Il pub chiude per arroganza: i clienti sono più incivili di prima

L’altro giorno il Pogue Mahone’s Irish Pub di Porta Romana, uno dei locali più frequentati della movida milanese, ha preferito tenere abbassate le saracinesche piuttosto che incappare in un controllo e rischiare una grossa multa o la chiusura per colpa dell’irresponsabilità dei suoi clienti. Ciò che ha stupito i titolari è stata la loro arroganza: “Non metto la mascherina perché il Covid non esiste”, “fammi vedere dove c’è scritto che devo mettermi la mascherina”, e via col tango. Ignoranza e strafottenza, “sono 2 brutte malattie”, ha commentato qualcuno sotto il post dello staff che spiegava i motivi di questa decisione. Altro che “saremo migliori dopo…”. Il dopo è già peggio del prima. Proprio questi atteggiamenti danneggiano la comunità. Caro Fierro, sono indizi di una prepotenza sempre più dilagante nella nostra società. Forza e violenza (dialettica, fisica) sono unità di misura per affermare le proprie convinzioni, facendo a meno della ragione. In questo contesto, l’appartenenza “a” – aderire cioè ad etichette predefinite (la moda, la squadra, il movimento, la musica, etc) – diventa prevalente. Ci si muove in gruppi, in clan. Dove l’imitazione prevale sulla logica. Quindi se il gruppo, o soprattutto il capo del gruppo, impone cosa fare o dire, non c’è dissenso: tutti fanno la stessa cosa. Perché, per esempio, negare l’esistenza del coronavirus? Perché la sua realtà compromette abitudini radicate, divenute il modo di vivere consueto. Tu non puoi rinunciare agli status symbol in cui ti era identificato, così scatta la molla della rivolta contro le regole che per questione di sicurezza collettivo sono ora provvisoriamente imposte. Il meccanismo attraverso cui s’impone anche su chi potrebbe dissentire, all’interno del gruppo, su determinati comportamenti, è la prepotenza tipica del bullismo di matrice scolastica. Fuoruscire dallo schema significa diventare bersaglio. Pensarla diversamente implica l’esclusione dal gruppo. Si applica la legge del numero: più sono più hanno ragione.

Quando l’editore vince sempre: criticare la Fiat non è barbarie

Caro Coen, come diceva il Principe de Curtis, sono uomo di mondo e ho pure fatto il militare a Cuneo. Quindi capisco che quando l’editore-padrone chiama, tu direttore rispondi. Soprattutto se il padrone è la Fiat. Che chiede un prestito più che agevolato di 6,3 miliardi, e qualcuno (finanche nel disastrato centrosinistra) protesta ricordano la storia delle società nei paradisi fiscali europei. Apriti cielo, perché subito scende in campo una nutrita pattuglia di commentatori, editorialisti, storici della domenica, per “ripristinare la verità”. Ovviamente la loro verità. Chi oggi attacca la Fiat (e a cascata tutti gli altri potentati finanziari) è un selvaggio, un assatanato luddista da indicare subito al pubblico ludibrio. Ha scritto giorni fa Massimo Giannini, direttore de La Stampa: “Un’idea tanto rozza dei rapporti tra economia, politica e informazione non esisteva neanche negli Anni ’50, quando a Torino la Fiat e il Pci costruivano la trama delle relazioni industriali del Paese”. È l’inizio di una narrazione dell’Italia del dopoguerra (ricostruzione, boom economico) tutta rose e fiori. Sembra di vederli i leader del Pci e della Cgil intenti con Agnelli e Valletta a costruire “trame”. La Storia non andò esattamente così. Ricostruzione e boom sconvolsero il Paese in modo selvaggio. Lo scontro sociale era fortissimo, le sofferenze di intere aree sociali indescrivibili. Servivano braccia e il Sud (impoverito e tradito da una riforma agraria sempre più svuotata dei suoi aspetti innovativi) moriva. In soli cinque anni, dal 1958 al 1963, dal Mezzogiorno partirono un milione e mezzo di persone verso le regioni del triangolo industriale. Tanti Rocco e i suoi fratelli presero il “Treno del sole” e si ammassarono nella stazione di Torino Porta Nuova. Paesi abbandonati. Famiglie divise. Tanta sofferenza, e lotte, scioperi per condizioni di vita umane. Questa è la “nostra” Storia. Mi iscrivo al partito dei “rozzi”, perché il dolore di milioni di uomini e donne vale più di 6,3 miliardi di euro.

Il codice Chiellini: morsi e ossa rotte

Giorgio Chiellini ci insegna il calcio. O meglio lo sport. Anzi la vita. Tutti ne avvertivamo il bisogno e per fortuna è successo. In un momento così complicato per il calcio nel suo piccolo e per il mondo in generale, all’età di 35 anni il capitano della Juventus e della nazionale ha dato alle stampe il libro-autobiografia Io, Giorgio, scritto con Maurizio Crosetti, che presto sarà adottato nelle scuole come insegnamento imperituro dei valori dell’etica e della sportività. Parlando degli avversari che nel suo lungo cammino ha incrociato sulla sua strada, Chiellini ci parla di sè: e ci dice molto. A cominciare dall’elogio del “miglior difensore del mondo”, ossia Sergio Ramos del Real Madrid.

