Concerti annullati. Con i voucher ci rimettono solo gli appassionati

 

Carissimi, appartengo alla categoria dei padri di famiglia che hanno acquistato un biglietto di concerto per ognuno dei loro figli (1.400 euro, che di questi tempi…). Grazie per il vostro intervento sulla questione dei voucher.

Andrea Cochetti

 

Non è colpa di nessuno quanto è successo in questi mesi, ma tantomeno deve essere colpa nostra, a questo punto, unici a pagare un prezzo davvero alto. Lo Stato ha chiaramente deciso che la filiera del turismo, della cultura e affini fosse sostenuta esclusivamente da noi cittadini! Qui non si parla di una vacanza saltata che si può ripetere in futuro tal quale, né di concerti o spettacoli rimandati: solo in questi casi il voucher avrebbe un senso.

Vincenzo Clemente

 

L’incresciosa vicenda dei voucher per i concerti rimandati è una partita a tre, con due dei giocatori che sembrano farsi l’occhiolino: i grandi promoter, che non sono filantropi e fondano la loro strategia sul rischio, si trincerano dietro una rivendicazione d’innocenza chiamando in causa le istituzioni: il “buono” che garantisce al cliente l’ingresso per altri eventi, spiegano, è stabilito nel Decreto Rilancio, che esenta dall’obbligo di rimborso. Dal canto suo lo Stato, che non ha intenzione di stanziare ulteriori fondi pubblici per gli operatori privati dello spettacolo, assicura a questi la sopravvivenza a medio termine: con i voucher non farete crac, i soldi dell’appassionato sono già in banca a maturare interessi per il prossimo step della vostra attività. I due giocatori, che spesso si sostengono a vicenda con discrezione (guadagnandoci entrambi quando lo show è in un sito di prestigio) fingono adesso di conoscersi poco, e di essere miopi. Ma hanno visto lungo, con quel malcapitato terzo al tavolo. L’unico a rimetterci. Per ora.

Stefano Mannucci

Di cosa parliamo quando parliamo di Fca (e non solo)

Ieri i nostri lettori hanno “colto sul Fatto” Gad Lerner, che ha iniziato la sua collaborazione proprio in occasione del rinnovo del giornale (“un giornale senza padroni”): benvenuto a bordo di questa nave che ancora oggi, dopo dieci anni di navigazione, prova a restare salgarianamente corsara. Volano, in questi giorni, contumelie varie verso i colleghi che raccontano la vicenda dei prestiti richiesti da Fca: la più gentile è “miserabili” (non nell’accezione di Hugo, declinazione che certa sinistra ha bellamente dimenticato). Non risponderemo né a loro, né agli ex amici che ieri hanno criticato Lerner usando la sua amicizia con Carlo De Benedetti: la libertà di pensiero è disciplina poco praticata, a differenza dalla più diffusa libertà di pensierino.

Proprio al Fatto, l’estate scorsa, con grande sincerità Gad Lerner parlò dei rapporti opachi tra la sinistra e il capitalismo italiano. Il titolo era molto chiaro: “Sono un radical chic, amico di De Benedetti. Il Pd non ripartirà da quelli come me”. Nel suo pezzo di ieri è tornato sul punto riflettendo sul primo, lampante effetto collaterale di quelle relazioni pericolose: la rinuncia “a tutelare efficacemente gli interessi delle classi subalterne”. “Oggi, nella recessione provocata dalla pandemia del Covid-19, il tema sta riproponendosi drammaticamente. Anche all’interno del Pd. Basti pensare alle oscillazioni sul prestito agevolato a Fca e sulla concessione di Atlantia”. Non è il solo a essersi accorto della portata di questa mancanza di rappresentanza (Federico Rampini da qualche tempo avverte con insistenza del pericolo di disuguaglianze insostenibili, già prima dell’epidemia, per le classi lavoratrici occidentali).

