Camici bianchi e rabbia nera: “Sanità a pezzi”

A due settimane dalla fine del lockdown in Francia, torna a protestare il mondo della sanità, in prima linea nella crisi del Covid-19 tanto negli ospedali che nelle case di riposo, per chiedere migliori condizioni di lavoro e compensi più alti. Ieri erano in sciopero gli operatori del gruppo Korian, che gestisce 308 strutture per anziani in Francia in cui accoglie circa 23 mila ospiti. I sindacati chiedono una rivalutazione degli stipendi di 300 euro al mese (gli infermieri delle case di riposo guadagnano poco più del minimo salariale) e reclamano il bonus di mille euro che la direzione ha promesso ad aprile, ma che non è mai arrivato. “Le parole non bastano, ne abbiamo abbastanza – ha detto Isabelle Jallais, del sindaco Force Ouvrière – la rabbia cresce, è arrivato il momento di mobilitarsi”.

Più di 10 mila anziani sono morti nelle oltre 7.000 case di riposo. Decine e decine di denunce sono state sporte dalle famiglie delle vittime contro questi istituti per “omicidio involontario”. Anche decine di operatori si sono ammalati. Per loro i sindacati chiedono che il Covid-19 venga considerata “malattia professionale”.

La protesta dei dipendenti delle case di riposo coincide con l’inizio degli “Stati generali della salute” (lo chiamano il Ségur de la Santé, dalla rue Ségur, sede del ministero della Salute) lanciati ieri dal premier Edouard Philippe; una videoconferenza riunirà fino a metà luglio circa 300 attori del settore da cui dovrebbe emergere un piano di rilancio della sanità pubblica. Il personale ospedaliero in Francia protesta da più di un anno, molto prima dell’emergere dei primi casi di Covid. Medici e infermieri non chiedono solo aumenti degli stipendi. Da tempo denunciano anni di politiche sanitarie che hanno portato a tagli di personale e di letti (circa 100 mila in 20 anni). Più di mille primari di ospedali si sono simbolicamente dimessi dalle loro mansioni amministrative lo scorso gennaio per “salvare l’ospedale pubblico”. Ora che la pressione legata al Covid si allenta (circa 1.500 malati sono ancora ricoverati in rianimazione, soprattutto a Parigi e nella sua regione), i medici sono tornati a protestare. Giovedì scorso, in diverse centinaia si sono riuniti davanti agli ospedali Robert-Debré e Tenon di Parigi facendo rumore con le pentole ed esponendo slogan come “camici bianchi, collera nera”. Uno sciopero è stato annunciato per oggi dai sindacati degli ospedali di diverse città, tra cui Marsiglia e Agen. E un appello a una giornata di mobilitazione nazionale è stato lanciato per il 16 giugno. “Presidente, lei ha potuto contare su di noi in queste settimane, ci dimostri che possiamo contare su di lei”, hanno scritto in un “manifesto” pubblicato ieri dal quotidiano Libération. In un lungo testo propongono soluzioni concrete: aumento degli stipendi, soprattutto dei più bassi, e del budget annuo per la sanità, nuove assunzioni, riorganizzazione degli studi di medicina, incremento del numero dei letti negli ospedali, accesso uguale per tutti alla sanità pubblica, fine delle disuguaglianze territoriali.

Ieri il premier Philippe ha fatto tante promesse: “Siamo immensamente riconoscenti ai nostri medici e ospedalieri e questa riconoscenza – ha detto – si tradurrà in un aumento significativo delle remunerazioni”. Da dati Ocse, lo stipendio degli infermieri francesi (da circa 1.700 a circa 2.300 euro netti al mese, secondo i dati del ministero) è al di sotto della media. Philippe ha anche promesso una riorganizzazione del sistema sanitario e un “piano massiccio” di investimenti “sul territorio, per favorire la coordinazione tra città e ospedali, tra pubblico e privato”. Appena alcuni giorni fa, Emmanuel Macron, in visita all’ospedale Pitié-Salpetrière di Parigi, aveva pronunciato un timido mea culpa: “Abbiamo sicuramente commesso degli errori strategici” di politica sanitaria. Un piano per la Sanità, “Ma santé 2022”, era stato elaborato nel settembre 2018 dall’ex ministra della Salute, Agnès Buzyn. Nel novembre 2019, in risposta alla protesta negli ospedali che non si placava, il governo aveva poi promesso ulteriori 150 milioni di euro all’anno. Ora anche a Macron questo piano appare “insufficiente”.

