplomatico? La frase sui cinesi mangia topi è ancora nell’aria.

Un’uscita disordinata e frettolosa. Non mi giustifico. Però c’è voluta una legge, in Cina, per vietare il consumo degli animali selvatici.

Qualche veneto le ha fatto notare che i topi si mangiavano anche da voi?

Ho visto foto storiche di topi essiccati. Il problema non è la proteina che scegli, ma il tema di sanità. Noi mangiamo le schie, le moeche.

Cosa sono le moeche?

I granchi quando ancora non hanno il guscio.

Ha detto che dal 1° giugno le Rsa riapriranno: come?

Abbiamo 300 case di riposo, con 30mila ospiti. Il 75% delle Rsa è rimasto a contagi 0. Gli ospiti positivi sono stati il 6%, i dipendenti il 3%. Numeri straordinari. Poi certo, in una ventina di Rsa il virus è entrato ed è stata strage.

Ma come riaprite?

Per i nuovi ospiti c’è il tampone, l’isolamento per 14 giorni, poi un secondo tampone. Se è negativo, l’ospite entra. I visitatori accederanno con mascherina, qualche struttura avrà separé in plexiglass e test rapido sierologico.

Come vanno i tamponi?

Oggi abbiamo l’1 per mille di positività: se andiamo in una sagra con mille persone, ci sono 1-2 contagiati al massimo.

L’ha spiegata meglio di Gallera.

(ride) Sì. È l’R0 delle costicine e della polenta.

Se un suo assessore l’avesse spiegato come Gallera l’indice di contagio, lei che avrebbe detto?

Diciamo che lui ha tentato di semplificare, forse un po’ troppo.

Della plasmaterapia che mi dice?

Ho scritto a 4mila pazienti guariti per chiedere di donare. Hanno aderito tutti. Qui uno su 5 fa volontariato, siamo i primi per donazioni di sangue.

Parliamo del caso Crisanti: spiace vedervi in conflitto.

Lui è uno scienziato di altissimo livello, gli abbiamo affidato il più grande laboratorio italiano di microbiologia. Si occupa della fase di analisi.

Quindi non deve uscire dal suo ruolo?

Ognuno deve fare il suo mestiere.

Ha sconfinato?

Io ho la dottoressa Russo, capo della prevenzione: non fa analisi, ma ha ideato una strategia depositata l’11 febbraio.

I reagenti però li ha comprati Crisanti.

Spettava a lui, ha il laboratorio in mano. È stato bravo in una cosa.

Quale?

Mi ha detto: ‘Presidente, ci serve questa macchina per processare i tamponi (7mila al giorno ndr), me la compra?’. Io gliel’ho presa, siamo i soli in Italia ad averla.

Costo?

250mila euro.

I tamponi sugli asintomatici però Mantoan non glieli voleva far fare.

Mantoan gli ha scritto che quelle non erano le linee guida nazionali. Lui ha risposto con una lettera, in cui ritrattava le sue richieste: Crisanti questo non lo dice mai.

E Vo’?

Lui mi ha chiamato, io non lo conoscevo: ‘Mi finanzia il secondo giro di tamponi a Vo’?’. Certo. Altri 150mila euro.

Quindi basta titoli su questa vicenda?

Col mio nome il titolo viene meglio, non perché sia un figo, ma perché sono quattro lettere.

In tv va poco.

Non me ne frega nulla, solo interviste di qualità. Crisanti dovrebbe selezionare di più, per me.

Sui social non concede nulla del suo privato.

Alla fine non paga. Se penso a un grande chirurgo, me lo devo immaginare con le mani sporche di sangue mentre opera. C’è una sacralità nella mia vita privata, mi sento già oggetto di attenzione, non metto altra carne al fuoco.

Lei era pr in discoteca: dicono che inventò i volantini.

Vero. Anche gli inviti in discoteca. Mi sono laureato con i soldi guadagnati in discoteca.

