Più donne e privacy. Così Anonymous piace (quasi) a tutti

“Per tutti coloro che credono che Anonymous sia composto solo da maschietti, ecco il canale #WomenPower. Venite a trovare le nostre #Anonymiss”: è il 10 maggio e il canale Twitter degli hacktivitsti (hacker + attivisti) LulzsecIta pubblica questo annuncio. È inaspettato, accattivante: riceve più di 600 like, è rilanciato e commentato. È segno di un cambiamento: Anonymous negli ultimi 2 mesi ha saputo dove puntare per far parlare di sé. I follower sono passati da 2mila a 23mila con due mosse: Revenge Porn e privacy nella sanità. “L’operazione RevengeGram – ci spiegano – ha fatto avvicinare molte donne”.

L’8 aprile,in pieno lockdown, arriva un annuncio. A scriverlo è Lulzsec, una branca di Anonymous. “L’ala più ironica”, dicono. “Con il vostro aiuto, faremo il possibile per diminuire vendita e scambio di materiale #revengeporn e #pedopornografico su #Telegram e altri social”. Telegram è una app di messaggistica che garantisce maggior privacy. In quei giorni, alcuni articoli di giornale raccontano che la “Bibbia” (una enorme raccolta di file che si nutre di foto e video porno) è ancora in circolazione, utenti con numeri e identità nascoste si scambiano materiale, non viene risparmiato nessuno: figlie, ex fidanzate e mogli. Nei casi peggiori, immagini di teenager e bambine. Anonymous lancia un canale apposito, scrive le linee guida per spiegare agli utenti come funzionano le chat e dove inviare segnalazioni. Per un mese su Twitter vengono pubblicate conversazioni delle chat Telegram: adulti che contattano minorenni spacciandosi per ragazzini, commenti camerateschi, svendita di nomi e numeri di telefono di donne e ragazzine. Gli hacktivisti rispondono rendendo pubbliche più identità possibili, perfino indirizzi e numeri di telefono di pedofili e porno-vendicatori. Chiedono agli utenti di tormentarli. “Si finge una donna quarantenne per importunare ragazzine minorenni – si legge in un tweet di LulzsecIta – Una brutta domenica per AlXXo PXXe 1X/X2/19X6 Acquarica del capo (Lecce) IG: axxxxxx3 Pass: 868686 Email: axxxxxxxxx3@gmail.com” (censura nostra, ndr). Materiale preziosissimo anche per la polizia, e qualcuno infatti viene arrestato. “OpRevengeGram è andata alla grande e sta continuando ad andare bene nonostante non stiamo più pubblicando – raccontano da Anonymous -. Si sono formati tanti gruppi di persone esperte o meno che hanno collaborato e stanno continuando. Sono state smascherate centinaia di persone”.

La seconda operazione è stata rivelata la settimana scorsa. Anonymous ha “bucato” il sito dell’ospedale San Raffaele di Milano. “Abbiamo fatto l’hack a metà marzo, per cercare qualcosa sul tema Covid – spiegano –. Abbiamo deciso di non pubblicare i dati durante l’emergenza perché la sanità stava letteralmente scoppiando”. Cosa che invece hanno fatto pochi giorni fa: “Anche perché il San Raffaele ha in parte minimizzato e non ha denunciato al Garante della Privacy”.

È il periodo in cui si discute di Immuni (l’app per tracciare i contatti ed evitare il proliferare del Covid), di dati e privacy. Vengono sottratti 2.400 indirizzi email con password del personale e nomi, date di nascita, codice fiscale di 600 pazienti. Secondo il regolamento europeo della privacy, l’ospedale avrebbe dovuto comunicare entro 72 ore l’attacco al Garante e informare le vittime. Al Fatto risulta però che al Garante la segnalazione è arrivata lunedì sera. I vertici del San Raffaele hanno negato l’accesso a dati sensibili e parlano solo di informazioni “relative a un’applicazione per un corso di formazione dismessa da anni”. Per gli hacktivisti non è proprio così: “Alcuni del personale hanno contattato noi e i giornalisti, confermando di aver trovato i loro dati e di non essere mai stati avvisati. Non ci è piaciuto farlo, ma abbiamo pensato fosse la soluzione migliore vista la smentita. Gli infermieri hanno alzato la voce: quindi siamo riusciti nel nostro intento”.

