“Il virus può tornare: siamo partiti in guerra senz’armi”

Domenico Arcuri porge il gomito e si presenta: “Sono Arcuri, bieco statalista”.

“Direi, bieco sovietico”.

“Se lei dice sovietico è riduttivo”.

Domenica mattina, nella sede della Protezione Civile a Roma, lungo la Flaminia. Al primo piano, c’è un divano in anticamera. Nella sala riunioni solo poltroncine girevoli. Lo spazio per i liberisti da divano muniti di cocktail – copy lo stesso Arcuri – è ridottissimo. Il commissario all’emergenza Covid-19, nonché ad di Invitalia, indossa una famigerata mascherina di Stato. L’elastico non cade dietro le orecchie, ma allaccia la testa. “In segno di pace, regalerò al leader dei liberisti da divano, il mio amico Carlo Calenda, una scatola delle mascherine che abbiamo realizzato a un costo di produzione di 0,12 euro”.

Un dono dell’industria di Stato.

Per me la partita è chiusa, vinta. Ne sono orgoglioso. Malgrado i liberisti da divano, oggi abbiamo un’industria nazionale delle mascherine con ordini che già raggiungono un miliardo e mezzo di pezzi. E a settembre avremo solo mascherine italiane: 140 aziende si stanno riconvertendo, noi stiamo realizzando 51 macchine di proprietà pubblica, di cui 8 saranno messe nelle carceri, le prime due martedì (oggi, ndr).

Dove?

Quattro a Bollate, due a Salerno e due a Rebibbia. Un giorno la storia racconterà di questo caso di reshoring (rimpatrio, letteralmente, ndr) nel nostro Paese fatto in due mesi.

Lei cita la storia. Ci saranno anche gli storici critici, diciamo così.

Si dimentica da dove ho cominciato 67 giorni fa, e quello che ho trovato.

Che cos’ha trovato?

Nulla. In Italia non si producevano dispositivi di protezione e c’era una sola piccola impresa di respiratori, in Emilia-Romagna. Le mascherine si facevano in Cina e c’era un mercato governato da affaristi e potenti intermediari, con scene da Miseria e nobiltà.

Totò cerca mascherine.

Un giorno dovevamo muovere un aereo di Stato per la Bulgaria, per un cargo di mascherine. Non c’erano le mascherine, né il cargo.

In più l’Italia non paga anticipatamente.

È una regola che ho imposto io. In un’altra occasione, l’emissario di un Paese ha soffiato ai nostri buyer un carico già sottoscritto con un contratto. L’ha fatto con una valigetta piena di soldi.

Fino ad arrivare al prezzo di Stato: 0,50 euro.

Sono per difendere sempre le libertà del mercato, ma non quella di arricchirsi calpestando il diritto alla salute.

Dinnanzi ai suoi detrattori, lei gonfia il petto.

Ringrazio il presidente Conte di avermi dato l’onore di servire il mio Paese in un momento inimmaginabile fino a poco fa.

Una guerra.

Per certi versi peggio. I bombardamenti in guerra durano minuti, qui 24 ore e sono invisibili. Per giorni, ho attraversato una Roma vuota, impaurita e dolente. Questa emergenza non è un evento limitato nello spazio e nel tempo, ma un flusso continuo.

Senza una data prevista per la fine.

Appunto.

Però si riapre.

Nella Fase 2 tutto passa dalla responsabilità dei singoli, dei giovani innanzitutto.

Lei teme?

Sono realista, da qualche parte il virus potrà riacutizzarsi.

Lei ha mediato tra la scienza e la politica.

Sono una sorta di infermiere (Arcuri sorride, ndr). Ogni emergenza è un caos, non solo una tragedia. La funzione del Comitato tecnico-scientifico è stata anche quella di azzerare certi individualismi esasperati.

L’Italia ha sempre bisogno di commissari.

Tutti i Paesi erano disarmati e impreparati. A me è toccato cercare dispositivi e attrezzature. In teoria un compito semplice ed elementare.

Epperò.

Quando parti da zero, tutto diventa complicato. Il nostro è uno Stato federalista, c’era bisogno di una risposta nazionale come questa struttura.

Conte quando l’ha chiamata?

Era il 16 marzo, due giorni prima del mio insediamento. Ero per strada.

Non ha tentennato.

Gli ho detto di sì subito. Ho solo preteso che il mio lavoro fosse a titolo gratuito.

Tredici anni a Invitalia.

E sette presidenti del Consiglio.

Oggi Conte.

Mi colpisce la sua umiltà, l’attenzione nell’approfondire i dossier. Però mi ha costretto a installare WhatsApp sullo smartphone. Vede, questa emergenza ci ha talmente segnati che sono nate amicizie. Io e il ministro Boccia ormai viviamo insieme qui dentro, ha una stanza vicino alla mia.

Un governo amico.

Lei potrà non credermi, ma lavoro molto bene con loro. Speranza, che conosco da sempre, è un martello, un grande lavoratore. Di Maio mi ha davvero aiutato a trovare le mascherine in Cina, con Bonafede abbiamo collaborato per i braccialetti. Sento spesso anche Franceschini, Patuanelli e Guerini.

E tra gli scienziati?

Locatelli, di grande umanità, e Ippolito, instancabile.

Con qualcuno avrà litigato: i governatori?

