Autostrade, pressing per il verdetto. Da Chigi insistono: obiettivo revoca

Sarà questa, o almeno così promettono, la settimana decisiva per la querelle tra governo e Autostrade che si trascina dal crollo del ponte Morandi, ormai dell’agosto di due anni fa. Fonti di palazzo Chigi ammettono che quello in cui ci troviamo è uno “stallo alla messicana”, in cui ognuna delle controparti aspetta e spera che sia l’altra a cedere e che ogni mossa è studiata per “vedere che succede” dal lato opposto del tavolo. Da dieci giorni il dossier curato dalla ministra per i Trasporti e le Infrastrutture Paola De Micheli è nelle mani di Giuseppe Conte, che ora ha intenzione di tornare a gestire in prima persona la trattativa, in particolare dopo lo scontro dell’altro ieri interno ai giallorosa. Con il viceministro Cancelleri, quota M5S, che ha accusato la titolare del dicastero, esponente del Pd, di aver trattato in solitaria. Uno spettacolo che al premier pare non sia piaciuto per nulla (anche perché il dossier ce l’aveva già lui). La separazione consensuale non sembra all’ordine del giorno. Tanto più che, in aggiunta a quella – nota – del 5 marzo scorso, da parte di Aspi ci sarebbe stata anche una successiva ipotesi di accordo, anche quella finita senza intesa con il governo, perché “insoddisfacente” come quella di prima.

È in questo clima di “rapporti di fiducia completamente rotti”, per dirla ancora con fonti di governo, che palazzo Chigi si avvia a ritentare la carta “durissima”, la stessa che minaccia da mesi. Ovvero la revoca della concessione, strada che resta impervia per via delle conseguenze giudiziarie che aprirebbe. Ma è quello “l’obiettivo” che si torna a indicare, con la speranza – non troppo malcelata – che i Benetton si convincano a vendere prima di ritrovarsi “una scatola vuota”. Una trattativa che in sostanza va avanti a colpi di ricatti, con l’ultima minaccia, due sere fa, di bloccare gli investimenti e fare causa allo Stato se Atlantia non si vedrà concessa la garanzia pubblica per i 2 miliardi di prestito richiesti. “Non è possibile trovare sul mercato quei soldi che servono per fare tutte le opere – ha ribadito ieri il direttore generale di Aiscat, l’associazione dei concessionari, Massimo Schintu – E non è possibile trovarli esclusivamente a causa dei decreti fatti dal Governo”. Chiedono a Conte di decidere in fretta anche il presidente della Liguria Giovanni Toti (Fi) e quello dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini (Pd): “Ci sono miliardi di opere bloccate che potrebbero partire domattina. La questione va sbloccata al più presto”.

Ecco il patto di Palamara con la corrente di sinistra

Quando nel marzo 2018 si gioca la partita per il vice segretario del Csm il telefono di Luca Palamara è bollente. L’attuale componente della segreteria del Consiglio, Baldovino De Sensi, vicino alla corrente Mi, lo pressa con decine di messaggi.

È il caso di spiegare che la nomina del vice segretario è di tipo amministrativo e non è legata al rinnovo del Csm. Il Presidente della Repubblica, che presiede il Csm, viene interpellato per questo tipo di nomine perché si tratta di figure con le quali interloquisce costantemente. Infatti avviene su proposta del comitato di presidenza. La candidatura gradita al Colle era quella di Gabriele Fiorentino ma da mesi non veniva messa in calendario. Baldovino De Sensi nel febbraio 2018 inizia a tempestare di messaggi Palamara. Il 15 febbraio gli suggerisce addirittura di far modificare le regole: “Bisogna far modificare la norma e prevedere 2 vice segretari generali”. La pressione è costante.

De Sensi è convinto che Palamara lo “fregherà” e quest’ultimo gli risponde: “E vabbè, se dici questo mi arrendo”. De Sensi a quel punto rompe gli argini: “Uno si può arrendere se prima ha fatto qualcosa: Non mi sembra che tu abbia combattuto per me o per A… Per ora siamo stati solo umiliati, soprattutto lei. E tutto era nelle tue mani, che ti saresti potuto limitare a dire che il VSG (vice segretario generale, ndr) lo avrebbe fatto il più meritevole, per profilo e impegno in questa consiliatura – e non per diritto successorio – e così lei sarebbe entrata al posto mio. Invece così il VSG andrà immeritatamente a qualcuno, solo perché di Area, e noi due, che confidavamo anche sul tuo appoggio, prenderemo solo schiaffi”. De Sensi ipotizza che, con il passaggio a vice segretario generale, il suo posto da magistrato segretario del Csm passerà a una donna, di nome A., magistrato di cui non fa il cognome (pertanto usiamo solo l’iniziale).