Una telefonata e dagli Usa dicono: tutti licenziati

Basta una telefonata dei manager americani della Jabil e vengono rese vane, in un attimo, 7 ore di complesse trattative al ministero del Lavoro per scongiurare i 190 licenziamenti di Caserta. La storia, grottesca, avviene lunedì a mezzanotte, nel pieno di una riunione tra i sindacati e i vertici della multinazionale che produce componenti elettroniche a Marcianise. L’azienda vuol mandare a casa gli operai nonostante il divieto di licenziamento imposto dal governo durante l’epidemia. Essendo questi parte dei 350 esuberi dichiarati un anno fa – in 160 hanno nel frattempo accettato la ricollocazione in altre imprese – Jabil ritiene ora di poter mettere alla porta i 190 rimasti. Ma le norme parlano chiaro: i licenziamenti economici sono sospesi. L’incontro, indetto dalla ministra Catalfo era partito alle 17. “Stavamo discutendo dell’attivazione degli ammortizzatori sociali e di un nuovo piano di ricollocazione”, ha detto Fabio Palmieri della Fiom e Jabil voleva comunque il via libera a licenziare chi non avesse aderito al nuovo progetto di reimpiego. Una sintesi sembrava possibile, poi… “l’amministratore delegato ha detto di aver sentito il management americano che non era più interessato a un accordo”. Tutti a casa. Ora Catalfo sta tentando un’altra mediazione, ma senza una soluzione i lavoratori potrebbero essere costretti a un ricorso in tribunale.

Addio Mr Sloan, oggi “goodbye” significa questo

Goodbye significa addio o arrivederci? Ci vorrebbe John Peter Sloan per spiegare la differenza. Così potremmo salutarlo. Perché ieri, ad appena 51 anni, è morto l’insegnante di inglese più famoso d’Italia. Non importa che insegnasse senza banchi. Senza libri. Che fosse nato attore e non professore.

Sloan era in Sicilia, dove viveva da tre anni. Una fine improvvisa, una crisi d’asma, fatale per un uomo che soffriva di enfisema. In un attimo Internet si è popolata delle sue lezioni. Come quando per spiegare la terribile H aspirata prendeva un paio di occhiali e diceva: “Aspirate come se doveste pulire le lenti”. Poco ortodosso, ma efficace.

Il suo nemico erano le ‘tarzanate’, quelle frasi pronunciate con verbi all’infinito e soggetti a pallino, proprio come Tarzan.

Fu il destino a farne un professore e a portarlo in Italia. Era partito dalla sua Birmingham con un gruppo di artisti e quel vagabondaggio per l’Europa lo portò qui. Non se ne andò più. Conquistò il palco dello Zelig, finì in tv con Enrico Bertolino, Geppi Cucciari e Milena Gabanelli. “Hi”, salve, era il suo saluto, un po’ come “Allegria” di Mike Bongiorno. Intanto scriveva articoli e libri. Apriva scuole. Ci insegnava la sua lingua, ma anche il legame per l’Italia tradito dai suoi gesti ormai latini. Allora Peter, goodbye significa addio o arrivederci?

Una task force vigila sull’altra: la soluzione di Trento al caos

Giunti al cuore del problema – la semplificazione della complicazione – il Trentino sta procedendo verso l’idea risolutiva di una task force contro ogni possibile abuso di qualunque altra task force.

Come il virus da combattere, Trento, da sempre autonomista e concretista, si è accorta di avere esagerato con le norme, le circolari esplicative, le note a piè di pagina. Un frullato di regole locali che sono andate sommandosi a quelle già numerose nazionali provocando nell’amministrazione la decisione terribile ma definitiva. Far piazza pulita di ogni confusione, farla finita con la burocrazia, la principessa della lentezza. Per questa guerra totale la Provincia, l’ente che rappresenta l’autonomia speciale del Trentino, ora si affida, come ha spiegato al Corriere del Trentino l’assessore all’Economia Achille Spinelli a un gruppo di lavoro nel quale farà parte “almeno uno di provenienza militare”. Un milite di alto grado e determinazione collaborerà dunque con il team di pronto intervento per risolvere il mistero della burocrazia delle Alpi, così lenta da apparire romana. Problema vivo dappertutto e che la giunta leghista presieduta da Maurizio Fugatti aveva già preso di petto incaricando una Unità di missione strategica di semplificare ogni complicazione. Evidentemente la prima task force ha complicato invece che risolvere e così ora siamo al battesimo delle truppe d’assalto.

