Il ritorno dello Gedi

Da qualche settimana mi svegliavo la mattina con uno strano senso di vuoto. Come se mi mancasse qualcosa e non sapessi che cosa. Poi ieri ho letto Repubblica e ho capito: le fake news russe. E, già che ci siamo, pure cinesi. Ecco cos’era quella sgradevole sensazione: “Da Russia e Cina fake news contro l’Italia. È una guerra fredda”. E chi lo dice? Il Copasir, che dovrebbe controllare i servizi segreti, ma s’è preso una vacanza e ora indaga – insieme a un’ottantina di task force italiane ed europee – sulle fake news d’importazione (missione senz’altro più agevole che indagare su quelle italiane). E ha partorito un “report” di notevole “portata” “di cui Repubblica è venuta in possesso”. E, siccome a caval donato non si guarda in bocca, è passata sopra al dettaglio che il presidente del Copasir è il leghista Raffaele Volpi, detto The Fox, compare di partito di quelli che andavano e venivano dall’hotel Metropol di Mosca a trattare tangenti sui carburanti. Gente che di Russia se ne intende. Infatti il quotidiano di Sambuca Molinari smaschera “Sputnik, ma anche Russia Today” come “fonti esposte della disinformatia russa, fabbricanti di narrative artefatte”. E Repubblica se ne intende anche più di Volpi e del Copasir, visto che dal 2010 al 2015 allegava come suo inserto settimanale Russia Oggi, a cura del Cremlino di Putin. E ora scopre, grazie a una “chiosa” di Volpi, che Russia Today e Sputnik “tendono a fomentare polemiche contro l’Ue e i Paesi dell’Alleanza euro-atlantica” (mai esistita, ma fa niente).

L’allerta, come si può immaginare, è ai massimi livelli. “Senza alcuna pietà per le migliaia di morti che si accumulavano negli obitori italiani”, “la fucina della disinformazione russo-cinese ha continuato a sfornare centinaia di fake news” per “condizionare l’opinione pubblica italiana” e “indebolire il fronte delle democrazie occidentali nello scacchiere geopolitico mondiale”. Mica pizza e fichi. Ma anche per “delegittimare un competitor come gli Stati Uniti” (casomai a delegittimarlo non bastassero le cazzate fatte e dette da Trump). Stiamo parlando della “nuova frontiera della Guerra Fredda del terzo millennio”, “luogo di intersezione tra le maggiori potenze globali” e pensate un po’: “il Coronavirus è il palcoscenico perfetto che i regimi autocratici stavano aspettando”. Corbezzoli. In tre mesi Mosca e Pechino ci hanno trasformati in 60 milioni di agenti putiniani e di guardie rosse xijinpinghiane con la sola forza del pensiero, a colpi di “decine di profili fasulli”, “account anonimi” e “un esercito di troll”, senza dimenticare “le famigerate botnet” che, qualunque cosa siano, non hanno bisogno di presentazioni.

Gli esempi delle fake news che ci hanno russocinesizzati in blocco fanno accapponare la pelle. 1) Il video con “una voce da un balcone” che urla “Grazie Cina!”, mentre “anziani commossi e famiglie si abbracciano e applaudono per le mascherine e gli aiuti ricevuti”: terribile. 2) “La notizia falsa che i nostri servizi fossero a conoscenza del virus già nel novembre 2016 e avessero taciuto… rimasta sul sito di Rainews per mezza giornata”, addirittura (cioè più segreta dei servizi segreti): agghiacciante. 3) “13 articoli apparsi sul sito Sputnik” sul “virus creato in un laboratorio americano in Ucraina” e su “Bill Gates finanziatore del virus” (evidentemente ha un conto in banca pure il Covid-19): mostruosi. 4) Altri “due articoli dal contenuto discutibile”: da non dormirci la notte. 5) “Casi apparentemente ‘autoctoni’, ma di cui non è ancora chiara l’origine”, tipo “il gruppo pubblico su Facebook i cui iscritti, facendo leva sulla difficoltà economica di cui soffre la popolazione della Puglia, inneggiano alla rivoluzione, al disordine sociale, contro il governo italiano”: la famosa insurrezione del Tavoliere e della Capitanata, da pelle d’oca. Ma anche “il gruppo privato ‘Rivoluzione Nazionale’ che incoraggia i raid ai danni di supermercati nel palermitano”: da barricarsi in casa.

Noi per la verità ci eravamo fatti l’idea che a soffiare sul fuoco delle sommosse e degli assalti ai supermercati fosse La Stampa, italianissima cugina di Repubblica, con titoli rasserenanti come “Rivolte al Sud: a Palermo prime razzie alimentari” (18 marzo), “Il Nord a rischio di tensioni sociali” (12 maggio), che sarebbero parsi un po’ eccessivi persino a Maria Giovanna Maglie. Ma si sa che questi troll russo-cinesi si annidano dappertutto, anche tra gli intrepidi cavalieri Gedi. Ieri, per dire, mentre l’annuncio della Von der Leyen sul Recovery Fund spazzava via tutte le panzane sul nostro governo perdente in Europa e condannato a chiedere l’elemosina al Mes, ci siamo abbeverati alla fonte purissima dei nemici delle fake news: Repubblica. E abbiamo scoperto, dal nostro idolo Stefano Folli, che Conte è “imbarazzato” perché i renziani hanno salvato Salvini e dimostrato che sul blocco della Open Arms il premier “non poteva non essere informato e quindi era consenziente, dal momento che Salvini, nei giorni della Open Arms, non è stato smentito da Palazzo Chigi”. In realtà Conte lo smentì con una lettera ufficiale lunga due metri e pubblicata anche su Facebook il 15 agosto 2019. Ma queste son cose note ai giornalisti, dunque non a Folli. Resta solo da appurare (magari dal Copasir) se le sue fake news arrivino dalla Russia, o dalla Cina, o siano produzione propria.