Quindi ha empatia per i ragazzi che escono la sera…

Certo. E la vita notturna, le discoteche per noi veneti sono fondamentali per l’economia. Conto di riaprirle il 15 giugno.

Le discoteche? È sicuro?

Ho aperto le spiagge il 18 e ho avuto ragione. Se gli indicatori sono buoni, a giugno apro cinema, teatri, tutto il circuito spettacoli.

La domanda su Salvini è inevitabile: i sondaggi crescono per lei e si sgonfiano per lui. Si sente un problema?

Io sono affidabile e rispetto le gerarchie. I sondaggi sono condizionati dalla vicenda Covid. Non crederà mica che Conte abbia davvero tutto quel consenso?

Quindi?

Quindi Salvini può stare tranquillo.

Al Paese e all’ambiente non servono grandi opere

Il concetto di crescita economica continua erroneamente a identificarsi con grandi cantieri, grandi appalti, grandi opere. Per “sbloccare” le quali oggi si tolgono vincoli, si agevolano assegnazioni, si limitano i controlli. E si eliminano le già poco ascoltate valutazioni costi-benefici. Nel senso che i benefici ci sono sempre per chi progetta e realizza, ma non per la collettività, che si sobbarca i costi, sia economici, sia quelli – ben più gravi – ambientali. Una delle principali conseguenze delle grandi opere è il consumo irreversibile di suolo.

Il rapporto Ispra sul consumo di suolo certifica che ormai quasi l’8 per cento del Paese è sigillato sotto uno strato di cemento o asfalto. Parliamo di circa ventiquattromila chilometri quadrati, l’equivalente di un’Emilia-Romagna pavimentata per sempre. Parliamo di terreni fertilissimi sottratti all’agricoltura, di mancata infiltrazione delle acque in falda e maggior rischio alluvionale, mancata fotosintesi e cattura di CO2, perdita di bio diversità e peggioramento della qualità ambientale e paesaggistica. Un guadagno immediato per pochi e un guasto senza possibilità di riparazione per i millenni a venire.

L’arresto del consumo di suolo dovrebbe essere dunque una priorità politica nazionale e i cittadini dovrebbero sempre più rifiutare la nuova infrastrutturazione del territorio, che più che di aggiunte, avrebbe molto bisogno di manutenzione. Ed è questa la chiave per il mantenimento dei settori edilizio, viario e ferroviario, idrogeologico, e acquedottistico, che possono prosperare con interventi continui locali e capillari invece che con un insostenibile gigantismo cementizio, tuttavia assai gradito dalla lobby del betoncar per la facilità di incanalare in percorsi predefiniti i grandi flussi di denaro. Il recente Ecobonus portato al 110 per cento è una buona operazione per migliorare il patrimonio edilizio esistente invece di fabbricarne di nuovo, ma dovrebbe avere dall’altra parte la garanzia di uno stop all’aggressione dei beni comuni su grande scala, il che sarebbe possibile non agevolando bensì limitando i grandi cantieri e arrivando alla legge contro l’ulteriore consumo di suolo. Produzione di cemento e grandi cantieri sono tra l’altro un’importante fonte di emissioni di CO2 e quindi innetto contrasto con gli obiettivi di riduzione a breve termine imposti dall’Accordo di Parigi sul clima. Perché continuare dunque a sostenerli?

Ovviamente una seria valutazione costi-benefici, sia economica sia ambientale permetterebbe di discernere quali delle poche grandi opere siano effettivamente utili e strategiche: non certo quelle sulla viabilità, aeroporti inclusi, in un mondo che dovrebbe viaggiare meno e utilizzare sempre più il telelavoro e l’economia circolare. Fa eccezione la mobilità urbana, laddove il trasporto pubblico possa influire positivamente su grandi numeri, come una linea di metropolitana in più in certe città. Possono essere strategiche alcune opere legate all’approvvigionamento idrico, come invasi e canali, in vista dicambiamenti climatici che renderanno ancora più preziosa l’acqua, e gli impianti di depurazione. Ma su tutto il resto si può e si deve discutere prima di dare il via libera alle ruspe. Anche perché il suolo e il paesaggio non sono rinnovabili e una volta distrutti nessuno ce li ridarà più indietro. Indigniamoci di fronte a questo saccheggio, ricordando che ogni metro quadrato di suolo perduto – e in Italia ciò avviene al tasso di due metri quadri al secondo – è un danno irreparabile per noi e per le generazioni future. È possibile lavorare e migliorare la società anche senza depredare il territorio, che – ricordiamolo ancora una volta – non è infinito.