Il fatto è che Trento si è un po’ fatto prendere la mano dalla legiferazione di emergenza e ha aggiunto peso e commi agli articoli che Giuseppe Conte inviava da Roma. E così, tra una ordinanza e l’altra, i trentini sono stati sotterrati da 236 norme distinte per fronteggiare il virus. Ai 17 decreti del premier e le 32 ordinanze della Protezione civile, si sono aggiunte altre ventisei ordinanze del presidente della Provincia, procedendo alla memorabile diffusione di settantaquattro circolari esplicative. Un traffico di codicilli che ha ingolfato le vie di campagna, allagato le vallate e va progredendo verso nord, verso il Brennero. Così ora la soluzione draconiana, l’arma finale: la task force al quadrato.

Una pensione per i killer di Gianfranco Siani. Il welfare della camorra li assiste da 35 anni

C’è un welfare che funziona sempre, che supera ogni crisi. È quello della camorra. Per 35 anni ha pagato regolarmente le ‘mesate’ alle famiglie dei due killer di Giancarlo Siani, il giornalista de Il Mattino trucidato sotto casa a Napoli il 23 settembre 1985. I due assassini condannati per questo omicidio si chiamano Armando Del Core e Ciro Cappuccio, del clan Nuvoletta. E di loro parla il pentito Roberto Perrone in un verbale del 2011. Spiegava le discussioni con il boss Giuseppe Polverino a proposito della somma che l’omonimo clan riconosceva al gruppo Nuvoletta “per mantenere i rapporti”. Cifre non da poco: “80-90mila euro per tre volte l’anno… Ebbene, in una di queste occasioni, Polverino mi disse che gli unici soldi che avevano una valida giustificazione erano quelli che, da questa cifra, venivano poi consegnati alle famiglie dei due detenuti all’ergastolo per l’omicidio Siani…”.

La morte di Siani fu decisa come ritorsione a un articolo con il quale il cronista ipotizzava che la cattura di Valentino Gionta fosse avvenuta grazie a una soffiata di esponenti del clan Nuvoletta. Ora si scopre che i Polverino, eredi di quella cosca criminale, e poi successivamente gli esponenti del clan Orlando, hanno continuato a sostenere per così tanto tempo le famiglie degli assassini del giornalista. È tutto raccontato nell’ordinanza eseguita ieri contro i clan di Marano (Napoli), 16 misure cautelari con accuse di associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga e all’intestazione fittizia di beni, reati aggravati dal metodo mafioso. Indagine condotta dai carabinieri e dal pm di Napoli, Maria Di Mauro.

L’omicidio Siani ha dunque assicurato una ‘pensione’ a chi si macchiò di questo delitto. “Gli unici soldi che avevano una valida giustificazione” a essere erogati, disse il boss. Un messaggio chiaro del ‘sistema’ camorristico. Che pone una domanda: Del Core, Cappuccio, le loro famiglie e i loro fiancheggiatori, hanno ancora qualche segreto da nascondere in cambio di questa rendita? Siani era un ‘giornalista giornalista’ e i suoi articoli scavarono in profondità nelle piaghe delle commistioni tra certa politica e i clan. Per arrivare ai suoi killer e ai mandanti ci vollero 12 anni di indagini e tre pentiti, dopo aver seguito invano le tracce di mitomani, depistatori e calunniatori. Paolo Siani, il fratello di Giancarlo, medico e parlamentare del Pd, sostiene che gli arresti di ieri e le storie emerse dalle 660 pagine dell’ordinanza dimostrano che “c’è bisogno di ridare opportunità e speranza sul territorio, il vero welfare che da benessere ai cittadini è quello dello Stato, non quello criminale”.