La baronessa Frieda, la reale storia (erotica) di “Lady Chatterley” con David Lawrence

Nottingham, 1912. È primavera: in un anfratto ombroso del bosco attorno la fumosa città industriale, due ragazzi hanno da poco fatto l’amore e si rotolano nudi sul prato madido di rugiada. Lui incastona delle viole del pensiero tra i peli pubici di lei. “Sto facendo un arazzo floreale!” dice, e scoppiano a ridere. Lui è un appena ventenne David Herbert Lawrence e lei, più grande di dodici anni, è la baronessa tedesca Frieda von Richthofen, sposata con il professor Ernest Weekley e madre di tre bambini. Lawrence ancora non lo sospetta, ma si trova di fronte alla donna che rivoluzionerà la sua vita, la sua carriera di scrittore, nonché la letteratura del Novecento. Come racconta la scrittrice inglese Annabel Abbs nell’affabulante Frieda (Einaudi), dopo due mesi dal loro incontro, la donna scappa con il giovane David verso la Monaco di inizio ’900 (quella dei fratelli Weber, del dottor Otto Gross) dove sta nascendo il “movimento erotico” per la liberazione del corpo. La loro è una coppia bohémienne: vivono in grandi case ospiti di amici ricchi, soprattutto in Italia tra la Lombardia e la Toscana, viaggiano in tutto il mondo (Messico, Australia, Stati Uniti), litigano furiosamente e poi fanno la pace. Intanto, Frieda divorzia dal primo marito e sposa David.

È lei la Lady Chatterley dell’eponimo romanzo, il più celebre e contestato di Lawrence, ma non è solo questo. Senza Frieda non ci sarebbe stato proprio nessun Lawrence scrittore, che invece è stato così influenzato dalla sua presenza da scolpire un modello di libertà femminile (che si specchia in Ursula Brangwen di Donne innamorate, Kate Leslie di Serpente piumato e molte altre) capace di rivoluzionare il clima morale del suo tempo. Eh già, perché se c’è un’esistenza volta a vendicare la cagione di tutte le muse, questa è la vita di Frieda. Omero aveva avvisato tutti già nel Proemio dell’Iliade, quando nell’invocatio a Calliope scriveva: “Cantami, o Diva, del Pelìde Achille/ l’ira funesta”. Nell’antica Grecia le muse erano fondamentali, l’unico tramite per la creazione, la forza attiva del loro lavoro e da esse gli artisti desideravano ricevere l’ispirazione e la grazia. Poi con Virgilio – che nell’Eneide scrive “Canto le armi e l’eroe” – la musa scompare, per riapparire, depotenziata alla stregua di un’immobile icona, sotto forma di fragile madonna cortese. E a ben pensarci, anche Beatrice, Laura e Fiammetta appaiono piuttosto passive rispetto all’atto della creazione. Frieda le vendica tutte poiché ebbe un ruolo centrale anche nella scrittura, nella revisione e nella scelta dei titoli dei romanzi di Lawrence (Figli e amanti, L’arcobaleno, Donne innamorate e, ovviamente, L’amante di Lady Chatterley) senza smettere mai la sua esistenza anticonformista: vedova di Lawrence, sposò un militare italiano più giovane di lei, continuando a collezionare amori e amanti.

Netflix e le sue sorelle: le piattaforme dominano

Dimmi che piattaforma vedi e ti dirò chi sei. Potremmo arrivare a questo, anzi forse ci siamo già. Perché in tempi da Covid sembrano proprio loro – le piattaforme per le visioni in streaming – le vere trionfatrici, un exploit senza precedenti che oggi stanno transitando dalla categoria “emergenziale” a quella del “mai più senza”, anche per il cinema.

La sensazione è infatti che non ne usciremo, o meglio, qualora lo faremo per entrare in una sala cinematografica auspicabilmente aperta (dal 15.6) non sarà più come prima. I luoghi della fruizione online si sono imposti come la normalità, almeno quanto lo smart working. In altre parole: l’invasione degli ultracorpi formato piattaforma è appena cominciata.

Ne avevamo già parlato un paio di mesi fa, sottolineando quanto le già esistenti (a pagamento) avessero incentivato l’offerta, coadiuvando quell’#iorestoacasa. La veterana Netflix e le sue sorelle (Amazon Prime, Chili, Rakuten Tv, Apple Tv, Google Play, Timvision) hanno sfoderato l’argenteria d’occasione, ma forse non s’aspettavano l’insorgere di tanta concorrenza, anche gratuita, in taluni casi perfino migliore. Alle rarità cinefile proposte dalle Cineteche (milanese, bolognese, ma anche dell’Istituto Luce) si sono affiancate quelle formato family del gigante Disney (Disneyplus) che a metà marzo segnava già un boom d’iscrizioni nutrito da spot pubblicitari strappalacrime. Anche la ben nota Rai Play ha fatto la sua parte, diventando di recente cassa di risonanza “in esclusiva” per alcuni film Rai Cinema che la chiusura delle sale cinematografiche aveva costretto a latitanza o a un’uscita fantasma. Ma non solo. Che dire della piattaforma di cinéphilia radicale Spamflix che, ispirandosi di titolo e d’ironia ai Monty Python (#staythefuckhome), propongono in pay per view opere introvabili se non ai festival. E non è da trascurare neppure la “partecipata” Open DDB che – adottando il principio del creative commons – raccoglie altrettanto introvabili con lo spirito del social-collettivo.

