Nardella tiene chiusi i musei e ricatta il governo Conte

A Firenze il sindaco Nardella prende in ostaggio Masaccio e Donatello, e minaccia di non liberarli finché il governo Conte non ripianerà il buco di un bilancio comunale dissennatamente fondato sulla tassa di soggiorno garantita dall’overtourism che, fino a ieri, consumava e insieme teneva in piedi Firenze. Non è un’iperbole: i Musei Comunali (del calibro della Cappella Brancacci e dello stesso Palazzo Vecchio) non hanno riaperto. In un comunicato assai preoccupato per la sorte dei lavoratori, la Cgil ha scritto che Nardella tiene chiusi i musei “come monito nei confronti del governo centrale nel caso in cui non arrivino adeguate risorse pubbliche”. Più che un monito, un ricatto, sulla pelle dei lavoratori.

La momentanea fine della bolla dell’overtourism strappa la maschera alla insopportabile retorica fiorentina della cultura. Ricordate il decreto di Renzi (e Franceschini) che, nel settembre 2015, inseriva i musei tra i servizi essenziali? Allora si trattava di impedire che i lavoratori del Colosseo facessero legittimamente sciopero: “Non lasceremo la cultura ostaggio di quei sindacalisti contro l’Italia”, tuonò Renzi presidente del Consiglio. Oggi è il suo erede Nardella a prendere in ostaggio i musei pubblici, dimostrando quanto gliene importi del servizio essenziale della cultura. Il museo vale finché rende: ma un minuto dopo che smette di farlo, si può buttar via la chiave. D’altra parte, Renzi lo aveva detto apertamente: “Gli Uffizi sono una macchina da soldi, se li facciamo gestire nel modo giusto”. Inceppatasi la macchina, i musei possono pure morire.

Ma Nardella giura di non essere Renzi, e ora va dicendo di aver finalmente capito che quel modello era insostenibile. Se questa clamorosa conversione fosse vera, se non fossero solo lacrime di coccodrillo, invece di farci assistere a questa squallida sceneggiata il sindaco dovrebbe cogliere l’occasione per cambiare tutto. Ad esempio: i musei comunali dovrebbero essere gestiti per il pubblico, non come depositi di capolavori amministrati dalla politica. Se non fosse possibile, bisognerebbe avere il coraggio di rinunciare al balzello del biglietto. Si pensi alla Cappella Brancacci di Masaccio e Masolino, artificiosamente separata dalla basilica del Carmine di cui fa parte, e visitabile attraverso un percorso che toglie a chi la vede la coscienza dell’unità del contesto in cui si trova. In questi giorni, con il ‘sequestro’ dei musei comunali, la Cappella è visibile da lontano, dalla chiesa, ma è resa inaccessibile da dissuasori ora doppiamente surreali. Ebbene, si abbia il coraggio di rimuoverli per sempre. Per tutti gli altri veri musei (da Palazzo Vecchio al Museo del Novecento) il 1º passo sarebbe costituire, finalmente, al loro interno delle vere comunità di ricercatori (assunti a tempo indeterminato). E poi farli guidare da direttori scovati con bandi internazionali (affidati alla comunità scientifica) e non da imbarazzanti figure locali con l’unico merito di esser completamente genuflesse al sindaco.

Prima ancora, bisognerebbe ripartire dalle circa 200 persone che lavorano nei musei comunali, e che oggi si vedono ‘sequestrate’ insieme alle opere che custodiscono: “Addetti in appalto, con stipendi bassi e con contratti part time involontari: cioè lavoro povero” (ancora la Cgil). Il Comune non deve usare questi lavoratori per strappare al Governo soldi una tantum, con cui tamponare la spesa corrente, ma dovrebbe semmai chiedere un’integrazione strutturale al bilancio della cultura per assumerli a tempo indeterminato, reinternalizzando così una funzione cruciale. Se non lo fa, è perché il sistema dell’arte comunale rimanga nelle mani in cui lo mise Renzi sindaco: quelle fidatissime dell’amico scout Matteo Spanò, presidente di Muse, l’associazione che gestisce questo patrimonio senza eguali al mondo. Lo stesso Spanò che presiede quella Banca di Credito Cooperativo di Pontassieve che nel 2010 concesse alla Chill Post di Tiziano Renzi un mutuo di 496 mila euro (l’inchiesta per bancarotta fraudolenta della società fu archiviata nel 2016).

Ora che la gallina delle uova d’oro s’è bloccata, i fiorentini si accorgono che l’arte dei loro padri non è più per loro: spariscono i turisti e il luna park abbassa il bandone. Come mi ha scritto un amico la cui famiglia ha contribuito a fare la storia della cultura fiorentina dell’ultimo secolo: “Sono tantissimi i fiorentini che, come me, assistono basiti alla totale assenza di attenzione politica ai fabbisogni culturali dei cittadini. La chiusura dei musei fiorentini rappresenta una delle più gravi barbarie (…). Non capisco perché non si consenta una volta tanto, in condizioni (speriamo) irripetibili, di aprire i musei come fossero case, a chi questa città la vive. (…) Ancora una volta si perde una grande occasione per cercare di ristabilire quel necessario senso di cittadinanza e di appartenenza che da tanto, troppo tempo questa città ha ormai perduto. Mi dispiace e mi fa anche tanta rabbia, perché siamo chiamati al sacrificio e alla rinuncia senza poter imparare dai nostri avi che le barbarie e la desertificazione dello spirito si combattono anche con la bellezza che ci appartiene, ma che di fatto ci viene negata ‘perché non è conveniente aprire i musei’”. C’è del metodo in questa follia: chi tratta i lavoratori come merce, considera merce i musei. In questo caso, merce di scambio.