Uno dice: cosa ammirerà il Capitano del formidabile guerriero spagnolo? Forse le 4 Champions e le 4 Coppe del Mondo per club vinte con i blancos? Forse i gol decisivi segnati nella finale Champions 2014 contro l’Atletico (al minuto 93), nella finale mondiale contro il San Lorenzo dello stesso anno e nella finale Champions sempre contro l’Atletico nel 2016 (uno in partita, uno ai rigori)? Forse l’essere entrato nel ristretto club dei difensori capaci di segnare più di 100 gol in carriera dopo Koeman e Passarella, prodezza da attaccante compiuta senza mai abdicare ai compiti del difendente, come i 20 cartellini rossi collezionati, che ne fanno il calciatore più espulso di sempre in Liga (in confronto i 2 mostrati dai nostri arbitri a Chiellini paiono una barzelletta), dimostrano? Macchè: non è questo che a capitan Giorgio interessa.

Lui stravede per Ramos per il suo “essere sempre decisivo negli interventi, anche in quelli fuori logica compresi gli infortuni che provoca, che sembrano frutto di un’astuzia diabolica. Quello su Salah fu un colpo da maestro. Lui, il maestro Sergio, ha sempre detto che non fosse sua intenzione provocare un infortunio, ma quando cadi in quella maniera e non lasci la presa, sai che nove volte su dieci rischi di rompere il braccio al tuo avversario”. Dunque, Chiellini invidia a Ramos l’arte sopraffina di rompere un arto a un collega quando l’importanza della partita (vedi Real-Liverpool 2018) lo richiede. È questo che fa di lui il miglior difensore al mondo. E chissà che rabbia, il Capitano, al pensiero di aver giocato due finali di Champions senza nemmeno aver spaccato un braccio o una gamba a Neymar o a CR7. Perdendo, oltretutto. Per i loro gol. Detto del modello Ramos, sapete qual è l’attaccante che il Capitano ammira di più? Suarez del Barcellona, quello che lo morsicò al collo in Uruguay-Italia ai mondiali 2014. “Ammiro la sua malizia — spiega Chiellini —, se la perdesse diventerebbe un attaccante normale. Non è successo niente di strano quel giorno nella Coppa del Mondo 2014. Improvvisamente ho notato che mi avevano morso la spalla. È successo e basta, ma questa è la sua strategia di contatto nella lotta corpo a corpo e, se posso dirlo, è anche la mia. Lui ed io siamo simili e mi piace affrontare attaccanti come lui. Sono anche io un grande figlio di puttana in campo e ne sono orgoglioso. La malizia fa parte del calcio, non la chiamo irregolarità. Per superare un rivale devi essere intelligente”.

Ecco, Chiellini ce lo ha spiegato: il segreto è rompere arti e morsicare al collo gli avversari. Da figlio di puttana consapevole. Solo così lo si capisce: che sei intelligente.

Statuto dei lavoratori: la legge che ha reso l’Italia “moderna”

“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Aver posto all’articolo 1 della Costituzione repubblicana questa dizione, elaborata soprattutto da Amintore Fanfani, non voleva avere un significato classista. “Niente pura esaltazione della fatica muscolare, del puro sforzo fisico, come superficialmente si potrebbe immaginare”, aveva chiarito lui, “ma affermazione del dovere di ogni uomo di essere quello che ciascuno può in proporzione ai talenti naturali”.

Un sistema di garanzie va ricostruito dopo lo Stato fascista. Ma già il 4 giugno del 1944 il Patto di Roma Grandi-Di Vittorio-Canevari va in quella direzione, per una Cgil ancora unitaria che riesce a rappresentare in quel passaggio eccezionale tutti i lavoratori. Come ha scritto il ricercatore storico Edmondo Montali, “riempì il vuoto che nel tracollo dell’apparato pubblico e produttivo seguito alla sconfitta militare impediva ogni interlocuzione sociale e istituzionale”. Per Umberto Terracini, presidente della Costituente nell’ultima fase, la parola “lavoro” divenne “parte integrante della Costituzione”. E Giuseppe Di Vittorio sottolineò come il sindacato unitario si presentasse diverso da quello prefascista: “Spina dorsale e pilastro della nazione, della nuova Italia repubblicana”.

Purtroppo la “guerra fredda” Usa-Urss spezza presto l’unità sindacale del Patto di Roma aprendo negli anni ’50 una stagione di divisioni decisamente penalizzante per i lavoratori. Per le elezioni del 18 aprile 1948 la maggioranza del Psi di Pietro Nenni resuscita un frontismo anni ’30 e il ritorno alle sigle “politiche”: una Cgil con comunisti e socialisti, una Cisl coi cattolici, Dc e frange socialiste, una Uil con socialdemocratici e repubblicani. Leader, Giuseppe Di Vittorio, Giulio Pastore, Italo Viglianesi.

Seguono anni di scontri sociali durissimi, di repressioni di piazza sanguinose (i sei morti di Modena). Alla Fiat la proprietà isola la Fiom creando una sorta di “Fiat Confino”. Ma Di Vittorio, che ha come vice il socialista Fernando Santi, non rinuncia a presentare proposte in positivo come il Piano del Lavoro e ad allentare la cinghia di trasmissione col partito. Per esempio sui fatti di Ungheria, uno choc per la sinistra. Togliatti sposa infatti in pieno l’intervento militare sovietico contro gli insorti, operai e studenti. La Cgil invece emette un documento fortemente critico. Vi ha concorso il segretario confederale Giacomo Brodolini, socialista di estrazione azionista. Che comincia a elaborare l’idea di uno Statuto dei diritti dei lavoratori. Diritti conculcati: le donne possono essere licenziate per matrimonio (e previsione di gravidanza), non possono accedere ad alcune carriere (magistratura ad esempio). Del 1965 è però il Testo Unico su infortuni e malattie professionali e pure l’introduzione delle pensioni di anzianità e di quella sociale. Del 1966, sempre su istanza socialista, la n.604 che dà una stretta ai licenziamenti.