Il 26 marzo si interessa ad alcune nomine: “Però avevamo detto che ad Ancona mandavamo Francesca Ercolini. Scusa la Ragaglia la mandiamo a PSA (presidente sezione appello, ndr). Ancona al posto di Fanuli che è andato a PT Pesaro”. “Per te tutto ok” scrive Palamara il 28 marzo a De Sensi. “Per me cosa? Parliamo di Ancona? Quindi votiamo la Ercolini?”. “Si” gli risponde Palamara. Non abbiamo dubbi sulla professionalità dei magistrati citati, ma riportiamo questa conversazione per dovere di cronaca. In quei giorni, di chi dovrà diventare segretario generale, Palamara parla spesso con il consigliere di Area Valerio Fracassi. Che il 27 marzo gli scrive: “Hanno comitato di presidenza questa mattina. Giovanni (Legnini, ndr) lo sento strano. Spingi su Fuzio (Riccardo, all’epoca procuratore generale della Cassazione, membro del comitato di presidenza del Csm, ndr) per rinvio alla prossima su vice-segr (… hanno aspettato tanto). Erbani non può imperversare così…”. Fracassi descrive Stefano Erbani, consigliere giuridico del presidente Mattarella, come piuttosto interventista su una una nomina che però coinvolge il Colle.

Il 28 aprile 2019 De Sensi, tramontata l’ambizione da vice segretario, punta al ministero di Giustizia. Vuole l’incarico per il quale è in pole position Barbara Fabbrini, attuale capo del dipartimento dell’organizzazione giudiziaria (Dog). “Parla con Giovanni (Legnini, ndr) e fatemi andare al posto della Fabbrini: DG personale e formazione. Il mio profilo avendo fatto il Direttore della Scuola, è perfetto (…)”. Il 31 maggio torna alla carica: “Come ci muoviamo? Che chiediamo per me? Non credo che Buonafede confermerà la Fabbrini Capo Dipartimento. Se è così non mi libera D.G. Provi a chiedere Vice DOG? (…)”. E ancora: “Bonafede… Domani lo vedi al Quirinale…”. Incontro mai avvenuto. Il 12 giugno insiste: “Luca la Fabbrini sarà nominata sicuramente Capo dipartimento perché è stata affidataria di Pucci (Leonardo, vice capo gabinetto del ministero di Giustizia, ndr) ed è ormai sicuro. Come dobbiamo fare per bloccare il suo attuale posto di DG? Guarda che sta facendo la squadra”. E ancora: “Cerca di capire se il mio nome è arrivato veramente… E se mi devo muovere con la Lega… Ma Baldi (ex capo di gabinetto di Bonafede, ndr) quando lo vedi?”.

Liti e accuse, marasma Anm. Bonafede: “Riformo il Csm”

L’Associazione nazionale magistrati allo sbaraglio. Regna l’assoluta incertezza sulla possibilità, o meno, che stasera, il suo parlamentino riesca a formare una nuova Giunta dopo le dimissioni dei vertici sabato sera. E quindi non si sa che fine facciano le elezioni di ottobre, fissate nelle settimane scorse dopo essere state rimandate a marzo, causa Covid.

È talmente lampante che dentro l’Anm regni il caos per lo scandalo nomine, che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è intervenuto per rilanciare la sua riforma del sistema elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura. L’aveva già anticipata a novembre proprio al congresso nazionale dell’Anm a Genova , quando ha dovuto rinunciare alla sua idea del sorteggio per le barricate del sindacato delle toghe e del Pd, nuovo alleato di Governo. Ora annuncia che ci sarà in tempi brevi: “Il vero e proprio terremoto che sta investendo la magistratura italiana dopo il cosiddetto caso Palamara – scrive su Facebook Bonafede – impone una risposta tempestiva delle istituzioni. Ne va della credibilità della magistratura, a cui il nostro Stato di diritto non può rinunciare. Questa settimana porterò all’attenzione della maggioranza il progetto di riforma” con nuovi criteri per le nomine “ispirati soltanto al merito” e, conclude il ministro, ci sarà pure la “la netta separazione tra politica e magistratura con il blocco delle cosiddette porte girevoli”.