Dice Lerner: “Non occorre essere né rivoluzionari né anticapitalisti per rendersi conto che alla ricostruzione del Paese non basterà solo l’erogazione di risorse pubbliche. Serviranno soluzioni inedite, dal mutualismo a un ruolo di garanzia dello Stato e dei lavoratori nella proprietà delle imprese in difficoltà, da nuove politiche fiscali a forme di condivisione degli utili”. Forse occorre fare una riflessione (tradotta in norme) sul fatto che il sistema così com’è, oltre a essere ingiusto, non sta più in piedi. Non è questione di amici o di orologi: sono anni che Lerner si giustifica (a proposito: basta) rispondendo a chi lo accusa di possedere un Rolex. Onestamente: sono cose da bambini, utili a distrarre. Il centro sono le idee: il capitalismo dei pochissimi paperoni che non rinunciano a profitti sempre più giganteschi sulla pelle di masse di lavoratori che i governi del mondo hanno trasformato in schiavi, semplicemente non regge. Durante la pandemia abbiamo apprezzato lo sforzo che alcuni ricchi hanno fatto in cifre a sei zeri, donando milioni per tamponare l’emergenza. Ma non è augurabile una pseudo-democrazia che si fonda su assegni di beneficenza (forma moderna delle brioche) a discapito dei diritti. Vero: servono nuove politiche fiscali e un ruolo centrale dello Stato (se abbiamo imparato una lezione in questi mesi è che è impensabile dipendere da altri per filiere importanti come tecnologie e farmaci che garantiscono il diritto alla salute). E allora non può essere un tabù una discussione sul prestito a garanzia pubblica chiesto da Fca, società che (in ottima compagnia di tante altre) molto frugalmente paga gran parte delle sue tasse altrove. Non può essere un tabù la revoca della concessione ad Atlantia: il dibattito dovrebbe essere tenuto vivo costantemente, come una fiaccola a memoria delle vittime. Lo scopo non è alzare il ditino, è mettere in discussione un sistema completamente assurdo dove lavoro, diritti, cittadinanza sono stati ridotti a una buona intenzione. Chi vuol stare a un dibattito adulto e rispettoso dei cittadini è benvenuto.

 

Dà i numeri Tasso di rimpasto a 0,2: servono 5 Gallera per sostituir Gallera

Corre voce, nei corridoi della Regione Lombardia (rimbalzata su qualche giornale), che Giulio Gallera non passerà l’estate: prima verrà affiancato da una task force per arginare le sue intuizioni in campo sanitario-virologico, e poi, verso luglio, allontanato discretamente. Tasso di rimpasto 0,2, cioè, secondo le teorie di Gallera, per sostituire Gallera ne serviranno cinque. Con cinque Gallera all’assessorato alla salute, si prevede un aumento di circa il 125 per cento delle battute spiritose su Gallera, il 56 per cento delle quali faranno abbastanza ridere, e quindi serviranno 2,3 persone senza senso dell’umorismo, ma a passeggio insieme, per far smettere di sghignazzare i lombardi.

Si calcola che su dieci cittadini della Lombardia, nove e mezzo siano molto insoddisfatti, e Gallera ha subito risposto che bisogna attrezzare un ospedale per quel povero lombardo rimasto tagliato in due dalle statistiche: se ne occuperà Bertolaso.

Ma prima le buone notizie: il tasso di contagio in Lombardia è dello 0,5 per cento, quindi per infettarsi (teoria Galleriana) bisogna incontrare due positivi vestiti bene: uno ti tiene fermo e l’altro ti lecca (lo so, la scena è ripugnante, ma la scienza non può essere pietosa, ragazzi!). Quando il tasso di contagio scenderà allo 0,2, sarà sufficiente incontrare sul tram una squadra di basket tutta positiva, e quando si scenderà allo 0,1 per infettarci ci sarà bisogno di un coro di alpini, tutti positivi, che ti passano il fiasco. In quel caso – come si intuisce piuttosto raro – il tampone verrà fatto agli eredi nel 2026, gratis, ma solo se non sorpresi a limonare con 3,8 fidanzate positive. Le teorie matematiche galleriane assumeranno forse per l’umanità un certo valore, in molti campi. Per esempio per un tasso di divorzio dello 0,3 per cento sarà necessario esibire al giudice 3,3 (periodico) amanti della moglie, o, in subordine una dozzina di figli illegittimi già laureati in legge, come papà. Ancora una volta, la teoria darà il suo meglio nel comparto della salute: per dare un euro alla sanità pubblica bisognerà darne due a quella privata, il che lascia intuire che la matematica Galleriana è già ampiamente applicata nelle zone più avanzate del Paese (l’intuizione fu di Formigoni, un matematico del passato, oggi ai domiciliari).

Anche nella dinamica della ricerca, Gallera ha innovato parecchio. Non più il vecchio metodo: problema-dimostrazione-soluzione. Gallera elimina il passaggio della dimostrazione (di solito sostituito da: lo dice l’università di… aggiungere una città a caso) e introduce quello dell’“ho ragione”. Immancabilmente, ogni equazione di Gallera è seguita da un’altra equazione che spiega che voi, cretini, non avete capito l’equazione prima, così lui è costretto a rispiegarla sbagliando di nuovo.

È una teoria che si autosmentisce: secondo la matematica Galleriana perché Gallera abbia ragione bisogna che 17.345 persone mediamente intelligenti muoiano di colpo, Saturno sia allineato con Giove, e il Novara vinca la Champions League. È una cosa che può accadere ogni due miliardi di anni, cioè il tempo – secondo Gallera – che ci metterebbe il virus ad attaccare la periferia di Sondrio in mancanza di due positivi a passeggio insieme.