Il presidente ha deciso di dedicare ai medici eroi della crisi del Covid, che per due mesi i francesi hanno applaudito dai loro balconi e finestre, la festa nazionale del 14 luglio e consegnerà loro la medaglia della Legione d’onore. Ma è sicuro che ai medici non basteranno le onorificenze.

Vade retro Sgarbi. Il Caravaggio resta a casa sua

“Il Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio rappresenta uno dei tasselli fondamentali del nostro patrimonio artistico e una delle attrazioni più importanti della nostra città per viaggiatori e turisti. Apprendiamo solo da notizie di stampa della presunta volontà di un prestito per una mostra organizzata al Museo di Rovereto. Non possiamo che esprimere la nostra contrarietà allo spostamento della preziosissima e fragile tela”. Ieri è stata questa sacrosanta dichiarazione del sindaco e dell’assessore alla cultura di Siracusa a certificare quanto si sbagliassero coloro che (come me) speravano che la crisi del Covid ribaltasse le nostre priorità, o almeno cambiasse qualcosa nell’inerte carrozzone delle mostre. Nulla: tutto come prima.

La storia è quella di sempre: una cattiva politica genera una pessima politica culturale. L’amministrazione leghista della Provincia autonoma di Trento ha voluto Vittorio Sgarbi presidente del museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto. E lì Sgarbi fa ciò che fa da decenni, in ogni occasione e in ogni luogo: lanciare mostre con nomi di cassetta, Caravaggio su tutti. Ma, si sa, Caravaggio sulle Dolomiti scarseggia. Così Sgarbi – già assessore all’Identità siciliana nella giunta regionale Musumeci – ha pensato bene di provare a strappare un Caravaggio alla Sicilia. È stato facile ottenere il via libera del proprietario del grande e fragile dipinto, il Fondo Edifici di Culto del ministero dell’Interno: il suo presidente Eike Schimdt, nominato da Matteo Salvini, è evidentemente incline a prestarne le opere a organizzatori che galleggino nell’arcipelago leghista. Ma ciò con cui l’ex assessore all’Identità siciliana non aveva fatto i conti è la crescente insofferenza siciliana verso il tratto colonialista di una industria delle mostre che tratta i Caravaggio siciliani come casse di limoni da sbattere su camion e navi in partenza verso i ricchi mercati del nord. E ora la levata di scudi di istituzioni, intellettuali e giornali siciliani lascia sperare che le ruote di questo ennesimo carrozzone si inceppino.

Se una cosa il Covid dovrebbe averla insegnata è che abbiamo un disperato bisogno di ricostruire la comunione con gli spazi pubblici delle nostre città. Abbiamo bisogno di un turismo di prossimità in cui siano innanzitutto i siracusani e i siciliani a riscoprire il nesso tra la dolentissima, silenziosa Santa Lucia di Caravaggio e le pietre bianche della loro incantata città. Magari decidendosi a riportare quel quadro nel suo contesto d’origine: quella fascinosa chiesa di Santa Lucia al Sepolcro, fuori dalle mura urbane, sul cui altare la volle il Senato di Siracusa nel 1608. Un luogo periferico e struggente, una chiesa intorno alla quale, al tramonto, giocano a palla i ragazzi poveri del quartiere: una situazione che sembra condensare l’idea di Pasolini (e di Roberto Longhi) del Caravaggio popolare, e rivoluzionario. È un nesso determinante, quello tra il quadro e lo spazio che lo ospita: perché il vero protagonista di questo capolavoro è proprio lo spazio enorme che inghiotte i corpi, aprendo la strada alle visioni abissali di Rembrandt. Tutta questa poesia, questa densità di significati, questa rete di sguardi: tutto finirebbe lacerato cacciando la Santa Lucia all’altro capo dell’Italia, nella luce fredda del Mart.

La morale della storia ce la regalano Bubbles, Maggie e Berkley. I tre pinguini che il Nelson-Atkins Museum di Kansas City ha pensato bene di far scorrazzare per le sue sale, vuote a causa della pandemia. Il direttore del museo ha dichiarato, serio, che si aspettava che i tre avrebbero sostato di fronte alle acque luccicanti di Monet. Invece – guarda tu – si sono incantati a guardare il malmostoso Battista adolescente di Caravaggio. “Non abbiamo idea di cosa sentano, di cosa gli passi per la mente quando sono di fronte a Caravaggio”, ha commentato, serio, l’ineffabile direttore del museo. È la stessa cosa che, qui in Italia, pensiamo degli stanchi domatori dello stanchissimo circo delle mostre.