Le correnti storiche sono squassate dalla prova del sistema spartitorio delle nomine emersa con le intercettazioni di decine e decine di magistrati mentre parlano o si scrivono con Luca Palamara, ex potente consigliere del Csm, toga di Unicost (la corrente centrista), indagato a Perugia per corruzione. Palamara aveva come sponda principale Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa da anni, deputato renziano, ma sempre leader ombra di Magistratura Indipendente (destra). Nelle intercettazioni anche alcuni magistrati di Area, la corrente progressista.

Quanto si è consumato sabato sera, dopo 9 ore di riunione, con le dimissioni dei vertici – il presidente Luca Poniz e il segretario Luigi Caputo – e la fuoriuscita dalla Giunta delle loro correnti Area e Unicost, fa capire più di ogni altra cosa il momento drammatico dell’associazione. Un vero e proprio psicodramma, che continua. Ieri, Area è passata al contrattacco, evidentemente per segnare la differenza con Unicost, pesantemente chiamata in causa, insieme a Magistratura Indipendente, dalle intercettazioni di Perugia. La corrente progressista accusa Unicost di aver fatto “un passo indietro” sulla questione morale e aggiunge: sabato “è emerso che Unicost non sembra in grado di mantenere la posizione di fermezza assunta un anno fa”. Ma Unicost rilancia con questa spiegazione al vetriolo della propria fuoriuscita: “Non abbiamo rinvenuto nella componente di Area, né sul metodo di lavoro né sui contenuti, una fattiva disponibilità a un cambio di passo, né una volontà a fare ciò che da maggio scorso noi stiamo facendo: una necessaria, seria e profonda autocritica in merito ad un sistema che ha condotto al carrierismo e al correntismo, come emerge dalle chat pubblicate giorno dopo giorno”.

Durante la riunione di sabato sera erano volati stracci tra Area e Unicost quando Luisa Savoia (Area) ha chiesto conto ad Angelo Renna (Unicost) delle intercettazioni in cui l’ha definita con Palamara una candidata a procuratore aggiunto di Milano “da fottere”. Renna ha chiesto scusa e si è dimesso dalla Giunta. Ma non è bastato. Giovanni Tedesco, Area, si legge in mailing list, “ha detto che Renna doveva andarsene proprio dal Cdc”. E Renna si è così dimesso pure dal parlamentino. In Giunta è rimasta solo Autonomia e Indipendenza. La corrente fondata pochi anni fa da Davigo, Ardita, Pepe e Maddalena è quella uscita indenne dalle intercettazioni sulla spartizione delle nomine e pensa, per questo, di avere successo alle elezioni: così sta provando a convincere Unicost e Area a fare una Giunta transitoria in vista del voto. “Comprendo la difficoltà dei gruppi – dice il coordinatore Michele Consiglio – ma auspico un ripensamento per senso di responsabilità. Abbiamo preso l’impegno di condurre l’Anm fino al voto, bisogna reggere le difficoltà anche se le sedie bruciano”. E bruciano molto.

Ma mi faccia il piacere

La tentazione. “Non abbiamo fatto errori e tenerci chiusi non sarà necessario” (Attilio Fontana, Lega, presidente Regione Lombardia, Repubblica, 23.5). Però sarebbe bellissimo.

Forconi e forchette. “Io continuo a essere convinto che (Conte) lo manderanno via con i forconi” (Pierferdinando Casini, senatore eletto col Pd, il Giornale, 21.5). Lui darà una mano con la sua forchettina.

I ricchi e poveri. “Conte garantisce miseria a chiunque” (Libero, 22.5). “Italiani mai così ricchi” (Libero, 24.5). Apperò, e tutto in due giorni.

La parte per il tutto. “Attacco M5S alla Lombardia” (Corriere della sera, prima pagina, sulle critiche del deputato M5S Riccardo Ricciardi alla gestione della pandemia da parte della giunta regionale lombarda, 22.5). Occhio che ora invadono pure la Polonia.

Esagerato. “Soldi alle imprese subito, stop alle tasse tutto l’anno” (Silvio Berlusconi, il Giornale, 23.5). Ma non ti basta non pagarle?

