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Caro Direttore, nell’articolo dal titolo “La Palamarata”, a sua firma, pubblicato sabato sul Fatto, si legge: “perché un anno fa, dal maremagno delle conversazione intercettate, ne furono selezionate e trasmesse al Csm soltanto alcune: quelle funzionali al giro vincente”. Non è la prima volta che sul Fatto vengono scritte inesattezze sulla inchiesta della procura di Perugia, come ad esempio quando si sono qualificati alcuni scambi di messaggi come conversazioni intercettate (articolo del 5 maggio, in particolare, in relazione ai messaggi scambiati con “i consiglieri di Mattarella”). Ma questa volta l’affermazione citata non solo non risponde al vero ma è anche gravemente lesiva dell’onorabilità dei colleghi e dell’intera procura della Repubblica di Perugia, che con serietà professionale e riservatezza stanno conducendo un procedimento, di cui certo non sfugge al Fatto la complessità e delicatezza. Le espressioni sono tali da ingenerare nel lettore la erronea, e per un magistrato infamante, convinzione che sia stato selezionato ad arte, pro o contro qualcuno, il materiale probatorio. Per questo desidero precisare che: 1) Nelle prime fasi delle indagini vennero trasmessi agli Organi titolari dell’azione disciplinare tutti gli atti che, per essere stati utilizzati nel decreto di perquisizione e sequestro, erano noti alle parti; fu mantenuto, invece, il riserbo sul materiale che aveva o poteva avere sviluppo investigativo; 2) Quanto alla messaggistica (chat) che da tempo occupa le pagine di alcuni quotidiani, la stessa procura ne è venuta a conoscenza solo dopo l’attività di analisi del telefono sequestrato al dottor Palamara, dunque, molto tempo dopo le iniziali trasmissioni del materiale di indagine agli organi titolari; 3) Tutti gli atti già noti alle parti e quelli ancora non noti (compresa la messaggistica) sono stati ritualmente depositati con l’avviso di conclusione delle indagini preliminari e tempestivamente trasmessi ai titolari dell’azione disciplinare. È dunque palese che affermare che la procura di Perugia abbia proceduto a una maliziosa selezione dei colloqui da rendere pubblici è non solo offensivo, ma anche falso; al pari del sostenere che “più che a un’indagine sulle presunte corruzioni del potentissimo magistrato romano… l’operazione faceva pensare a una gigantesca pesca a strascico per sventare la nomina a capo della procura di Roma del Pg di Firenze Marcello Viola”.

Fausto Cardella, Pg Perugia

Evidentemente non sono stato abbastanza chiaro. Nulla da eccepire sull’inchiesta per corruzione su Palamara. Qualche dubbio mi venne (e mi rimane) sulle intercettazioni selezionate nei decreti di perquisizione e sequestro e poi inviate al Csm. Che, complici le ulteriori selezioni effettuate dalla grande stampa, diedero della guerra per bande allora in corso per la conquista della Procura di Roma un quadro molto parziale degli schieramenti in campo.

M. Trav.

 

Con un titolo nella prima pagina di domenica, il Fatto attribuisce a Giovanni Falcone l’affermazione che Piersanti Mattarella sarebbe stato felice perché “si era sbarazzato dei voti mafiosi”, in quanto “non più votato quasi esclusivamente a Castellammare del Golfo ma un po’ dovunque”: viene in tal modo ripetuta un’informazione infondata e inconsistente, già pubblicata dal Fatto il 24 maggio di tre anni addietro e smentita con una precedente lettera del sottoscritto. Come è evidente dal testo dell’articolo non si tratta di un’affermazione del dott. Falcone, ma di un terzo (l’avv. Sorgi). Come già scritto, è sorprendente che l’avv. Sorgi abbia raccontato al dott. Falcone una cosa così palesemente priva di qualunque possibile fondamento: Piersanti Mattarella, infatti, non può aver mai fatto una simile affermazione anche perché non è mai stato candidato a Castellammare del Golfo, che fa parte della provincia e del collegio elettorale di Trapani. Egli infatti è sempre stato candidato soltanto nel collegio della provincia di Palermo per l’Assemblea regionale siciliana.

Antonio Coppola

 

Nell’articolo abbiamo riportato, senza nulla aggiungere e neanche commentarle, le testuali parole che Giovanni Falcone pronunciò il 15 ottobre 1991 dinanzi alla Prima commissione del Csm. Il giudice Falcone, prima di riportare il contenuto della sua conversazione con l’avvocato Sorgi, descrisse quest’ultimo al Csm come “valente avvocato palermitano, che io stimo molto”, lasciando quindi intendere di ritenere affidabile la sua testimonianza. Il passaggio menzionato è peraltro riportato all’interno di una ricostruzione ben più ampia. Ciò detto, prendiamo atto della rettifica che doverosamente pubblichiamo.