Fermi tutti: Silvia Romano è andata dall’estetista

Trentatré scatti di agenzia che immortalano Aisha Silvia Romano che esce di casa, la mano alzata nel tentativo di coprire gli occhi e sale in taxi con la madre.

La notizia battuta e rilanciata da tutti i giornali è: “Un centro estetico è la prima meta scelta da Silvia Romano alla fine della quarantena di 14 giorni iniziata l’11 maggio quando la giovane donna è tornata a Milano”.

Alle 14.30 di ieri la ragazza è quindi uscita dal portone del palazzo di casa, un velo beige a coprire la testa e le spalle, guanti, una borsetta sulla spalla, una mascherina bordeaux e abiti blu.

Alle 15.40 il rientro: uscita dal suo appuntamento Aisha Silvia ha il passo spedito.

Accelera raggiungendo il taxi che l’aspetta tentando di evitare i fotografi. Si sentono solo le raffiche dei flash dei reporter. La madre Francesca Fumagalli è insieme a lei, visibilmente indispettita dall’assiepamento dei cronisti. Uno di questi le si pone davanti e lei lo scansa con la mano. Con l’altra sollecita la figlia a entrare in macchina, vuole proteggerla da tutta quell’attenzione mediatica. Il giornalista respinto si rivolge a Fumagalli chiedendo se è matta. “Sì, sono matta, ve le spacco tutte così vediamo se non la smettete”, la risposta della donna. Le due, a bordo di un taxi, sono quindi rientrate in casa.

Il breve viaggio di ieri è la sola novità della vita dell’ex cooperante che ha di fatto concluso il suo periodo di isolamento previsto dall’emergenza coronavirus.

Finora la 24enne era uscita di casa soltanto per essere sentita dagli inquirenti nell’ambito dell’inchiesta per “minacce aggravate” sui social: inviti all’impiccagione, bollata come “sporca musulmana” e “amica dei terroristi”; in quell’occasione si era detta “serena”. Giorni prima aveva aperto un nuovo profilo Fb con il nome acquisito in seguito alla sua conversione all’Islam.

 

Diaz, cartelle “sbagliate” ai superpoliziotti: i condannati non pagano le spese ai pestati

Quarantuno cartelle esattoriali per un totale di un milione di euro. Sono una parte dei soldi che alti funzionari della Polizia condannati nel processo sui pestaggi e le prove false al G8 di Genova devono alle parti civili, i ragazzi massacrati la sera del 21 luglio 2001 nella scuola Diaz. Ma i condannati le hanno impugnate perché le somme sono state calcolate male e stanno vincendo le cause. La vicenda va oltre il processo concluso il 5 luglio 2012, quando la Cassazione conferma le condanne per 25 persone tra cui l’ex capo del Dipartimento centrale anticrimine Francesco Gratteri, l’ex numero uno della squadra mobile di Firenze Filippo Ferri e l’ex dirigente del reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini. I giudici, infatti, stabiliscono che i condannati devono ripagare anche le spese legali alle parti civili ammesse al gratuito patrocinio. Gli importi sono stati anticipati, come da legge, dal ministero della Giustizia che poi ha affidato a Equitalia Giustizia il compito di recuperarli.

Nel 2018, però, le cartelle emesse nel 2017 cominciano a tornare indietro via tribunale. I condannati avevano cominciato a contestarle lamentando tra l’altro un “errore di quantificazione”. Gli importi, dicono, sono stati calcolati in via solidale. “Ma la legge 69/2009 ha riformulato l’articolo 535 del codice di procedura penale, che da allora stabilisce che la somma deve essere richiesta ‘pro quota’”, spiega Francesco Cento, ai tempi capo dell’ufficio legale di Equitalia Giustizia. Un esempio: se la pretesa era di 300mila euro e c’erano 10 condannati Equitalia chiedeva l’intera cifra a ciascuno di loro quando avrebbe dovuto chiederne 30mila a testa. Il principio era chiaro fin dal giudizio vinto il 9 ottobre 2018 dall’ex vicedirettore dell’Ucigos Giovanni Luperi. Lo aveva ribadito quel giorno in tre sentenze il giudice Stefania Salmoria: “Tale assunto – si legge – trova conferma nella nota ministeriale del 14.7.2009, emessa in attuazione della richiamata legge 69/2009”. Come ribadito poi in una circolare del luglio 2015 e in una nota di Maria Stella Moroni, capo dell’ufficio recupero crediti della Corte d’appello di Genova inviata a Equitalia Giustizia il 16 gennaio 2017 .