Lo sport prova a riaprire: partite vietate e costi alti

Le palestre tirano su le saracinesche, nei campi di tennis e calcetto si sistemano le reti, le piscine cambiano l’acqua. Addio corsette fugaci, col terrore di essere multati o additati come untori: anche lo sport prova a ripartire. Dopo due mesi di chiusura ed inattività, da oggi i circa 150mila impianti, centri, circoli di ogni genere possono riaprire. Farlo non sarà facile. L’epidemia pare essersi arrestata, l’emergenza forse è finita, ma le conseguenze del Coronavirus si fanno ancora sentire. I muscoli si sono arrugginiti, la paura di correre, sudare, sforzarsi si è insinuata nella mente di milioni di amatori. Soprattutto, ci sono migliaia di euro di costi in più da sostenere, regole da rispettare, giuste per la sicurezza ma poco compatibili con l’esercizio. Così lo sport rischia di diventare un lusso, un fastidio, un passatempo impossibile. Tanti si rimboccano le maniche, qualcuno preferirà rimanere a casa, qualcun altro non riaprire proprio.

Niente partite. La data era cerchiata in rosso sul calendario di molti: lo sport in Italia rimette in moto un terzo del Paese. Non solo i gestori, per cui l’attività non è hobby ma lavoro, anche 4 milioni di atleti, oltre 20 di appassionati che svolgono abitualmente attività fisica. Finalmente potranno ritrovarsi sul campo e sul parquet, al chiuso o (meglio) all’aria aperta. Ma attenzione, questo non vuol dire tornare a giocare. Prendiamo lo sport di base per eccellenza, il calcetto: le partitelle fra amici restano bandite, almeno all’inizio.

Vale la regola fondamentale del distanziamento: un metro a riposo, due in esercizio, prescrizione poco compatibile con lo sport in generale, figuriamoci con gli sport di squadra e di contatto. Lo stesso per altre discipline: pallavolo e basket ritroveranno la palla ma non la partita, pallanuoto e rugby hanno il vantaggio di essere in acqua o all’aperto, però niente contatto. Nella boxe e nei combattimenti pugni e calci solo contro il sacco, sicuramente non contro avversari (al massimo sparring con l’istruttore). Più semplice la situazione per danza, fitness, atletica, nuoto e altri corsi: basta stare lontani. Una parvenza di normalità l’ha ritrovata il tennis, già da una settimana: via libera alle partite, da oggi si potrà tornare anche a giocare in doppio e a padel (ma sarà comunque meglio non avvicinarsi troppo).

La babele normativa. Questo il quadro generale, ma poi districarsi fra i vari provvedimenti non sarà semplice. A monte c’è il Dpcm che ha stabilito la ripartenza delle attività dal 25 maggio, sport compreso, che però concede alla Regioni la possibilità di “anticipare o posticipare” la data. Lo ha fatto la Lombardia (tutto chiuso fino al 31), altre ordinanze locali potranno intervenire. Ci sono differenze territoriali, discrepanze normative. Il Dpcm rimanda alle linee guida dell’Ufficio dello Sport, consultate freneticamente da gestori e amatori. Ma si tratta di un testo generale, infatti è previsto un ulteriore “protocollo di dettaglio” con le Federazioni. Alla fine ogni disciplina avrà il suo manuale. Senza dimenticare gli indirizzi della Conferenza delle Regioni, che annoverano anche piscine e palestre. Questi documenti dicono più o meno le stesse cose, ma non sono in tutto coincidenti. Di fronte a una prescrizione più stringente in un testo e meno nell’altro, quale sarà valida? “Siamo in presenza di una Babele normativa”, spiega Paolo Rendina dello Csen, uno degli enti di promozione sportiva più diffusi. “Siamo terrorizzati perché, per mettersi al riparo da eventuali cause, bisognerà rispettare sempre le norme più severe, pensare al peggio. Ma così come potrà ripartire lo sport?”. Anche perché in alcuni casi queste regole lo rendono impossibile.

Costi e paradossi. Partiamo dalle palestre. Negli spogliatoi niente docce, bisogna arrivare possibilmente già vestiti. La norma capestro però viene dalle Regioni: “Dopo l’utilizzo da parte di ogni singolo soggetto, il responsabile della struttura assicura la disinfezione della macchina o degli attrezzi usati”. “È impensabile che si possa pulire tutti i manubri in continuazione, dovremmo avere svariati inservienti adibiti solo a questo”, commenta il titolare di una nota palestra di Roma. “L’unica soluzione è che sia il cliente a farlo, ma ci vuole un livello di educazione altissimo, mentre la responsabilità ricade sui gestori”.

Non va meglio in piscina: qui le docce saranno consentite, ma in acqua ogni nuotatore dovrà avere uno spazio di 7 metri quadri, praticamente quanto una camera da letto a testa. Norme a volte cervellotiche, altre fin troppo vaghe: all’ingresso “potrà essere rilevata la temperatura corporea”. Ma è un obbligo o una possibilità? Caos anche nei centri estivi, dove far rispettare la distanza a bimbi di 4-5 anni sarà proibitivo. Anche per questo, viene fissato un rapporto di un adulto ogni 5 bambini, quando in passato era di 10-15: i costi schizzeranno alle stelle.

Ed ecco il grande timore: che a queste condizioni la spesa non valga più l’impresa. “Solo la sanificazione obbligatoria per la riapertura costa migliaia di euro, a cui bisogna aggiungere materiali di pulizia, mascherine, personale in più”, spiega Maurizio Castagna, dirigente della società Sport Management e del sindacato dei gestori Sigis. “Sono tutti extra che potremmo anche mettere in conto, se solo potessimo contare su ricavi certi. Il problema è che tra la paura del contagio, i disagi e gli spazi contingentati, dove prima si allenavano venti persone, ora ce ne andranno la metà. Le nostre proiezioni parlano di un calo del 70% dei clienti, sarebbe un dramma. Possiamo sperare solo di andare in pari, di sopravvivere: infatti il 40% dei nostri affiliati al momento non è sicuro di riaprire”.

Dispenser di gel igienizzanti ovunque, segnaletiche, monitor, prenotazioni online, registri da conservare per giorni, buste sigillanti per fazzoletti e rifiuti, distanze, spogliatoi off-limits, docce chiuse, partite proibite: tornare a fare sport sarà davvero una fatica.