Fondamentale è ormai la collaborazione di due giuslavoristi socialisti, nati entrambi nel 1927, uno genovese, allievo di Giuliano Vassalli, Gino Giugni e uno umbro/bolognese, Federico Mancini, del gruppo del Mulino, entrambi “figli” politici dell’Unione Goliardica Italiana, diventati amici durante il viaggio verso gli Usa sul “Vulcania”. Più della Cgil è sensibile al discorso la Cisl, più “movimentista” che ha giocato un ruolo molto avanzato nell’“autunno caldo” torinese alla Fiat che seguii per intero per il Giorno. Pensate che la rappresentanza di quella enorme fabbrica si riduceva a 21 rappresentanti, una beffa. I delegati di reparto, le forme di lotta articolate rompono antichi equilibri, e la risposta tutta politica, reazionaria, è la strage di piazza Fontana, il tentativo di creare un clima “alla greca”. Sventato dall’unità sindacale, da quella politica delle sinistre. E la legge che si chiamerà Statuto dei lavoratori va avanti. Anche dopo la dolorosa morte prematura di Brodolini. Col grintoso Donat Cattin. Il Pci si astiene (“Volevamo di più”). Poi festeggia a tutta prima pagina.

Le novità sono grandi. Intanto la stretta connessione fra diritti dei lavoratori e presenza del sindacato in fabbrica, quindi un clima di rispetto della dignità e libertà dal lavoratore. Poi, commenta lo stesso Giugni intervistato dall’Avanti!, via “le pratiche di controllo fiscale, le cosiddette polizie private, le ispezioni personali, i controlli per assenza malattia esagerati, quelli a distanza con apparati tv, l’irrogazione arbitraria di sanzioni disciplinari, più ampi spazi per il sindacato nelle fabbriche”. Oltre a maggiori responsabilità. Giugni insisteva molto sulla “giusta causa” ovviamente e sulla possibilità di ricorrere al pretore in casi di comportamenti antisindacali e di chiederne la cessazione entro due giorni. Una riforma tesa a svecchiare, a modernizzare, a migliorare le relazioni industriali.

Nel 1983 mi occorre di fare una lunga intervista al trionfatore delle elezioni politiche spagnole, il socialista Felipe Gonzalez che dichiara spontaneamente il “debito culturale” del Psoe verso la rivista Mondoperaio, Bobbio e ovviamente Giugni e Mancini che ha chiamato a redigere il nuovo codice del lavoro. Allora l’Italia concorreva a migliorare l’Europa.

È più contagioso del virus: se ne vada

Non è che Giulio Gallera si dovrebbe dimettere. Giulio Gallera si darebbe dovuto dimettere al suo primo segnale di inadeguatezza di fronte al disastro, quindi probabilmente quando il pipistrello di Wuhan è uscito dalla grotta.

Giulio Gallera dovrebbe compiere la prima grande azione di contenimento in Lombardia contenendo se stesso.

Giulio Gallera dovrebbe perdere la sua carica virale e sparire col caldo, magari prima di giugno, perché i lombardi non hanno ancora sviluppato gli anticorpi per le sue boiate e ogni volta che le sentono si ammalano ancora un po’.

Giulio Gallera dovrebbe andare a casa e rinchiudersi lì, in una quarantena infinita, perché l’indice di contagiosità delle sue fesserie è uguale a 10: ogni volta che ne spara una, ci sono almeno 10 milanesi che vorrebbero schiaffeggiarlo.

Doveva dimettersi quella volta in cui disse che gli asintomatici non sono contagiosi. Quella volta in cui disse, in piena epidemia, con la gente che moriva a casa, che “noi facciamo i tamponi anche a chi ha uno stato lievemente alterato” e forse lo stato alterato era il suo. Doveva dimettersi quando, sempre con la gente che moriva a casa perché nessuno rispondeva neppure più ai numeri dell’emergenza, dichiarò che “la gente resta a casa troppo a lungo anche perché ormai ha paura di andare in ospedale e contagiarsi”.

O quella volta in cui affermò che lui Alzano Lombardo non poteva chiuderlo perché “è colpa dello Stato, doveva farlo lo Stato, non era nelle nostre competenze”. E doveva dimettersi pure il giorno dopo, quando disse l’ opposto: “Ho approfondito, c’è una legge del 1978 e prevede che potevamo chiudere Alzano”. Ed era (ed è) la legge n.833 del 23 dicembre 1978, intitolata “Istituzione del Servizio sanitario nazionale”, cioè quella che regola le competenze degli assessori regionali alla Sanità. Cioè le competenze di Gallera, che non conosce neppure le sue competenze, cosa del resto comprensibile perché non le hanno individuate neppure i suoi concittadini.

Doveva dimettersi anche per aver detto che i cittadini lombardi devono pagarsi i test sierologici perché non servono a niente, per poi bullarsi pochi giorni dopo che i test li pagherà la sanità pubblica. E allora uno si chiede: ma, se diceva che non servono a niente, perché ha deciso di farli pagare alla Regione? Poi ti ricordi che anche lui non serve a niente e anche il suo stipendio lo paga la Regione e capisci che c’è una linea di continuità.

Dovrebbe dimettersi perché ha detto che la famosa delibera che mandava nelle Rsa i malati Covid dimessi dagli ospedali, ma ancora contagiosi, lui la rifarebbe domani. E allora verrebbe da dire: “Se i morti nelle Rsa potessero parlare…”. Ma noi non abbiamo doti medianiche come Renzi, noi i morti non li facciamo parlare, noi parliamo con i vivi e i lombardi vivi, in questo momento, stanno dicendo tutti: Gallera, vattene.