Mi trovo bene con Fedriga, ma non ho mai parlato con Ceriscioli. Comunque da quando pubblichiamo i dati di quello che distribuiamo non ci sono più problemi con nessuno.

Lei è trasversale.

Le ripeto sono come un infermiere che sta qui dalle nove di mattina alle undici di notte, quando va bene. Ora ci sono altre questioni: i tamponi, i reagenti.

Quanti soldi ha mosso?

Mi hanno assegnato un miliardo e 450 milioni di euro. Un altro miliardo e 400 sarà per la rete sanitaria, dentro al decreto Rilancio. Ma per la prima volta un’emergenza produrrà anche dei ricavi. Vedrà.

Ha paura dei pm?

Tutte le volte che potevo usare le deroghe che mi hanno dato ho fatto una gara. Non mi servirà la solita, perpetua immunità.

I riporti delle nebbie

Della riforma del Csm sappiamo solo che è stata annunciata dal ministro Bonafede e oggi sarà discussa dalla maggioranza. Era ora. Ma non basta. Chi ha lo stomaco e il fegato di leggere le intercettazioni dell’inchiesta su Palamara (anzi sul Csm) senza perdersi nei gossip da portineria, capisce bene la gravità della situazione: una magistratura (non tutta ma quasi) divisa fra chi ordisce trame di potere senza esclusione di colpi e chi è costretto a farci i conti turandosi il naso per non essere spedito a inseguire ladri di bestiame e di biciclette. Perciò intervenire solo sul Csm serve a poco: giusto sbarrare le porte girevoli che mandano i politici a giudicare i magistrati che si sono occupati di loro o dei loro amici (Casellati prima, Ermini ora); sacrosanto escogitare sistemi elettorali che taglino le unghie alle correnti, dedite a mercati delle vacche e nomine a pacchetto (io do una poltrona e te se tu ne dai una a me) in barba alla meritocrazia. Ma sono interventi “a valle”, mentre il problema ormai è “a monte”. Il cancro è arrivato al cervello ed è ancor peggio della partitizzazione dei membri laici e della correntizzazione dei togati: si chiama gerarchizzazione, verticalizzazione, questurizzazione delle Procure. È qui che inizia (quando inizia) l’azione penale, che poi sfocia in indagini, udienze preliminari, processi di primo, secondo, terzo grado.

Il Potere lo sa bene e infatti è proprio lì, alla sorgente, che ha concentrato i suoi sforzi non appena si è riavuto dallo choc di Tangentopoli e Mafiopoli dei primi anni 90. Come? Manomettendo il rubinetto che può trattenere o liberare l’acqua della Giustizia. Destra e sinistra amorevolmente inciuciate ci avevano provato nel 1996-’98 con la Bicamerale che metteva in riga le Procure con la famigerata bozza Boato. Ma per fortuna avevano fallito, grazie alla reazione contraria di un’opinione pubblica ancora memore e vigile e di una magistratura ancora rappresentata dai migliori: Borrelli, Caselli, D’Ambrosio, Maddalena, Paciotti e così via. Dieci anni dopo invece, nel 2006, la controriforma Castelli-Mastella riuscì nell’intento. Una controriforma scritta dal ministro leghista del governo B.2 e copiata paro paro, tranne pochi ritocchi, dal Guardasigilli del Prodi2, malgrado il centrosinistra si fosse impegnato in campagna elettorale a “cancellarla”. Il tutto con la benedizione del solito Napolitano, capo dello Stato e del Csm. E nel silenzio dei giornaloni e dell’Anm che invece, quando quelle porcherie le proponeva Castelli, aveva indetto tre scioperi. L’intervento più devastante fu proprio quello che snaturava la figura del Procuratore capo.

Che non fu più primus inter pares, organizzatore e coordinatore dei suoi sostituti, com’era stato per 25 anni; ma dominus assoluto dell’azione penale, con potere di vita e di morte sui pm ridotti a suoi camerieri, da lui “delegati” ad aprire o a non aprire fascicoli su questa o quella notizia di reato. Come negli anni 50 e 60 dei porti delle nebbie e delle sabbie. Da allora il singolo pm non è più titolare del “potere diffuso” che per un quarto di secolo ci aveva garantito una giustizia uguale per tutti: decide il capo quali reati iscrivere nel registro dei noti, o degli ignoti, o nella discarica del “modello 45” (refugium peccatorum di tanti insabbiamenti), chi chiedere di arrestare, perquisire, intercettare, rinviare a giudizio. Basta un don Abbondio o un don Rodrigo al vertice di una Procura, e su certi personaggi non si procede più. E, se il sostituto non è d’accordo, il capo può levargli il fascicolo senza dare spiegazioni al Csm. Se poi non lo fa lui, può pensarci il Procuratore generale con l’avocazione. Prima, per controllare le Procure, bisognava accordarsi con 2500 pm (mission impossible): ora basta tenere a bada 150 capi. Che hanno anche l’esclusiva dei rapporti con la stampa: il pm che parla ai giornalisti, magari per denunciare il capo che non lo fa lavorare, come fecero i pm di Palermo contro Giammanco dopo Capaci, finisce sotto procedimento disciplinare (lui, non il capo insabbiatore).