Ma la vera novità – e sacrosanta per salvare il cine-mercato nel Belpaese – arriva dalle stesse sale cinematografiche. Perché ormai #iorestoacasa sta mutando in #iorestoinsala. E il passaggio non è solo il titolo/slogan di una nuovissima iniziativa voluta proprio da 71 esercenti con alcuni distributori cinematografici, ma rivela un concetto importante: anche post riapertura “fisica” i loro spazi continueranno nell’universo digitale, con quelle sale virtuali divenute ibridazione tra lo streaming e la visione nei cinema. In altre parole, non è il cinema che si trasferisce in rete ma la rete a diventare il cinema. Il tutto, sotto l’egida di MyMovies, collettore sovrano della virtual-Nottola. L’obiettivo, dicono i fautori che rispondono a 67 strutture per un totale di 200 schermi italiani, è di mantenere la fidelizzazione delle sale, un bacino d’utenza facilmente smarribile negli interstizi virali e virulenti. Non è un caso che #iorestoinsala sia percepito – e comunicato – come un circuito di sale di qualità, e non come una piattaforma streaming. S’inaugura il 26.5 con Favolacce presentato dagli stessi fratelli D’Innocenzo. Similmente alle “sorelle” già esplorate miocinema.it e Wanted Zone, si acquista il biglietto virtuale, si “entra” nella sala digitale a una certa ora e si può godere di presentazioni, eventi esclusivi e naturalmente opere nell’arco di 24 ore dall’accesso.

Dio, pacche sul culo, papi e lumache: Fellini davanti ai tarocchi

Dio, l’unico: “Sperava costantemente gli si rivelasse. ‘Anche perché mi sentirei protetto, mi sentirei soprattutto perdonato’”. Le automobili, tante: “Marcello (Mastroianni, ndr) comprava una Jaguar e Fellini una Triumph, Marcello passava alla Triumph, e Federico alla Porsche, se la comprava anche Marcello allora Federico passava alla Bmw”.

Le donne, di più: “Riservava inoffensive pacche sul sedere, lo faceva con sarte e comparse, ma un giorno osò darla a una parrucchiera bella e procace, Giusy Bovino, che lo mise subito a posto. ‘E no Fellini, non con me, capito? Ho un marito e un figlio!’. Ci rimase male e mi chiese come si poteva considerarlo un gesto offensivo. Per lui era una manifestazione di allegra familiarità. Oggi sarebbe denunciato dal movimento #MeToo…”.

Gli epiteti alle donne, infiniti: Giuliettina Masina; Sandra Milo, Sandrocchia, ossia “Patatona mia! Tenera culona! Meravigliosa porca, dolcissima buffona!”; Anna Giovannini, “ma io sono soprattutto la sua Pavoncina, lo sai come mi chiama? Sono la sua Paciocca”; Anouk Aimée, e “Ciao bella tettona a chi stai pensando? Occhi seducenti e labbra invitanti, più passa il tempo e più scopro che sei una vera mascalzona”; Marina Ceratto Boratto, “diventai per lui Marina la bella, Marinella o Marinotta, bambocciona o Tesorino”. È quest’ultima a firmare in prima persona, davvero, singolare La cartomante di Fellini, memoir di chi il maestro riminese – pardon, “E poi io mi ritengo romano, romagnolo per caso, spargi la voce che sono piemontese, puoi?” – l’ha conosciuto bene.

Confidente, tarologa, attrice (Block-notes di un regista), figlia d’arte (Caterina Boratto, la Signora Misteriosa di 8½, per Tullio Kezich “l’epitome della bellezza femminile”), scrittrice (il diario di lavorazione del Satyricon) e giornalista, Boratto può nascondere le carte, mai le parole: è un flusso cronachistico, poetico e psicanalitico insieme, in cui la coscienza – del regista, del suo tempo, di quel cinema e quel gossip inimitabili – rapisce, asservisce, evapora.

Sulla scia di Ruggero Maccari: “Caro Fellini, o sei un genio o sei un grande stronzo!”, l’autrice conviene “che era un genio, ma a volte era anche un po’ stronzo. Ma perché si finiva sempre per perdonarlo?”. Perché era larger than life, direbbero gli americani, perché era Fellini, direbbero tutti: totalizzante, totalitario, un uomo con gli attributi, anzi, con l’aggettivo. Lui solo: felliniano. Per Françoise Sagan “un imperatore, un re, un tiranno”, per Camilla Cederna, “più vicina al vero, un viaggiatore senza bagaglio”, per Ceratto “ma quanti Fellini esistono?”.