Strage silenziosa nei macelli del Nord America

Hiep Bui era arrivata in Canada come rifugiata dopo la guerra del Vietnam. Viveva con il marito nella provincia dell’Alberta (nell’ovest del paese), dove ha lavorato in uno stabilimento di macellazione per 23 anni. Durante la pandemia, ha continuato a recarsi tutti i giorni nella cella frigorifera: ritirava le ossa dalla carne macinata destinata a fare gli hamburger. Un venerdì di aprile, mentre era al lavoro, si è ammalata. In un primo tempo ha pensato che fosse un’influenza, invece era il Covid-19: è morta due giorni dopo, a 67 anni. Il macello in cui Hiep Bui lavorava, nei pressi di High River (sud dell’Alberta), appartiene alla multinazionale degli Stati Uniti Cargill. È uno dei più grandi impianti di lavorazione di carne bovina del Canada, con 2 mila dipendenti e una capacità di 4.500 capi di bestiame al giorno. Poiché la filiera della carne è stata dichiarata dal governo settore essenziale, lo stabilimento è rimasto aperto a metà marzo mentre il resto dell’economia si fermava. Ma la situazione sanitaria dell’impianto è sfuggita rapidamente di mano. Il primo caso di Covid-19 è stato confermato il 6 aprile. Due settimane dopo se ne contavano diverse centinaia e Cargill è stato costretto a sospendere l’attività per due settimane. In tutto, quasi mille lavoratori – la metà dei dipendenti – sono stati infettati. La maggior parte di loro ora sta bene. Due sono morti.

Il caso della Cargill nell’Alberta è particolarmente significativo, ma non è stato il solo. In tutto il nord America, dozzine di stabilimenti per la macellazione della carne, manzo e maiale soprattutto, sono diventati nelle ultime settimane dei focolai epidemici, costringendo i giganti del settore a chiudere temporaneamente alcune delle loro fabbriche o a ridurre il ritmo della produzione, facendo temere una carenza nell’approvvigionamento della carne. In Canada, secondo il Factory Farm Collective, 2.200 lavoratori di 28 macelli sono risultati positivi al nuovo coronavirus dall’inizio dell’epidemia e cinque sono morti. Sempre nell’Alberta, più di 600 operai dello stabilimento JBS Canada, filiale del colosso brasiliano JBS, sono stati infettati. Il Food and Environment Reporting Network (FERN) ha stimato che circa 200 impianti per la lavorazione della carne e di prodotti alimentari trasformati degli Stati Uniti hanno registrato dei casi di Covid-19. Più di 17 mila lavoratori sono risultati positivi. Al 20 maggio, si contavano almeno 70 morti. Molteplici fattori fanno di queste fabbriche dei luoghi particolarmente a rischio in periodo di pandemia.

In nord America c’è una vasta concentrazione di fabbriche di carne, impianti giganteschi basati nelle aree rurali che impiegano un gran numero di operai. Lo stabilimento di High River, a un’ora d’auto da Calgary, rappresenta oltre un terzo della lavorazione di carni bovine di tutto il Canada. Gli spazi comuni, come gli spogliatoi e le mense, sono affollati durante le pause. Gli operai lavorano fianco a fianco, soprattutto lungo la catena di produzione in cui la carne viene tagliata e imballata. “È stato fatto il possibile per rendere queste fabbriche sempre più efficienti. Un gran numero di persone lavorano in condizioni di promiscuità. È un terreno fertile per i virus”, ha spiegato Mike von Massow, docente presso il dipartimento di Agricoltura dell’Università di Guelph, in Ontario. Secondo lui, queste fabbriche non erano pronte a gestire una pandemia. Ad High River, i lavoratori accusano Cargill di aver reagito e preso le misure di sicurezza troppo tardi. Secondo il quotidiano The Globe and Mail, che ha portato avanti una lunga inchiesta sul tema, solo a metà aprile, ovvero un mese dopo l’entrata in vigore delle misure di contenimento dell’epidemia in Canada, è diventato obbligatorio indossare la mascherina all’interno dello stabilimento e sono stati installati dei pannelli di plastica lungo la catena di produzione per distanziare i lavoratori.

Cynthia, originaria delle Filippine, ha lavorato nello stabilimento di High River per nove anni insieme al marito. Lei era nella “kill floor”, il locale per la macellazione, lui alla catena di produzione. Ad aprile sono risultati entrambi positivi al Coronavirus e da allora sono in quarantena. “La maggior parte dei colleghi che si sono ammalati lavorano nella produzione. All’inizio, non veniva applicata alcuna misura di distanziamento sociale. Le persone continuavano a lavorare fianco a fianco – ha spiegato Cynthia -. Solo i responsabili indossavano le mascherine. Erano gli unici ad essere protetti”.