A. Mass.

 

DIRITTO DI REPLICA

Con riferimento all’articolo di Patrizia De Rubertis sul tema delle misure per la liquidità pubblicato sul Fatto domenica, vogliamo segnalare che, quando si parla di domande accolte, i dati forniti dall’Abi si riferiscono alle cosiddette moratorie, cioè alla sospensione delle rate di mutuo, non ai nuovi prestiti. Pertanto, risultano già accolte l’80% dei 2,3 milioni di domande di moratorie pervenute alle banche a partire dallo scorso mese di marzo, il 19% sono in lavorazione e l’1% sono state respinte. Inoltre, una significativa semplificazione delle procedure di istruttoria delle banche potrà derivare dall’entrata in vigore della nuova normativa sulle autocertificazioni, fortemente auspicata dall’Abi, non appena questa diventerà legge.

Gianfranco Torriero, Vice direttore generale Abi

 

Domenica, a corredo dell’articolo “Prescrizione causa Covid”, abbiamo pubblicato una foto sbagliata, non, come avremmo dovuto, quella di Elia Bosi. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

Fq

Il papa che vuol convertire la chiesa dei Compromessi

Galli della Loggia riprende sul Corriere del 19 maggio il discorso sulla fede, la Chiesa e la politica al quale avevo obiettato su questo giornale giovedì 14. Da buon storico ha ragioni da vendere a ricordare quanto, nell’affermazione del cristianesimo, abbia contato la capacità di rendersi amico il potere temporale, e anche la forza delle armi nel caso della conversione più o meno forzata di interi popoli e nazioni. Per non parlare delle missioni presso i pagani, per lo più accompagnate dai conquistadores e poi delle lotte contro le eresie, le inquisizioni, eccetera. Il Galli storico ha sotto gli occhi tutto questo, e trova che senza la forza di imporsi politicamente il Vangelo non avrebbe avuto nessuna possibilità di sopravvivere alla Chiesa primitiva. Ma a proposito di Vangelo, quale sarebbe la sua forza se per farsi ascoltare dalle persone non potesse fare a meno del potere e dei suoi meccanismi? Gli ultimi cui dà tanta attenzione papa Francesco non sono accorsi a Gesù perché era un potente, anzi lo hanno seguito proprio perché lo sentivano come uno di loro, ultimo a sua volta e destinato a una fine che non prometteva nulla sul piano del successo storico. L’imbarazzo che si può provare a professarsi cristiani dipende appunto dalle compromissioni con il potere e la violenza che hanno, entrambi, segnato la storia della Chiesa. È andata così, e lo sappiamo. Solo che Galli sembra considerare questo dato storico come segno di un destino, da accettare con rassegnazione e vede la ripetizione di questo schema anche nel presente: la “tolleranza” del Papa verso la violenza di certi regimi (la Cina anzitutto) – inutile dire che non lo scandalizza la costante amicizia della Chiesa per i governi totalitari di destra, anche solo per potenze colonialiste o per l’imperialismo statunitense.

Insomma, la Chiesa ha dovuto accettare tutti questi compromessi con le potenze delle Storia per poter trovare spazio alla propria predicazione del Vangelo. E il Vangelo comanda di amare Dio sopra ogni cosa e il prossimo come se stessi. Cioè comanda una dedizione alla “trascendenza”, dice Galli, senza la quale anche la carità verso il prossimo e l’amore per gli ultimi sarebbe solo predicazione ideologica, cioè un modo per compiacere le masse e ottenerne l’ascolto simpatetico. Resta un po’ (troppo) indefinita l’idea di trascendenza. Il Vangelo è sì depositum fidei, come dice Galli, ma anche la storia di un uomo chiamato Gesù che si presenta come l’incarnazione di Dio, in molti sensi molto diverso dal “trascendere” anonimo della religiosità di Galli. E Gesù non si lascia immaginare come un uomo di compromessi con le potenze storiche, non si può immaginarlo come venuto a salvare le classi dirigenti, i benestanti, i potenti di ogni tipo. La sua vicinanza agli ultimi è certamente rivoluzionaria, anche se non armata e guerriera. È vero: non c’è nessuna ragione perché Gesù, o poi la Chiesa, preferisca gli ultimi. Non li ama solo “per amore di Dio”, come vorrebbe Galli; li ama perché sono loro che hanno scelto la sua parola (“Signore, da chi andremo?…) mentre altri non lo hanno ricevuto, non hanno colto la sua luce. Quanto poi alla vena di umanitarismo generico che permea lo spirito pubblico contemporaneo, e che Galli probabilmente non ama, è forse importante ricordare che, lungi dall’essere un tradimento dello spirito evangelico, essa può un effetto secolarizzato della sua presenza nel mondo. Gioacchino da Fiore, non sospetto di ideologismo e di oblio della trascendenza, parlava delle diverse età della storia della Salvezza immaginando che fosse sul punto di arrivare una età dello spirito i cui caratteri potrebbero bene avvicinarsi al cristianesimo meno rigido e dogmatico a cui sembra pensare Papa Francesco.

 

Travaglio e Lucarelli sbagliano: Gallera è un genio assoluto

Questo giornale cambia veste grafica, ma non cambia le vecchie e brutte abitudini. Del resto il suo direttore, come ricorda Il Riformista, è ministro della Giustizia e non ha certo tempo da perdere con noi. Ne deriva un quotidiano ancor più giustizialista del solito, come ha dimostrato domenica l’attacco scriteriato di Selvaggia Lucarelli all’incolpevole Giulio Gallera. Eccomi dunque qui a ristabilire il giusto equilibrio. In primo luogo, Gallera non è uomo bensì leggenda. Lo è fin dal cognome, dove la seconda “l” se volete è muta. Il suo è un cognome cangiante, che pare quasi dissociarsi da se stesso, con quell’accento che ora cade sulla prima “a”, ora sulla “e”, e ora non cade proprio (perché si vergogna).