Eni, deforestazione in Indonesia per fare il biodiesel

Gli italiani rischiano di pagare di tasca propria la distruzione delle foreste ancora per qualche anno, bruciando nelle loro auto l’olio di palma che l’Eni abbandonerà non prima del 2023, secondo quanto annunciato all’ultima assemblea degli azionisti del 13 maggio. Con 259 mila tonnellate di biodiesel sfornate nel 2019 dalle raffinerie di Venezia e Gela, che per l’80% contengono olio di palma, il colosso energetico controllato dallo Stato totalizza oltre la metà della produzione in Italia. Che, a sua volta, è il secondo produttore nell’Ue, dove più del 50% dell’olio, importato principalmente dall’Indonesia, è finora finito nelle automobili come presunto carburante verde. In quanto tale, è venduto a sovrapprezzo grazie ai sussidi di mercato di cui beneficiano le energie rinnovabili. La maggior parte dei fornitori indonesiani dell’Eni, di cui il Fatto ha preso conoscenza, sono coinvolti in casi di deforestamento, spesso illegale. Il loro impegno a tutelare le aree ad elevata biodiversità nell’ambito dell’Rspo (Roundtable of Sustainable Palm Oil), l’organizzazione che promuove la produzione sostenibile di olio di palma, è tradito dai fatti. L’ultima vicenda riguarda la società Golden Agri-Resources (Gar), accusata dalle organizzazioni Forest Peoples Program e Elk Hills Research di gestire abusivamente 75.000 ettari nella Provincia del Kalimantan, nell’isola del Borneo. Lo scorso marzo l’Rspo si è decisa ad avviare un’indagine. Gar è stata anche colta in flagrante da attivisti di Rainforest Action Network mentre acquistava olio grezzo da mulini che macinano frutti di palma coltivata in terreni fuorilegge nella Riserva di Singkil-Bengkung, nel nord dell’Isola di Sumatra. In base al rapporto di Greenpeace del novembre 2019, sono quasi 18 mila gli incendi dolosi appiccati l’anno scorso nelle concessioni terriere collegate, tramite incroci proprietari e clientelari, a quattro fornitori Eni. Insieme a Gar, Wilmar, First Resource e Astra-Klk (non membro della Rspo) hanno complessivamente sulla coscienza circa 260 mila ettari di area boschiva, arsa dal 2015 al 2018.

L’uso del fuoco, più economico delle ruspe per rimpiazzare alberi con piantagioni, è vietato dalle autorità locali che hanno sequestrato intere proprietà. Almeno 25 di esse sono riconducibili a Gar nonché a Wilmar, numero uno mondiale nel commercio di olio di palma. La società singaporiana, negli ultimi 5 anni, ha registrato da sola 141 mila ettari di disboscamento nelle aree in cui si approvvigionano i mulini che alimentano le sue raffinerie. Un paio di mesi fa, la società ha peraltro abbandonato il dialogo coi gruppi ambientalisti nell’ambito dell’High Carbon Stock Approach Steering Group. Senza contare le ripetute deforestazioni segnalate dall’Ong Mighty Earth sulla base di immagini satellitari.

L’Eni, che in materia di trasparenza anti-deforestamento ha tra i punteggi più bassi nel sistema di valutazione messo a punto della London Zoological Society, pubblicherà i nomi dei mulini da cui proviene l’olio dei suoi fornitori. Ma non intende chiedere a questi ultimi di rivelare le loro piantagioni a monte per verificare se sono certificate o meno dall’Rspo. “Senza risalire dai mulini alle piantagioni è impossibile assicurarsi che la materia prima non giunga da aree in perenne disboscamento”, dichiara Andy Tait, esperto di Greenpeace a Londra. Si tratta di un fondamentale elemento di incertezza sulla reale sostenibilità dell’olio, in virtù del quale l’Eni ha perso il contenzioso sul suo “Green Diesel”. Lo scorso gennaio l’Antitrust ha giudicato l’appellativo pubblicità ingannevole, vietandone l’utilizzo e comminando all’azienda una multa di 5 milioni di euro.

L’Eni non è riuscita a provare che il suo Diesel+ sia più pulito di quello convenzionale, col 5% di emissioni CO2 in meno. Le certificazioni europee di sostenibilità possedute dai suoi fornitori (distinte da quelle Rspo), seppur tuttora legali, hanno oramai un valore meramente formale poiché aderenti a obsoleti criteri Ue che oggi sono ritenuti scientificamente infondati. Studi indipendenti hanno dimostrato che, se si contabilizza la CO2 rilasciata dalla deforestazione (sia quella diretta che quella indiretta, necessaria per far spazio alla produzione di cibo spodestata dalle colture di palma), il “petrolio verde” contribuisce al cambiamento climatico più dei combustibili fossili. La riformata normativa Ue, in vigore da quest’anno, stabilisce che l’olio di palma non è sostenibile se proviene da terre disboscate dal 2008 in poi. Un duro colpo all’Indonesia dove solo il 25% delle piantagioni è certificato Rspo in conformità ai nuovi standard Ue. A partire dal 31 dicembre 2023 la porzione di olio di palma conteggiata nelle quote di energie rinnovabili che i paesi hanno l’obbligo di raggiungere (con un minimo del 14% per i trasporti terrestri) dovrà essere ridotta. Fino ad azzerarsi nel 2030. L’Eni si vanta di precorrere i tempi. Ma agli ecologisti non basta: “Chiediamo che l’Italia sopprima subito i sussidi per scoraggiare l’import”, dichiara Andrea Poggio, responsabile mobilità sostenibile di Legambiente.

Amazzonia in fiamme per la crisi da Covid

Da inizio anno l’Amazzonia e altre foreste tropicali in Sudamerica, Africa e Asia sono tornate a bruciare a ritmi che non si erano mai visti negli ultimi tre decenni. A inquietare gli studiosi e le associazioni per la difesa dell’ambiente è il fatto che questo periodo nelle aree tropicali segna la stagione delle piogge, durante la quale in passato la deforestazione frenava. Anche la causa che alimenta i roghi è del tutto nuova: a spingere l’aggressione dell’uomo contro l’ecosistema è la crisi economica scatenata dalla pandemia.