Le prime prove su strada del nuovo sistema gerarchico si ebbero a Catanzaro, con il procuratore e il Pg che scippavano le indagini di De Magistris e il Csm che lo cacciava. E, più di recente, nella Procura romana di Pignatone, con la mancata iscrizione di Renzi e De Benedetti per la soffiata sul Dl Banche e con la decisione di non sequestrare il cellulare di babbo Tiziano nell’inchiesta Consip (per fare carriera, conta più ciò che non si fa di ciò che si fa). Cose che difficilmente accadevano quando i singoli pm godevano non solo di “indipendenza” (esterna, dagli altri poteri), ma anche di “autonomia” (interna, dai capi), come prevede la Costituzione. E come del resto accade tuttoggi per i giudici che, per decidere un rinvio a giudizio o un proscioglimento, una condanna o un’assoluzione, non chiedono certo il permesso ai superiori: agiscono secondo scienza e coscienza. L’altro effetto collaterale della controriforma fu un’esplosione di appetiti e succhi gastrici, nel mondo giudiziario e nei poteri esterni, per le nomine di ogni capo: perché chi controlla il procuratore controlla tutta la Procura. Fa bingo, anzi strike. È questo il giochino che va smontato, con una riforma che restituisca ai singoli pm la titolarità dell’azione penale, cioè la stessa autonomia dei giudici. Il Csm arriva dopo, quando è troppo tardi.

Riaprire non basta: il Genio del Panico e il difficile ritorno alla normalità

Gli spin doctor di Palazzo Chigi hanno dato prova di inusitata sagacia denominando come “Decreto Rilancio” il terzo pacchetto di provvedimenti economici (atteso sin da aprile). Verso cosa ci si rilanci tuttavia rimane da stabilire. Probabilmente nel vuoto di un’ostica incertezza difficile da dissipare e impossibile da valutare con analisi meramente economiche. Con il passare delle settimane emerge nitidamente l’estensione dei danni economici provocati dall’epidemia e che nessuna misura emergenziale potrà cancellare o quantomeno riparare rapidamente.

Un caso macroscopico sono i viaggi in aereo. Negli Usa non sono mai state imposte restrizioni ai voli interni (a differenza di quelli internazionali). Ciononostante dai dati sui passeggeri risulta che il traffico è crollato del 90%. Mettere piede su un velivolo è percepito come rischioso, quindi lo si evita se non spinti da necessità impellente o desiderio insopprimibile. Analogamente anche dopo le riaperture pochi frequenteranno assiduamente ristoranti, cinema, concerti, discoteche, e luoghi affollati in genere. Dalla batosta economica ci si riprenderà quando la percezione del pericolo e quindi il bilanciamento dei rischi tonerà entro l’alveo della razionalità. Fino ad allora le abitudini di spesa e di vita, specie delle persone più vulnerabili, rimarranno indelebilmente influenzate dalle immagini delle terapie intensive diffuse ossessivamente per mesi. In sostanza, mentre il dibattito (e lo scontro) politico in Italia (come nel mondo) enfatizza una semplicistica dicotomia “vite umane contro crescita economica”, il sentiero di ritorno alla normalità passa per la consapevole internalizzazione psicologica del nuovo rischio. La riapertura completa non basta. L’economia moribonda si rivitalizzerà o quando arriverà il vaccino (ma passeranno molti mesi) o quando si accetterà di convivere col Covid-19. Esattamente come è successo con l’Aids. Quale lasso di tempo è lecito attenderci? L’Osservatorio Socio-Politico di Hokuto, che adotta modelli di machine learning e intelligenza artificiale, ha condotto ad aprile un sondaggio tra 1600 individui e 69 esperti (accademici, manager, imprenditori). Il sentimento prevalente è gramo.

Lo scenario ottimistico, ritenuto più probabile dal 73% del campione, prevede una riapertura graduale entro l’estate, e una ripresa effettiva delle attività produttive e delle città all’inizio del 2021 in linea con l’impatto decrescente dell’epidemia. Invece lo scenario pessimistico verso cui propende il 27% del campione prevede una riapertura problematica fino all’autunno con code fino all’estate del 2021, quindi con ripercussioni significative dell’epidemia per un altro anno. Dopo aver martellato l’opinione pubblica con messaggi parossistici il Genio del Panico faticherà a tornare beatamente nella lampada.

Mascherine a 50 cent in metà dei negozi, guanti introvabili

Mascherine chirurgiche a prezzo calmierato solo nel 45% dei punti vendita, guanti di lattice quasi introvabili nonostante l’obbligo di indossarli nei negozi. Sono alcuni dei risultati della seconda indagine condotta dal Centro studi nazionale Ircaf, realizzato in farmacie e supermercati di 20 città capoluogo di Regione, che ha anche valutato la spesa di 75 euro al mese per ogni singolo nucleo familiare per l’acquisto delle protezioni. Così a quasi un mese dall’annuncio del commissario straordinario Domenico Arcuri della vendita delle mascherine al prezzo di 50 centesimi (fino al 19 maggio è stata applicata anche l’Iva, ora azzerata), la situazione resta ancora difficile. La causa è lo scontro tra Arcuri che nella battaglia contro gli speculatori continua ad annunciare l’aumento della fornitura delle mascherine a farmacie e parafarmacie (dovrebbero essere 30 milioni a settimana) e le associazioni di categoria che, invece, ne lamentano la mancanza di scorte e ritengono che il prezzo di vendita imposto sia troppo basso. Una disputa che si traduce in numeri: solo nel 61% dei punti vendita si trovano mascherine chirurgiche monouso o usa e getta e di queste il 16% è posto in vendita al prezzo medio nazionale di 1,29 euro (in discesa da 1,59 euro di tre settimane). Mentre il 45% delle mascherine sono acquistabili al prezzo calmierato.