L’assessore al Welfare della Lombardia, lanciato costantemente a bomba contro se stesso, è stato catapultato in una realtà più grande di lui. Ma lui non si è scomposto. Infatti, a fine maggio, appare identico a com’era a fine febbraio: provvisorio, evanescente, fuoriluogo. E in questa sua natura pervicacemente inappropriata c’è una coerenza granitica che in tutta onestà commuove. Buffamente narciso, di quell’edonismo ingiustificato che ricorda da vicino l’ex grillino neo-leghista Mario Michele Giarrusso quando se la tira come un Brad Pitt dadaista, Gallera va avanti da mesi con conferenze stampa monodimensionali, all’interno delle quali la sua narrazione è orgogliosamente sganciata dalla realtà contingente. Se il mondo è pervaso da malattia e morte, nel magico regno di Ga(l)lera tutto funziona e ogni cosa è illuminata. E se è illuminata, va da sé, è solo perché lui e Fontana la illuminano.

Intellettuale sopraffino, Gallera reinventa la realtà come un David Lynch padano e dà del tu all’onirismo come un Fellini 2.0. Egli regna, glorifica e divelle. Con una competenza squisitamente assente, prima pontifica che i test sierologici non servono a nulla, poi che forse servono, quindi che servono così tanto che ce li paga lui di persona. Applicando a se stesso la teoria del caos, Gallera dice sempre tutto e il suo contrario, garantendosi così la certezza di avere – almeno una volta – ragione in ogni campo dello scibile. Novello Michelangelo della politica, sa vedere sempre il bicchiere mezzo pieno e mai mezzo vuoto. Se i test dicono che a Bergamo i positivi sono il 58%, lui rovescia l’assioma e ci ricorda che “ben il 42%” non sono positivi. Vale anche i sanitari, perché a Milano “solo il 13% ha gli anticorpi”: e che sarà mai, un misero 13%, di fronte all’immensità della nostra uallera (o se preferite Gallera)! Non c’è forse mai stato un assessore così intimamente orgoglioso della propria inconsistenza politica. Un’inconsistenza che sfocia nel capolavoro lisergico laddove il nostro amato Gallera trasforma lo 0,5 dell’indice di contagio da dato statistico a circostanza fattuale: “Con lo 0,50 oggi per infettarmi devo trovare due infetti allo stesso momento, e non è così semplice”. In quel “allo stesso momento” c’è una dose di talento mentale al cui confronto Gasparri è Gasparri. Gallera ci insegna che, per infettarci, non basta lo sputo di un contagiato: no, serve un secondo sputo – contemporaneo al primo, mi raccomando! – analogamente putrescente. A quel punto i due sputi si uniranno, diverranno una bomba a mano e colpiranno il reietto fino a spezzargli le reni. Genio puro. Criticare Gallera significa confutare l’insondabile, il divino e il trascendente. Travaglio dovrebbe vergognarsi. Selvaggia dovrebbe vergognarsi. Non ascoltarli, mitico Giulio: sei così avanti, ma così avanti, che se ti volti indietro vedi il trapassato remoto.

 

Che ci faccio al “Fatto” giornale senza padroni

Colto sul Fatto! Fino a venerdì scorso l’idea di scrivere su questo giornale mi appariva remota. Ma certe decisioni si prendono in fretta, dall’una e dall’altra parte, di fronte all’evidenza di uno scenario che cambia nell’offerta di quel bene prezioso che è l’informazione. E allora, benché sussistano divergenze profonde su politica giudiziaria, carceri, immigrazione, ringrazio dell’invito ricevuto dopo le mie dimissioni da Repubblica e provo a motivare quella che considero una scelta obbligata. Ma assai stimolante.

Comincerei dalla differenza che passa fra una monarchia costituzionale e una monarchia assoluta. Prendete Exor, la holding della famiglia Agnelli: nel 2015, pur diventando principale azionista dell’Economist (43%), ha accettato di non esercitare il suo peso per oltre il 20% del capitale; di essere rappresentata da un numero minoritario di membri nel consiglio d’amministrazione; e soprattutto di subordinare la nomina del direttore all’approvazione di un trustee, cioè di un comitato di garanti. Monarchia costituzionale in versione anglosassone, appunto.

Un economista spiritoso, Salvatore Bragantini, a suo tempo auspicò su lavoce.info che Exor importasse lo stile inglese nei giornali acquisiti in Italia. La risposta è giunta il 23 aprile scorso col licenziamento senza preavviso di Carlo Verdelli, allorquando Exor assumeva la gestione operativa di Repubblica. Non m’interessa anticipare giudizi frettolosi sul suo successore e sul perché è stato scelto: suppongo l’editore sia soddisfatto dei risultati conseguiti da Maurizio Molinari alla Stampa, il quotidiano da lui precedentemente diretto. Diciamo che la meritocrazia è da sempre un criterio piuttosto elastico. Papa Francesco, in un discorso ai lavoratori dell’Ilva di Genova, giunse a dire che “il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà veste morale alle disuguaglianze”. Mi accontento per ora di constatare che il capitalismo è per sua natura apolide, ma adatta i suoi parametri di governance ai diversi contesti in cui opera: qui da noi Exor ha optato per la monarchia assoluta.