Diciamolo: è ora – per la scienza, per la Lombardia e per tutti noi – di restituire questo scienziato ai suoi studi. Una simile mente in contatto costante con la metafisica non può distrarsi con piccinerie pratiche come, per esempio, affrontare un’epidemia. Con rammarico, lasciamolo andare.

 

Non sarà lo “straniero” a resuscitare Salvini

Nel pomeriggio di martedì 20 agosto dello scorso anno, al Senato, seduto accanto a Giuseppe Conte che ripudiava solennemente l’alleanza con lui e annunciava le dimissioni del suo primo governo, Matteo Salvini non riusciva a trattenere una serie di smorfie facciali. Stava rendendosi conto di avere commesso un errore politico fatale, di quelli che prima o poi si pagano caro.

Più o meno alla stessa ora il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, accompagnato da due medici, volava in elicottero a ispezionare la nave Open Arms che aveva raccolto in acque libiche 163 naufraghi, di cui 32 minori. Ne restavano a bordo 83, lasciati ventuno giorni in mare, gli ultimi sette a poche centinaia di metri dal porto. Alcuni si erano buttati in mare, altri avevano compiuto gesti di autolesionismo, per tutti la situazione era divenuta insostenibile. Il magistrato dispose l’immediato sbarco dei migranti e il sequestro della nave. Prese il via un’indagine per rifiuto o omissione di atti d’ufficio.

Salvini, dopo la trionfale vittoria alle elezioni europee del maggio precedente, si sentiva ormai predestinato a diventare il capo dell’Italia. Atteggiandosi a difensore dei confini della patria, minacciata da quei pericolosi invasori, aveva dettato l’ordine di bloccare la Open Arms dallo stabilimento balneare in cui trascorreva le vacanze.

Dopo anni di martellante propaganda era convinto, non del tutto a torto, di aver convinto l’Italia intera che la causa principale dei suoi mali fosse l’immigrazione. Lo avevano assecondato gli alleati del M5S e, di fronte a quell’esibizione di “cattiveria necessaria”, i politici del centrosinistra arretravano intimiditi. Si giunse ad additare come criminali i volontari del soccorso in mare e dell’accoglienza.

Non ho mai pensato che questa pagina vergognosa della nostra storia potesse trovare rimedio per via giudiziaria. C’è per fortuna un’Italia migliore che ha vissuto con disagio l’acquiescenza dei più. Salvini, trascinato all’opposizione dal suo stesso delirio di onnipotenza, fallirà la spallata al nuovo governo. Nel frattempo, purtroppo, anche la doppia tragedia dell’epidemia e della recessione si è incaricata di sovvertire la gerarchia delle paure. Nessuno se la beve più la favola che il pericolo per la povera gente venga dal mare. Ben altre sono le priorità.

Non potendo più cavalcare la xenofobia come principale leitmotiv della sua politica, Salvini ha cercato di puntare su altre autorappresentazioni: il patriottismo, il tradizionalismo cattolico. Ma indossando le vesti del nazionalista uomo di fede egli appare talmente inautentico, dilettantesco, da sfiorare ogni volta la carnevalata.

Dall’interno della Lega, primo fra tutti il fondatore Umberto Bossi, gli rimproverano di avere rinnegato la causa dell’autonomismo nordista e di avere fallito nel contempo l’espansione al Sud. La penisola torna a soffrire pericolose lacerazioni geografiche. Ormai, più leghista di Salvini appare non solo il Doge del Veneto, Luca Zaia, ma perfino il viceré borbonico di Campania, Vincenzo De Luca.

A lui non resta che rifugiarsi nel buon tempo andato. Cerca conforto nella sua fama di ministro-sceriffo. Dimenticando di aver chiesto di essere processato insieme a tutto il popolo italiano in uno stadio di calcio, ora esulta se i giochi politici fanno riemergere una tentazione filoleghista mai del tutto sopita tra i parlamentari M5S (ricordate Lannutti, quello che voleva affondare le navi delle Ong?) e incassa l’appoggio dell’altro Matteo.

Neanche la parziale vittoria ottenuta ieri alla Giunta per le immunità del Senato, in attesa del voto d’aula, sembra però in grado di riportare sotto i riflettori i suoi metodi di lotta contro l’immigrazione irregolare. Dovrebbe essere la magistratura a verificare se tali metodi brutali, come a me sembra evidente, abbiano oltrepassato i limiti delle sue prerogative, e quale fattispecie di reato ciò comporti. Lui, come sempre, cerca di atteggiarsi a metà eroe e a metà vittima. Ma il tempo è galantuomo. Non sarà la caccia allo straniero a restituirgli la centralità perduta.