La pressione dell’uomo sull’ambiente e sulle foreste tropicali ha innescato il meccanismo dello spillover, la fuoriuscita del coronavirus dalle specie animali all’uomo che ha scatenato la pandemia. Molti hanno creduto che la recessione causata dal Covid-19 portasse a una “tregua ecologica” consentendo all’ecosistema di beneficiare della frenata dell’economia. Gli effetti positivi dei lockdown per l’ambiente si sono visti nelle grandi aree urbane e industriali, ma la crisi ha impoverito ulteriormente larghe fasce di popolazione che già vivevano sotto la soglia di povertà, specialmente nelle aree rurali e vicine alle foreste nei Paesi in via di sviluppo. Anche grazie ai problemi di controllo del territorio dovuti al distanziamento sociale, le bande di criminali al soldo di latifondisti senza scrupoli e una massa crescente di disperati hanno visto le foreste tropicali come un tesoro da saccheggiare per riempirsi le tasche o tentare di sfamare le proprie famiglie. La deforestazione e gli incendi boschivi sono così ripresi in modo incontrollato.

Per estendere le loro produzioni, molti latifondisti hanno deciso di tornare all’assalto dell’Amazzonia. Gli ultimi dati sulla deforestazione in Amazzonia per il periodo dicembre 2019 – marzo 2020 diffusi dall’Istituto nazionale di ricerca spaziale brasiliana (Inpe) hanno rilevato una superficie disboscata pari a circa 796,08 chilometri quadrati, l’equivalente di 80mila campi da calcio. Con il 60% della foresta amazzonica all’interno dei suoi confini, nonostante il calo della deforestazione tra il 2005 e il 2014, già nel 2015 in Brasile il disboscamento illegale e gli incendi boschivi avevano iniziato a riprendere slancio. Già lo scorso anno gli incendi boschivi e i disboscamenti in Amazzonia avevano causato sgomento in tutto il mondo. Ma ora a far paura è l’attacco “fuori stagione”. Se nel 2019 la deforestazione era cresciuta addirittura del 46% rispetto al 2012, anno con il valore più basso dall’inizio delle statistiche, a impressionare adesso è l’ulteriore crescita record dei terreni aggrediti dall’uomo, pari al 51% rispetto allo stesso periodo dicembre 2018 – marzo 2019.

I dati emergono dal rapporto “Il Brasile e l’Amazzonia: disboscamento delle foreste pluviali, biodiversità e cooperazione con l’Unione Europea” preparato da Cristina Müller dell’Agenzia ambientale austriaca per l’Ufficio studi del Parlamento europeo. La maggior foresta pluviale della Terra ha una superficie di 7 milioni di chilometri quadrati, pari a 23 volte l’Italia. Un “bioma” esteso su nove paesi (Brasile, Bolivia, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela, Guyana, Suriname e Guyana francese) che comprende un mosaico di ecosistemi terrestri, acquatici, sotterranei e atmosferici tra foreste pluviali, stagionali, decidue, allagate e savane. L’Amazzonia è la casa di una specie su dieci al mondo e il “motore” della resilienza planetaria alla crisi climatica nel quale l’ecosistema, le specie e la diversità genetica lavorano in sincronia. Ma negli ultimi cinquant’anni un sesto della sua foresta primaria è stata distrutta e il dato sale a un quinto in Brasile.

Ma il Brasile è anche il principale Paese del Mercosur, l’area di libero scambio commerciale del Sudamerica. La bancada ruralista è la lobby parlamentare dei proprietari terrieri brasiliani, uno dei gruppi economici più potenti del Paese e ha sostenuto l’ascesa del presidente Jair Bolsonaro. L’aumento della deforestazione e la violazione da parte del governo del patto sociale pro-indigeno ora hanno incrinato la fiducia di molti Paesi nell’impegno del Brasile al rispetto degli accordi internazionali.

Come secondo maggiore partner commerciale del Mercosur dopo la Cina, l’Unione Europea sa che anche i modelli di consumo dei suoi cittadini sono motori della “deforestazione incorporata” e che creano un’elevata pressione sulle foreste nei Paesi extraeuropei accelerando i disboscamenti. Per frenare questo disastro la Ue intende garantire il commercio di “prodotti provenienti da catene di approvvigionamento esenti da deforestazione”.

L’Europa vuole rivedere i suoi accordi commerciali con il Mercosur per spingere i Paesi del Sud America a una politica ambientale migliore. Inoltre Bruxelles intende agire anche sui negoziati di due trattati ambientali vincolanti a livello internazionale dei quali il Brasile è stato tra i primi firmatari: la Conferenza delle Parti (Cop) dell’accordo di Parigi sulla Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) e la Convenzione sulla diversità biologica (Cbd).

La pandemia è stata un doppio colpo per l’economia brasiliana che era già in difficoltà, non ancora ripresa da un forte rallentamento nel biennio 2014-15 e da una nuova stasi nel 2018-2019. Le finanze pubbliche di Brasilia erano sotto forte pressione anche prima del coronavirus, il che renderà difficile il sostegno pubblico alle imprese e creerà tensioni maggiori. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, quest’anno il Pil del Brasile calerà del 6,1% rispetto al 2019. La speranza è che la pressione economica europea riesca là dove hanno fallito l’intelligenza e il rispetto per l’ambiente degli uomini.

Raccolte fondi per il Covid, fra truffe e somme bloccate

Non tutte le donazioni finiscono nelle giuste mani. In questo periodo di emergenza sono state molte le iniziative di beneficenza e fundraising organizzate dagli italiani a favore di ospedali ed enti impegnati nella lotta al Covid-19. E molte somme di denaro sono rimaste nelle maglie della burocrazia, sono finite nelle tasche di sconosciuti o, nel migliore dei casi, sono tornate indietro al mittente.

“Con la mia associazione eravamo riusciti a raccogliere circa 5mila euro da donare all’Ospedale di Orbetello, ma alla fine però è saltato tutto – racconta Filippo, un giovane maremmano fondatore di un’associazione no profit – Ci hanno detto che non era il caso perché i nostri soldi sarebbero finiti sparsi tra i vari reparti e non utilizzati per l’emergenza. Senza l’autorizzazione dell’ospedale abbiamo dovuto ripiegare su un ente solidale del territorio, riscontrando non pochi problemi per il versamento della somma dalla piattaforma GoFundMe. Somma che ho dovuto anticipare di tasca mia, in un momento di difficoltà come questo, per poi essere rimborsato e non perdere tutto il lavoro fatto”.