Il discorso non sarebbe completo se non citassi anche i venditori di quello che fu il Gruppo L’Espresso (mi piace chiamarlo ancora così, entrai nella redazione di quel settimanale nel lontano 1983), cioè la famiglia De Benedetti. L’amicizia cui mi sento legato non impedisce di constatare come essa abbia scelto di rinunciare a sentirsi parte della classe dirigente italiana, in un momento difficile per questo Paese. Si è chiamata fuori. Faccio molti auguri a Carlo, nella speranza che riesca a difendere Domani quel che non è riuscito a difendere ieri, da proprietario.

Per oltre quarant’anni Repubblica ha rappresentato il luogo d’incontro fra l’establishment e il popolo della sinistra. Un equilibrio, di cui va riconosciuto il merito all’intuizione geniale di Eugenio Scalfari, che oggi la situazione rende più difficile. Non rinnego certo i leali rapporti intrattenuti con gli azionisti dei giornali in cui ho lavorato – gli Agnelli e i De Benedetti, senza dimenticare la Telecom con cui partecipai alla fondazione di La7 – senza dover rinnegare le mie idee e i miei legami esistenziali con la sinistra. Tra parentesi, sappiano i denigratori che il Rolex d’acciaio ero già riuscito a comprarmelo prima, nel 1992, quando stavo nella Rai3 di Guglielmi.

Proprio su questo giornale, poco più di un anno fa, mi sono preso la briga di fare i conti con l’ansia di legittimazione che sospinse la sinistra, chiamata per la prima volta al governo del Paese, a instaurare rapporti subalterni con il capitalismo italiano, sottovalutandone i vizi. L’effetto indesiderato fu la rinuncia a tutelare efficacemente gli interessi delle classi subalterne. Oggi, nella recessione provocata dalla pandemia del Covid-19, il tema sta riproponendosi drammaticamente. Anche all’interno del Pd. Basti pensare alle oscillazioni sul prestito agevolato a Fca e sulla concessione di Atlantia.

Detesto la retorica della schiena dritta rivendicata a sproposito da chi fa il mio mestiere. Sto vivendo con Laura Gnocchi e con l’Anpi l’esperienza di centinaia di interviste alle partigiane e ai partigiani d’Italia. Ogni volta che uno di loro ci racconta la sua scelta temeraria, vengo chiamato a ridimensionare il prezzo tutto sommato modico della nostra libertà professionale.

Non occorre essere né rivoluzionari né anticapitalisti per rendersi conto che alla ricostruzione del Paese non basterà solo l’erogazione di risorse pubbliche. Serviranno soluzioni inedite, dal mutualismo a un ruolo di garanzia dello Stato e dei lavoratori nella proprietà delle imprese in difficoltà, da nuove politiche fiscali a forme di condivisione degli utili. Anche per questo sarò contento di lavorare in un giornale senza padroni.

 

La mia odissea di malata oncologica per una Tac a Milano

Gentile Direttore, ho 44 anni e un cancro metastatico, quindi sono soggetta a controlli di follow up periodici, tra i quali una Tac ogni 3 mesi. Il tumore l’ho scoperto nel 2017: il medico di base, dopo un controllo ecografico dubbio, mi prescrisse una Tac da fare entro tre giorni. La prenotai con facilità e iniziai il mio percorso di malata oncologica. Sono passati quasi tre anni. Oggi, forse, non diventerei una malata oncologica perché morirei prima di scoprire di avere il cancro, in attesa della Tac. Ho prenotato la mia Tac di controllo più di tre mesi fa, presso una struttura privata convenzionata perché già all’epoca chiamando il Cup i tempi erano lunghissimi. Data prevista: 19 maggio. Il 18 maggio mi contattano dal centro per dirmi che “dobbiamo spostare la Tac a partire dall’11 giugno”. Praticamente un altro mese ancora. Ora, mi sembra evidente che chi richiede una Tac addome, torace, encefalo e collo non lo sta facendo come check up annuale insieme a colesterolo e trigliceridi. Mi sembra altrettanto evidente che da una Tac di follow up oncologico dipendono le scelte terapeutiche, da definire in tempi stretti. Io sono in cura presso un centro di eccellenza – pubblico – a Milano. Contatto con fiducia il mio oncologo, spiegando l’accaduto e chiedendo, vista l’eccezionalità della situazione, di poter fare la Tac in tempi brevi presso di loro. La risposta mi lascia sconcertata: “Qui non è fattibile, le mando un’impegnativa urgente a 10 giorni, provi con quella”. Parliamo, voglio sottolinearlo, di una struttura che si occupa esclusivamente di pazienti oncologici. Allora ho chiamato il Cup, ma l’operatrice mi ha detto che in nessuna struttura gestita da Regione Lombardia c’era posto per una Tac. “E dopo i 10 giorni?” ho chiesto, timidamente. “Mai. Non c’è posto mai”. Faccio parte della categoria di persone che di norma, in queste situazioni, apre il portafogli e prenota privatamente. Ma lo sa quanto costerebbe una Tac così? Oltre 2.000 euro. Ogni tre mesi. Un po’ tantino, per una paziente che risulta totalmente esente in quanto portatrice di patologia cronica…