Federico che “odiava viaggiare e fare qualsiasi sport”; che “credeva a quel mondo fatto di troll, elfi, coboldi”; che non sapeva lasciare la moglie, “andassi a vivere con un’altra donna, mi conosco, prima o poi tradirei anche questa. Ricomincerei la stessa manfrina. Sarei insensato”; che rivaleggiava, con Visconti: “Si rubavano gli attori, i tecnici, i costumisti, gli operatori a vicenda”; che si asteneva, con Bergman e Buñuel: “Penso che detestasse proprio l’idea di una gara tra lui e lo svedese, per di più se includeva anche il geniale spagnolo”; che scazzava con (quasi) tutti, giacché “con Giulietta degli spiriti, non entrerà in crisi solo il rapporto con Flaiano, ma tutta una serie di altre amicizie. Subito dopo, cambierà il gruppo degli sceneggiatori, l’operatore, l’art director, l’organizzatore e il produttore”. Già, i produttori: Angelo Rizzoli, Dino De Laurentiis, Alberto Grimaldi. Dinocittà, gli studios sulla Pontina, Federico non li soffriva, i tarocchi fatti in loco certificarono: “Estrasse le peggiori carte del mazzo e mi fu impossibile barare: Il diavolo, la Torre che crolla, L’Appeso, ma anche, per fortuna, un magico Papa. ‘Mio dio, Marinotta, cosa mi può succedere di tanto terribile?’”. Il papa produttore, e salvatore, si sarebbe rivelato Grimaldi, ma quelle carte fecero baluginare anche “il papa amico, il papa medico”: “Sicura, bambocciona?”. Scopriamo un Fellini che non solo richiede, ma chiede, e perfino dice di sé. Negli appunti della Ceratto, l’identikit di un genio carnale, umbratile, feroce e vulnerabile. “Amava ciò che aveva, come dice sant’Agostino”, e nel novero James Bond, Matisse, Piero Della Francesca e Rossini, l’Ariosto e i romanzi di Simenon e Dickens. “Gli piaceva molto attendere, anche se invano, una donna che desiderava”, e disprezzava “le tavole rotonde, le lumache e le ostriche, il gorgonzola”. E sì, sapeva detestare: “La gente che si riempiva la bocca sempre e soltanto di Brecht, Humphrey Bogart, il tè, la camomilla, il caviale, Pirandello, le crêpes suzette, i film politici, i film psicologici, i film storici, ma anche le finestre senza tende e il ketchup”.

Buenos Aires, i ghetti senza acqua e col virus

Una settimana prima di morire nell’ospedale per malattie infettive Muñiz di Buenos Aires, Ramona Medina mostrava indignata in un video su Facebook il rubinetto asciutto del suo bagno; denunciava che nel quartiere, la famosa “villa 31” dove le strade si allagano e sono troppo strette per far passare autobus e ambulanze, i circa 40 mila abitanti che vivono di lavori informali in case arrangiate e sovraffollate da più di una settimana non avevano l’acqua corrente. Era il 3 maggio, “la 31” sarebbe rimasta a secco ancora per quattro giorni e Ramona, diabetica, si sarebbe ammalata di Covid-19 morendo dopo tre giorni di ricovero il 17 maggio, a 42 anni. Ramona era un’attivista della Casa della donna, dove si occupava di diritto alla salute, e portavoce di un movimento per la rivendicazione dei diritti dei villeros. Da allora il suo appello ha fatto il giro del mondo ed è arrivato fino al musicista Roger Waters, che le ha dedicato una versione acustica di We shall overcome.

Ma il suo non è un caso isolato. La scorsa settimana nella villa 31 altri attivisti sono morti per Covid-19: Agustín Navarro, membro del movimento “Barrios de Pie” e responsabile di una mensa popolare, e Víctor Giracoy, detto “el oso”, l’orso, della parrocchia del Cristo Obrero.

Le loro storie hanno evidenziato la diffusione incontrollata del virus tra la popolazione vulnerabile. A oggi i casi totali in Argentina sono 12.628 e i morti 471. Il paese è in allerta sanitaria da metà marzo e dall’11 maggio aveva avviato un allentamento del lockdown. Negli ultimi giorni, però i contagi hanno subito un’impennata, concentrandosi al 90% nella provincia di Buenos Aires e soprattutto nelle villas miserias, le zone povere, che contano oltre un terzo dei casi della capitale. Lunedì la villa Azul, alla periferia sud della capitale, è cresciuta di 85 casi in 24 ore ed è finita in isolamento preventivo. Gli scienziati della task force governativa dicono di aspettarsi “una crescita tra 500 e 800 casi al giorno” per le prossime settimane. Il governo ha lanciato una campagna di test a tappeto e presidi sanitari nelle zone più povere, ma per ora i tamponi hanno raggiunto poco più 10% della popolazione.

I rischi che la situazione sfugga di mano hanno spinto il sindaco di Buenos Aires, Horacio Rodríguez Larreta, d’accordo con il governatore della provincia e il presidente, a riportare la capitale alla fase 1. Da ieri le serrande di circa 25.000 negozi sono di nuovo abbassate e sono tornate le limitazioni alla circolazione per disincentivare gli spostamenti non essenziali. Dopo 70 giorni di restrizioni comincia a filtrare il malessere: ieri un centinaio di persone si sono raccolte nella storica Plaza de Mayo e altre proteste si sono tenute nella zona del Tigre, a 30 chilometri dalla capitale.