Non basta infatti contattare un ospedale, raccogliere le donazioni e devolverle all’Iban di riferimento. Il caso di Fedez-Codacons è un esempio: nato come controversia sul meccanismo della commissione a carico del donatore sulla piattaforma GoFundMe, scelta dal cantante per la raccolta fondi per il San Raffaele di Milano, si è trasformata in una querelle su chi e come si deve fare fundraising.

Un pericolo che si corre è quello per cui gli ospedali non portano a termine le pratiche richieste dalle piattaforme per l’accreditamento. Le donazioni fatte sui siti internet tornano così indietro al mittente o finiscono sul conto di qualche truffatore. Il privato deve infatti essere certo che l’ente ospedaliero acconsenta di ricevere donazioni dirette: il Niguarda di Milano solo nelle prime settimane ne ha segnalate almeno quattro per le quali non erano mai stati contattati. E si sospetta siano raccolte-truffa. E infine la piattaforma deve garantire un’intesa tra donatore e struttura. O almeno così succede sui alcuni siti come Rete del Dono e Italia non Profit. “Negli ultimi tre mesi abbiamo ricevuto quasi 500 segnalazioni al giorno, la maggior parte su raccolte fondi illegali” spiega Alessandra Belardini, dirigente della Polizia postale. “Un fenomeno che si è sviluppato sia su piattaforme irregolari sia su quelle più note, come GoFundMe. Dove le fundraising sono state raramente verificate, e gli organizzatori malintenzionati hanno potuto creare fotomontaggi promozionali di documenti e loghi degli ospedali con il quale hanno chiesto le donazioni, ovviamente senza il minimo consenso della struttura”.

Basta infatti scorrere tra le infinite raccolte fondi per gli ospedali italiani che si trovano su GoFundMe e i siti indipendenti per capire il lato oscuro del fundraising. Alcune iniziative sono la copia illegale di quelle ufficialmente riconosciute, e dopo i primi soldi raccolti vengono lasciate nel limbo della piattaforma, senza dare spiegazioni ai donatori. “Noi registriamo tutte le associazioni no profit che vogliono raccogliere fondi e solo dopo i dovuti controlli apriamo un progetto con l’ospedale scelto, il quale si vedrà automaticamente accreditati i soldi dai nostri conti” chiosa Valeria Vitali, fondatrice della piattaforma Rete del Dono. “Su altri siti invece chiunque può aprire un progetto per un ospedale e poi fare successivamente richiesta di certificazione allo stesso: è un sistema rischioso, oltre al fatto che molte volte il beneficiario impiega mesi prima di prendere i suoi soldi”.

E come confermano alcuni ospedali, tra cui quello di Grosseto, le donazioni di questi mesi sono state talmente tante che è difficile risalire agli organizzatori di ognuna. Per capirci: secondo Italia non profit sono 657 milioni di euro il valore totale delle donazioni fino al 15 aprile e 801 le iniziative di filantropia attivate da aziende, associazioni e privati cittadini. Approfittando della generosità degli italiani, però, durante l’emergenza sono state scoperte raccolte fondi ingannevoli a favore dell’Ospedale Sant’Anna di Como, San Raffaele di Milano, lo Spallanzani e il San Camillo di Roma. E altre sono al vaglio per quanto riguarda l’Ospedale Perrino di Brindisi e quello di Taranto.

Il metodo adottato è quasi sempre lo stesso. Gli organizzatori stabiliscono una somma modesta da raccogliere per non dare troppo nell’occhio e per rendere ancor più credibile l’iniziativa, all’interno della pagina web, viene riportato il logo della Regione, quello dell’Ospedale e dei documenti falsificati di accordi (mai stipulati con la struttura). Il fine è per tutte uno solo: “Rafforzare il reparto di terapia intensiva”.

Nel caso dei due ospedali romani, promossi su GoFundMe, come persona di riferimento era stata indebitamente usata la figura del presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. Dalle indagini è emerso che gli autori della truffa erano padre e figlia: lui pensionato di 71 anni intestatario della carta ricaricabile e lei, 36enne disoccupata, intestataria della linea telefonica associata alla pagina web.

Ma dove finiscono i soldi che non vengono restituiti o donati? “Spesso siamo riusciti a rintracciare sul conto o la carta intestata al truffatore il bottino illegale della raccolta fondi, mentre altre volte i soldi raccolti vengono spostati verso conti esteri per i quali servono autorizzazioni e tempo per attivare i controlli. E capita che una volta attivati i soldi siano già spariti” conclude Belardini.

Il virus si mangia pure gli aiuti: il terzo settore chiede ossigeno

La pandemia miete altre vittime. Lotta al cancro, sostegno ai bimbi disabili, cooperazione internazionale, campagne per l’ambiente: alcuni esempi delle iniziative a rischio per via del calo delle donazioni nel Terzo settore. Secondo L’Istituto italiano delle donazioni il 40% degli enti ha il dimezzato i fondi, nel primo trimestre. Le organizzazioni di volontariato, promozione sociale e senza fini di lucro annaspano e chiedono subito il 5xmille 2018-2019: in tutto, 1 miliardo. ll denaro, del resto, è già nelle casse dello Stato: grazie al Decreto Rilancio (art.156) entro il 31 ottobre andrà ai beneficiari.

Airc (Associazione Italiana per la ricerca sul cancro) l’anno scorso ha raccolto 20 milioni dalle donazioni sul territorio: eventi, cene, manifestazioni. Ma ora è tutto fermo: “Stimiamo di perdere almeno 10 milioni”, dice Niccolò Contucci, direttore generale. Altri 18 milioni, nel 2019, sono arrivati dai bollettini postali. “Introiti sono quasi azzerati”, avvisa Contucci. Il direttore generale teme, a fine anno, perdite per almeno 30 milioni: “Soldi in meno per la ricerca sul cancro, purtroppo”. Su Amazon, però, Airc ha venduto 316 mila azalee: 5 milioni di euro per sostenere le cure oncologiche. Contucci dà un numero: “In Italia di tumore muoiono in media 500 persone al giorno, 180 mila l’anno”. Di Covid, ad oggi, sono decedute meno di 35 mila pazienti.