Vorrei chiedere al nostro assessore Gallera: le sembra possibile che una paziente cronica oncologica debba sobbarcarsi tutto questo per fare un esame di controllo? Non mi tiri fuori il Covid, per piacere: avevate promesso che le prestazioni con classe di priorità Urgente (3-10 giorni) sarebbero comunque state garantite, ma alla luce di questa esperienza direi di no. E questo è un calvario che si ripropone, puntualmente, ahimé, fin dagli inizi della mia malattia.

Irene Facci

Il grazioso Lotti, la finta modestia di Don Palamara e la requisitoria di Davigo

Ne vien fuori una magistratura associata che, salvo rare eccezioni, si comporta come le peggiori lobby (per non dire cosche) (Marco Travaglio, FQ, 23 maggio).

Fra i colleghi riuniti nella sede dell’Anm, Don Palamara prese per primo la parola, come se nulla fosse accaduto. Come se non fosse stato gravemente messo in piazza, le sue conversazioni telefoniche e i suoi sms pubblicati sui giornali, la reputazione sputtanata. “Vi ringrazio per essere venuti”, esordì. “Lo considero un favore personale e mi ritengo in debito verso ciascuno di voi. 22 anni fa venivano uccisi Falcone e Borsellino. Ma non siamo qui per rivangare il passato. E io non sono qui per litigare o convincere, ma solo per ragionare e fare tutto il possibile perché restiamo buoni amici. In quanto a questo do la mia parola, e quanti mi conoscono sanno bene che non la do con leggerezza”. Fece una pausa. Alcuni fumavano sigari, altri sorseggiavano bibite. Erano tutti giudici: buoni ascoltatori, uomini pazienti. Don Palamara sospirò. “Oggi sono andato in concessionaria con la mia bellissima Maserati. Mi hanno sputato. Come mai le cose sono andate tanto oltre?”, chiese in modo retorico. “Non ha importanza. Ciascuno qui può raccontare i suoi guai personali. Non è questo il mio intento. Sono disposto a far la pace. I giornalisti sono stati sputtanati, voi siete stati sputtanati, io sono stato sputtanato. Siamo pari. Cosa diventerebbe il mondo se la gente continuasse a nutrire rancori contro ogni ragionevolezza? Questa è stata la croce dell’Italia, dove gli uomini sono talmente occupati a vendicarsi che non hanno tempo di provvedere il pane per la famiglia. È insensato. Quindi ora propongo che le cose rimangano come prima. Non ho fatto alcun passo per sapere chi mi ha tradito. Per amore della pace, non lo voglio fare. Dio è perdono: non voglio essere più inflessibile di Dio”.

Fu perfetto. Fu il vecchio Don Palamara. Ragionevole. Dal linguaggio misurato. Tutti avevano notato che si era riferito al vecchio status quo, e che quindi non intendeva perdere nulla malgrado avesse avuto la peggio durante l’anno trascorso. Fu Davigo a replicare. Fu conciso e andò al nocciolo, senza essere sgarbato o insultante. “È tutto abbastanza vero”, disse Davigo. “Ma Don Palamara è troppo modesto. Giudici, politici e giornalisti disposti ad accettare favori da Don Palamara, non li avrebbero accettati da chiunque altro. Don Palamara controllava tutto questo apparato. I tempi sono mutati”. Vi fu silenzio. Ora i fili erano tirati, non si poteva rimanere al vecchio status quo. Palamara disse: “Sono lusingato della vostra convinzione che avrei tanto potere nei confronti di giudici, politici e giornalisti. Magari fosse vero!”.

Davigo: “Ci sono le intercettazioni che dimostrano chiaramente chi sei”.

P: “Forse. Ma se le acceleri, si fa molta fatica a distinguere che sono io. Non dovete avere di me un’immagine stereotipata solo perché sono un cliché”.

D: “Dicci qualcosa che non sappiamo su Lotti” .

P: “Lotti in realtà è una donna”.

D: “Ti ho chiesto qualcosa che non sappiamo”.

P: “Senti, Camillo, siamo sempre stati amici…”.

D: “Se fossimo davvero così amici, ti avrei dato il numero di cellulare a cui rispondo”.

(1. Continua)

 

Ora Salvini prende la linea da Feltri&c.

Il titolo del Giornale è: “Sceriffi da strapazzo. Verso lo Stato di polizia”. Quello della Verità: “Conte arruola 60.000 spioni”. Si parla del reclutamento dei controllori civici antimovida da parte del governo, misura opinabile quanto si vuole (un esercito improvvisato, e poi per fare cosa?) non certo con la risibile accusa di aver creato una milizia di stampo autoritario. Quando invece i poveretti, disarmati e, a quanto sembra, privi di poteri sanzionatori rischiano di essere presi loro a ceffoni dal primo bullo privo di mascherina.