È un uccello? Un aereo? No, è Sant’Antonio Quest’anno la processione è in elicottero

Sant’Antonio arriverà dal cielo. Sorvolerà Padova e tutto il Veneto. No, non è un miracolo. A far volare il Santo sulla città non saranno angeli, ma più prosaicamente un elicottero dell’Esercito Italiano. Perché dove ci si mettono di mezzo il virus e i divieti per prevenire il contagio, ecco che viene fuori l’arte italiana di arrangiarsi.

Tutto è cominciato quando nelle scorse settimane ci si è resi conto che la processione del 13 giugno quest’anno non si poteva fare. Ma questa non è una cerimonia qualunque, chiunque conosca Padova lo sa. È un corteo che ricorda l’anniversario della morte di Antonio (quest’anno sono 789 anni) e dalla Basilica percorre le strade. Una festa che va avanti da secoli e non si è quasi mai fermata nonostante epidemie e guerre. Intorno alla statua con le reliquie si raccoglie intorno a sé l’intera città. Centinaia di migliaia di persone tutte una vicina all’altra; insomma, un evento ad altissimo rischio ai tempi del Covid.

Che fare quest’anno? Il rettore della Basilica, Oliviero Svanera, alla fine ha trovato la soluzione. Decisamente spettacolare: l’elicottero, appunto. L’Esercito ha dato immediatamente la sua disponibilità. Così la mattina del 13 giugno sull’Ab 205 militare salirà un passeggero molto particolare: il busto di Sant’Antonio che contiene le reliquie, la massa corporis, come viene chiamata.

E si partirà per un volo benedizione su Padova e il Veneto. Non una rotta casuale, saranno toccati alcuni luoghi simbolo di questi mesi di lotta contro il virus che nel padovano ha colpito molto duro. Dopo aver sorvolato la Basilica, l’elicottero punterà infatti su Vo’, il comune ai piedi dei Colli Euganei diventato famoso non solo in Italia perché qui è esplosa l’epidemia. Era il 20 febbraio e all’improvviso in questo paese di 3.000 abitanti comparvero le mascherine. Poi i posti di blocco. E quegli uomini tutti bardati che arrivavano con le ambulanze e portavano via i malati. Non poteva non passare da qui l’elicottero del Santo. Non poteva nemmeno ignorare gli ospedali, come quello di via Giustiniani e quello di Schiavonia. Le cronache ricordano che all’inizio dell’epidemia qui divenne impossibile perfino nascere. Fu chiuso il reparto maternità e le corsie divennero un luogo di dolore e terrore. Il Covid si è portato via 82 persone finché il 20 aprile scorso nelle sale dell’ospedale di Schiavonia non si è sentito di nuovo un vagito: era Giorgia, la prima neonata arrivata quando cominciava a tornare la speranza. Un ultimo giro sopra il carcere e l’elicottero riporterà a terra il Santo.

Certo non sarà come gli altri anni quando decine di migliaia di persone seguivano la statua per le vie e le piazze. Intorno la folla che premeva, anziani e bambini alle finestre, poi bande, gonfaloni, profumo di incenso e preghiere diffuse dagli altoparlanti. Questa del resto è la città del Santo. Strano destino per il francescano Antonio che in realtà era portoghese e arrivato in Italia ebbe la sorte di incontrare anche San Francesco. La sua vita finì qui a Padova che aveva appena 36 anni. Intorno a lui nacque la Basilica con le statue di Donatello. Poi il culto popolare che richiama ogni anno 6,5 milioni di persone. Hanno ascoltato infinite preghiere le reliquie di Sant’Antonio. Probabilmente, però, non avevano mai volato in elicottero.

Burioni, ogni puntata una tesi diversa

Cosa resterà della fase 1? Se con la scusa del corona ci siamo beccati perfino Il meglio di Made in Sud sarebbe il caso di pensare a un meglio dei 100 giorni che sconvolsero tutto meno i palinsesti, intasati di repliche ma anche di immagini scritte nella pietra, come i dividendi di Fca-Psa.