Ci risiamo: vanno salvIati i colossi del cemento

Per un lobbista l’importante è saper dare i numeri meglio dei politici. E gli appassionati del partito del cemento devono dire grazie al Covid-19 per le prestazioni smaglianti dei nostri campioni. Pietro Salini, re dei costruttori italiani, è il capo e il maestro. Il 5 maggio, intervistato da un giornalista di Repubblica estasiato, sfodera un piano Marshall per le infrastrutture da 100 miliardi, dotato di un moltiplicatore 5. Cioè, lo Stato mi dà 100 miliardi di appalti i quali, keynesianamente, si tradurranno in 500 miliardi di Pil, quindi di ricchezza prodotta (il moltiplicatore come argomento è efficace: il muratore andrà in pizzeria, il pizzaiolo comprerà la lavatrice, metti lì 100 miliardi e l’economia gira per 500).

I numeri tondi però puzzano di imbroglio. Per esempio il viceministro delle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri, vecchio militante grillino ora convertito alla religione del cemento insieme all’ex capo politico Luigi Di Maio, da mesi dice che ci sono opere da fare per 109 miliardi. La cifra non tonda fa tutto un altro effetto. Così Salini il 20 maggio si rivolge al Sole 24 Ore che lo massacra di domande scomode tipo “cosa intende?”, giusto per spezzare il monologo. Imparata la lezione Salini dice che i miliardi sono 103. E il moltiplicatore non è più quel rotondo e fantasioso 5 ma un intrigante 3,12 che porta quei 103 miliardi a generare ricchezza per 322 miliardi, non uno di più, non uno di meno. Accanto a tanta precisione un dato. Nel 2019 la Salini Impregilo, oggi Webuild, ha fatturato 5 miliardi e pagato salari a impiegati e operai per poco più di 600 milioni: complimenti per il moltiplicatore. La saga dei numeri dimostra che il dibattito sulla terapia a base di cemento per risollevare l’economia italiana è finto. Sennò non si spiega perché le “opere-già-finanziate-solo-da-sbloccare” valgono 15 o 20 miliardi a seconda dei giorni per la ministra Paola De Micheli e 120 miliardi per la renziana Raffaella Paita. Quando l’ex ministro delle Infrastrutture ex renziano Graziano Delrio dice “ci sono 20 miliardi per opere cantierabili che si possono far ripartire subito”, per esempio, uno pensa che sia d’accordo con De Micheli, invece scopre che l’ha detto cinque anni fa.

Il più grande vince agli altri le briciole

L’unica cosa certa è che la lobby dei costruttori è scatenata e avendo a che fare con politici di grana grossa tende a raggirarli. Il padre di Salini, per dire, con i politici faceva grandi accordi: l’Italia spendeva molti soldi per la cooperazione internazionale, soprattutto verso i Paesi africani, e lui andava a fare i lavori. Adesso basta far intravedere al ministro la possibilità di un’intervista con foto grande. Poi non succede niente. O meglio, accade altro: i grandi costruttori italiani ridotti praticamente a uno, Salini. Con la sua Webuild e con i capitali (pubblici) della Cassa Depositi e Prestiti e delle due maggiori banche italiane (Intesa Sanpaolo e Unicredit) sta realizzando il sogno di ogni imprenditore, essere il re della foresta. L’unico che gli si oppone, con voce sempre più flebile, è il ragionier Gabriele Buia, presidente dell’Ance, ciò che resta della un tempo gloriosa associazione dei costruttori. Ha capito che per i suoi 20 mila associati rimarranno le briciole. E che le distribuirà Salini.