Da parte sua, Cargill sostiene di aver “agito presto e rapidamente”, sin dai primi di marzo, per introdurre i nuovi protocolli. “Gli standard evolvono continuamente in funzione dell’evoluzione dell’epidemia e via via impariamo nuovi metodi per proteggere i nostri dipendenti”, ha osservato il portavoce dell’azienda, Daniel Sullivan. Gli spazi collettivi sono stati dunque riorganizzati, sono state introdotte delle misure di protezione all’interno dei luoghi di produzione e fissati degli orari scaglionati per le pause. A un certo punto si è cominciata anche a misurare la temperatura degli operai all’ingresso della fabbrica. Per alcuni queste misure di sicurezza sono arrivate troppo tardi. Dopo aver sospeso l’attività per 15 giorni, l’impianto ha riaperto le porte il 4 maggio con l’introduzione di regole ancora più strette. Il sindacato United Food and Commercial Workers (Ufcw), che rappresenta i 2 mila operai della fabbrica, si è opposto alla ripresa del lavoro, chiedendo l’apertura di un’inchiesta: “Non siamo degli ingenui”, ha detto Michael Hughes, il portavoce locale del sindacato. Le autorità provinciali, che in un primo tempo erano state accusate di aver ignorato le preoccupazioni del sindacato e gli appelli a chiudere l’impianto, hanno dato il via libera all’inchiesta. La fabbrica ora funziona al 60% della sua capacità. Gli operai, compreso il marito di Cynthia, hanno paura di tornare al lavoro. “La situazione è molto tesa – osserva Michael Hughes -. Gli operai sono nervosi. La loro è una posizione difficile: anche se hanno paura, devono lavorare”.

Una settimana dopo la riapertura, hanno appreso della morte di un altro collega, Benito Quesada, messicano, che era stato ricoverato in ospedale ad aprile. Aveva 51 anni. Come Quesada molti operai dei macelli e degli impianti di lavorazione della carne del nord America sono immigrati o lavoratori stranieri stagionali. Nello stabilimento di High River rappresentano il 90% della mano d’opera. Provengono principalmente dalle Filippine, ma anche dall’Africa, dal sud-est asiatico o dal Messico. “Fanno il lavoro che nessuno vuole fare”, spiega Ricardo Morales della Calgary Catholic Immigration Society, che aiuta gli immigrati nella regione. Il lavoro è difficile e sottopagato. “Nessuno sogna di lavorare in un macello. Non è un lavoro piacevole, fa freddo, è umido, c’è sangue dappertutto. È anche un lavoro ripetitivo”, riassume il professor Mike von Massow. Per Ricardo Morales anche il contesto sociale da cui gli operai provengono li rende più vulnerabili all’epidemia. Molti di loro parlano poco o male l’inglese e più famiglie vivono nella stessa abitazione. Fattori sicuramente aggravanti ma, agli occhi dei lavoratori, troppo spesso avanzati da Cargill e dalle autorità per giustificare la gravità del contagio. Per Alex Shevalier, presidente del Consiglio del lavoro di Calgary, la crisi del Covid-19 ha rivelato la dura realtà di questa filiera. “Il lavoro degli operai non viene valorizzato. Come stupirsi che ci siano tanti contagi! Non dipende solo da come questi impianti sono stati progettati. È anche una questione di gestione a livello delle direzioni”.

A High River, diversi operai hanno rivelato al Globe and Mail e alla radio Cbc di aver ricevuto pressioni da parte dei loro datori di lavoro. Alcuni sostengono di aver avuto l’autorizzazione dei medici a continuare a lavorare nonostante i sintomi, altri sono stati costretti a tornare in fabbrica prima della fine del periodo di quarantena. Un bonus di 500 dollari è stato promesso a marzo agli operai che non avrebbero perso neanche un giorno di lavoro su un periodo di otto settimane: per il sindacato, un “incoraggiamento” a lavorare anche in caso di malattia. A questo proposito, i vertici di Cargill sostengono di essere stati “molto chiari”: i dipendenti malati non erano autorizzati a recarsi sul posto di lavoro. “I nostri dipendenti sono stati considerati lavoratori essenziali. La loro sicurezza – ha precisato Daniel Sullivan – è la nostra priorità”.

Cynthia la pensa diversamente: “Non gli importa nulla di noi. Ci trattano come se fossimo delle macchine”. “Le fabbriche non hanno nessuna intenzione di ridurre la produzione – aggiunge Michael Hugues -. A loro basta cha qualcuno lavori, non importa chi. Basta che la carne arrivi sugli scaffali, il prodotto passa prima del lavoratore”. Di fronte ai timori di carenze, ammette il sindacalista, la filiera ha subito pressioni importanti da parte dei produttori e dei consumatori.

Alla fine di aprile, il presidente americano Donald Trump ha ordinato ai macelli di restare aperti per garantire l’approvvigionamento della carne. Il Canada ha stanziato 77 milioni di dollari per aiutare la filiera a migliorare la sicurezza sul posto di lavoro. La maggior parte degli impianti che hanno dovuto chiudere, sono stati riaperti sulla base di protocolli più rigidi. Eppure, pur ritrovandosi in prima linea, i lavoratori della carne restano invisibili, mentre altri vengono celebrati come eroi in Canada e altrove. “È un settore che si conosce poco. Nessuno vuole sapere da dove provengono il manzo o il maiale che mangiamo né cosa succede nei mattatoi”, conclude Mike von Massow. Il professore ritiene tuttavia che l’epidemia di Covid-19 possa indurre l’industria della carne a cambiare: “Questa crisi ha rivelato i problemi del settore. Spero che i consumatori, più consapevoli, saranno più attenti in futuro non solo a come gli animali vengono allevati, ma anche a come vengono trasformati e all’impatto che il sistema ha sui lavoratori”.

(traduzione Luana De Micco)

Cibo: niente sprechi in pandemia, grazie alle app ecologiche

Sciami di torte pubblicate sui social, gallerie di foto di tavole imbandite e aperitivi casalinghi: il cibo è stato il grande protagonista dell’era covid-19 e anzi — complice forse il peso di 14 pasti a settimana così come la nuova sensibilità ecologica — durante la quarantena lo spreco di cibo, di cui gli italiani erano fino a ieri grandi campioni, è drasticamente diminuito (circa il 25%, secondo i dati del rapporto #iorestoacasa 2020 dell’Osservatorio Waste Watcher di Last Minute Market/Swg). In tutto questo tripudio di lievitazione e panificazione, però, in pochi si sono posti una domanda cruciale: che fine fa il cibo destinato alla ristorazione, così come alle mense scolastiche e aziendali? Non si rischia, insomma, di risparmiare da un lato e gettare dall’altro?