Fontana. Ci sono gesti destinati a rimanere nella Storia per la loro forza simbolica. Enrico Toti lanciò la stampella agli austriaci, Alberto Sordi fece la pernacchia ai lavoratori. Attilio Fontana ha schermato il suo volto agli italiani. Tutto si potrà dire di lui, ma non che non ci abbia messo la maschera. Avventure in elicottero. Si sono visti diversi droni anti-grigliata, ma il miglior remake del telefilm lo si deve a Barbara D’Urso. Un pericoloso corridore viene avvistato da un elicottero della Finanza con a bordo l’inviata Mediaset Ilaria Delle Palle. Barbara come Fassbinder: scene di caccia in bassa Laguna. È bello sapere che i corpi dello Stato sanno con chi stringere alleanze. Che Borioni che fa. Fabio Fazio è uno che si affeziona, dopo la profezia “Da noi il virus non si diffonderà” ha voluto sempre accanto a sé il padre di tutti i televirologi. Non solo fedeltà affettiva: bisognava invitarlo ogni settimana perché ogni settimana diceva una cosa diversa.

(1-continua)

L’ultima nottedi Walter Tobagi

Sono stato l’ultima persona a vedere in vita Walter Tobagi, a parte la moglie Stella. Ci eravamo incrociati al Circolo della Stampa per un dibattito. Abitavamo vicini e poiché a Walter non piaceva guidare (di lui tutto si può dire tranne che fosse un uomo dinamico) l’accompagnai in macchina a casa.

Saranno state le due o le tre di notte, ma da quotidianisti incalliti non ci sembrava mai troppo tardi. Cadeva una pioggerellina leggera. Stavamo chiacchierando quando d’improvviso Walter cambiò tono e mi disse che da un mese aveva abbandonato le inchieste sul terrorismo: “Sai, non voglio morire per questi qui” intendendo il direttore e il vicedirettore del Corriere. In quel momento pensai che eravamo folli a stare lì seduti in macchina davanti a casa sua, bersagli fissi, facili. Oltretutto i nostri nomi, il suo, il mio, quello di Abruzzo erano stati trovati in un covo di Prima Linea. Ebbi l’impulso di guardare fuori. Ma non lo feci, per non spaventarlo e non spaventarmi. Tornammo a parlare di cose normali. In quegli anni convulsi eravamo riusciti a strappare un’ora per portare i nostri figli allo zoo e c’eravamo divertiti moltissimo, forse più noi dei bambini. Ci ripromettemmo quindi di ripetere appena possibile l’esperienza. Walter uscì dalla macchina. Lo vedo ancora armeggiare con le sue mani grassocce davanti al grande ed elegante portone di legno.

La mattina dopo, poco dopo le undici, mentre stavo dormendo perché ero in uno dei miei periodi di disoccupazione, mi svegliò una telefonata del collega Venè. Poiché la mia voce era normale, tranquilla, si rese conto che c’era qualcosa che non quadrava: “Ma come non sai cos’è successo?”. “No”. “Hanno ucciso Walter”. Fu uno choc perché, con l’intervallo del sonno, per me era come se lo avessi lasciato da pochi minuti. Mi vestii in fretta e mi diressi verso la casa di Tobagi. C’era il solito canaio di giornalisti, di fotografi, di curiosi. Notai due colleghi del Corriere, quelli che più di altri avevano creato un clima d’odio intorno a Tobagi, che piangevano senza ritegno e ostentavano gli occhi rossi. Io non piangevo. Mi districai da quella folla e salii in casa. Stella mi vide e si abbandonò piangente sulla mia spalla: “Tu… tu sei stato l’ultimo a vederlo”. Quello che successe nei giorni successivi avrei preferito dimenticarlo. A cominciare dai funerali, in pompa magna, con Rolls-Royce, che erano esattamente il contrario dello stile di Tobagi, che era un uomo schivo e pudico. C’era anche la Fallaci che non aveva mai conosciuto Tobagi (in quel periodo stava a New York) al braccio di Bruno Tassan Din. Voleva rubare il posto da protagonista al morto. Ma non fu la sola. Incontrai casualmente due importanti colleghi che, parlando della tragedia, mi dissero: “Puff, ma l’obiettivo non era Tobagi, il vero obiettivo ero io”.