La Lega del Filo d’Oro assiste dal 1964 bambini ciechi e sordi. Per tutti loro, la quarantena ha acuito il dramma quotidiano dell’isolamento. Rossano Bartoli, il presidente, è preoccupato ma ottimista: “Il 65% delle nostre risorse è frutto di donazioni, a marzo si erano dimezzate ma per fortuna sono risalite”. Il crollo ha investito i bollettini postali, ma le donazioni online e i bonifici hanno compensato, in parte, le perdite.

Emergency è in prima linea sul fronte pandemia. Ma il timore è d’indebolire gli aiuti all’estero, dove le tragedie proseguono. “Ad oggi le donazioni non sono calate – dice Alessandro Bertani, vicepresidente – ma solo perché abbiamo lanciato una raccolta fondi contro il Coronavirus”. Quei soldi però sono destinati solo all’emergenza Covid. I contributi dal territorio sono crollati: eventi pubblici, cene, i ragazzi di Emergency per le strade. “Quella è la nostra fonte primaria – spiega Bertani – e se l’andazzo proseguisse, nel lungo periodo rischia la cooperazione internazionale”. Ad aprile è saltata, in Uganda, l’inaugurazione del centro di chirurgia pediatrica disegnato da Renzo Piano. Non si sa quando i volontari di Emergency (circa 1500) torneranno in strada: intanto, aiutano a distribuire cibo a chi è in difficoltà.

Greenpeace fonda le sue campagne per l’ambiente sulle donazioni raccolte grazie ai “dialogatori”. Sono i ragazzi in strada che avvicinano i passanti per convincerli a contribuire. “L’anno scorso valevano il 50% delle donazioni totali, oggi quei soldi sono evaporati”, dice Andrea Pinchera, direttore Fundraising. Greenpeace punta a raccogliere risorse con altri canali: call center, mail, social. “Il timore è di arrivare a fine anno con le donazioni a picco, senza fondi per le campagne”, avvisa Pinchera: “Ora stiamo valutando se riportare i ‘dialogatori’ in strada”.

L’Associazione italiana contro le leucemie (Ail) finanzia la ricerca sui tumori al sangue e sostiene i pazienti. “L’anno scorso a Pasqua abbiamo ricevuto 7 milioni grazie alle uova di cioccolata nelle piazze – dice il presidente Sergio Amadori –. Stavolta, con gli italiana chiusi in casa, abbiamo incassato zero”. I leucemici sono soggetti fragili, tra i più esposti agli effetti del Covid 19. Perciò la Onlus ha lanciato su internet, a fine marzo, la campagna “Io sono a rischio”. “Ma siamo ben lontani dai 7 milioni delle uova pasquali – dice Amadori –. Continuiamo ad aiutare i pazienti e le loro famiglie, i conti li faremo a fine anno: speriamo di raccogliere il 60% delle donazioni dell’anno scorso”.

L’Unicef porta aiuto ovunque, nel mondo, ci sia una tragedia, come la pandemia. “Le donazioni per noi non sono diminuite”, dice Andrea Iacomini, portavoce per l’Italia. Il fondo delle Nazioni unite per l’infanzia, dal 23 marzo, raccoglie contributi per l’emergenza Covid nello Stivale, con buoni risultati: “I contributi per i vaccini crescono, la raccolta digitale funziona e aumentano le persone che chiedono d’indicare l’Unicef come erede nel testamento”, dice Iacomini. Problema: le donazioni raccolte dai “dialogatori”, con i bollettini postali e gli eventi in piazza sono nulle, o quasi. Gli effetti, scommette Iacomini, si sentiranno tra qualche mese: il rischio, come per Emergency, è di non avere risorse per fronteggiare vecchie e nuove minacce.

Medici senza frontiere contrasta la pandemia in Italia e in altri 40 Paesi. La Onlus, del resto, era già in trincea contro il virus Ebola. Ma le conseguenze del lockdown sono serie: “Le donazioni calano perché le persone non vanno alle Poste e i ‘dialogatori’ restano a casa”, dice Annalaura Anselmi, direttrice della raccolta fondi. Senza il sostegno del territorio, Msf punta su internet e il telefono: il 10 marzo ha lanciato una campagna per raccogliere 100 milioni di euro contro la pandemia. Difficile pareggiare il crollo delle donazioni ‘faccia a faccia’ e via Posta, dice Anselmi: “Alcuni programmi ‘salva-vita’ sono stati convertiti all’emergenza Coronavirus, ma ci sono luoghi nel mondo dove si muore di colera e morbillo, con tassi di mortalità anche superiori al Covid 19. Il timore, sul lungo periodo, è che vengano a mancare risorse vitali per affrontare altri drammi”.

Save the Children sconta, come gli altri, una sofferenza nella raccolta fondi. “Oggi non conosciamo i numeri, ma alcuni sostenitori ci hanno detto di vivere situazioni faticose e hanno dovuto ridurre o interrompere le donazioni”, spiega Giancarla Pancione, direttrice marketing. L’organizzazione per l’infanzia non ha intenzione di rivedere i progetti per i piccoli.

Come l’ospedale pediatrico Meyer di Firenze: “Le donazioni sono diminuite – dice Alessandro Benedetti, segreterio generale della fondazione che sostiene il nosocomio –, ma i servizi proseguono. Certo, se ci fosse un anno senza donazioni, allora caso cambierebbe tutto”.

“Devono rimanere responsabili: certe uscite sono veicoli di contagio”

Maria Rita Gismondo dirige il laboratorio di microbiologia all’ospedale Sacco di Milano. In questi mesi di emergenza ha imparato a riconoscere l’aspetto più drammatico di Covid-19: il collasso delle terapie intensive, i morti, la disperazione dei loro familiari. Per questo a sentire nominare la movida e gli aperitivi, un po’ si arrabbia. “I ragazzi oggi hanno una grande responsabilità, devono capire che con i loro comportamenti rischiano concretamente di portare la malattia nelle persone anziane se non addirittura di provocarne la morte”.

Gli spritz aspetteranno?