La risposta arriva dall’applicazione Too Good To Go (troppo buono per essere buttato), 20 milioni di utenti in Europa, quasi un milione in Italia con 4.000 negozi registrati in 26 città del Paese. L’app da tempo consente a bar, ristoranti, forni, pasticcerie, supermercati e hotel di mettere in vendita delle magic box a prezzi ribassati con una selezione a sorpresa di prodotti e piatti freschi. E oggi, appunto, fa un passo in più, lanciando la Super Magic Box che contiene prodotti invenduti, con scadenza dai 3 ai 6 mesi, di grande aziende. “La quantità di cibo rimasta nei magazzini è impressionante”, spiega Eugenio Sapora, direttore Italia di Too Good To Go, “e per questo abbiamo messo a disposizione la nostra rete di esercenti e waste warriors per salvare quanto più cibo possibile, al tempo stesso aiutando economicamente tante realtà che hanno subito gli effetti della crisi”. Anche per la “super” box il meccanismo è semplice. Si va in un pick up point (punti di ritiro) individuabili attraverso l’app, dove si trovano confezioni sorpresa speciali, scontate al 70%, di aziende come Fine food group (specializzato in cucina messicana) Danone e Gruppo Dolcitalia, che fornisce prodotti per colazioni e merende.

Non c’è dubbio: gettare cibo è sempre stato immorale, oggi come ieri. Ma grazie allo smartphone, oggi gli alimenti hanno una 2ª vita e una 2ª distribuzione. E il virus sta moltiplicando le potenzialità delle applicazioni nate contro lo spreco, che oggi sono tante e differenziate tra loro. C’è “Lastminute sotto casa”, tutta italiana, che segnala i prodotti dei negozi di quartiere; c’è Bring the food, sviluppata dalla Fondazione Kessler assieme al Banco Alimentare, che si rivolge a centri commerciali e negozi aiutandoli a mettere online alimenti in scadenza per onlus, mense e centri di assistenza; c’è Myfoody, che offre i prodotti vicini alla scadenza di supermercati (ad esempio Coop e Lidl); c’è “Ubo”, che spiega come conservare gli alimenti, utilizzare gli avanzi, non far scadere gli alimenti; e c’è “Avanzi popolo 2.0”, nata a Bari come scambio tra privati e che oggi recupera e distribuisce alimenti da imprese o eventi. Un perfetto esempio di economia circolare, dove tutti, ma proprio tutti, hanno da guadagnarci.

Medici non specializzati: da eroi anti-virus a untori senza lavoro

Da eroi contro la pandemia a untori, fino alla disoccupazione: è la parabola dei medici (laureati) senza specializzazione. In pieno lockdown sono stati chiamati in trincea, a combattere il Sars-CoV-2; con contratti a tempo e senza straordinari, s’intende. Il 1º maggio, come “ringraziamento”, arriva la stigmate degli untori: “Gli specializzandi hanno una vita sociale attiva, sono loro a creare pericolo negli ospedali”, ha detto Daniele Donato, direttore dell’Azienda ospedaliera di Padova. I giovani dottori in corsia hanno scioperato il 5 maggio. Ma almeno sono iscritti alla specializzazione: un miraggio, per molti altri è un miraggio. Pperciò i medici scendono in piazza il 29 maggio.

“Dopo il sacrificio nei reparti Covid il futuro è precario o senza lavoro”, avvisa Francesco Possanzini, 28 anni. I manifestanti si organizzano sulla pagina Facebook “Medici in mobilitazione permanente”: “Chiediamo che ogni laureato abbia accesso alla specializzazione”, dice Possanzini. Oggi assiste i malati Covid poco gravi, nelle loro case: è quotidianamente esposto al contagio, Francesco, lavorando a Macerata nell’Unità Speciale di continuità assistenziale (Usca). Sono i team medici che seguono i pazienti a domicilio: la cosiddetta “medicina territoriale”, invocata come antidoto al collasso sanitario. Le Usca sono nate a marzo, con la “chiamata alle armi” dei medici laureati, ma senza accesso al corso per specializzarsi. Come Francesco Possanzini: “Abbiamo tappato i buchi nella sanità, con responsabilità medico-legali di cui non avremmo dovuto farci carico”. E quando la pandemia sarà alle spalle torneranno a casa, contemplando il futuro nero: “Senza specializzazione i medici possono stare solo in guardia medica con contratti precari”, spiega Possanzini. Ma in Italia è una corsa a ostacoli infinita, la specializzazione.

Il prossimo bando sarà a luglio o a settembre. Il guaio non è quando, ma quanti: “Parteciperanno tra i 22 e 25 mila medici e i posti disponibili saranno 12-13 mila”, dice Possanzini. Ergo: circa 1 medico su 2 non passerà, a tutto danno dei pazienti. I dottori “a spasso”, infatti, lasceranno sguarniti gli ospedali. Nel 2025 mancheranno 16 mila medici, secondo le stime pre-pandemia. Grazie a Quota cento, 24 mila dottori andrebbero in pensione entro il 2021, per il sindacato dei medici e dirigenti sanitari (Anaao e Assomed). Ecco perché i medici in corsia ora sono una priorità, dopo aver tagliato 37 miliardi in 10 anni. Dal 2009, infatti, c’era il blocco delle assunzioni. Ma a dicembre dell’anno scorso, col Dl fiscale, il cambio di rotta: le Regioni ora possono aumentare il personale sanitario (ogni anno) ma con parsimonia, spendendo non più del 15% dell’aumento stabilito per il Fondo sanitario nazionale.