 

Le code della fame: Barcellona e Madrid ritornano al 2008

Cibo per 145 mila persone dall’inizio del 2020 solo a Barcellona: una cifra simile il Banco degli Alimenti della Capitale catalana l’aveva toccata soltanto durante la crisi economica del 2008 per poi dimenticarsela negli ultimi 5 anni. “In due mesi – tra marzo e aprile – siamo già tornati ai livelli della crisi precedente e le previsioni dicono che li supereremo”, confessa il direttore del Banco, Luis Fatjo-Vilas. Ma non si tratta di un problema regionale. “Le file della fame” riempiono anche i marciapiedi stretti della Capitale. A Madrid, a ricevere alimenti quotidianamente negli ultimi tre mesi sono state 110 mila persone, secondo i dati del Banco madrileno. Per la Federazione spagnola che riunisce tutte le Ong del territorio nazionale (Fesbal), dall’inizio della pandemia di Covid-19, i beneficiari della spesa sociale sono aumentati del 30% rispetto al milione di persone che ne usufruiva nel 2019, quando si era raggiunto il dato più basso da quelle 1.700.00 persone del picco di fame del 2014.

In fila non ci sono numeri, né volti di immigrati o senza tetto. Nel rapporto della mensa sociale dell’ex quartiere popolare ora agiato di Madrid, Chamberì, alle 90 famiglie di immigrati che finora ricevevano aiuti se ne sono già aggiunte un altro centinaio colpite duramente dalla crisi del coronavirus. La fila della fame si allunga di giorno in giorno ed è sempre più variegata. Il quotidiano El Pais racconta di pensionati ben vestiti che non arrivano alla fine del mese: prendono la loro busta della spesa e molto dignitosamente tornano a casa. Giovani con lavoretti stagionali: dall’ex ragazzo delle consegne al bigliettaio del Palazzo Reale. Ora per mangiare si affidano alla mensa. Nei quartieri più poveri la fila dura giornate intere. Il sindaco di Madrid, José Luis Martínez-Almeida, ha accusato il governo di non far arrivare aiuti statali, lasciando che ai cittadini più fragili pensino le Ong che vivono di donazioni.

Secondo la Commissione europea si parla di una fragilità preesistente, al limite della sopravvivenza che la pandemia ha acuito: in Spagna una persona su cinque vive sotto la soglia di povertà e una su quattro è a rischio esclusione sociale. Solo qualche mese fa il relatore dell’Onu sul tema aveva avvisato il governo: “Ho visto luoghi che credo neanche gli spagnoli riconoscerebbero come parte del proprio territorio”, scriveva Philip Alston. E nonostante le misure messe in campo dal governo Sanchez – come il decreto contro i licenziamenti per la crisi, la cassa integrazione straordinaria e, da ultimo, un nuovo reddito minimo nazionale in via d’approvazione – la Commissione ha avvisato che la Spagna potrebbe vedere incrementare ancora la povertà a causa del coronavirus. Bruxelles ha raccomandato al governo di migliorare le prestazioni minime e gli aiuti ai nuclei familiari, ma la situazione resta la peggiore tra le maggiori economie europee. Madrid, a differenza dei cugini del continente, infatti, sconta di non essere riuscita a tornare ai livelli pre-crisi del 2008 prima dell’arrivo della pandemia: la povertà nel 2018 era ancora dell’1,8% più alta di dieci anni prima. Tradotto, in Spagna esistono 1,3 milioni di persone in più con meno potere d’acquisto rispetto ai tempi pre-Lehman Brothers. Ciò che maggiormente preoccupa la Commissione europea sono i bambini: il 26,8% dei minori spagnoli è oggi a rischio povertà relativa. Prima c’è solo la Romania, con il 32%. Per non parlare delle famiglie monoparentali: quasi la metà, il 43% vive già sotto la soglia di indigenza. Ma su tutti, ad avere la peggio saranno i lavoratori, visto che il 13% degli occupati vive già con il rischio di diventare povero per un imprevisto. Il premier Sanchez ha risposto a Bruxelles che le raccomandazioni ricevute sono in linea con l’agenda sociale del governo. Un’agenda su cui non era segnato l’appuntamento con la pandemia del secolo.

I numeri della crisi da covid

30% Indigenti. Secondo i dati del Banco alimentare è la percentuale dell’incremento dei bisognosi alle mense sociali

145.000 Persone. Vengono servite a Barcellona ogni mese

Trudeau rivuole l’oleodotto. I contestatori restano a casa

Chi s’era illuso che il coronavirus fosse un alleato dell’ambiente, perché chiusure e isolamento riducevano drasticamente le emissioni e limitavano i consumi, senta che cosa dice il ministro dell’Energia dell’Alberta – una provincia canadese –: Sonya Savage sostiene che l’epidemia è un’alleata dei petrolieri e dei loro oleodotti e dice che questo è “il momento giusto” per costruire una pipeline, perché le misure imposte per l’emergenza coronavirus limitano gli assembramenti e, quindi, le proteste. In Canada, la pandemia ha già fatto 6.555 vittime e 87.000 contagiati secondo i dati della Johns Hopkins University. In un Paese di 35 milioni di abitanti su una superficie sconfinata – è grande quanto tutta l’Europa – gli epidemiologi prevedono che il bilancio definitivo si situerà tra gli 11 e i 22 mila morti, mentre i contagiati potrebbero raggiungere i due milioni. Ad aprile, l’economia canadese aveva già perso due milioni di posti di lavoro e il tasso di disoccupazione era salito al 13%. In questo contesto, secondo Savage, esponente del Partito conservatore che governa l’Alberta, c’è soprattutto fame di lavoro: il cittadino canadese non sarebbe, quindi, più disposto “a tollerare proteste ideologiche”, come lei definisce quelle di ambientalisti e discendenti dei nativi contro l’oleodotto Trans Mountain, che viaggia verso ovest da Edmonton nell’Alberta fino a Burnaby, nella Columbia britannica.