Non ho conosciuto Tobagi all’Avanti!, quando io vi arrivai lui se ne era già andato all’Avvenire. Ci fece incontrare il capocronista, Giorgio Giusti. Walter non era “il cronista buono” come volle poi l’ipocrita iconografia del Corriere, aveva anche lui i suoi bravi artigli (all’Avvenire aveva il soprannomignolo di “viperotto” in contrapposizione a un altro eccellente collega, Corrado Incerti, “la mangusta”) era un buon cronista e anche qualcosa di più, aveva quella profondità di analisi che lo avrebbe portato a essere, a soli 33 anni, un importante editorialista del Corriere. Fra noi si diceva che “studiava da direttore”. E ci sarebbe arrivato se due ragazzi male educati, nel senso stretto del termine, cioè educati male dai loro padri, Morandini e Barbone, il primo figlio del critico cinematografico de La Notte, il secondo funzionario della Rizzoli, non gli avessero troncato l’esistenza (“Quello fu un periodo – scrisse splendidamente Oreste Del Buono – in cui gli adulti non seppero fare gli adulti”). Con Walter ci incontrammo quindi nei primissimi anni Settanta. La nostra amicizia si basava proprio sulla diversità dei nostri caratteri: riflessivo lui, impetuoso io. Benché fosse di tre anni più giovane aveva verso di me un atteggiamento protettivo, da fratello maggiore e saggio. A volte cercava di limitare le mie intemperanze, inoltre aveva intuito la mia natura più profonda e con affettuosa ironia mi chiamava “passato è bello”. Tobagi era molto più adulto della sua età.

Walter Tobagi è stato ucciso perché racchiudeva in sé due importanti motivi simbolici: notista già prestigioso del Corriere e presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti. E per questa sua carica e quindi, alla fine, della sua morte ho qualche responsabilità. Lo avevo convinto a rompere l’alleanza socialcomunista della Lombarda creando una nuova corrente. I nostri motivi più che politici erano professionali: volevamo togliere il sindacato ai sindacalisti di professione, che in realtà erano dei politici mascherati, per restituirlo ai giornalisti che facevano i giornalisti, e sia Tobagi che io che Abruzzo lo eravamo. Si trattava di allearsi con i “fascisti” di Autonomia, in realtà dei normalissimi conservatori. In quegli anni di poco postsessantottini era una mossa rischiosa che ci avrebbe tirato addosso ogni sorta di accusa, a cominciare, naturalmente, da quella di essere dei “fascisti”. Tobagi, che era un uomo prudente, esitava. Esitava ancora la sera in cui decidemmo di sfiduciare il presidente della Lombarda, il socialista Marino Fioramonti. Walter girava e rigirava fra le sue mani la mozione di sfiducia, ma non si decideva a presentarla. Gli strappai quasi di mano il foglietto e dissi: “Presidente, c’è una mozione di Tobagi e mia”. Si trattava ora di decidere chi avrebbe fatto il presidente della Lombarda. Walter voleva che fossi io, ma a parte che non ero assolutamente indicato per quel ruolo, non ne avevo nessuna voglia. Così toccò a lui. Negli ultimi tempi della sua breve vita Tobagi si estenuò quindi in quel doppio ruolo.

A Tobagi morto i socialisti di Craxi si appropriarono del suo cadavere, imitando quello che avevano fatto sempre i comunisti. Tobagi era certamente socialista (anzi un catto-socialista, animale piuttosto raro) ma da giornalista indipendente qual era non aveva alcun rapporto organico col Psi. Craxi cavalcò l’occasione per montare una campagna contro i comunisti, insinuando che i mandanti del suo omicidio erano due giornalisti del Corriere. Cosa del tutto inverosimile. In regime di legislazione premiale se Barbone e Morandini avessero avuto dei mandanti, per soprammercato giornalisti, avrebbero avuto tutto l’interesse a denunciarli invece di coprirli. Inoltre è vero che Fiengo and company avevano montato una campagna d’odio contro Tobagi, e in misura minore contro di me, ma erano persone di così basso livello – io li conoscevo bene – che mai si sarebbero implicate, nemmeno indirettamente, in un omicidio. Il caso volle che a una commemorazione di Tobagi al Circolo della Stampa io incrociassi Bettino Craxi, che nel frattempo aveva avuto il modo di definirmi da New York “un giornalista ignobile che scrive cose ignobili” perché criticavo duramente la deriva presa dal craxismo, nella strettoia che portava fuori dal Circolo. “Sbagli a scrivere quello che scrivi”, mi disse Bettino. “No, siete voi a sbagliare”, replicai. La discussione continuò nel vasto androne del Circolo della Stampa. La schiera dei cortigiani stava a rispettosa distanza. Quando ci lasciammo passai davanti ai cortigiani e costoro, che da anni non mi salutavano, si prodigarono in attuzzi e moine nei miei confronti. Nella loro testa di servi avevano pensato che avessi riallacciato i rapporti col Capo.