In media, nelle farmacie le mascherine a 50 centesimi sono presenti nel 53% del campione, mentre si trovano solamente in un supermercato su tre, segno che l’approvvigionamento attuale non soddisfa ancora pienamente la domanda crescente. In particolare, si trovano nel 70% dei casi a Genova, (mentre in occasione dell’indagine precedente in questa città erano introvabili), nel 67% a Catanzaro, Cagliari, Bologna, nel 63% Perugia e Venezia, nel 60% Milano e Aquila e Trieste, nel 48% Roma, 45% Torino, 42% Napoli e, con percentuali quasi inesistenti, a Palermo, Bari e Potenza. Situazione virtuosa a Firenze dove le mascherine a prezzo calmierato sono risultate acquistabili solamente nel 28 % dei punti vendita contattati, ma la regione Toscana ha messo a disposizione di ogni famiglia un kit gratuito di mascherine da ritirare presso le farmacie. Va inoltre evidenziato che quasi tutti i punti vendita hanno fatto presente che “quando arrivano le mascherine chirurgiche a prezzo calmierato vanno subito a ruba”.

Sul fronte delle mascherine lavabili, l’indagine dell’Ircaf mostra che sono presenti nel 49% delle farmacie (nell’indagine precedente era al 30%) e nel 33% dei supermercati. Altro dato che emerge è il calo della presenza delle mascherine filtranti senza valvola ora presenti nel 57% delle farmacie (rispetto al 68% della indagine precedente) e presenti solo nel 10% dei supermercati. Questa denota una domanda crescente fra i cittadini, ma non sempre un’adeguata informazione rispetto a un corretto utilizzo soprattutto come presidio sanitario, con un costo medio nazionale di 6,68 euro cadauna, in calo di 90 centesimi rispetto a tre settimane fa. I prezzi più bassi si trovano a Potenza (4,6 euro) e Napoli (5,03 euro), mentre i più alti si registrano a Firenze, (9,67 euro), Venezia (9,5 euro), Bologna (8,7 euro), Palermo (7,9 euro) , Catanzaro e Cagliari (7,5 euro), Perugia (6,96 euro) fino ai 6,46 euro di Roma e ai 6,30 euro di Milano.

Nel pasticcio delle mascherine, c’è un altro caso che ormai è conclamato: l’impossibilità di trovare i guanti in lattice. Il dato che emerge è sconfortante: solo nel 15% dei punti vendita sono reperibili (nel 15% delle farmacie e nel 12% dei supermercati). Il prezzo medio è di 0,57 euro al paio, ma l’analisi dei dati mostra forti differenze (0,89 euro nelle farmacie e 0,42 euro nei supermercati). “Considerando l’obbligo di indossarli nei supermercati, nei negozi, nei servizi e nelle attività in generale la loro scarsa reperibilità rappresenta, assieme alla discontinuità nella disponibilità delle mascherine, una vera emergenza alla quale va trovata una soluzione”, commenta il presindente dell’Ircaf Mauro Zanini.

Non c’è poi da sottovalutare il fattore prezzo. Considerando una famiglia di tre persone composta da due lavoratori autonomi e un figlio studente universitario (che utilizzano due mascherine chirurgiche al giorno in azienda per lavoratore e una al giorno per il figlio) il costo per la famiglia si attesta sui 2,50 euro al giorno per 30 giorni, pari a 75 euro mensili. Che, nel caso si ragionasse sull’anno, porterebbe il costo a 900 euro. Se, invece, i due genitori ricevono le mascherine sul posto di lavoro, la spesa prevedibile risultera più contenuta di circa il 60% e potrebbe ridursi fino a 360 euro annui.
Le mascherine chirurgiche calmierate sono deducibili al pari degli farmaci.

Al cinema con l’amico logorroico

Stare nella sala buia di un cinema è una bellissima esperienza, sono incollata alla mia poltrona, colpita da tanta meraviglia. Truman Show è un film perfetto, potente, non morirà mai. Lucio, l’amico che ho accanto, tra pop corn, M&m’s, patatine e masticamento, mi sta rovinando la visione del film. Lo odio. S’improvvisa anche critico cinematografico: “… vedi secondo me il regista fa un paragone tra realtà e finzione” — “… ma vaà, Lucio!” — “ … la rappresentazione ontologica dell’essere che si riscatta dall’apparire” — “… eh? Non ho capito” — “… dico che incarna l’industria televisiva tutta fondata sugli slogan…” — “ … sì, sì lo vedo Lucio” — “… scelta discutibile aver messo Jim Carrey, un comico, a sostenere un ruolo adatto a un attore di maggior spessore…” — “… non sono d’accordo Lucio, ora fammi sentire il film per favore” — “… hai visto? È ripreso in diretta dalla nascita, è stato adottato da un network televisivo, incredibile!” — “Bastaa, sta zitto!”. Ma lui continua a parlare ininterrottamente, non importa se provo a zittirlo o se non gli do corda, lui va avanti, senza tregua, a getto continuo. Mi devo arrendere, non ce la faccio più, questo film mi toccherà rivederlo da sola! Poi, d’improvviso la quiete. Silenzio in sala, mi giro verso il mio amico e m’accorgo che s’è addormentato! Lucio ronfa beatamente. Mi godo questo capolavoro di film. Mentre scorrono i titoli di coda e il pubblico piano piano si congeda, osservo Lucio che russa di un sonno profondo. L’ho lasciato lì, sulla poltrona del cinema Adriano. Nessuno s’è accorto della sua presenza, saracinesche abbassate e buonanotte. La mattina dopo, le donne delle pulizie lo hanno trovato ancora addormentato. Ha aperto gli occhi, si è inchinato e ha declamato: “Caso mai non vi rivedessi, buon pomeriggio, buonasera e buonanotte!”.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Jericho Brown: il poeta nero riscatta gli afro col Pulitzer