Poi la domanda sorge spontanea: ma costoro non erano i più securitari di tutto il cucuzzaro, roba che per anni ci hanno frantumato le orecchie auspicando cannonate sui barconi degli immigrati, ronde armate di quartiere e più fucilate per tutti (con la scusa della legittima difesa)? E adesso, di punto in bianco, povere stelle si scoprono un’anima così antiautoritaria, libertaria, non violenta, pacifista, permissiva che se fosse ancora vivo Marco Pannella li avrebbe iscritti di diritto (con una risata delle sue) all’associazione Nessuno tocchi Caino.

Il fatto è che alla destra politica di Salvini, Meloni e Berlusconi – divisa su Europa e Mes, confinata dal protagonismo di Giuseppe Conte in una frustrante opposizione, indecisa sul da farsi e in cerca di autore – sembra progressivamente sostituirsi la destra televisiva dei direttori di giornale e degli opinionisti col colpo in canna, sempre più protagonista dei talk e degli ascolti.

Priva di vincoli di partito, favorita da una certa anarchia editoriale è una guerriglia dattilografa che se ne può tranquillamente infischiare di equilibri politici, tattiche parlamentari e balle varie. Un Vietnam degli insulti e delle accuse determinato a perseguire un solo obiettivo, la devastazione dell’attuale governo bombardato incessantemente a colpi di napalm. Con polemiche che possono essere tutto e il contrario di tutto, la negazione oggi di ciò che veniva proclamato ieri, nella orgogliosa precarietà delle opinioni, dominata unicamente dal bersaglio nel mirino, l’odiato premier, e da una bussola infallibile: così è se ci pare. Un modello coerente di assoluta incoerenza sublimato nei giorni della quarantena con le richieste di chiusura, apertura e di nuovo chiusura, come in una gara di ubriachi ma di quelli tosti.

Per carità, nessuno scandalo, fa parte del gioco anche se non sapremmo dire fino a che punto Matteo Salvini e Giorgia Meloni lo abbiano compreso che in questo modo e a lungo andare l’intrattenimento finirà fatalmente per mangiarsi l’opposizione. Ribaltamento dei ruoli iniziato probabilmente con il testacoda del Papeete, quando per inseguire i pieni poteri, il cosiddetto capitano si ritrovò tra le mani il vuoto di potere. L’intendance suivra, l’intendenza seguirà diceva il generale De Gaulle (e forse prima di lui Napoleone), convinto che l’apparato logistico di sostegno (stampa compresa) avrebbe dato seguito alle decisioni dei vertici militari e politici. Infatti, prima di quel mojito di troppo, era l’acclamatissimo uomo forte del Viminale a dare la linea: contro gli immigrati e prima gli italiani. Con la stampa amica dietro.

Sembra trascorso un secolo. L’avvento del Covid-19 ha trasformato il nazionalismo del contrasto e dell’odio (verso l’altro) nell’orgoglio nazionale di una collettività solidale, e nell’amor patrio che sventola i tricolori alle finestre. “Si rafforza lo Stato, le istituzioni e il governo”, “mentre nell’emergenza ogni opposizione viene percepita come un ostacolo” (Repubblica di ieri, sondaggio di Ilvo Diamanti). Più il centrodestra si dimostra incapace di dire ciò che intende essere di fronte a emergenze impensabili soltanto tre mesi fa (presenza maggiore dello Stato in economia o meno Stato? E cosa significa continuare a definirsi sovranisti quando oggi più che mai si riconosce la necessità dell’Europa?).

Più il centrodestra si fossilizza nella narrazione di ciò che non intende essere, contando su improbabili spallate a una maggioranza coesa per istinto di sopravvivenza e assenza di alternative. E più continuerà a farsi dare la linea dai Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro, Alessandro Sallusti, o dai Mario Giordano, Paolo Del Debbio, Maria Giovanna Maglie (che tra l’altro a bastonare con le parole sono assai più bravi).

Si rigioca? Lotito festeggia Cairo invece rischia grosso

C’è il protocollo per le partite. Ci sono le date: 13 o 20 giugno. Manca solo il via libera del governo, ma dovrebbe arrivare (giovedì l’incontro col ministro Spadafora). Presto la Serie A potrebbe tornare a giocare. Per il calcio dai bilanci in rosso vuol dire salvezza: arriveranno i soldi dei diritti tv, 230 milioni di Sky e Dazn vitali per il sistema. Economicamente ci guadagnano tutti. Certo, chi più chi meno: per qualcuno tornare a giocare significa retrocedere, o sobbarcarsi spese in più per nulla.

 

LOTITO. Pur di tornare a giocare si è riscoperto virologo. La sua Lazio era seconda, potrà giocarsi lo scudetto alla ripresa. Infatti ci arriverà più preparata, dopo aver bruciato le tappe (pure troppo, vedi le “partitelle” proibite raccontate dal Corriere). Ma quando ricapita un’occasione del genere? Lotito non se la sarebbe lasciata sfuggire nemmeno per una pandemia peggiore. Juventus permettendo, ma i bianconeri hanno sistemato i conti con l’accordo con i calciatori e pensano alla Champions (dove arriveranno in forma, contro il Lione fermo da mesi), infatti Agnelli ha mantenuto un profilo più basso.