La costruzione è iniziata a dicembre: si tratta di ammodernare ed espandere un impianto già esistente, vecchio di 67 anni, triplicandone la portata da 300 mila a 890 mila barili al giorno. “Costruiamolo”, dice la Savage, in un podcast – certo non neutrale – della Associazione canadese degli Oilwell Drilling Contractors. I liberali, al potere a Ottawa e nella Columbia britannica, insorgono, come alcuni esponenti delle First Nations i cui territori sono attraversati dalla pipeline. Le preoccupazioni degli ambientalisti vanno dalle perdite di petrolio lungo il percorso all’impatto sul cambiamento climatico, alle minacce per le popolazioni di orche lungo le coste del Pacifico. Il Trans Mountain è diventato un soggetto politico delicato per il premier Justin Trudeau, che considera il progetto di interesse nazionale, ma che ha finora dovuto fare fronte a numerosi ostacoli legali e giudiziari. All’inizio dell’anno, i capi ereditari della tribù Wet’sewet’en avevano già bloccato per settimane una grossa fetta della British Columbia: i nativi, sostenuti da migliaia di attivisti, contestavano la costruzione di un altro oleodotto, la Coastal GasLink pipeline (Cgl). Gli indigeni rappresentano circa il 5% della popolazione e sono la fascia sociale più toccata da povertà e discriminazioni. Le proteste canadesi si apparentano a quella dei Sioux nel Dakota, a sud della frontiera tra Canada e Stati Uniti, contro la Keystone XL, criticatissimo oleodotto Nord-Sud, che Obama aveva bocciato, ma che Trump ha autorizzato e che le tribù della regione hanno inutilmente tentato di bloccare. In questo momento, Trudeau è soprattutto preoccupato degli effetti economici e sociali dell’epidemia e tiene meno alta la guardia sui valori dell’ambiente e le tradizioni dei nativi, che pure sono due suoi ‘cavalli di battaglia’. Il premier, il cui governo ha varato un piano straordinario d’aiuti per 69 miliardi di dollari, dice: “Nessuno dovrebbe trovarsi a scegliere fra il restare a casa con sintomi da coronavirus e il potersi pagare l’affitto o fare la spesa”. Il Paese è passato dal ritenere un’emergenza l’arrivo da Londra della coppia Meghan e Harry al dovere fronteggiare un’apocalisse, con la frontiera con gli Usa chiusa fino al 21 giugno e sintomi di sgretolamento del tessuto sociale. Inoltre, Ottawa rischia di fare il vaso di coccio nelle dispute tra Washington e Pechino: la Cina chiede l’immediata liberazione di Meng Wanzhou, la boss della finanza di Huawei, arrestata nel dicembre del 2018 all’aeroporto di Vancouver su richiesta delle autorità Usa, che le contestano violazioni delle sanzioni all’Iran. Una decisione se estradarla o meno è imminente.

 

“Ora è tempo del nostro Recovery Plan italiano”

Sono giorni importanti. Il piano di intervento europeo sta assumendo la sua fisionomia definitiva. Oggi la Commissione europea annuncerà la sua proposta di Recovery Plan.

L’Italia deve farsi trovare pronta all’appuntamento. Deve programmare la propria ripresa e utilizzare i fondi europei che verranno messi a disposizione varando un “piano strategico” che ponga le basi di un nuovo patto tra le forze produttive e le forze sociali del nostro Paese.

Questo è il momento per alzare la testa e volgere il nostro sguardo al futuro.

Abbracciando questa prospettiva, con coraggio e visione, trasformeremo questa crisi in opportunità.

Ci sono alcune azioni fondamentali per recuperare il divario di crescita economica e produttività, nei confronti degli altri Paesi europei, che ci ha caratterizzato soprattutto negli ultimi vent’anni.

A) Siamo al lavoro per la modernizzazione del Paese. Introdurremo incentivi alla digitalizzazione, ai pagamenti elettronici e all’innovazione. Dobbiamo sollecitare la diffusione della identità digitale, rafforzare l’interconnessione delle banche dati pubbliche e approvare un programma per realizzare al più presto la banda larga in tutto il Paese.

L’emergenza che stiamo vivendo ci ha imposto lo smart working e la didattica a distanza quando non eravamo affatto preparati. Dobbiamo trarre il positivo di questa esperienza e varare un complessivo piano che ci aiuti a colmare il divario digitale facendo in modo che l’accesso alle nuove tecnologie sia alla portata di tutte le comunità territoriali e di tutte le tasche.