“A marzo 2019 – spiega il legale – c’erano state 41 impugnazioni per un totale di 1.034.902,67 euro. Finora sono arrivati 25 provvedimenti: un solo ricorso accolto, in 6 casi le cartelle sono state annullate, in 11 sono state sospese e in 7 casi è stata dichiarata cessata materia del contendere perché a pagare era stato il ministero”. Non della Giustizia, ma dell’Interno. “Sì, perché Equitalia gli ha trasmesso le cartelle in quanto responsabile civile per i danni causati dai suoi funzionari – prosegue – . Il Viminale le ha pagate e il loro annullamento gli impedirà di rivalersi sui condannati”.

Ilva sempre a rischio, Mittal va al ministero senza un piano: “Lo avremo tra 10 giorni”

I sindacati, e non solo loro in realtà, temono il bluff: sono convinti che ArcelorMittal, colosso mondiale dell’acciaio, abbia da tempo deciso di andarsene dall’Italia ridando indietro l’ex gruppo Ilva allo Stato dopo averlo portato al collasso. Un pezzo del governo, in particolar modo il ministero dell’Economia, è invece convinto che bisogna far di tutto per trovare un accordo con la multinazionale franco-indiana, che al momento è solo “affittuaria” degli stabilimenti e può liberarsi entro novembre pagando una penale non superiore ai 500 milioni di euro. Negli stabilimenti, intanto, proseguono gli scioperi, ripresi dopo che ArcelorMittal ha annunciato che metterà in cassa integrazione un altro migliaio di lavoratori: un segnale di smobilitazione. L’ad dell’azienda in Italia, Lucia Morselli, nega: “Confermiamo gli impegni presi”, ha detto ieri in un incontro col governo, a cui s’è presentata però senza un piano industriale. “Ci stiamo lavorando – ha detto – la situazione cambia ogni 24 ore: ci servono una decina di giorni”. Come detto, il timore di sindacati, commissari e un pezzo dell’esecutivo è che sia l’ennesimo bluff.

Addio a Siglienti, il banchiere che duellò con Cuccia

Proprio ieri Enrico Berlinguer avrebbe compiuto 98 anni e il suo più giovane cugino Sergio Siglienti, che ne aveva compiuti 94 una settimana fa, lo ha, come suol dirsi, raggiunto in cielo. E vale la pena, allora, ricordare una delle saghe più straordinarie dell’Italia repubblicana. La biografia di Berlinguer scritta da Peppino Fiori racconta che fu il cuginetto Sergio a portare Enrico sulla canna della bicicletta fino alla casupola nella campagna di Sassari in cui una riunione clandestina di comunisti gli consegnò la sua prima tessera del Pci. Sergio aspettò fuori perché lui, come suo padre Stefano, era azionista. Sua madre era Ines Berlinguer, sorella di Mario, padre di Enrico. Mario Berlinguer e Stefano Siglienti partecipano insieme al governo Bonomi nel 1944: il primo fu commissario all’epurazione, il secondo ministro delle Finanze. I Berlinguer, i Siglienti, i Segni e i Cossiga, tutti imparentati tra loro, fanno di Sassari una delle maggiori concentrazioni di intelligenza politica della storia italiana: producono il leader del Pci, due capi dello Stato, un premier, un ministro, due grandi banchieri, un leader provvisorio come Mario Segni. Stefano Siglienti, chiusa la parentesi politica, prende la guida dell’Imi, la banca decisiva della ricostruzione, che rimarrà per decenni la grande rivale di Mediobanca. Sergio Siglienti si impiega alla Banca commerciale italiana, di cui diventa direttore generale e poi ad. Negli anni ’90, dopo la privatizzazione maldestra, Comit finisce nell’orbita di Mediobanca e Siglienti capisce che è ora di cambiare aria. Il suo duello con Cuccia assume toni e ritmi da cartone di Tom e Jerry. Siglienti si sposta alla guida dell’Ina-Assitalia, ma poco dopo le Generali, nell’orbita Cuccia, scalano anche l’Ina. Siglienti si ritira, affida a un libro (Comit, una privatizzazione molto privata) il suo velenoso (e profetico) racconto di un sistema in cui nelle banche gli imprenditori debitori comandavano troppo.