Negli anni 80 il sovrano del mercato era Ettore Bernabei con la sua Italstat, società Iri che con apposita legge aveva di fatto sostituito il ministero dei Lavori pubblici nella distribuzione degli appalti. Attraverso un sistema di gare sostanzialmente finte assicurava la spartizione dei lavori tra le società pubbliche, le private e le Coop. Questo delicato equilibrio viene rotto dai privati più forti (Fiat, Lodigiani etc.) che riescono grazie agli andreottiani a far fuori Bernabei e a prendersi il banco. Ma subito dopo finiscono tutti in galera per l’inchiesta Mani Pulite. Una catastrofe: non sapendo come si compete su un mercato normale ma solo pagare i politici in un mercato governato dall’alto, i costruttori vanno in malora. Si salvano solo quelli che si attaccano alla grande tetta dell’alta velocità, operazione illegale ma salvata, per carità di patria, dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e dal presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi. Fare i binari d’oro sarebbe costato meno, ma così si tiene in piedi il settore nei difficili anni 90. Nel 2001 Berlusconi restaura il governo del mercato degli appalti. Lo fa con la legge Obiettivo sotto la regia di Ercole Incalza, regista dell’alta velocità dieci anni prima e miglior conoscitore (allora come oggi) del funzionamento perverso del sistema.

L’esercito dei commissari senza bandi pubblici

La politica è garante di una equa distribuzione degli appalti tra i membri di un club esclusivo: chi è fuori non lavora. Soprattutto non lavorano le ditte straniere che magari farebbero le stesse opere meglio e a costi più bassi (e con manodopera italiana, ovviamente) ma sarebbe tutto a vantaggio dei contribuenti e non dei signori costruttori che devono pur sempre comprarsi lo yacht. Il giocattolo non ha mai funzionato benissimo ma ha avuto il definitivo collasso con la crisi economica del 2011-12. Lì comincia la litania delle grandi opere per rilanciare l’economia e dei cantieri già tutti finanziati da sbloccare, i soldi ci sono, e che ci vorrà mai. Naturalmente si fa poco e le aziende soffrono. Saltano grandi nomi come Astaldi e Condotte, saltano varie coop ex rosse di gran nome per le quali però l’homo renzianus non si commuove, mentre si emoziona per le richieste di risarcimento di Salini per il ponte sullo Stretto che non ha mai costruito. Il gigante Salini-Impregilo-Webuild viene dunque soccorso dalla politica e ricapitalizzato per salvare Condotte Astaldi e chissà chi altro. È in questo quadro che si sviluppa la folle discussione sul “modello Genova”: come per la ricostruzione del ponte Morandi, tutte le opere per rilanciare l’economia (15, 20, 100, 103, 109 o 120 miliardi, fate voi) verranno affidate senza gara, per fare alla svelta, da un piccolo esercito di commissari all’uopo nominati: scorrerà il sangue. Dicono che un eccesso di regole blocca il sistema. “Semmai è stato l’eccesso di corruzione”, replica Delrio che non essendo più ministro ritrova il coraggio. Il sistema senza gare riprodurrà dopo 30 anni il modello Italstat, un peculiare socialismo reale in cui sarà il governo a gestire gli equilibri del mercato affidando i lavori con criteri di spartizione opachi. Per la lobby del cemento sarà sicuramente un trionfo. Per l’Italia forse no.