B) Dobbiamo moltiplicare gli strumenti utili a rafforzare la capitalizzazione e il consolidamento delle imprese, anche al fine di sostenere l’attività delle filiere produttive nella fase di ripresa, con particolare riguardo a quelle in maggiore sofferenza. Dobbiamo favorire le innovazioni da parte delle start up e rilanciare misure già introdotte con successo come ACE e Impresa 4.0, rendendole strutturali.

C) Occorrono una decisa azione di rilancio degli investimenti pubblici e privati e una drastica riduzione della burocrazia. Potremo utilizzare le risorse europee per realizzare le infrastrutture strategiche del Paese, a partire dalle grandi reti telematiche, idriche ed energetiche. Le opere pubbliche vanno sbloccate anche per mezzo di un intervento normativo a carattere temporaneo, su cui il governo sta già lavorando. Avremo cura di salvaguardare i presidi di legalità e i controlli, per contrastare gli appetiti delle organizzazioni criminali, ma dovremo accelerare le procedure e gli iter autorizzativi. Introdurremo misure che valgano a realizzare una rivoluzione culturale nella pubblica amministrazione. I funzionari pubblici, pur in un’ottica di rigore e trasparenza, devono essere incentivati ad assumersi le rispettive responsabilità. Faremo in modo di evitare che sui funzionari onesti gravi eccessiva incertezza giuridica, ad esempio circoscrivendo più puntualmente il reato di abuso d’ufficio e la medesima responsabilità erariale.

D) Occorre una graduale ma decisa transizione verso un’economia sostenibile, legata al green deal europeo, che nel caso del nostro Paese si deve associare a nuove forme di tutela e promozione del territorio e del patrimonio paesaggistico e culturale. La transizione energetica rimane una priorità italiana ed europea: forse troveremo un vaccino per il virus ma sicuramente non ce n’è uno per il cambiamento climatico.

E) Dobbiamo puntare su un grande investimento per il diritto allo studio e per l’innovazione dell’offerta formativa, affinché l’Italia sia tra i primi posti in Europa per giovani con titoli di studio universitario. Questi interventi vanno collegati a un grande piano di ricerca pubblico/privato sulle sfide del futuro: tecnologie digitali, transizione ecologica, medicina personalizzata, inclusione e benessere sociale, per rilanciare la competitività del nostro sistema economico-sociale e creare nuova impresa con start up e spin-off.

F) È necessario abbreviare i tempi della giustizia penale e della giustizia civile. Il codice civile è stato varato nel 1942 e ha attraversato tutti questi anni senza una riforma organica. Tutti e tre questi progetti di riforma sono ora in Parlamento. Invito i gruppi parlamentari a confrontarsi con la massima speditezza. Possiamo migliorare il diritto societario introducendo modelli di governance più snelli ed efficienti, che potranno rendere più competitivo il nostro ordinamento giuridico e potranno attirare più facilmente investitori italiani ed esteri.

G) Introdurremo una seria riforma fiscale. Non possiamo più permetterci un fisco iniquo e inefficiente. L’attuale disciplina fiscale è un dedalo inestricabile. Sono cinquant’anni che non si interviene più con una riforma organica, ma ci si affida a interventi che operano sovrapposizioni e stratificazioni. Dobbiamo avere il coraggio di riordinare il sistema delle deduzioni e delle detrazioni: l’equità e la progressività del sistema tributario passano anche da questo intervento. Dobbiamo fare pulizia, distinguendo i debiti recuperabili da quelli che non lo sono e rendere più trasparente la giustizia tributaria.

Queste azioni costituiranno la struttura portante del nostro Recovery plan.

Minacce a Sileri: un uomo di scorta

Lettere minatorie arrivate per posta o piazzate sul parabrezza della sua auto. Un uomo si è presentato sotto casa. Sono numerose le minacce, anche di morte, indirizzate nelle scorse settimane a Pierpaolo Sileri. Per questo al viceministro della Salute è stata data una scorta di livello basso, il quarto. Un agente lo accompagna in tutti gli spostamenti insieme all’autista del ministero. Sileri ha sporto denuncia e la Procura di Roma ha aperto un fascicolo per minacce gravi, per ora contro ignoti. Il viceministro è stato già sentito e ha ricostruito gli episodi di minaccia, compreso quello di un uomo che ha citofonato a casa sua tentando di parlare con la moglie. Si cerca di identificare l’autore delle intimidazioni che non è detto sia uno solo. Sono in corso anche verifiche su figure che in passato hanno avuto rapporti burrascosi con Sileri. Non trova invece conferma che il viceministro abbia denunciato tentativi di corruzione, come riferito da alcune agenzie di stampa, mentre certamente Sileri, chirurgo e docente universitario, è parte civile in un processo per tentata istigazione alla corruzione a carico dell’ex rettore dell’Università romana di Tor Vergata, Giuseppe Novelli, per vicende legate a concorsi a cattedra di cui il Fatto si è occupato in passato

“Più si sale in vetta, più tira il vento. Il nostro dovere è dare il massimo”, ha commentato ieri una trasmissione radiofonica il numero due della Sanità nazionale. Contattato dal Fatto ha preferito non aggiungere altro. Sileri ha avuto grande notorietà durante l’emergenza sanitaria, prima per i viaggi in Cina quando si è trattato di riportare indietro i nostri connazionali da Wuhan, poi per le numerose apparizioni in tv e qualche critica ai ritardi di parte della dirigenza ministeriale. Grande solidarietà dal suo partito, i Cinque Stelle, ma non solo. Tra i primi il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio: “Avanti così, siamo tutti con te, hai il nostro sostegno. Non ci facciamo intimidire da nessuno”. “Lo invito ad agire a testa alta come ha fatto sempre, specialmente durante l’emergenza Covid-19. Sono certo che non si lascerà intimidire”, assicura il ministro dell’Ambiente Sergio Costa. E il presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra: “Fare il proprio dovere spesso significa esporsi a rischi di ritorsione. Ma Sileri è uno che difficilmente si intimorisce”. “Un caro abbraccio a Pierpaolo Sileri. Le minacce non fermeranno il lavoro di questi mesi”, ha scritto su Facebook il ministro della Salute Roberto Speranza di Leu.