Intesa sui precari: per ora i supplenti e poi il concorso

Ignorata per anni dalla politica, la scuola in queste ore sembra il fulcro di ogni interesse. E non per il rientro in sicurezza o per l’edilizia scadente e le classi affollate bensì per il concorso dei docenti precari, circa 32mila che chiedevano – soprattutto mezzo sindacato – di essere assunti senza prove selettive, solo per titoli. Non una questione di vita e di morte: la vicenda di chi insegna da almeno tre anni nella scuola non è nuova, anzi. Nuova, al massimo, è la strategia di chi ha scelto questo momento emergenziale per farlo diventare quasi un caso di tenuta del governo, tanto da spingere il premier Conte a dover mediare in notturna, tra domenica e lunedì. Il risultato è un piano che è riuscito a scontentare tutti: i precari a cui toccherà comunque un concorso ma ad anno scolastico iniziato, i sindacati e parte della maggioranza (Pd e LeU soprattutto) per lo stesso motivo, il M5S che ha dovuto cedere, e i ragazzi che troveranno in cattedra, a settembre, 10mila docenti precari che avrebbero potuto non esserlo se le prove fossero state fatte per tempo. L’accordo è arrivato di notte, ieri la discussione in commissione al Senato: ci sarà solo uno scritto, niente test a crocette ma domande a risposta aperta, chiamata dalle graduatorie provinciali, poi concorso a inizio autunno e possibilità di retrodatare l’assunzione per chi avrebbe preso il posto se si fosse fatto in estate.

Certezza: a settembre non si sfugge alla “supplentite”. Saranno almeno 200mila i supplenti, la metà solo sul sostegno e soprattutto tra scuole medie e superiori. In queste ore si sta mettendo a punto la cosiddetta “chiamata veloce” prevista nel decreto Scuola di dicembre, che permetterà alle regioni di “mettere a bando” i posti vuoti e, a chi è nella graduatoria adatta, di candidarsi per quei posti e avere così prima il tempo indeterminato. Si tampona, insieme alle graduatorie provinciali, la tenuta di una scuola che dovrà affrontare anche il ritorno post-emergenza.

La cassa c’è, ma serve per i debiti

Non ci hanno pensato due volte. Era passato un anno dal disastro del Morandi, con le roventi polemiche sull’eventuale revoca della concessione, e Autostrade per l’Italia deliberava l’ennesimo lauto dividendo da 310 milioni a favore della controllante Atlantia dei Benetton. Liquidità in uscita dalle casse di Autostrade, nel 2019, come se nulla fosse accaduto. Come se per Autostrade il destino non si incamminasse verso una stagione difficilissima nei rapporti con lo Stato. Questa volta con il Covid è stato diverso. Niente dividendo solo per poter bussare a Papà Stato per avere 1,2 miliardi di prestito garantito per sopravvivere, come hanno fatto intendere i vertici di Atlantia. Una strada molto comoda. Da sempre i Benetton hanno gestito le autostrade come fosse un bancomat.

Un ventennio fatto di acquisizioni a debito, di investimenti bassi solo per garantire cedole ultramilionarie alla famiglia di Ponzano Veneto. Solo negli anni dal 2014 al 2017 sono usciti dalle casse di Autostrade 2,8 miliardi a favore di Atlantia. E in un intero decennio Autostrade ha ripagato i suoi soci forti con ben 6 miliardi di dividendi, più di tutti gli investimenti fatti per gestione e sicurezza della rete. Un modo di gestire la società dai grandi flussi di cassa come se nulla potesse mai scalfirla, senza che un evento eccezionale potesse sparigliare le carte. Ora il redde rationem. Il crollo del traffico nei mesi del lockdown penalizzerà i ricavi per Aspi che rischia di vedere azzerati i profitti abituali. Ma da qui a chiedere la sovvenzione garantita dai contribuenti ce ne corre. Autostrade potrebbe farcela da sola. In cassa la società ha riserve per 2,9 miliardi, di cui 1,6 di liquidità e 1,3 di linee finanziarie. Non solo, in pancia ad Atlantia – che controlla Aspi con l’88% delle quote – ci sono riserve liquide per 15 miliardi di cui 5,2 di cassa e 10,4 di linee finanziarie. Se è vero che Autostrade rischia di essere strozzata da mancanza di liquidità, potrebbe intervenire la controllante.