I ragazzi non devono dimenticare il senso della responsabilità e del dovere. Le regole devono essere rispettate soprattutto in questi tempi di pandemia

Il comportamento dei giovani rischia di far nascere nuovi focolai?

Sarà una conseguenza quasi matematica. Perché se anche tutti loro stanno bene, ci può essere un portatore con pochi sintomi che può trasformarsi in un superdiffusore. Il virus così si può propagare. I ragazzi lo possono portare a casa dai genitori o dai nonni. E tutti noi abbiamo visto in che modo agisce il virus sulla popolazione anziana.

Il virus non pare aver perso di forza, particolare che forse i giovani non hanno ben presente.

Il virus non ha affatto cambiato faccia. Dalle nostre analisi si mostra molto costante. Per questo non è giustificabile l’allentamento delle misure che vediamo nelle immagini della movida a Milano. In questo momento la minore aggressività alla quale assistiamo non è dovuta al comportamento del virus ma a un miglioramento della nostra gestione della malattia. Un po’ tutti abbiamo capito cosa significa proteggerci e stare distanti l’uno dall’altro. Quello che avverrà in futuro non lo sappiamo, sappiamo però che con queste misure abbiamo ottenuto un calo dei contagi e dei decessi.

Messa così, difficile pensare di tenere aperta la movida.

Basta osservare i dati. Con la riapertura dopo il lockdown in Lombardia dove c’è una maggiore esplosione della movida abbiamo visto un incremento di casi positivi e anche un incremento di ricoverati. Il campanello d’allarme dunque è già suonato. Per ora fortunatamente le terapie intensive non sono tornate a salire. A metà marzo abbiamo visto il volto più cattivo dell’emergenza, quando cioé il virus sfugge di mano. Se noi oggi riprendiamo a favorire i contatti rischiamo seriamente di tornare indietro.

Pare di capire che il tema della movida sia in realtà un problema di responsabilità da parte dei giovani.

È così. Ed è anche un problema culturale. La questione movida è la riprova della cronica mancanza di fiducia verso le istituzioni. Per questo dico ai ragazzi: fate in modo che non vi si tolga la movida, siete voi i responsabili della chiusura.

“La movida può essere sicura: basta criminalizzare i ragazzi in festa”

“I giovani sono diventati i nuovi criminali, come i runner durante il lockdown. Invece vanno ringraziati: per due mesi sono rimasti in casa senza lamentarsi, facendo lezioni on line spesso in situazioni difficili”. Alessandro Cecchi Paone, giornalista e conduttore tv, ma anche professore di scienza della comunicazione, spezza una lancia in favore dei ragazzi e della loro voglia d’incontrarsi. Per questo ha lanciato la campagna #movidasicura per sensibilizzare al rispetto delle regole senza rinunciare al divertimento, a cui hanno aderito anche Nicola Zingaretti e il sindaco di Bari, Antonio Decaro.

Ha visto i giornali? Sono pieni di foto di ragazzi col bicchiere in mano, senza distanziamento e mascherine. Molti sindaci e governatori puntano il dito contro di loro…

Mi sorprendo della loro sorpresa. Se si decide di riaprire bar e ristoranti, pensavano sarebbero rimasti vuoti? Le persone sono restate chiuse in casa due mesi e mezzo, è chiaro che c’è voglia di incontrarsi. Prima si dice che deve ripartire l’economia, poi ci si lamenta se le persone vanno nei locali…

Però le regole si rispettano.

Nei ristoranti è più facile, i tavoli sono distanziati. Nei bar è più complicato, perché le persone tendono a stare fuori. Che vogliamo fare, le mascherine coi buchi per far passare le cannucce dello spritz? All’aperto il rischio di contagio è molto minore. Fossi sindaci e governatori mi preoccuperei più dei mezzi pubblici, degli uffici, degli ospedali. È lì che si diffonde il contagio, non all’aperitivo. Tra l’altro anche le foto sono fuorvianti: sembrano tanti in poco spazio, invece è l’esatto contrario. Distanziamento sociale è un termine orrendo, contro la natura degli esseri umani. Ma qualche misura si può prendere.

Per esempio?

Nei luoghi noti per la presenza di locali si può pensare a ingressi contingentati. In certe piazze o sui Navigli si può far entrare un po’ per volta. L’importante è parlare ai giovani senza atteggiamento paternalistico: non ti ascolteranno mai. I ragazzi ti seguono se li coinvolgi, se cerchi soluzioni con loro.

Forse sottovalutano il problema, visto che di Covid non si ammalano…

Non direi, perché credo che, essendo comunque contagiosi, tengano alla salute di genitori e nonni. I ragazzi, ripeto, finora sono stati bravissimi e vanno applauditi. Oltretutto hanno aiutato i docenti a organizzare le lezioni sul web insegnando loro l’uso delle piattaforme. Senza il loro supporto la scuola sarebbe andata in tilt.

A proposito, è giusto tenere le scuole chiuse?

Visto lo sforzo fatto finora, sì. Però a settembre bisogna riaprire per tutti.

Martina: “Gallera, dimettiti” M5S: “Subito commissione”

“È l’ennesima prova di una gestione dell’emergenza totalmente inadatta”. All’altro capo del telefono il tono di Maurizio Martina si fa cupo. L’infelice uscita di Giulio Gallera sull’indice Rt (“Ora in Lombardia è a 0.51, servono due persone infette nello stesso momento per contagiare me”) non è neanche quella che preoccupa di più l’ex ministro dell’Agricoltura, nato a Calcinate e cresciuto a Bergamo, città martire dell’epidemia di Covid-19 che ha falcidiato la Lombardia. “È riuscito a dire che solo il 58% dei miei conterranei è positivo ai test sierologici – spiega il deputato – e che quindi la situazione è molto meno allarmante di quella che si pensava. Ma cosa deve accadere ancora per avere un assessore capace di pesare le parole per le responsabilità che ha e per il lavoro che deve fare?”. Critiche che arrivano dall’altra parte della barricata politica, indirizzate a una giunta che ha sempre risposto in maniera spinosa ai rilievi arrivati dai territori, che a farli fossero i sindaci o i medici. “Non è una questione ideologica – prosegue l’ex segretario del Pd – quando c’è stato da lavorare insieme lo abbiamo fatto, ma non si può affrontare questa situazione con questa faciloneria. È uno schiaffo ai lombardi”. Quindi Gallera deve dimettersi? “Faccia un bagno di umiltà – conclude Martina – e prenda atto di non essere all’altezza del ruolo che ricopre”.