Palazzo Chigi soddisfatto: “Ora un accordo in fretta”

Da qui al Consiglio europeo (il 19 giugno, ma potrebbe servirne uno supplementare), il negoziato continuerà serratissimo. Questa è la consapevolezza principale – insieme alla soddisfazione per la proposta di Ursula von Der Leyen – a Palazzo Chigi. Perché le cifre contenute nella proposta della Commissione europea per il “Next Generation Fund” (500 miliardi in trasferimenti, 250 in prestiti, 173 complessivi all’Italia, che è in cima ai paesi nella ripartizione) appaiono più che soddisfacenti. Anche se dietro l’angolo c’è il primo scoglio: i soldi – visto che sono legati al bilancio europeo – non arriveranno prima del primo gennaio 2021. E fino a quel momento (stando alla proposta attuale) l’Italia potrà contare su non più di 2 miliardi. In questi mesi, insomma, potrebbe ripartire lo scontro sul Mes: il Pd resta convinto che ne vada fatta richiesta, M5s è contrario. Ma da qui alla chiusura di questa vicenda (dopo il Consiglio, ci sarà un voto del Parlamento europeo, ipotizzabile a settembre), i Dem non hanno intenzione di aprire il fronte.

Intanto ieri è Paolo Gentiloni, Commissario agli Affari economici ad annunciare: “La Commissione propone un Fondo di Recovery da 750 miliardi che si aggiunge agli strumenti comuni già varati. Una svolta europea per fronteggiare una crisi senza precedenti”. Il premier Giuseppe Conte dà la linea: “Ottimo segnale da Bruxelles, va esattamente nella direzione indicata dall’Italia. Ora acceleriamo sul negoziato per liberare le risorse presto. Che le capitali europee lo assecondino”.

Hanno pesato il pressing di Conte sulla von Der Leyen per esortarla a fare la proposta più ambiziosa e i buoni rapporti con la Germania: è stata Angela Merkel ad aprire la strada a questa proposta, consapevole anche dell’importanza dell’Italia per il mercato unico europeo. Ma a Palazzo Chigi sanno bene che ora il tentativo collettivo (prima di tutto dei Paesi cosiddetti “frugali”) sarà quello di abbassare la cifra destinata all’Italia. E dunque, il negoziato sul Recovery Fund si intreccerà con quello sul bilancio europeo. L’Italia può mettere sul piatto la propria flessibilità sul bilancio, in cambio di un Recovery soddisfacente. Conte ieri ha annunciato un piano di riforme strutturali che vanno nella direzione di quelle necessarie a spendere i soldi. Da Roberto Gualtieri (Mef) a Enzo Amendola (Affari europei) a David Sassoli (presidente del Parlamento europeo), in prima linea nel dossier, tutti ne sottolineano la priorità.

Anche dai Cinque Stelle arriva soddisfazione. Vito Crimi mette un accento particolare, sulla riforma fiscale. Che sia in arrivo una lotta sull’utilizzo dei soldi è più di un sospetto. Ma non ora. Fabio Massimo Castaldo (vice presidente Pe) ammette: “Avremmo voluto almeno 1000 miliardi ma siamo abbastanza soddisfatti. Adesso tutte le nostre energie andranno nel negoziato”.

Il Mes in un angolo: ci sono gli eurobond, ma si tratta ancora

Fermo restando che la soluzione ideale per affrontare una crisi come quella provocata dal Coronavirus, e in generale per garantire un effettivo intervento pubblico, è quella che passa per la Banca centrale e per la monetizzazione del debito, la proposta della Commissione sul Recovery fund per l’Italia è una boccata di ossigeno.

Il primo effetto, infatti, è quello di rendere ormai stucchevole il dibattito sul Mes, il Meccanismo europeo di stabilità che secondo la stragrande maggioranza dei commentatori politici dovrebbe essere richiesto senza esitare, quasi fosse formato da soldi regalati. E invece con uno stanziamento di 82 miliardi a fondo perduto e 91 miliardi di prestiti sia pure condizionati, non si capisce perché l’Italia dovrebbe mettersi dietro a una fila, che peraltro non esiste, per portare a casa i 36 miliardi previsti dal Mes. Questo può finire in soffitta per un certo periodo di tempo.