Ma qui salta il giochino facile dei Benetton che si sono fatti autogol da soli nella stagione ventennale dei dividendi a pioggia: quella liquidità non si può toccare, pena il crac della stessa Atlantia. Quei soldi stanno a baluardo di un debito infinito. Sempre salito. Addirittura da 9 miliardi ai 38 attuali, figli di un’altra acquisizione tutta a debito: quella del gigante spagnolo Abertis. I Benetton hanno usato il debito, anziché soldi propri, per crescere oltre misura e ora ne pagano le conseguenze col crollo del traffico, minori ricavi e flussi in caduta che non reggono più l’insostenibile peso del debito. La liquidità c’è, ma deve stare in cima alla catena accanto ai 38 miliardi di debito, altrimenti il rating che già è spazzatura verrebbe declassato ulteriormente. Se per 20 anni prosciughi i lauti utili della concessione, sotto forma di cedole per famiglia e azionisti, poi non puoi battere cassa a Papà Pantalone, chiedendo il solito aiuto pubblico. Non è il Covid ad azzoppare Autostrade, ma l’enorme castello di debito costruito in modo spregiudicato dai Benetton sulle lucrose concessioni pubbliche. Bussare ora allo Stato è quanto meno poco elegante.

Autostrade, Conte stringe. Ecco le ipotesi in campo

Una lunga riunione, iniziata poco prima delle 17 e conclusasi poco dopo le 19. Oltre due ore di faccia a faccia a Palazzo Chigi. Allo stesso tavolo ieri si sono trovati Giuseppe Conte e i ministri Paola De Micheli (Infrastrutture) e Roberto Gualtieri (Economia) per venire a capo del dossier Autostrade per l’Italia (Aspi). Gli indizi raccontano di uno stallo notevole, la sensazione è che il governo sia in un vicolo cieco. Basta guardare la Borsa per capire il quadro: il titolo di Atlantia – la holding controllata dai Benetton che ha in mano la concessionaria – ha aperto la giornata con un crollo di oltre il 5% in scia alle indiscrezioni che danno la revoca della concessione ancora in ballo, per poi chiudere addirittura in positivo, senza che formalmente nulla fosse intervento a mutare lo scenario. A Palazzo Chigi e nei ministeri nessuno vuole commentare. L’unica certezza è che il premier ha deciso di, come si suol dire, riprendere in mano il dossier dopo i mesi della crisi sanitaria e le polemiche dei giorni scorsi. La riunione non è stata risolutiva, ma è servita se non altro a fare il punto sulla lunga istruttoria elaborata dal Mit.

Il dossier prodotto dalla De Micheli è ormai da tempo in mano a Conte (e ai 5Stelle di peso). L’analisi parla di “gravi responsabilità” di Aspi, e non solo sulla manutenzione del Morandi: analizza anche le mancanze nella gestione dell’intera rete autostradale (2.800) in concessione al gruppo. Gli investimenti in sicurezza, per dire, sono giudicati “qualitativamente e quantitativamente insufficienti”. Il testo prende così in esame due scenari, più un terzo che è in realtà sotteso. Il primo è la revoca della concessione, considerando i 43 morti e le mancanze della società. È un’ipotesi che, stando al dossier, comporta due rischi: quello di incappare in un sicuro contenzioso, con Aspi che cercherà di far valere la clausola della concessione – regalata nel 2007 dal governo Berlusconi e blindata per legge – che le assicura un risarcimento monstre (si parla di 20 miliardi) anche in caso di revoca per colpa grave; il secondo, rischio, a parere dei tecnici del Mit riguarda i tempi per bandire una nuova gara europea per riaffidare la concessione, tenuto conto che la gestione della rete (e degli 8mila addetti) di Aspi potrebbe passare temporaneamente alla pubblica Anas. Potrebbero servire anche 3-4 anni prima di arrivare a un nuovo affidamento, tempo che – si legge nel report – vedrebbe un sicuro stop a investimenti rilevanti (ammesso che Autostrade ne li avrebbe davvero fatti, considerato che in media ha investito 500 milioni l’anno in questi anni). C’è anche un altro aspetto considerato un rischio dal dossier ministeriale: è quasi certo che con una gara europea il vincitore sarebbe straniero, consegnando così una infrastruttura strategica in mani estere.