Due cose sono accadute in questi giorni, con la complicità della quiete del lockdown. Una è che stavo rileggendo e riordinando ciò che negli anni ’60 ho scritto dopo l’incontro e l’amicizia col poeta nero LeRoi Jones (poi Amiri Baraka): il legame immediato con la sua scrittura, teatro e canto insieme. L’altra è una telefonata da Atlanta (Georgia, Usa) di Andrew Young, già sindaco di quella città, già l’amico che mi ha portato a conoscere Martin Luther King negli anni ’50, già ambasciatore di Carter all’Onu.

Andy (era il nickname di allora) voleva avere notizie della pandemia in Italia (e io dall’America, ma Atlanta è rimasta quasi immune) e voleva sapere se avevo avuto notizia del premio Pulitzer al poeta nero Jeremy Brown, simbolo di un’America nuova di cui siamo sempre in attesa, contro il suprematismo bianco e il razzismo presidenziale. Voleva sapere se il poeta nero era stato pubblicato In Italia. Ho potuto dirgli che era un grande evento e che tutto ciò che avevo letto, prima di vedere il libro premiato (The tradition, Copper Canyon Pres) era un articolo di Marco Bruna su Lettura (Il Corriere della Sera, 17 maggio).

Andrew Young è stato, insieme a King e Jesse Jackson uno dei grandi leader neri d’America. Sostiene che il Pulitzer a Jericho, oggi, significa uno scatto della cultura afro-americana; parecchi livelli più su dell’attenzione e benevolenza con cui è stata affiancata e protetta dalla più coraggiosa cultura bianca. L’osservazione è importante anche in un altro senso. Negli Stati Uniti, forse, è solo l’ambiente accademico ad ospitare e riconoscere la poesia. Comincia nelle Università, dove il giovane poeta è subito notato, e in una costellazione di piccole case editrici che affidano il loro destino alla pubblicazione di testi poetici. Ma il più delle volte, ti fanno notare, nel mondo accademico americano e nelle riviste di poesia, c’è una questione di classe. È stata la Beat Generation a rompere il blocco: prima, quasi sempre, la grande poesia americana apparteneva ad autori che, dopo l’università e un po’ d’insegnamento, potevano vivere e scrivere senza compenso.

Il caso Jericho desta attenzione anche per il raffinato livello culturale (da persona di studio, non di appassionata voce del popolo) con cui ha rilanciato l’oggetto misterioso della poesia afro-americana. Mi aveva spiegato una volta LeRoi Jones – Amiri Baraka, che nel rapporto fra la cultura bianca e quella afro-americana, ci sono due misteri. Uno è come che il Jazz (originalissima creatura nera) abbia subito contaminazioni così eleganti e profonde dalla musica bianca (strumenti, arrangiamenti, melodie), proprio mentre esercitava una poderosa influenza sulla composizione bianca. L’altra è la conversione del canto popolare nero ai canoni della grande poesia bianca, nata aristocratica.

LeRoi Jones credeva nello scontro frontale. Martin Luther King predicava le due culture che diventano una, la stessa, ricca di tante radici differenti. Adesso la forma compositiva che Jericho chiama “duplex”, che unisce forme diverse di metrica, ispirandosi anche alla poesia araba, ci rivela un livello diverso che non è “l’urlo”, come avrebbe detto Ginzberg, ma il lavoro professionale del poeta che, come il musicista ispirato, come il pittore affermato, compone con sicurezza colta cercando percorsi nuovi. E viene riconosciuto non come il migliore dei neri, ma come un compagno di strada da persone della stessa grandezza. Gli editori italiani pubblicano poca poesia. Jericho Brown potrebbe aprire una strada, anche in Italia.

L’Italia pessimista sogna gli Anni 50: i politici trasformisti sono tutti vintage

Il rosso scarlatto del musino del ministro Lucia Azzolina – il suo rossetto, anche in tonalità corallo – più che make up è già una citazione epocale: su quelle labbra sono tornati gli Anni ’50. Ma ancor più della titolare della Pubblica Istruzione sono i due Matteo – Renzi e Salvini – a intercettare la torsione dello Spirito del Tempo verso una certa idea della società: il vintage mai effettivamente dismesso dagli italiani.