 

La riunione segreta di Palamara all’anm: “Qualcuno scoperà?”

“Sono dei banditi. Vergognosi” (Luca Palamara, capo di Unicost, contro i togati di Area)

Riassunto della puntata precedente: Don Palamara ha proposto la pace agli altri boss dell’Anm. Quando paventò l’uso indiscriminato di intercettazioni e trojan, ci furono vivaci mormorii di approvazione. Ma Davigo minacciò di andarsene, e allora si arrivò a una risoluzione: intercettazioni e trojan sarebbero continuati su larga scala, però non doveva essere tollerata alcuna pubblicazione; e tutti furono d’accordo nello stabilire che si doveva impedire ai pm di commettere atti di vendetta l’uno contro l’altro per fatti personali. Parlarono tutti. Don Barzini (Magistratura Indipendente) disse: “I favori non vengono richiesti con leggerezza, quindi non possono essere rifiutati con leggerezza. Non possiamo lasciare che ciascuno faccia quello che vuole procurando guai a tutti”.

Alla fine Don Palamara cercò di concludere la riunione. “Allora questo è tutto”, disse. “Sono lieto che tutto sia sistemato. Qualcuno di voi scoperà, stasera? Nessuno? Solo io? Ah ah ah!”. Ma Luca Poniz, uno dei capi di Area (toghe di sinistra), era ancora preoccupato. “Vorrei avere delle precise assicurazioni da Palamara. Tenterà qualche vendetta individuale? Oppure possiamo veramente vivere in pace con serenità?”. Fu allora che Don Palamara fece il discorso che doveva essere ricordato a lungo e che consolidò la sua fama di maggior uomo politico del gruppo. Per la prima volta si alzò in piedi per indirizzarsi all’assemblea. “A quale scopo dovrei ricominciare con il disordine?”, disse. “Mi hanno sputtanato, ma questa è una disgrazia che devo sopportare io, senza per questo far soffrire degli innocenti intorno a me. Quindi dico, sul mio onore, che non cercherò mai di vendicarmi, non cercherò di informarmi su quanto è avvenuto. Dobbiamo sempre aver di mira i nostri interessi. Dobbiamo tenerci uniti per difenderci dagli intriganti. Altrimenti ci metteranno l’anello al naso come hanno fatto con i politici di questo Paese. Per questo motivo dimentico la vendetta, per il bene comune. Giuro ora che, fino a quando sarò responsabile della mia Corrente, non si alzerà un dito contro nessuno di voi. Questa è la mia parola. Ma sono superstizioso. Perciò se nuove intercettazioni su di me comparissero sui giornali, la superstizione mi porterebbe a credere che c’entra qualcuno qui presente. Di più: pure se venissi colpito da un fulmine, accuserei qualcuno qui. Ma, a parte questo, giuro su mia madre che non romperò mai la pace raggiunta”.

Detto questo, Don Palamara si mosse dal posto e, percorrendo tutto il perimetro del tavolo, arrivò sino a dov’era seduto Don Poniz. Questi si alzò a salutarlo e i due si abbracciarono, baciandosi le guance. Palamara: “Buon Natale”. Poniz: “Natale è stato cinque mesi fa”. Palamara: “Lo apprendo ora da te”.

Gli altri si alzarono a stringersi reciprocamente la mano e a congratularsi con i due per la nuova amicizia. Non era probabilmente la più calorosa del mondo, ma era il tipo di amicizia sufficiente in quel mondo, tutto ciò di cui c’era bisogno. Palamara: “L’ironia della sorte è che mia madre mi ha sempre detto di non parlare con gli sconosciuti!”.

 

Le autopsie fondamentali contro Sar-cov2

Il mio professore di Anatomia patologica, quando ci vedeva poco interessati alla sua materia o scaramanticamente lontani dalle esercitazioni, ci ricordava: “Ragazzi, sappiate che lavoro sui morti per garantire la vita”. Quanto mai attuale. Se dobbiamo un riconoscimento al miglioramento della pandemia è agli anatomo-patologi. Il virus, salvo prove genetiche che ne dimostrino il contrario, non è mutato: siamo “mutati” noi nel trattarlo. Eppure per ottenere di fare autopsie sui deceduti “per” o “con” Covid si è dovuto lottare. L’Oms non l’ha mai vietato. E invece i cadaveri venivano subito spediti alla cremazione. Uno “spreco” di morti che avrebbero donato la vita a molti malati. Solo dopo che Andrea Gianatti, responsabile dell’Anatomia patologica del Papa Giovanni XXIII di Bergamo e Manuela Nebuloni del Sacco di Milano si sono imposti e hanno effettuato circa 70 autopsie, si sono messi in evidenza aspetti della malattia che hanno suggerito nuovi interventi terapeutici e hanno salvato vite.
Le autopsie sono fondamentali per conoscere la causa del decesso e per conoscere come un nuovo agente “etiologico” provochi malattia. Ciò apre la discussione su un problema ben focalizzato da Cristoforo Pomara (Medicina legale di Catania): “Quanti sono morti per Covid? Quanti avevano altre gravi patologie?”. L’Iss è stato costretto a fare queste valutazioni sulle cartelle cliniche dei deceduti e non sui dati certi offerti proprio dalle autopsie. Non è un tributo alla chiarezza.