 

PLAYOFF. In caso di nuovo stop c’è l’ipotesi playoff. L’Inter terza si ritroverebbe in corsa per il titolo, come l’Atalanta. Ma occhio a perdere il posto Champions, che sembrava garantito e vale decine di milioni. Anche Roma e Napoli sorridono: i giallorossi dal campo prendono ossigeno per il bilancio (non giocare avrebbe fatto crollare il valore dei calciatori, vale per tutti); De Laurentiis punta sulla Coppa Italia e spera che il suo Bari in Serie C venga promosso.

 

LE PROVINCIALI. C’è un gruppo di squadre che non ha più nulla da chiedere e avrebbe tirato i remi in barca, se fosse stato più semplice trovare un accordo sugli stipendi dei calciatori. Tornare a giocare in queste condizioni vuol dire affrontare spese in più per sanificazioni, controlli, strutture. Vale la pena solo per i soldi dei diritti tv, ma Sky e Dazn chiedono comunque uno sconto (e non aiuta la proposta di Spadafora di trasmettere i gol in chiaro).

 

BRESCIA & C. Per Brescia e Spal, sconsolate in fondo alla classifica, lo stop era l’ultima spiaggia: si poteva sperare nei ricorsi, o nel blocco delle retrocessioni. Sul campo ci vorrà un miracolo: non a caso Cellino era tra i più combattivi contro la ripresa (poi si è rassegnato). Vale lo stesso per la Samp di Ferrero, oppure l’Udinese.

 

CAIRO. È rimasto con il cerino in mano. Si è fatto nemici ovunque in Lega e in Figc, ora si ritroverà a giocare le ultime 12 giornate col Torino invischiato nella zona retrocessione. In realtà anche lui avrebbe da guadagnarci con la ripresa: come gli hanno fatto notare i suoi giornalisti, il campionato farebbe bene alle vendite della Gazzetta dello Sport. Ma per il presidente-editore, specializzato nei tagli, anche il campionato sospeso può essere un’occasione.

L’Anm assediata non trova l’intesa. Arriva la riforma

Se c’era bisogno di una conferma della sua crisi profonda, è arrivata ieri sera: l’Associazione nazionale dei magistrati resta con una Giunta dimissionaria da sabato sera, in carica adesso per l’ordinaria amministrazione, in modo che i magistrati possano votare il nuovo Cdc, il parlamentino del sindacato delle toghe. Area, la corrente progressista di cui fa parte il presidente dimissionario Luca Poniz (nella foto) ha tenuto il punto sulla crisi. Invece Autonomia Indipendenza, la corrente fondata da Piercamillo Davigo, ha provato a insistere, anche prima della riunione, per avere una Giunta a pieno titolo, per fronteggiare lo scandalo delle nomine che viene confermato in questi giorni dalle pubblicazioni delle intercettazioni di Luca Palamara, l’ex consigliere del Csm accusato di corruzione a Perugia, ma soprattutto per essere, come Anm, un interlocutore credibile nel momento in cui approderà in Parlamento, a breve, una riforma della magistratura e che, ha fatto intendere ieri il coordinatore di AeI Michele Consiglio, potrebbe essere, ha fatto intendere con un giro di parole, in qualche modo punitiva per le toghe. Il pensiero di tanti, non detto, è che possa passare la separazione delle carriere.

Oggi, in realtà, ci sarà un vertice di maggioranza, non certo sulla separazione delle carriere ma sulla riforma del sistema elettorale del Csm come annunciato domenica dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, facendo riferimento proprio al caso Palamara e al sistema spartitorio delle correnti. Un sistema elettorale “sottratto alle degenerazioni del correntismo” con criteri di nomine dei vertici “solo per merito” e con i paletti per i magistrati in politica: blocco delle cosiddette “porte girevoli”. Ma è l’opposizione che torna a chiedere “subito per legge” la separazione delle carriere tra giudici e pm, con il rischio concreto di un asservimento del pm all’esecutivo, è la riforma che ha sempre visto contraria la magistratura. La Giunta dimissionaria non può essere “un interlocutore istituzionale forte” mentre si parla di riforme, AeI, che ieri ha parlato di “fallimento” ha pure chiesto una data ravvicinata per un nuovo parlamentino che valuti il lavoro dei probiviri su quanto emerso dalle chat di Perugia “perché la loro valutazione ci consente di conservare quello che resta della nostra credibilità”. Anche Unicost, la corrente centrista finita nelle tempesta dello scadalo nomine perché Palamara ne era il dominus, ha aveva chiesto una Giunta pienamente in carica, ma Area è stata irremovibile e ha mantenuto il punto messo domenica con il comunicato: il problema è Unicost, aveva sostenuto, che tentenna sulla questione morale. Accusa respinta da Unicost che a sua volta ha accusato Area di non fare autocritica dato che nelle intercettazioni di Perugia ci sono anche magistrati di quella corrente oltre che di MI (destra), che avrebbe voluto elezioni a breve. Ieri Luca Poniz, presidente dimissionario, ha ribadito la posizione di Area: “Non vi è più la pienezza del mandato politico di un anno fa. L’Anm non è a rischio di scioglimento, solo i fascisti ci sono riusciti e l’Anm è ripresa dopo il fascismo. Noi non ci siamo affatto sciolti, si è conclusa solo un’esperienza” e la Giunta anche dimissionaria, legittimata dal parlamentino, ha sostenuto, “sarà un interlocutore istituzionale”.
E tra un attacco alla stampa e l’altro su pubblicazioni delle chat “frammentarie”, pur “condannando” le nomine lottizzate, a fine serata è stato sciolto l’arcano del mese delle elezioni: resta ottobre, anche con la Giunta dimissionaria.