La seconda novità è che l’Unione europea ha rotto il tabù degli eurobond. Il Recovery fund andrà a finanziarsi sui mercati per 750 miliardi di euro, una cifra pari al 75% dell’intero bilancio europeo. Solo qualche mese fa era una eventualità assurda per i più e invece il tema è stato sdoganato.

I fondi andranno utilizzati per programmi sanitari, investimenti digitali ed economia “verde”, ma questi dettagli saranno svelati in seguito e, quando si tratta di Ue, è bene sempre leggere i dettagli perché nascondono le trappole più infide. Così come andrà studiata meglio la procedura di rientro di questi debiti contratti comunemente dalla Ue. Garantiti dal bilancio comunitario, è chiaro che la loro restituzione dovrà pesare sui contributi diretti dei singoli Stati, come spieghiamo nell’articolo a fianco, ma si tratta di un rimborso che può spalmarsi su decenni e addirittura si parla anche di prevedere una tassazione europea ad hoc. Si vedrà. A oggi si tratta solo di una proposta della Commissione che dovrà poi essere portata al tavolo del Consiglio europeo, cioè il vertice dei capi di Stato e di governo, vero organo decisionale dell’Europa ancora inter-nazionale. E il 18 giugno, data del vertice, non sarà nemmeno quella definitiva. I fondi, nella migliore delle ipotesi, quindi, saranno utilizzabili a partire dal gennaio 2021 a meno di individuare delle misure ponte. Insomma, per Conte e ministri vari c’è ancora molto da fare e da trattare. E c’è da contrastare l’opposizione pervicace dei Paesi del Nord, a cominciare da Olanda e Austria che non staranno certamente con le mani in mano.

Il punto è che se si è arrivati fin qui è perché il duo franco-tedesco ha deciso che con i Paesi del Sud non si può andare avanti a colpi di machete. Non si tratta di un ravvedimento operoso né di generosità a buon mercato: l’Unione europea sta affrontando una sfida geopolitica molto complessa e una difficoltà importante della sua principale economia, quella tedesca. Il mercato italiano, o spagnolo, costituiscono dei beni essenziali da salvaguardare così come non si può far finta di niente rispetto alla possibile deflagrazione del debito pubblico del nostro Paese. Se finora si sono fatti dei passi in avanti rispetto alla situazione iniziale – ricordiamo ancora la dichiarazione di Christine Lagarde, sotto dettatura tedesca, che la Bce “non è qui per chiudere gli spread” – è bene tenere conto di questi dati fondamentali. Non è questione del “genio” di Paolo Gentiloni, come dice Carlo Calenda, o di chissà quale asse di ferro con Ursula von der Leyen, ma si tratta di un orientamento di fondo, conservativo e cautelativo, che si è data la Ue.

Il sostanziale silenzio di Matteo Salvini dice che un certo tipo di propaganda, almeno fino a oggi, è stata spuntata, e anche nelle dichiarazioni di un “sovranista” di sinistra come Stefano Fassina, che parla di “passo utile” anche se non rinuncia a ribadire la centralità della Bce, si coglie il senso di quanto avvenuto ieri.

Dopodiché, ricordiamolo, la trattativa è solo agli inizi. Il rischio che la proposta della Commissione sia solo uno dei versanti di una mediazione a venire è ancora molto alto. Quindi, più che cantar vittoria, occorre continuare a lavorare.

Ecco (per ora) il Recovery Plan: all’Italia 82 miliardi, 60 da ridare

Alla fine è andata come si prevedeva, la brutta notizia semmai è che potrebbe andare peggio. Parliamo del Recovery Fund europeo: ieri è stata infatti presentata la proposta della Commissione Ue che andrà però discussa e approvata dai governi (Olanda e Austria, per dire, hanno già detto no). Partiamo dalla cifra totale: accanto al normale budget Ue (circa 1.100 miliardi di euro in 7 anni) ci saranno non 1.500 miliardi, la proposta spagnola, ma 750 tra 2021 e 2024. Si tratta di 500 miliardi di trasferimenti e il resto di prestiti, tutti, fino all’ultimo centesimo, sottoposti alle condizioni (quali riforme, quali settori, quali investimenti) che Bruxelles detterà a chi li prende.