Renzi che da sinistra decide di affiancare a sé Teresa Bellanova – rurale e volitiva – e non più l’impegnativa Maria Elena Boschi, smette con le sfumature della complessità smart e lancia un messaggio all’Italia che fu: quella ancora a bordo della Fiat Campagnola in vista della ripresa produttiva. E così ha fatto Salvini che sul “fu-dissociativo”, da sempre – da destra – costruisce la sua strategia pop. Come quando recita l’Eterno Riposo con Barbara D’Urso, in tanti ridono, ma con quell’ episodio – non spiegabile coi codici del galateo formale – il leader della Lega incamera un altro pezzo dell’ideologia popolare. L’ultimo vero stile della nostra identità, il nostro styling è quello: gli Anni ’50. Il ciclotimico adeguarsi della politica al “modernariato” s’impone nella società attraverso una strategia puntuale, precisa e assoluta d’infatuazioni. Ci siamo affrancati dal frettoloso imperio della vita bassa, a pelo d’inguine – quella dei leader europei in camicia bianca – e l’informalità di oggi, quella di un Vincenzo Spadafora inciampa in una ricercatezza provinciale, tutta di borotalco e barba da due giorni.

Il corredo mentale della politica, oggi, è come un arredo in stile. Il riconoscersi della gente, infatti, si nutre esclusivamente di fattori affettivi, atti spiccatamente sentimentali, per forza di cose dissociati tra emozioni e raziocinio: veri propri travestimenti allusivi di nostalgia che vanno dalla devozione per l’incolpevole Padre Pio – come nel caso di Giuseppe Conte – a Goffredo Bettini, il commendatore dello status quo, ostentatamente demodé. Il consenso si costruisce attraverso la ripetizione pedissequa di vecchi modelli. Anche il già capo politico del M5S, Luigi Di Maio – pur giovanissimo, pur postcontemporaneo – adotta un ben preciso stile fatto di forme che sembravano fossilizzate. I suoi Anni ’50 di capello corto, giacca e cravatta concorrono, appunto, alla promessa sottintesa: nell’uno vale uno, nel suo ruolo di predatore alfa si fa carico di replicare i tratti caratteriali di tutti gli omega al seguito.

Come con la cravatta, simbolicamente tolta ma subito tornata prepotente nella costruzione di sé, Di Maio incarna la vocazione che è proprio di ognuno in continuità e rottura. Un segno bellico, filmico e politico – è quello del nodo – per riprendersi, nel movimento, e presso l’opinione pubblica, tutto quello che è suo.

Le maniere si accavallano, i diversi generi vanno a perdersi nelle correnti concettuali ma non è più, questa, la stagione di una sontuosa Carole Alt chiamata a interpretare la sublime Marina Ripa di Meana. Non c’è l’ottimismo della volontà dei nostri primi quarant’anni, quelli trascorsi nell’età dell’oro degli Anni ’80 che sono stati gli unici anni a pretendere un’arrapante unicità orba di nostalgie. L’industria mediatica forgia l’immaginario ma apre il varco alla fase ciclotimica del nostro scontento nostalgico se l’intensa Anna Foglietta, oggi – a dispetto della sua stessa smaliziata ironia – è costretta al mesto brodino pedagogico. Il ruolo di Nilde Iotti in una fiction Rai, figurarsi. Il famoso vintage rosso in tonalità-corallo.

Falcone va celebrato con le frasi scomode, senza innocui cliché

Dice che la memoria sbiadisce nel tempo. E invece, dopo avere vissuto intensamente quella che viene ormai chiamata la settimana della legalità, posso testimoniare il contrario. Ci sono memorie che crescono, quasi lievitano negli anni. Ed è bellissimo, perfino emozionante poterlo osservare con i propri occhi. Come vedere in diretta la fine della legge di gravità. Sono passati ormai 28 anni da quel 1992. C’è la maledizione del Covid che impedisce di tenere assemblee, manifestazioni, darsi appuntamenti, viaggiare; o che tiene le scuole chiuse. Eppure mai come quest’anno ho visto e sentito nell’aria una tale voglia di memoria. Con quel nome, Giovanni Falcone, e quella data, 23 di maggio, e quel luogo, Capaci, continuamente rievocati. Un rincorrersi perfino assillante di telefonate, di mail, di richieste, di video artigianali, poco mestiere e tanta anima.

Ovunque, dalla Sicilia a Bassano del Grappa, migliaia di persone si sono impegnate a realizzare messaggi collettivi, cercando i luoghi simbolici per mandarli, facendo tam tam infiniti, anche per il film in tivù di venerdì sera dedicato a Felicia, la grande madre di Peppino Impastato. Studentesse e studenti si sono gettati nella lettura degli scritti di Falcone per ricavarne piccoli filmati. Mi è stato anche chiesto di donarne un’antologia che una giovane apprendista (Paola Teri si chiama) ha fatto leggere in posti diversi d’Italia da persone diverse. E vi assicuro che sono grato a chi me l’ha chiesto. Perché il libro Cose di Cosa Nostra pubblicato dal giudice con Marcelle Padovani pochi mesi prima di essere ucciso è davvero uno scrigno pieno di insegnamenti. L’avevo già letto integralmente per la mia attività didattica almeno una decina di volte. Ma rifarlo per trarne alcune frasi simboliche, in grado di dire ai giovani, o per ricordare a noi tutti, quale fosse davvero la grandezza e la sapienza civile di quel giudice, mi ha reso ancora più chiara una cosa. Di Falcone si continuano a ripetere 2 frasi del tutto innocue: follow the money e “come tutti i fenomeni umani la mafia ha avuto un inizio e avrà una fine”.