Dal boss detenuto a Graviano: lettere dal 41-bis “colabrodo”

I boss della ’ndrangheta Francesco Sergi e Domenico Paviglianiti sono “compare Ciccio’’ e “compare Mimmo’’, il capomafia stragista di Brancaccio Giuseppe Graviano è il “carissimo Giuseppe’’: cinque lettere tra il boss di Barcellona Pozzo di Gotto Giuseppe Gullotti e quattro capimafia detenuti, quasi tutti al 41-bis, sfuggite nel 2008 al vaglio della censura e scoperte dall’avvocato Fabio Repici agli atti di un processo in Calabria testimoniano di un 41-bis “colabrodo’’, almeno quell’anno (ma nulla si sa dei successivi), nel quale i mafiosi comunicavano tranquillamente per lettera, scambiandosi gli auguri di Natale e Pasqua. Apparentemente banali, ma dietro i quali, in passato, si sono celati messaggi in codice.

La gravissima falla nel sistema di controllo della corrispondenza in carcere è emersa dopo il sequestro ordinato dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Gaetano Paci, il 22 ottobre 2018, dell’intera corrispondenza di Gullotti (14 lettere, in larga parte indirizzate alla sorella Fortunata e alla moglie): in due delle missive si informano i pm che “l’ufficio censure (del carcere di Cuneo, ndr) ha verificato che nell’anno 2008 l’ufficio non ha proceduto al blocco di corrispondenza del detenuto Gullotti Giuseppe’’. Che così, il 9 dicembre 2008, ha potuto scrivere a Graviano, detenuto a Milano Opera: “Carissimo Giuseppe, spero tanto di trovarti bene insieme ai tuoi cari familiari al tuo Michele. Per quanto mi riguarda posso assicurarti di godere ottima salute unitamente ai miei cari. Ti auguro di trascorrere serenamente questo Santo Natale così come spero per i tuoi cari, con l’augurio che il prossimo anno nuovo sia messaggero di buone novelle. Con gli esami a che punto sei? Io sono giunto a conclusione del mio secondo corso di laurea. Concludo inviandoti un calorosissimo abbraccio, ricordandoti sempre con tanta stima e profonda amicizia. Come sempre devi dare un bacio da parte mia al tuo Michele’’. E se il boss di Brancaccio è il “carissimo Giuseppe’’, nelle lettere di Gullotti a Francesco Sergi e Domenico Paviglianiti, quest’ultimo ergastolano scarcerato nell’ottobre scorso, entrambi allora detenuti nel carcere di Ascoli Piceno, sono “compare Ciccio e compare Mimmo’’: per loro Gullotti è “compare avvocato’’ (il boss barcellonese è laureato in giurisprudenza e soprannominato “l’avvocato”), e il primo viene pregato di “salutarmi Salvatore e lo zio Peppino, e di fargli gli auguri da parte mia’’. Nella risposta Sergi si preoccupa della salute di Gullotti (“certo che alla I sezione si sta malissimo per via dell’umidità che c’è e anche per l’allergia che avete, ma spero che vi spostano’’). Missive in partenza ma anche in arrivo al boss barcellonese detenuto a Cuneo: il 17 marzo gli arrivano gli auguri di Pasqua di Domenico Papalia, detenuto a Carinola (Caserta), il boss citato da Nino Gioè, componente del commando di Capaci, nell’ultima lettera prima del suo strano suicidio alle sbarre della sua cella di Rebibbia: “Ricambio di cuore gli auguri per una Pasqua serena per voi e famiglia e con un augurio particolare perché si realizzi ciò che il vostro cuore desidera. Mi auguro di trovarvi bene ed in forma con la salute. Io sto bene. Vi prego di salutare i paesani e coloro che ho lasciato e sono ancora lì’’.

“Queste lettere sono la prova che il 41-bis è l’esatto contrario di ciò per cui era stato concepito – dice l’avvocato Repici, che le ha scoperte agli atti del processo al magistrato Olindo Canali, ex pm a Barcellona Pozzo di Gotto, accusato di corruzione in atti giudiziari per favorire Cosa Nostra –. Ogni volta che si scava su Barcellona vengono fuori cose inimmaginabili per il resto del Paese. Per questo da decenni su quel territorio è stato imposto un cono d’ombra. Per l’omicidio più eclatante della storia barcellonese, quello del giornalista Beppe Alfano, il boss Gullotti ha ottenuto l’avvio del giudizio di revisione. Ora abbiamo scoperto che Gullotti dal 41-bis manteneva contatti con capimafia del calibro di Graviano e Papalia. Cos’altro occorre perché la mafia di Barcellona diventi un’emergenza nazionale?”.