 

Sei mesi dopo. Da Bologna alla crisi

L’esordio è in piazza Maggiore, 14 novembre 2019. È autunno, è un giovedì, è sera, eppure le Sardine radunano a Bologna circa 15mila persone. Poco lontano, al Paladozza, Matteo Salvini ne mette insieme 6mila per l’avvio della campagna elettorale di Lucia Borgonzoni. Di lì a due mesi ci saranno le Regionali in Emilia e l’obiettivo di Mattia Santori, Giulia Trappoloni, Andrea Garreffa e Roberto Morotti – i quattro fondatori – è quello di costruire un linguaggio e una mobilitazione civica in opposizione alla narrazione leghista.

Funziona: in poche settimane il flash mob bolognese diventa un movimento che riempie le piazze d’Italia, contribuendo alla riconferma di Stefano Bonaccini. Passate le Regionali, però, per le Sardine iniziano i guai: le piazze si svuotano e i fondatori ce la mettono tutta per alimentare i malumori interni, per esempio facendosi fotografare insieme a Luciano Benetton o partecipando ad Amici. Con lo scoppio della pandemia (e con Salvini relegato all’opposizione) le Sardine si vedono meno. Un paio di settimane fa tornano in piazza Maggiore riempiendo la piazza con 6000 piantine, simbolo ecologico per promuovere una raccolta fondi in favore dei piccoli teatri. Poi, nei giorni scorsi, la lettera di Santori ai suoi: è ora di prenderci una pausa.

“Finito il loro ciclo: è stato letale anche il distanziamento”

Frenate dal Coronavirus nemico degli assembramenti, le Sardine – simbolo dell’ultima stagione politica – hanno annunciato una pausa di riflessione. Per capire se siano vittime del virus che non tollera assembramenti, o magari di una non raggiunta maturità, abbiamo interpellato Marco Revelli, professore di Scienza politica.

Le Sardine avevano iniziato la loro fase calante già dopo le elezioni in Emilia-Romagna?

Ho dato da subito un giudizio positivo sul fenomeno Sardine e lo confermo ora: credo abbiano svolto una funzione civile importante. Cioè fermare l’onda nera che minacciava di travolgere non solo una singola regione. Hanno dato l’occasione e il modo a una grande massa di cittadini di esprimersi , riconoscendosi a vicenda. Le piazze sorridenti e colorate che cantavano Bella ciao hanno dato una svolta positiva alla nostra politica, evitando che in Emilia-Romagna si aprisse una falla irrimediabile al nostro quadro democratico. Detto questo, hanno svolto il loro compito storico politico egregiamente, ma c’è un termine a tutte le esperienze. Soprattutto a quelle che hanno come cifra principale la spontaneità. Quelle piazze non appartenevano a nessuno: il gruppo di ragazzi che le ha innescate ha fornito un’occasione d’incontro a quella moltitudine, non ne rappresenta l’identità.

Poi c’è stato il Covid-19.

Certo, poi si è aperta una fase politica e sociale di segno opposto. Non più trovarsi in piazza stretti come Sardine, ma per senso civico distanziarsi fisicamente. Il segno della responsabilità civile è stato all’improvviso il non stare insieme. Un prezzo gigantesco pagato non all’autorità politica che a mio avviso aveva tutte le ragioni di stabilire il confinamento, ma alla biologia, alle regole feroci del vivente che sono spesso diverse da quelle della cittadinanza. È cambiato il paradigma della vita collettiva, anche se il 25 Aprile abbiamo festeggiato in tanti ma virtualmente.

Le Sardine diventeranno una stampella o una corrente del Pd? Sarebbe la loro fine?

È un capitolo poco interessante: appartiene ai percorsi personali, ma non riguarda più il fenomeno di massa. Quello, com’è naturale che sia, si è esaurito. Se poi sulla base di quell’esperienza qualcuno tra i protagonisti vuole giocare al gioco della politica, benissimo. Ma è un altro gioco. Un gioco legittimo, a cui non mi sentirei di partecipare anche se non grido allo scandalo.

Tra le previsioni sul futuro c’è anche quella che vedrà le Sardine protagoniste della politica locale, in vista del rinnovo del Consiglio comunale di Bologna il prossimo anno.