Il secondo scenario ipotizzato nel dossier è invece quello di una transazione in forma di indennizzo per chiudere la ferita del Morandi, tra maggiori manutenzioni e riduzione delle tariffe. Finora Aspi ha offerto 2,9 miliardi, anche se – di questi – la cifra davvero messa in campo si riduce a 1,5 miliardi, che, spalmati sui 18 anni di concessione residua, per un’azienda che a una redditività pari a oltre metà dei ricavi, sono quasi un insulto. Il governo, infatti, non ha risposto, ma la cifra che vuole cdai Benetton, e ventilata nel dossier, sarebbe assai più elevata di quanto offerto finora.

Il terzo scenario non è espresso chiaramente, ma è, per così dire, sottinteso, visto lo stallo in corso: l’uscita di scena della famiglia di Ponzano veneto, con la vendita della loro quota. Atlantia possiede l’88% del capitale di Autostrade. De Micheli, e più in generale il Pd si accontenterebbero della perdita del controllo societario. Conte, invece, vuole l’uscita di scena totale. Problema: i Benetton sono disposti a farlo solo a prezzo pieno, e valutano la loro quota 5,5 miliardi, cifra che nessun investitore è disposto a concedere, tanto più che una revisione della concessione è considerata inevitabile.

Aspi, infatti, ha già consegnato la sua proposta per il rinnovo del Piano finanziario quinquennale, che per legge deve per forza includere l’adesione al nuovo sistema tariffario studiato dall’Autorità dei trasporti, che riduce dal 10 al 7% la remunerazione degli investimenti, pagati in tariffa solo se effettivamente realizzati (ora basta la promessa). A conti fatti, insomma, Aspi dovrà ridurre comunque la sua gigantesca redditività. Per ora i Benetton non ne vogliono sapere e si accingono a chiedere la garanzia pubblica su 2 miliardi di debiti stabilita dal decreto Imprese, scelta che blinderebbe la concessione.

Giustizia sociale per salvare l’Ue

Fra non molto sapremo cosa succederà al Recovery Fund che Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno proposto il 18 maggio: 500 miliardi di euro per sostenere i Paesi più colpiti dal Covid-19, erogati sotto forma di sovvenzioni e non di prestiti che aumenterebbero il debito e la dipendenza di Stati come l’Italia Sarebbe l’Unione a indebitarsi collettivamente sui mercati, accollandosi prestiti a lunga scadenza, rimborsabili sulla base delle quote di ripartizione previste nel bilancio europeo (i Paesi che più ne beneficerebbero non dovrebbero pagare di più). Grazie all’insistenza di Italia e Spagna la Merkel ha infine accettato il principio di un debito condiviso – fino a ieri un’eresia in Germania – ma basta un solo Paese membro per bloccare l’iniziativa: già ce ne sono quattro a opporsi (Austria, Olanda, Svezia, Danimarca) cui si aggiungeranno alcuni Paesi dell’Est. Sicché il Recovery Fund vedrà forse la luce, ma ancora più smilzo (il fabbisogno indicato a suo tempo da Gentiloni era di 1.500 miliardi) e con una preminenza di prestiti condizionati.

Si dirà che questa è in fin dei conti l’Unione: un contratto revocabile, se c’è chi non si fida. Che le divergenze fra nord e sud non sono nuove, essendosi già manifestate sulla migrazione, quando Italia e Grecia furono lasciate sole a fronteggiarla e l’Unione rispose mettendo la politica d’asilo in mano a Turchia e Libia. Che toccherà adattarsi e accettare quel che offre la ditta (“col cappello in mano”) viste le rovinose condizioni in cui versano Paesi come l’Italia o la Spagna.

Si dirà tuttavia il falso, perché l’Unione non nacque per essere un contratto fra creditori e debitori, fra ricchi e impoveriti, fra vincitori e vinti. Nacque per evitare proprio questo rapporto di forze – la balance of power che regnò in Europa per secoli – e per scongiurare gli effetti della grande crisi del ’29: risentimento dei popoli, nazionalismi totalitari, guerra. La nostra Costituzione lo dice chiaramente, nell’articolo 11: la guerra è ripudiata, e le limitazioni di sovranità sono consentite alla sola condizione che assicurino “pace e giustizia fra le nazioni”. Oggi questa giustizia non c’è, la crisi economica derivata dal Covid viene equiparata da Draghi alle rovine della guerra, e l’Unione pur offrendo aiuti di vario genere tergiversa e agonizza.