La mozione di sfiducia all’assessore di Forza Italia presentata dal Pd è finita nel nulla il 4 maggio e tra i dem le posizioni sono variegate. “Dimissioni? Mi convince di più il commissariamento della sanità con Gallera che può restare in giunta e occuparsi d’altro – affonda Pierfrancesco Majorino, ex assessore alle Politiche sociali a Milano con i sindaci Pisapia e Sala – Il problema vero si chiama Attilio Fontana, si chiama giunta”. Per Fabio Pizzul, capogruppo dem in Regione, “ Dovrà decidere Fontana, ma non è mettendo da parte Gallera che si risolve il problema”. Monica Forte, consigliera M5s, punta sulla commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza: “Per fare una valutazione sul sistema sanitario lombardo ciò che conta è farla iniziare”. Il punto: manca l’accordo sul presidente.

“Gli errori sono sotto gli occhi di tutti – commenta Guido Marinoni, presidente dell’Ordine dei Medici di Bergamo – molti erano inevitabili, ma la forza di un leader è quella di ammetterli e non arroccarsi dietro difese sterili”, prosegue Marinoni, che agli inizi di aprile aveva firmato una lettera con i presidenti degli altri Ordini provinciali per segnalare una serie di criticità che andavano dalla “mancanza di dati sull’esatta diffusione dell’epidemia” alla “gestione confusa delle Rsa”, fino alla “pressoché totale assenza delle attività di igiene pubblica (isolamenti dei contatti, tamponi a malati e contatti)”. Rilievi che la Direzione generale del Welfare aveva rispedito al mittente come “accuse gratuite”, per poi inserire Marinoni e Gianluigi Spata, presidente di Fromceo, nel Cts regionale. “Guardi, a un assessore viene richiesto di mettersi intorno collaboratori, non solo tecnici, che sappiano programmare e gestire – conclude Marinoni – ecco, prima di Gallera dovrebbero dimettersi le persone che lo attorniano e che gli fanno fare e dire cose sbagliate”. Ma dai territori si fanno sempre più forti le voci di chi chiede un passo indietro: “Chi non ha voluto istituire la zona rossa a Nembro e Alzano e ha dato in pasto i malati ai nostri anziani nelle Rsa deve dimettersi”, attacca Franco De Pasquale, presidente del Tavolo della Pace della val Brembana.

Continuano a essere buoni, intanto, i dati della Protezione civile: sono 531 i nuovi positivi (contro i 669 di sabato), 285 dei quali in Lombardia. Dove, per la prima volta dall’inizio dell’epidemia, non sono stati registrati morti: “I flussi provenienti dalla rete ospedaliera e le anagrafi territoriali oggi non hanno segnalato decessi”, si legge sul sito della Regione. Sul dato sono in corso verifiche.

Tabacco riscaldato: “Non è meno rischioso”

L’Italia ha aderito a diversi trattati internazionali per limitare l’uso del tabacco e, nonostante l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) abbia specificato che anche il tabacco riscaldato vada equiparato dal punto di vista normativo e fiscale alle tradizionali bionde, la passione della politica per le grandi aziende che hanno lanciato questi prodotti alternativi è troppo forte rispetto alle resistenze sanitarie. E accade così che, grazie a un’attività fortissima di lobby, se su un pacchetto di sigarette lo Stato incassa circa il 76% di tasse, sulle Iqos della Philip Morris (quelle con cui si assume nicotina senza combustione) appena il 33%. In pratica, la politica ha deciso di rinunciare a 1,2 miliardi di euro di incasso per i prossimi tre anni su un prodotto che all’apparenza dovrebbe essere meno rischiose per la salute, anche se una relazione del 2019 dell’Istituto Superiore di Sanità lo smentisca.

Peccato che questo documento nessuno sia riuscito a visionarlo fino a oggi, neppure l’ex ministra della Salute Giulia Grillo. Ma ora, a tirarlo fuori da un cassetto polveroso, ci sono riusciti Report (Rai tre) insieme ad altri 12 media internazionali coordinati dal Consorzio di giornalismo investigativo OCCRP nel progetto Blowing Unsmoke. Il rapporto verrà mostrato questa sera durante l’inchiesta di Giulio Valesini.

Nel 2014 a dare il benvenuto alla Philip Morris in Italia, dove la multinazionale ha scelto di produrre per il mercato occidentale i componenti del suo prodotto di punta per il tabacco riscaldato, è stato l’ex premier Renzi, offrendogli uno sconto sulle accise del 50% rispetto alle sigarette tradizionali. Ma grazie a una forte lobbyng, il governo gialloverde nel 2019 ha fatto di più portando lo sconto al 75%.

Gli affari vanno a gonfie vele: Philip Morris ha il 90% del mercato italiano, con la grande concessione della politica di far usare le Iqos anche all’interno dei luoghi pubblici. Porte spalancate nonostante l’Istituto superiore di Sanità abbia espresso in un documento in possesso di Report preoccupazione per la salute di chi usa tabacco riscaldato, sottolineando la presenza di sostanze cancerogene e di alcune sostanze potenzialmente genotossiche. Un allarme che nessuno ha mai letto ma ben noto alla Philip Morris che, nonostante non sia riuscita a dimostrare che il suo prodotto sia potenzialmente meno a rischio rispetto alle sigarette tradizionali, ha chiesto nel febbraio 2019 al governatore della Toscana Enrico Rossi un incontro con i medici per chiedergli di far utilizzare le Iqos ai pazienti che non riescono a smettere di fumare. Il lobbista di riferimento della multinazionale e Rossi sono dello stesso partito: Articolo Uno. A cui appartiene anche il ministro della Salute Roberto Speranza che ora potrebbe rendere pubblica la relazione del Ssn. Intanto Philip Morris ha diffidato Report dal mandare in onda l’inchiesta.