Ci avete fatto caso? La prima è un grande insegnamento professionale, che Falcone seguì nel suo 1º importante processo, contro il costruttore Rosario Spatola. Ma ora per fortuna è un principio investigativo del tutto acquisito. Quanto alla mafia che sembra quasi destinata a morire naturalmente, non ci potrebbe essere immagine più rassicurante e deresponsabilizzante. Peccato che nella stessa pagina Falcone invitasse tutti ad assumersi le proprie responsabilità contro la mafia qui e ora.

Così, consegnando le mie “10 frasi” ai ragazzi che me le avevano chieste ho colto tutto il divario che continua a esistere tra le commemorazioni e la memoria. Per le prime bastano e avanzano quelle 2 frasi ripetute a macchinetta. Per la seconda, quelle che interrogano davvero le coscienze sono invece altre. Sentite questa, per esempio: “In certi momenti questi mafiosi mi sembrano gli unici esseri razionali in un mondo popolato da folli”. Ma che cosa deve aver visto e vissuto quel giudice per dire una cosa tanto drammatica? Quale deserto di politica, magistratura, informazione, generosità umana, doveva avvertire intorno a sé? Come si muove, insomma, il mondo degli “onesti”? Questa è la domanda. Ecco perciò una seconda frase, amara come la precedente: “Anche lo Stato, infatti, in certi casi cede alla tentazione di liberarsi del singolo inquirente scomodo rimuovendolo o destinandolo ad altra sede”. Lo Stato che si libera dei migliori. Perché non partire da qui per ricordare il 23 di maggio, per farcelo davvero entrare nella mente?

Forse chi ha voluto ricordarlo, decidendo che la memoria debba continuare a camminare e non sbiadire, non ha mai letto quel che Falcone ha scritto, ma avverte confusamente che c’è da saperne di più. Anche per capire le logiche di quanto ancora oggi accade, talvolta senza incontrare argini. A questo proposito, mi piacerebbe sapere una cosa: quale consesso abbia deciso che l’altro ieri i cittadini milanesi non potessero recarsi ai giardini Falcone-Borsellino nell’ora della strage, tutti con mascherina, e socialmente distanziati anche di 5 metri, per portare il loro fiore. I boss, che sono “razionali”, stanno battendo gli esercizi in bilico per comprarseli, mentre il “mondo popolato da folli” ha deciso che non si dovesse portare un fiore a Falcone in quell’ora. Movida sì, Falcone no. Rileggere Falcone serve…

Covid 19, le colpe individuali “Medico infetto, ma nessuno allerta i pazienti già visitati”

Cara Selvaggia, oggi, nonostante un bellissimo cielo blu e il sole che dovrebbe scaldarti anche il cuore, è una di quelle giornate no. Dovendo trovare un modo alternativo per smettere di piangere, ho pensato di scriverti. Non voglio soffermarmi sulle responsabilità che ha avuto la regione Lombardia nella disastrosa gestione dell’emergenza Covid (e ne avrei da raccontarti) ma piuttosto sulle responsabilità individuali. È un pensiero che mi tormenta e non mi da pace. Mio cognato Cesare aveva 58 anni e una grandissima voglia di vivere. Una bella famiglia. Tantissimi amici. Nessuna patologia. Venerdì 6 marzo va a sciare tutto il giorno. Una splendida giornata, una pista dopo l’altra. La domenica mattina comincia ad avere qualche linea di febbre, si sente stanco. Pensa di aver preso freddo, ma sapendo che c’è in giro il Coronavirus telefona al medico di base. “Sembra una normale influenza, prenda la tachipirina”. Martedì si aggiunge qualche colpo di tosse e la febbre sale a 39°. Gli viene prescritto, sempre telefonicamente, un antibiotico. Ma la febbre non passa, anzi sale sempre più, così insiste per una visita a domicilio. La mattina del venerdì successivo, quando il medico constata la saturazione polmonare, viene portato con l’ambulanza in pronto soccorso per lastre e tampone. Lui è tranquillo, è convinto sia una bronco-polmonite e ci tranquillizza con videochiamate whatsapp dal pronto soccorso, anche se la tosse aumenta e diventa più insistente. L’esito del tampone arriva dopo 48 ore: positivo al Covid 19. I medici decidono, vista l’età, di sedarlo e intubarlo. Ce lo comunica lui stesso con un messaggio. Non ha paura: “Andrà tutto bene!”. È il 15 di marzo. Dove può averlo contratto? Cesare era scrupoloso: niente più strette di mano coi clienti e sempre a debita distanza. Ma lavora in banca nella zona di Saronno e lì c’erano stati diversi casi negli ultimi giorni. Invece, casualmente, veniamo a sapere che dal 6 marzo il dermatologo di Cesare è ricoverato in terapia intensiva per Coronavirus. Cesare era stato visitato da lui quattro giorni prima, e tutto torna. Visita il 2. Ricovero del medico il 6. Inizio sintomi per Cesare l’8. E qui entra in gioco il discorso della “responsabilità individuale”. Lasciamo perdere perché l’Ats non ha contattato nessuno dei pazienti visitati dal dermatologo in questione, nemmeno quelli visitati in ospedale (l’efficienza lombarda, quando ancora non era emergenza). Ma la sua segretaria? I suoi parenti? Avevano un’agenda con nomi, cognomi e numeri di telefono. Potevano fare una telefonata per avvisare che il dottore era risultato positivo al Covid 19. Se il medico di base avesse saputo che mio cognato aveva avuto contatti diretti con un paziente positivo forse l’avrebbe visitato, e fatto ricoverare, qualche giorno prima. Forse avrebbero fermato l’infezione ad un solo polmone. Forse Cesare non sarebbe morto (mercoledì 8 aprile) dopo tentativi di cura senza fine, giorni interminabili per noi che lo aspettavamo a casa, attaccato al respiratore in terapia intensiva dell’ospedale di Varese. E come lui, altri pazienti di quel medico. Io non so come queste persone possano vivere con questo enorme peso sulla coscienza (perché da quel che ci risulta, ora, il dottore in questione è fuori pericolo).