Le parole usate in queste settimane occultano quest’agonia, essendo in genere false. Ne citeremo alcune.

Si annuncia ad esempio l’avvento di un piano Marshall, del tutto a sproposito. Gli aiuti all’Europa postbellica erano composti per oltre il 70% di donazioni, non di prestiti più o meno agevolati. Non meno sconcertante la seconda dimenticanza: il piano si inseriva in una strategia più vasta, che comprendeva il condono dei debiti europei, in prima linea tedeschi. La cancellazione dei debiti contratti dalla Germania fra il 1919 e il 1945 fu approvata nel 1953 nella conferenza di Londra. Tra coloro che rinunciarono alla riscossione c’era l’Italia, oltre a una ventina di altri paesi.

In qualche modo fu la vittoria di Lord Keynes, che fin dal primo dopoguerra aveva messo in guardia i vincitori del ’14-’18: le riparazioni chieste alla Germania avrebbero distrutto la giovane Repubblica di Weimar, ed equivalevano a uno strozzinaggio foriero di odio e guerre, come puntualmente avvenne con l’ascesa di Hitler. Con i suoi esitanti e lenti aiuti post-Covid, l’Unione sembra tornata non al secondo dopoguerra ma al primo.

Si parla di New Deal e Roosevelt, ma nulla di simile è in vista. Non una sistematica lotta alla povertà, non la solidarietà con le classi e le regioni più afflitte dal virus, non il superamento del dogma del laissez-faire, del mercato che aggiusta gli squilibri grazie alla non ingerenza e sottomissione degli Stati. Il Patto di stabilità è sospeso, non abolito. Poi ci sono imprese che addirittura chiedono allo Stato di garantire prestiti ingenti pur di poter versare agli azionisti i ricchi dividendi che hanno promesso (è il caso di Fiat-Chrysler, e ha fatto bene Andrea Orlando a indignarsene).

L’Unione è figlia del New Deal, del Piano Marshall, ma soprattutto del Welfare State: una protezione sociale universale concepita non dopo il riordino delle finanze nazionali ma nel mezzo della guerra, quando Churchill affidò a Lord Beveridge il compito di elaborare un piano che curasse alle radici il risentimento sociale sfociato nell’esperienza nazi-fascista. Beveridge è ricordato per il servizio sanitario pubblico e i sussidi ai disoccupati cui diede vita, e per la parallela militanza in favore di un’Europa unificata su queste basi.

Un’altra parola usata a casaccio è sovranismo, confuso con nazionalismo e antieuropeismo. Sovranità è l’indispensabile capacità di decidere presto nelle emergenze, e nell’Unione solo la Banca centrale la possiede, non senza difficoltà da quando la Corte costituzionale tedesca l’ha criticata con argomenti giuridicamente nefasti (il diritto europeo viene gravemente leso) ma non del tutto immotivati nella sostanza: la Bce – dice la sentenza del 5 maggio – non può avere come unico scopo i prezzi stabili, e dovrà meglio valutare gli effetti economico-sociali del proprio agire.

Alle prese con il Covid-19, l’Unione sembra aver perso forza centripeta, è lenta e tuttora fautrice di riforme strutturali che lungo i decenni hanno messo in ginocchio i nostri servizi sanitari. Quando New Orleans finì sott’acqua, nel 2005, Washington non disse che lo Stato della Louisiana doveva “far ordine in casa propria” prima di ricevere aiuti, come usa preconizzare l’Unione.

Gli unici che potrebbero muoversi sono i suoi cittadini, cui è stato affidato un ruolo determinante e assolutamente inedito durante il lockdown. Disciplinando se stessi, sono di fatto diventati i governanti della lotta al Covid. Lo spiega bene il filosofo Fabio Frosini, in un saggio pubblicato il 19 aprile nel sito Dinamopress, descrivendo la “mobilitazione totale della popolazione” generata da una pandemia gestita come guerra. Mobilitazioni simili possono generare ordini nuovi più giusti o disastri, a seconda. Dipenderà dagli Stati, dall’Unione, e dalla ridefinizione delle rispettive sovranità.

Il 10 aprile scorso, Giuseppe Conte annunciò che si sarebbe presentato al vertice europeo “con la dignità e la forza di un popolo”. Se l’Unione vuole riprendersi è da questa consapevolezza che potrà ripartire. Per citare ancora Keynes: dovrà abbandonare l’idea che la giustizia sociale sia un male, e l’ingiustizia una cosa utile per l’economia.