Come inizio, si potrebbe garantire la specializzazione ai medici impiegati contro il Covid, invece di rispedirli a casa col contratto scaduto. Altrimenti, per loro, c’è l’espatrio: “L’Italia è tra i pochi Paesi europei dove la laurea non dà accesso alla specializzazione”, dice Francesco Possanzini. Nessuna meraviglia, dunque, se in Ue il 52% dei dottori che emigra viene dallo Stivale. Ecco il nostro primato.

Il paese scomparso rinasce nelle foto dell’artista ignoto

“Il futuro della Moldavia, come ogni altro, è incerto”. Lo dice lo studente Victor Galusca, 26 anni e una macchina fotografica al collo da quando ha cominciato a frequentare l’Accademia di Belle Arti di Chisinau, Capitale del suo Paese, “già abbandonato da quasi la metà della sua popolazione, partita in cerca di migliori condizioni di vita all’estero”. Anche Viktor stava per spostare l’ago della sua bussola verso l’ovest d’Europa: “I miei genitori, fratelli e cugini hanno tutti abbandonato la Moldavia. Sono l’unico membro della mia famiglia rimasto in patria, volevo partire anche io ma poi ho trovato le foto nascoste di Zaharia Cusnir”.

Viktor ama perdersi tra le montagne, lungo rotte remote che conducono a paesini ormai deserti, abbandonati da generazioni in fuga, che si sono lasciate dietro solo frammenti di esistenze. In una casa vuota di un villaggio fantasma, tra muffa, macerie, incuria e cocci di finestre rotte, un giorno del 2016 ha trovato un bagaglio chiuso: il simbolo della partenza, che invece per Viktor è diventato motivo per restare. Era “una valigia che nessuno da oltre vent’anni aveva aperto”, che è riuscita a custodire per decenni un intero mondo scomparso. Aprendola Viktor ha ritrovato quattromila negativi fotografici: migliaia di volti, vite, ritratti di una Spoon River sovietica, un intero villaggio ormai perduto per sempre, Rosietici, di cui non esiste più alcuna traccia se non negli scatti di un fotografo che nessuno conosceva prima di allora: Zaharia Cusnir. Ultimo di 16 figli, Zaharia è vissuto e morto a Rosietici, distretto di Soroca, in Moldavia.

Nato nel 1912 in una terra che faceva parte dell’Impero russo, crebbe nel villaggio che diventò parte della Romania, per divenire infine sovietico quando diventò adulto. Fu subito vessato dai comunisti come tutti i contadini che rifiutavano la collettivizzazione forzata. Zaharia provò a fare l’insegnante per essere licenziato dopo un anno. Si oppose ai rossi e finì in prigione. Quando lasciò la cella, scontati i tre anni di pena, iniziò a trascorrere le ore con pecore e sassi in un kolchoz, fattoria collettiva. Solo a 43 anni l’inquietudine che sembrava abitarlo si placò quando suo nipote, di ritorno dalla leva militare, gli insegnò ad usare la macchina fotografica e a trovare una vocazione nata con la sovietica Ljubitel tra le dita. Zaharia cominciò da allora a immortalare tutti gli abitanti di Rosietici durante cerimonie, matrimoni, feste, battesimi, funerali, ma da loro fu sempre considerato solo come la marca della macchina sovietica che usava: un Ljubitel, ovvero un “amatore”, un dilettante, uno “scemo del villaggio”, che battagliò tutta la vita contro l’alcolismo e, senza saperlo, contro la Storia che si sarebbe portata via non solo lui, ma l’intero paesino. Morì poco dopo la dichiarazione d’indipendenza della Moldavia nel 1993.

Gli abitanti del villaggio guardavano l’uomo che gli scattava foto in bianco e nero e ora, decenni dopo, continuano a fissare noi grazie aViktor, che dal giorno del ritrovamento, non ha smesso di scannerizzare i negativi. Lo studente guarda quelle immagini tutti i giorni e dice di aver capito perché tutti gli altri sono partiti: “Abbiamo perso le radici. Dobbiamo apprezzare ciò che abbiamo intorno. Nelle facce di quegli abitanti ho visto la dignità, assente nel presente. Ho cominciato a chiedermi: perché le persone nelle foto di Zaharia sembrano così sicure se comparate a noi? Eppure viviamo in condizioni migliori: abbiamo cibo, possibilità di viaggiare, ma qualcosa dentro di noi sta morendo. Dunque la nostra serenità non dipende dal benessere che i moldavi cercano lontano da questo Paese? Sono rimasto qui per tentare di rispondere alla domanda che mi hanno posto queste fotografie. È stata questa per me la lezione di un fotografo così grande vissuto in un villaggio così piccolo”.

Victor e Zaharia si parlano da un’epoca all’altra in un’alleanza di cellulosa e pixel. Entrambi fotografi, entrambi innamorati del loro Paese, del tempo che lo sorpassa e che hanno cercato di trattenere. Zaharia ha salvato Rosietici da un silenzio eterno e buio di cui non conosceremmo l’esistenza, Victor ha salvato mezzo secolo dopo il ljubitel. È la vendetta postuma dello “scemo del villaggio”, che molto lontano da quel paesino, ora anche il resto del mondo conosce.