Come dicevo: è iniziato un altro gioco. Non sottovalutiamo il fatto che allora il pericolo era mortale e fortemente sentito non solo in Emilia. Le elezioni nel capoluogo sono importanti, ma saranno le condizioni locali a decidere. Può darsi che quei ragazzi possano avere una parte, ma ci sarà una continuità con un momento molto alto della partecipazione.

L’annunciata pausa dà ragione a quelli che prevedevano per le Sardine una conclusione simile a quella di girotondi?

Non siamo di primo pelo: ne abbiamo viste molte. E non ci voleva una grande capacità di preveggenza da parte dei profeti di sventura. Chi ripete ogni volta “finiranno come gli altri” ha sempre torto: spegnere gli entusiasmi sul nascere non è una bella impresa. Tutte le esperienze hanno un inizio e una fine: la passione di solito è più forte all’inizio. Oggi sarebbe sbagliato voler mantenere in piedi in sedicesimi un’esperienza che si è rivelata proficua. Bisognerebbe cercare ancora, più che ripetere. L’epidemia ci ha lasciato compiti giganteschi, più impegnativi di quelli svolti dalle Sardine ai tempi.

Cioè?

Penso alla necessità di una svolta radicale del paradigma che ci ha portati sull’orlo di questa catastrofe. E quindi di rivedere il modo con cui si organizzano la sanità, i rapporti tra pubblico e privato, la distribuzione della ricchezza, il trattamento che riserviamo all’ambiente. Eravamo già molto malati prima di ammalarci di Covid: serve uno sforzo intellettuale più ampio di quello portato avanti dalle Sardine. Ora bisogna tornare in mare aperto.

Le sardine diventano una corrente del Pd

A metà gennaio, prima delle elezioni in Emilia-Romagna, il leader del Pd Nicola Zingaretti invitò a cena in casa sua Mattia Santori, Andrea Garreffa, Giulia Trappoloni, Lorenzo Donnoli e Roberto Morotti. Una spaghettata informale con le Sardine, giovani trentenni dalla faccia pulita capaci di riempire con il passaparola tutte le piazze della Regione contro l’avanzata della Lega.

Per Matteo Salvini, vero competitor di quella tornata elettorale, diventano un incubo, per il Partito democratico e Stefano Bonaccini una botta di fortuna insperata. “Un rapporto a distanza così positivo o una convergenza così complessa può funzionare solo se c’è un ufficiale di collegamento che fa bene il suo mestiere, l’ho trovato in un ragazzo in gamba che ha tenuto i rapporti con Mattia Santori da un lato, col mio staff dall’altro” ha rivelato lo stesso governatore nel suo libro La destra si può battere.

Il ruolo di Furfaro, emissario della Boldrini

Dietro l’incontro tra le Sardine e Zingaretti non c’è però un uomo storico del Pd ma Marco Furfaro, vendoliano convinto, candidato con L’altra Europa con Tsipras, oggi coordinatore nazionale di Futura – l’associazione di sinistra di cui Laura Boldrini è presidente e in cui hanno militato diverse Sardine come Donnoli o Maurizio Tarantino – e responsabile della comunicazione del Pd. Complice l’ex Sel i pesciolini avrebbero incontrato (almeno) un’altra volta il segretario dem, sicuramente dopo la vittoria di Bonaccini. Nessun accordo o promesse, ancora molto lontani i due mondi. Troppo soprattutto per una parte delle Sardine che avrebbe preferito discutere dopo lo smantellamento dei decreti sicurezza firmati da Salvini. Se in diverse regioni e città che andranno al voto i referenti locali hanno provato a lavorare per trovare un accordo tra grillini e dem per sostenere singoli candidati validi, a Roma le cene si interrompono, complice anche il Coronavirus, e le diverse correnti ittiche si dividono in branchi.

Il sondaggio interno per 400 attivisti

A fine aprile il Pd ritorna alla carica e in occasione del lancio della piattaforma web Immagina Zingaretti piazza in apertura un intervento delle Sardine. La scelta scontenta molti ma il colpo di grazia agli equilibri interni è una nomina nel coordinamento stesso di Immagina: Simona Giunta, scienziata che vive a New York e prima sardina atlantica. La stessa che organizzò la pizza contro il razzismo.