Va comunque segnalato che è la prima volta, e ci è voluta una recessione mai vista in tempo di pace e che richiederebbe ben altre risposte, che l’Unione europea si dispone a emettere debito comune in quantità ragguardevoli per aumentare la capacità di spesa centrale.

Veniamo al vil denaro. Il progetto della Commissione prevede che il debito emesso andrà ripagato – in un arco di tempo da definire che va dal 2028 al 2058 – pro quota rispetto al peso nell’economia dell’Unione. I 500 miliardi di trasferimenti diretti hanno il vantaggio di non finire subito nella contabilità pubblica, quindi di non appesantire il rapporto debito-Pil: l’Italia dovrà comunque restituire la sua quota che su quei 500 miliardi è di circa 64 (più o meno il 13% dell’Ue secondo le ipotesi tecniche della Commissione, ma il conto potrebbe essere più salato perché va definito chi e in che proporzione si caricherà l’uscita della Gran Bretagna).

Chiarito questo, parliamo di cosa dovrebbe arrivare in Italia: secondo indiscrezioni arrivate ieri da Bruxelles, si tratta di quasi 82 miliardi di trasferimenti (dai 100 ipotizzati inizialmente dalla stessa Commissione) ovvero neanche 20 di trasferimenti netti in quattro anni. Poi ci sono altri 91 miliardi sotto forma di prestiti seppur a tassi agevolati (ma non è detto che vengano richiesti tutti). E dunque, si tratta di un primo passo, ma non siamo di fronte a un cambio di paradigma se non a livello simbolico.

Come arriveranno questi soldi nei vari territori? Di fatto si tratta di una estensione del bilancio dell’Ue, quello ad esempio dei sussidi all’agricoltura o, poniamo, dei fondi di coesione: finora, ed è una difficoltà da tener presente, come Paese non siamo stati bravissimi a spendere quei soldi.

Futuribile, poi, una proposta laterale della Commissione: quella di finanziare parte dell’operazione con imposizioni di tasse “europee”. Tra le ipotesi citate ci sono una tassa sulla plastica o sulle imprese inquinanti, come pure la sempre rinviata “web tax” sulle multinazionali del digitale.

Detto questo, il lettore deve tenere a mente che al momento discutiamo di una proposta che sarà probabilmente modificata nei mesi seguenti. Come detto, infatti, i quattro Paesi detti “frugali” hanno già sollevato – ognuno a modo suo – più di una perplessità sul documento della Commissione Ue, che – come previsto – si è posizionata nell’ordine di grandezza e nelle categorie tecniche di intervento indicati dall’intesa tra Francia e Germania una settimana fa.

Per capirci su quali saranno i temi di discussione, partiamo da Sebastian Kurz: per il cancelliere austriaco, questo è un “punto di partenza” nella ricerca europea di una risposta alla crisi e l’equilibrio “tra “prestiti e sussidi necessita di dibattito”. Il governo svedese non fa neanche finta di discutere: “La proposta della Commissione non è accettabile: l’azione europea deve essere basata sui prestiti e non sui trasferimenti”.

Vi risparmiamo gli altri, ma la questione è tutta qui: i Paesi del Nord si batteranno per diminuire la quota di sussidi (i maggiori beneficiari, secondo le indiscrezioni, sarebbero Italia e Spagna) cambiando ulteriormente di segno al Fondo per la Ripresa: da un segnale di buona volontà com’è oggi a un’iniziativa senza peso. Un primo accordo potrebbe arrivare a luglio, ma non è detto si vada così veloci: fortuna che a breve la Bce annuncerà l’estensione dei suoi acquisti di titoli sui mercati. Un bell’assist per l’Italia e per Conte: finché la Bce è in campo il Mes resta in panchina.