Lunedì l’Italia riapre tutta, con l’obbligo di quarantena

Nessuna decisione è stata presa. Tutte le fonti, per una volta, convergono: su quel che succederà il 3 giugno, lunedì prossimo, non c’è alcuna certezza perché il governo vuole aspettare di vedere i numeri dei contagi da coronavirus di questa settimana e dunque almeno venerdì o più probabilmente sabato. Anche l’atteso faccia a faccia tra il presidente della Lombardia Attilio Fontana e il ministro degli Affari regionali Francesco Boccia – due che hanno avuto spesso a che dire in questi mesi – si conclude in modo anodino e concordante: “E’ opportuno attendere quantomeno il flusso dei dati fino a giovedì per effettuare valutazioni più circostanziate”, recita la nota congiunta.

Tanta prudenza è sicuramente necessaria, ma lascia nell’incertezza milioni di italiani che vogliono sapere se da lunedì potranno muoversi liberamente fuori dalla loro regione o se ci saranno limitazioni e quali. L’opzione ritenuta più probabile dal Comitato tecnico-scientifico è che lunedì tutta l’Italia sarà “riaperta”, visto che anche la Lombardia mostra ottimi numeri e sarà classificata a “basso rischio”, ma con paletti che la lasceranno sostanzialmente chiusa: di fatto, per impedire esodi “vacanzieri”, agli italiani che vogliano spostarsi verso un’altra Regione, almeno per una o due settimane, potrebbe essere richiesto un periodo di quarantena.

Niente “effetto stigma” su Milano, insomma, e poi la possibilità di spostarsi senza problemi in giornata nelle zone di confine, ma contemporaneamente il sostanziale rinvio di un paio di settimane del completo ripristino del diritto costituzionale alla libertà di movimento.

Questa eventuale scelta – non presa ancora da alcuno, ma ritenuta probabile dagli esperti e da ambienti di governo – ha almeno due motivi alle spalle: uno più tecnico, per così dire, e l’altro squisitamente politico. Partiamo dal primo. I tecnici che coadiuvano l’esecutivo nella gestione dell’epidemia ritengono che solo attorno a metà giugno i numeri del Covid-19 riporteranno appieno gli effetti della fine del lockdown: detto in parole povere, solo nelle prossime due settimane sarà chiaro se la riapertura delle attività produttive e di un minimo di socialità ha causato un aumento del tasso di contagi (non proprio un complimento per la capacità dei sistemi regionali di testare i positivi e tracciarne i contatti).

Se i numeri continueranno a scendere anche a giugno, è probabile che l’onda del virus sia davvero passata e sarà possibile vivere un’estate “normale”, se così si può dire mentre restano in vigore disposizioni sul distanziamento fisico, obblighi vari di mascherine e guanti e tutti i protocolli di sicurezza che abbiamo imparato a conoscere.

Il secondo motivo che potrebbe spingere il governo a una riapertura molto parziale della mobilità extra-regionale è, come detto, politico: si tratta di evitare l’ennesima guerra di carte bollate coi cosiddetti “governatori”. L’esecutivo infatti, se non avrà motivi “epidemiologici” per bloccare i soli lombardi, non potrà neanche lasciare per il momento completa libertà di movimento in tutto il Paese se non vuole passare le prossime settimane in tribunale a battagliare contro le ordinanze difensivo-propagandistiche dei presidenti del Sud. Se state pensando a Vincenzo De Luca e alle sue pittoresche sfuriate contro gli untori non sbagliate, ma pittoreschi provvedimenti di chiusura dei “confini” regionali, in passato, sono stati annunciati o approvati da Calabria, Sicilia, Puglia e persino da qualche sindaco.

Unica consolazione è quella, se non altro, che i numeri del coronavirus continuano a essere buoni – fatte le dovute differenze – un po’ in tutta Italia. Ieri sono stati registrati 379 nuovi casi a fronte di oltre 57mila tamponi effettuati (lunedì erano 300 ma con 35mila tamponi): i numeri sono buoni dovunque, ma va almeno segnalato che Sardegna, Calabria, Molise e provincia di Bolzano segnalano zero casi. Buone anche le notizie dagli ospedali: i ricoverati scendono sotto gli 8mila (-521) e quelli in terapia intensiva a 521 (-20). I nuovi decessi sono stati 78, di cui 22 in Lombardia, la regione che è ancora il centro del Covid-19 in Italia: i nuovi positivi ieri erano 159 a fronte di 9.176 tamponi (un dato confortante) e gli attualmente positivi scendono dopo molto tempo sotto quota 25mila (in tutto il Paese sono 52.942).