Altro che le teste di Modì. Nei fossi rifiuti e rottami

Non ci sono le teste di Modigliani, anche se qualcuno, con il solito spirito canzonatorio e beffardo che contraddistingue i livornesi, ancora ci spera. “Prima o poi verranno fori, al momento ci accontentiamo di questo” dice scherzando un passante che per qualche minuto si ferma ad osservare la curiosa ressa intorno alla pulizia dei “fossi” medicei, nel cuore della città. Quelli dove, secondo la leggenda mai confermata, dovrebbero giacere le quattro teste gettate da Modì e mai ripescate, tanto da diventare oggetto del celebre scherzo con cui nel 1984 tre giovani studenti fecero credere a tutta Italia di averle trovate producendone una a casa e gettandola nell’acqua. E invece no, oggi emergono rifiuti e rottami della Livorno che fu.

Per quelli che vengono da fuori, toscani compresi, a Livorno i “fossi” sono i canali che percorrono tutta la città fino a sfociare in mare: attraversano interi quartieri, uno dei quali, proprio per questo, è conosciuto come “La Venezia”. Con la quarantena obbligata e le barche che sono restate ormeggiate per almeno due mesi, le acque inquinate dei “fossi” di Livorno sono tornate in pochi giorni cristalline fino a farne vedere il fondale. E allora si è deciso di sfruttare l’occasione per recuperare i relitti emersi, spesso legati all’inciviltà dei cittadini: dopo giorni di tavoli di lavoro e ping pong su chi dovesse occuparsene tra Comune e Autorità portuale, a inizio maggio, in soli tre giorni, sono stati recuperati quintali di rifiuti, oggetti storici e anche quattro barche che da tempo giacevano sul fondo. Il braccio meccanico, con l’aiuto di sommozzatori specializzati, ha fatto riaffiorare dal fango dei fondali sedie, tavoli, cartelli stradali, lavatrici, ombrelloni ma anche pneumatici di auto e scooter, biciclette su cui negli anni è cresciuta la flora marina e le quattro imbarcazioni. Finanche una targa relativa a un’auto degli anni Settanta di Pisa, che qualche livornese deve aver gettato nei canali per la rivalità storica che corre con la città della torre pendente. In tutto la Labromare, società che insieme ai sommozzatori di Sub Sea si è occupata gratuitamente dell’intervento, ha stimato che a riemergere siano stati ben cinque metri cubi di relitti.

Ancora poco però visto che l’inciviltà accumulata negli anni ha fatto quasi scomparire i fondali dei canali: solo al Fosso Reale, davanti alla Fortezza Nuova progettata dal Buontalenti, sugli originari quattro metri di fondale, oggi ne è rimasto solo uno e mezzo. Più di due metri sono occupati da detriti e rifiuti di ogni tipo. Per non parlare degli scarichi delle imbarcazioni che ogni giorno, in tempi normali, partono dai canali per raggiungere il mare aperto.

Per questo la ripulitura dei “fossi” di questi giorni può diventare un punto di partenza per un progetto più ampio. “L’inciviltà non riguarda solo gli ultimi anni ma a decenni e decenni della storia di Livorno – racconta al Fatto il sindaco Luca Salvetti – d’altronde i ‘fossi’ sono intrecciati con il modo di vivere la città e per questo dobbiamo cercare di recuperarli”.

Per farlo servirà mettere in piedi un progetto di pulizia più ampio in grado di far diventare normalità l’acqua cristallina che si è vista nei mesi di lockdown: “Quello che è stato fatto è sicuramente un primo segnale perché tutti noi livornesi abbiamo bisogno dei fossi – continua Salvetti – qui fino a molti anni fa c’erano locali e cantine storiche che oggi sono sparite. Per ripulirli tutti servirà un progetto più ampio da concordare con l’Autorità Portuale e finanziare con fondi europei”. Il primo passo sarà quello di capire a chi spetta la gestione dei ‘fossi’: il Mit ha dato assenso perché possa farlo il Comune ma non è ancora chiaro come. “In questi anni la situazione è molto migliorata: un tempo i fossi puzzavano mentre oggi non più anche grazie al fatto che sono stati mappati tutti gli scarichi – continua il sindaco – adesso questa emergenza può essere l’occasione per ripulirli del tutto”.

Se in molti in città vedono nella pulizia dei “fossi” il risvolto psicologico di un passato oscuro da cui ripartire, dal recupero dei relitti è nata l’idea, lanciata dall’ex consigliere regionale livornese Mario Lupi, di farne una mostra ed esporli in bella vista a tutti i livornesi per raccontare quel piccolo pezzo di storia della città. A proporsi per il progetto è stato l’artista livornese Enrico Bacci che ha ricevuto il sostegno di molti, anche dell’assessore alla Cultura Simone Lenzi. Il presidente del Circolo dei dirigenti comunali, Paolo Morelli, al giornale Tirreno ha anche lanciato un nome da dare all’esposizione: “L’inciviltà si mostra”. Insomma, un modo per far tornare indietro nel tempo e far capire ai livornesi cosa può produrre un gesto di incuria come quello di buttare un rifiuto o un oggetto in acqua. La location sarà quella della “Bottega del Caffè”, locale storico della città che affaccia proprio sul quartiere “Venezia” e a poche centinaia di metri dal porto di Livorno. Al momento il progetto però è fermo a causa dell’emergenza covid e dalle dispute sulla competenza, ma appena sarà riaperto tutto, i livornesi potranno andare ad ammirare non le teste di Modigliani ma un pezzo di città sepolta nei fondali.