Carluccia

 

Cara Carluccia, aperitivi affollati, chiamate che non arrivano, medici negligenti come questo. Sono le infinite responsabilità individuali che, messe insieme, diventano collettive. Con il rischio che alla fine l’avremo pagata tutti, ma non la pagherà davvero nessuno.

 

Pandemia, occasione sciupata “Solo lagne, tutto come prima”

Cara Selvaggia, il disastro della pandemia è stato un dono che non abbiamo saputo cogliere. Premetto che sono fortunata, vivo sul Lago Maggiore, ho una bella casa, sono in pensione, mio marito lavora in una ditta che ha solo rallentato il lavoro, un figlio di 30 anni che vive e lavora in Spagna (e non ha mai smesso di lavorare) e uno di 20 che, frequentando l’università, è tornato a casa seguendo le lezioni online. Ma ho anche una mamma di 91 anni che abbiamo dovuto proteggere limitando al minimo le uscite. È stato un periodo incredibile. Tutti a casa a fare ciò che più ci piaceva, guardare dal balcone il paese e il lago fermi e bellissimi, farci dei grandi aperitivi al sole del tramonto, sentire amici sparsi per il mondo e tutto con la speranza che qualcosa cambiasse… in meglio! Ho visto commercianti portare la spesa a domicilio senza mai fermarsi, amici promuovere con successo il loro lavoro online, piccole aziende agricole che hanno incrementato la loro attività e tutti padroni del loro tempo. C’è stata e c’è ancora tanta sofferenza, ma i media parlano solo di quello. Mai una voce di speranza per un mondo migliore. Sui social tutti a lamentarsi perché ci hanno tolto le libertà, che attività che hanno evaso le tasse per anni ora sono sul lastrico, che nonostante la tremenda crisi la priorità era andare al mare. Tutti a chiedere il reddito d’emergenza o contributi vari come se la colpa fosse del governo e non un accidente capitato dove ognuno prova a fare quello che può. Prima o poi questo sistema imploderà, già tanti nodi sono venuti al pettine: Il lavoro nero, il caporalato, la criminalità organizzata che mette le mani ovunque, il malaffare politico, la viabilità disorganizzata, le classi pollaio e tanto altro. Poteva essere un momento anche di grande riflessione e miglioramento, ma non lo è stato. Speriamo lo sia in futuro.

Alessandra

 

Cara Alessandra, ricevo molte lettere simili alla tua. Ciò mi fa sperare che questo sentimento sia molto più diffuso di quanto ne sentiamo parlare.

 

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2. selvaggialucarelli @gmail.com

Come si raccontano il Bene e il Male: la “narrazione umana” per il papa

Dieci domeniche esatte senza messe, con le chiese vuote. Ieri il ritorno alla “normalità”, nella solennità dell’Ascensione di Gesù in cielo. Non solo. Nel primo giorno festivo coi fedeli tra i banchi si è anche celebrata la 54ª giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, “aperta” quattro mesi fa (il 24 gennaio, memoria di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti) da un messaggio di papa Francesco.

In epigrafe un versetto biblico dell’Esodo, “Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria”, e poi il forte passaggio iniziale, dedicato al tema della narrazione: “Credo che per non smarrirci abbiamo bisogno di respirare la verità delle storie buone: storie che edifichino, non che distruggano; storie che aiutino a ritrovare le radici e la forza per andare avanti insieme”.

Verità, storie buone e un verbo effetto della narrazione: respirare. In opposizione a uno storytelling confuso che può generare falsificazione: “Nella confusione delle voci e dei messaggi che ci circondano, abbiamo bisogno di una narrazione umana, che ci parli di noi e del bello che ci abita. Una narrazione che sappia guardare il mondo e gli eventi con tenerezza; che racconti il nostro essere parte di un tessuto vivo; che riveli l’intreccio dei fili coi quali siamo collegati gli uni agli altri”.

La traccia del papa è stato sviluppata in un volumetto che ha lo stesso titolo del messaggio di Bergoglio: La vita si fa storia (Scholé, 190 pagine, 15 euro), curato da Vincenzo Corrado della Cei e Pier Francesco Rivoltella della Cattolica di Milano. Tra le testimonianze raccolte c’è quella di Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti e senatrice a vita.

Nel suo saggio, Segre affronta il racconto del male, “perché la nostra (storia, ndr) non è solo cattiva, ma riguarda addirittura il ‘male assoluto’, per sua natura incomprensibile e indicibile”. E il “male delle cose” diventa poi il “male dei discorsi”. Segre fa sua la distinzione di Primo Levi sull’unicità della Shoah: quella tra “comprendere” e “conoscere”. La comprensione può portare a giustificare, semplificare o relativizzare e quindi è “impossibile”. La conoscenza è invece una “necessità”.