Furfaro ride dietro le quinte mentre le Sardine iniziano a domandarsi seriamente cosa fare da grandi. Internamente viene lanciato un sondaggio, con diverse quesiti e opzioni di risposta, per testare il sentiment: sulla base dei risultati e delle parole chiave emerse verrà stilato il nuovo manifesto. Su circa 400 attivisti più del 45% ritiene che le Sardine siano nate per “rispondere al vuoto di rappresentanza a sinistra e risvegliare la società civile” mentre solo il 15% ha scelto “combattere le fake news, la disinformazione e il linguaggio d’odio nel web”. La necessità di trasformare l’esperienza ittica in un futuro politico viene ribadito dagli stessi intervistati alla domanda “dove dovrebbero posizionarsi all’interno del dibattito politico”. Il 38,1% è convinto che serva “un’azione di politica attiva, tesa a sviluppare processi di convergenza e rinnovamento del panorama politico esistente” mentre il 30,3% vorrebbe un “movimento associativo di influenza e pressione mediatica in sostegno ai processi di cittadinanza attiva”. Un altro 23,5% sogna “la creazione di un soggetto politico autonomo”.

Campagna felsinea. Lepore aspirante sindaco

Risultati che confermano le diverse correnti del movimento. Nessuna delle Sardine ha voluto commentare il sondaggio, né la lettera pubblicata su Facebook dal fondatore Mattia Santori: “So di essere in minoranza. So che molti di voi non si sentono a proprio agio nella dimensione puramente etica e culturale della politica. Non vi bastano le piantine, avete idee molto strutturate, sapete un sacco di cose. Vi invidio per questo”. Il riferimento è al flash mob bolognese dello scorso 16 maggio. La celebre piazza Maggiore di Bologna, teatro del primo grande evento ittico, si è riempita di fiori e piante in vendita: gran parte del ricavato è stata data al Comune che lo raddoppierà e userà quei fondi per iniziative teatrali nei quartieri per l’estate in città. Un riferimento molto local per un leader nazionale come Santori che ha acuito il gossip cittadino che lo vedrebbe corteggiatissimo da Matteo Lepore, attuale assessore bolognese alla Cultura e aspirante sindaco. Pronto, pur di vincere, anche a offrirgli un assessorato, magari allo Sport.

In questi mesi, Lepore ha iniziato a organizzarsi, facendo diverse riunioni con il suo staff nonostante non ci sia ancora una data certa per le prossime Comunali. Forse troppo prematuro, soprattutto per un partito diviso e sempre più orientato a organizzare delle primarie, Covid-19 permettendo, magari con la partecipazione di personalità nazionali come Gianluca Galletti, ex ministro bolognese all’Ambiente, fortemente sponsorizzato da Pier Ferdinando Casini.

Non ha gradito l’attuale primo cittadino Virginio Merola, che su Facebook ha voluto precisare: “La barca la conduco io fino al prossimo anno. Fino alla fine dell’emergenza le chiacchiere sui candidati non sono utili e comprensibili”.

Il mare, insomma, è ancora mosso, per il Pd e per le Sardine che giovedì prossimo si ritroveranno, virtualmente, in assemblea. I quattro fondatori hanno annunciato che presenteranno il manifesto e Santori spiegherà la sua “idea di Sardine, non voglio assumermi la responsabilità di generare una massa di frustrati rabbiosi che passa più tempo sul web che nella vita reale. Poi ci saluteremo per una legittima pausa di riflessione e di riposo. Potrà partecipare chi vuole. Non sarà la fine delle Sardine. Al massimo uno spartiacque”.

Gallera prima di Gallera: da papà Lions ad Arcore

Era dal mezzo pollo di Trilussa che non si sentiva un così sofisticato elogio della scienza statistica. Il milanese Giulio Gallera ha battuto il poeta romano: “Se l’indice di contagio è 0,5 servono due persone infette allo stesso momento per infettare me”. Come dire che per contrarre l’Aids (indice di contagio 0,1) bisogna fare l’amore contemporaneamente con 10 uomini, o 10 donne. Sono gli effetti collaterali del Covid-19: in poche settimane, imbolsito da un’indigestione di dichiarazioni, conferenze stampa, interviste, dirette Facebook, il più visibile e mediatico degli assessori regionali, pronto alla candidatura a sindaco di Milano, è precipitato nella Geenna dei reietti. Il centrosinistra chiede le sue dimissioni, la Lega lo vorrebbe cacciare. Prima delle illuminazioni statistiche, c’erano state la mancata chiusura in zona rossa di Alzano Lombardo, l’abbandono dei medici di base, i tamponi con il contagocce, il trasferimento degli infetti nelle residenze per anziani, i test sierologici prima rifiutati e poi liberalizzati, il flop dell’ospedale in Fiera. E prima ancora? Chi era Gallera, prima di diventare Gallera?