 

Sta sparendo, ma con Renzi si deve convivere

Il sorpasso di Carlo Calenda su Matteo Renzi (certificato dal sondaggio Swg di Enrico Mentana) può dirci molto su come sia mutata la percezione degli elettori nei tre mesi di Coronavirus. Non tanto per le percentuali assai ridotte (2,9% Azione, 2,7% Italia Viva) ma per la natura stessa dei due personaggi.

Da una parte un ex premier (de)caduto dalle vette del 41% che la scorsa estate grazie a un’abile e disperata manovra di palazzo si è costruito una preziosa rendita di posizione al Senato, dove i numeri per il governo sono ballerini. Con un partito che ha la consistenza di certe società di comodo: un indirizzo e una buca delle lettere. Quanto alla popolarità e alla simpatia del suo leader, vanno di pari passo ma si sono perse per strada.

Anche quello di Calenda più che un partito è un’insegna, ma (stando agli ascolti) quando parla la gente sembra seguirlo con attenzione. Durante la quarantena è stato costantemente sui teleschermi, spesso per criticare questa o quella cosa del governo Conte, non di rado con argomenti fondati. Il tono saccente, compensato da una certa autoironia non lo rende antipatico, anzi. Texano dai modi spicci, il presidente americano Lyndon Johnson diceva: “Meglio avere i tuoi nemici dentro la tenda che la fanno fuori, piuttosto che averli fuori dalla tenda che te la fanno dentro”. Aforisma smentito da Renzi, uno che nella tenda ci sta ma per farci i comodi suoi. Mentre Calenda, che pure è all’opposizione, forse nella tenda saprebbe come comportarsi.

L’Italia del dopo Covid-19 ne ha le scatole piene del gioco delle tre carte camuffato da politica. Vuole capire non essere manipolata. Cerca ascolto e autenticità, non la lingua biforcuta del qui lo dico e qui lo nego (la furbata che ha mandato assolto Salvini). Purtroppo, anche se nei sondaggi Italia Viva dovesse scomparire sotto la voce “altri”, con il renzismo di potere, come con certi virus endemici, siamo destinati a convivere a lungo.

Mail Box

 

Ben arrivato Gad Lerner e grazie a voi del “Fatto”

Lunga vita a Gad Lerner per il pezzo di ieri. Ma complimenti anche a Marco Travaglio che lo ha invitato. Ho ancora in mente Razza padrona di alcuni anni fa su Micromega.

Tommaso Basile

 

Complimenti per la nuova grafica: azzeccatissima

Al mio buongiorno a tutti devo unire i complimenti per il nuovo Fatto. È azzeccatissimo da qualunque punto di vista. A causa del forzato esilio casalingo, sono stato obbligato ad abbonarmi alla versione online, pur con infinita nostalgia per quella “cartacea”; difatti conservo ancora gelosamente la numero 1. Ma ieri non ho avuto la minima esitazione nell’uscire e acquistare la nuova edizione, che mi sono goduto letteralmente e comodamente sul divano. Sarebbe riduttivo farvi i miei complimenti, peraltro ampiamente meritati, ma non mi sovviene termine migliore. Bravi. Semplicemente bravi.

G. Lepre

 

Quella battuta su Travaglio nella chat tra magistrati

“Non darmi buca sennò chiamo Marco Travaglio” (intercettazione del caso Palamara) is the new “Vieni qui che non ti faccio niente” detto dalle mamme. Gentile direttore, le chiedo se posso usarlo in futuro contro i miei figli, nella speranza che funzioni.

Luca Vanni

Caro Luca, cos’hanno fatto di male i suoi figli per spaventarli così?

M. Trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

In merito all’articolo pubblicato lunedì sul Fatto dal titolo “Eni, deforestazione in Indonesia per fare il biodiesel”, a firma di Stefano Valentino, Eni tiene a precisare quanto segue: 1) Il titolo è del tutto fuorviante e privo di qualsiasi fondamento: Eni non svolge alcuna attività di deforestazione. Inoltre, come abbiamo spiegato e argomentato con estrema trasparenza e a più riprese al giornalista, Eni utilizza solo ed esclusivamente olio di palma certificato secondo le regole internazionali. 2) Nell’articolo si dice che Eni abbandonerà l’olio di palma “non prima” del 2023. Peccato che si ometta, informazione nota al giornalista, che la cosa avverrà ben sette anni in anticipo rispetto a quanto stabilito dalla normativa europea. 3) È assolutamente falso che Eni non sia riuscita a dimostrare che il suo carburante Diesel+ sia più pulito di quello convenzionale. L’Antitrust, infatti, nel provvedimento sanzionatorio non ha messo minimamente in discussione le caratteristiche del carburante, ma ha contestato le modalità espressive utilizzate nei messaggi pubblicitari, e in particolare l’utilizzo del termine green, con argomentazioni che Eni ritiene non condivisibili e che la società ha contestato nel ricorso presentato contro il provvedimento stesso. Dovendo purtroppo constatare che il giornalista, evidentemente mosso da pregiudizi o da altre motivazioni diverse da una corretta rappresentazione dei fatti, non ha tenuto conto minimamente delle nostre repliche sostanziali e dettagliate, vi chiediamo di pubblicare questa nostra precisazione.

Erika Mandraffino, Eni

 

Nell’articolo ho scritto chiaramente che i fornitori Eni dispongono di certificazioni tuttora valide, ma non sono sufficienti a dimostrare che l’olio di palma importato non contribuisca alla distruzione delle foreste. Ho scritto poi chiaramente che Eni si vanta di precorrere i tempi: mi sono limitato a riassumere la posizione espressa dall’Antitrust che ha condannato Eni, ritenendo che quest’ultima non è riuscita a dimostrare che il suo diesel contribuisce a ridurre le emissioni di Co2 rispetto ai carburanti fossili, come peraltro ben argomentato nel provvedimento, poi impugnato al Tar dall’Eni. Confermo di aver tenuto conto di tutte le repliche che Eni mi ha inviato sugli aspetti da me sviluppati nell’articolo.

St. Val.

 

Con riferimento all’articolo pubblicato lunedì sul Fatto, dal titolo “Tabacco riscaldato: ‘non è meno rischioso’”, ci preme sottolineare che, in linea con le Direttive europee, in Italia ciascun prodotto ha un proprio regime fiscale. Non esiste quindi una tassazione agevolata per il tabacco riscaldato. Fino al 2018 l’Italia risultava essere tra i Paesi con la tassazione più alta in Ue sui prodotti di nuova generazione senza combustione, rispetto a quella applicata alle sigarette: nel 2018, questa tassazione è stata modificata dal Parlamento, definendone livelli in linea a quelli degli altri Paesi Ue. Rispetto al profilo di rischio del prodotto, ci teniamo a chiarire che Philip Morris Italia ha volontariamente presentato nel 2018 al ministero della Salute una prima parte di studi ed evidenze scientifiche sul nostro prodotto senza combustione Iqos. Le autorità italiane hanno ritenuto che tali studi non fossero sufficienti per etichettare il prodotto come “a ridotta tossicità” o “potenziale a rischio ridotto” rispetto ai prodotti a combustione.

Tuttavia, a oggi, più di dieci enti terzi governativi internazionali hanno preso una posizione netta nel riconoscere come il sistema Iqos sia in grado di ridurre le sostanze tossiche nel fumo di sigarette, tra questi la Food and Drug Administration la quale nel 2019 ha autorizzato la commercializzazione del prodotto ritenendolo “uno strumento idoneo alla tutela della salute pubblica”.

Infine, ci preme sottolineare che l’informazione da voi pubblicata secondo cui avremmo “diffidato Report dal mandare in onda l’inchiesta” non è esatta: al contrario Philip Morris Italia ha informato la redazione di Report della decisione del ministero della Salute, anche fornendone copia. Philip Morris ha molto più semplicemente chiesto a Report di non dare divulgazione a un documento interno al procedimento con il Ministero della Salute, caratterizzato da segretezza e confidenzialità e contenente informazioni relative ai nostri interessi economici e commerciali.

Philip Morris Italia