Era il figlio del Cavalier Eugenio, il padrone delle Ferriere. Quando Giulio nasce, nel 1969, la Ferriera di Caronno Pertusella, cresciuta negli anni del boom a metà strada tra Milano e Varese e a un passo dalla più nota acciaieria dei Riva, è diventata fornitrice dell’Alfa Romeo e fa utili d’oro. Poi la crisi dell’auto e la dismissione dell’Alfa di Arese fa chiudere anche la Ferriera di Caronno. Intanto Giulio si è iscritto al liceo scientifico Vittorio Veneto di Milano. Si professa liberale, come il padre, che oltre a essere Cavaliere del lavoro è anche “governatore” di quella forma moderata di loggia che è il Lions Club. Negli anni dei paninari, Giulio è un bravo ragazzo con le gote rosse che va vestito elegantino, giacchetta invece del bomber, non è proprio un fulmine con le ragazze, cerca di diffondere il verbo liberale, si scontra (a parole) con i ragazzi di sinistra e, benché non sia proprio quello che si dice un leader carismatico, riesce a farsi eleggere nel consiglio d’istituto. Dopo la maturità si iscrive a Giurisprudenza alla Statale di Milano, fa pratica presso lo studio di Marco Rocchini, il sindaco forzista di Arcore, e diventa avvocato. Ma a esercitare davvero la professione è solo suo fratello Massimo, perché Giulio è il politico della famiglia.

Comincia presto, facendosi eleggere due volte, nel 1990 e nel 1993, in consiglio di zona 19, San Siro, nelle liste del Partito liberale. Poi aderisce a Forza Italia, ala laica, non quella formigoniana di Cl, e nel 1997 viene eletto per la prima volta in Consiglio comunale. Dimostra subito una buona capacità di raccogliere voti. Tanto che, rieletto nel 2001, ottavo per preferenze, lo fanno assessore: al Decentramento e ai servizi funebri e cimiteriali, tanto per cominciare. Presagio del futuro? Con il suo sindaco, Gabriele Albertini, non va sempre d’accordo: da liberale, Gallera non approva per esempio la recinzione e la chiusura notturna di piazza Vetra, blindata in nome della sicurezza e della guerra agli spacciatori di fumo; e nel 2003 non si unisce al coro della destra che vuole proibire il concerto a Milano di Marilyn Manson. Cresce, in politica, elezione dopo elezione. Due piccoli incidenti, tra il 2010 e il 2011, non fermano la sua corsa. Il nome del fratello Massimo compare nell’elenco di Affittopoli, perché ha lo studio legale in un appartamento di Porta Romana di proprietà del Pio Albergo Trivulzio. Il nome di Giulio è scritto invece in qualche carta dell’antimafia di Ilda Boccassini, perché gli amici degli amici della ’ndrangheta lo nominano nelle loro telefonate come un possibile interlocutore a cui portare voti. Ma qui il terreno è minato: mai indagato, Gallera ha querelato il Fatto, che aveva raccontato la vicenda, ha vinto e ora chiede molti soldi perché gli avremmo rovinato la carriera. In realtà la sua carriera è stata finora tutta in ascesa. Consigliere di zona, consigliere comunale, capogruppo di Forza Italia, assessore comunale, poi consigliere regionale, infine assessore al Welfare, sanità e assistenza, nell’assessorato con il budget più ricco (19,2 miliardi) nella regione più ricca d’Italia.

Giulio Gallera è uomo fortunato, che trasforma le cadute (altrui) in balzi (propri). Entra in consiglio regionale, per dire, perché nel 2012 sostituisce, come primo dei non eletti, Domenico Zambetti, arrestato perché comprava i voti della ’ndrangheta a 50 euro l’uno. L’anno dopo entra al Pirellone per la porta principale, 11° nella classifica delle preferenze. Conquista la poltrona più ambita della giunta lombarda nel 2016, dopo che il suo predecessore alla Sanità, il ras di Forza Italia Mario Mantovani, atteso una mattina a Palazzo Lombardia per aprire i lavori della Giornata della Trasparenza, viene arrestato per corruzione e concussione. I leghisti cercano di approfittarne per impossessarsi della gestione della sanità lombarda, ma la coordinatrice di Forza Italia, Mariastella Gelmini, non molla la presa e impone Gallera. Poi è tutto un susseguirsi di manovre per contenerlo, mettendogli a fianco uomini di valore, come l’ex rettore Gianluca Vago e l’ex direttore generale della Statale Walter Bergamaschi. Niente da fare. Li fa fuori. Del resto, ha i voti: alle Regionali del 2018 è primo assoluto con 11.722 preferenze. Viene comunque controllato a vista da due leghisti che ne limitano le deleghe e controllano le scelte: Davide Caparini, assessore al Bilancio, e Giulia Martinelli, la Papessa, ex moglie di Matteo Salvini, capo di gabinetto del presidente regionale Attilio Fontana. Non bastano. Poi arriva Covid-19 e Gallera diventa incontenibile. Show quotidiani e gaffe. Ma ora forse la ruota della fortuna è girata.