Razzi Catiuscia. “Pd garantista con Bonafede e non con me: ipocriti” (Catiuscia Marini, ex presidente Regione Umbria, Il Foglio, 22.5). Perché, Bonafede è indagato per associazione per delinquere nella lottizzazione della sanità regionale?

La Supercunial. “Mentre voi stracciate il codice di Norimberga con Tso, multe e deportazioni, riconoscimenti facciali e intimidazioni, avallate dallo scientismo dogmatico protetto dal nostro pluripresidente della Repubblica, che è la vera epidemia culturale di questo Paese, noi fuori, con i cittadini moltiplicheremo i fuochi di resistenza in modo tale che vi sia impossibile reprimerci tutti” (Sara Cunial, deputata gruppo Misto, ex M5S, 14.5). Ma con scappellamento a destra o al centro?

Cappellamento. “Come sarebbe possibile a Roma non far continuare il lavoro a Virginia Raggi? É un po’ come se Giulio II, il Papa delle arti, avesse impedito improvvisamente a Michelangelo di terminare la decorazione della volta della Cappella Sistina” (Paolo Ferrara, consigliere comunale 5Stelle a Roma, 17.5). Ma come, in Vaticano non c’era la regola dei due mandati?

Il capomastro. “Non voglio poltrone, ma cantieri” (Matteo Renzi, segretario Iv, Repubblica, 21.5). Così va a dare consigli non richiesti anche lì, tipo umarell.

Il nuovo Nostradamus. “Quando ho chiesto di riaprire mi hanno preso tutti per matto. Ora hanno tutti capito che quella richiesta era giusta” (Renzi, ibidem). Infatti lui voleva aprire il 1° aprile in piena pandemia e il governo ha riaperto – a rate – da metà maggio.

Il nuovo Machiavelli. “Ultimi momenti per controllare le bozze de ‘La mossa del cavallo’. Come frase introduttiva ho scelto Machiavelli. Ma una frase intima, questa: ‘Ognuno vede quel che tu pari; pochi sentono quel che tu sei’. Vi piace?” (Renzi, Twitter, segnalato da @nonleggerlo, 18.5). Transennate le librerie.

Padri prostituenti. “Domanda incomprensibile. Come dire: lei mi entra nella prostituzione maggiorenne?” (Maurizio Gasparri, FI, vicepresidente del Senato, alla giornalista Claudia Di Pasquale, che tenta di intervistarlo sulla sua fondazione “Italia Protagonista”, Report, Rai3, 18.5). Ma quante nipoti aveva Mubarak?

Lezioni di italiano. “Bonafede, come Conte e Di Maio, sono bambini presi a sberle” (Gianluigi Paragone, senatore gruppo Misto, ex M5S, Huffington Post, 19.5). Ma Bonafede è plurale o sono in tanti?

Strage di capaci. “Per ripartire serve un governo dei capaci. Conte chiami attorno a sé i migliori” (Giuseppe Sala, Pd, sindaco di Milano, Repubblica, 24.5). Ma perchè autoescludersi così, a priori?

La via maestra. “I soldi senza riforme non ci porteranno lontani” (Roberto Formigoni, rubrica “La frustata”, Libero, 24.5). A lui, per esempio, i soldi delle mazzette e le riforme della sanità l’hanno portato in galera.

I have a drink. “Pd, no a Raggi e Appendino e per Roma cerca un big. L’idea 5S di ricandidare le due sindache non convince i dem. Il sogno Enrico Letta che però non è interessato al Campidoglio” (Repubblica, 21.5). Quindi, se nemmeno Enrico Letta sogna Enrico Letta, chi è che sogna Enrico Letta? Repubblica? Uno a caso per strada?

Il titolo della settimana. “Reddito ai mafiosi” (il Giornale, 21.5). Bei tempi quando, da quelle parti, li chiamavano stallieri. O gente con cui “dobbiamo convivere”. O senatori.

Covid-19, o l’interpretazione dei sogni: chi pattina e chi fa il riso col gatto

Bici, campi da calcio, navi, teatri, felini addomesticati, cigni ma anche sacchi neri, telefoni spenti, scenari di guerra, ascensori alla deriva, boati e fughe improvvise. Sono questi alcuni dei simboli emersi nei sogni durante i primi giorni della pandemia.

A farne una rassegna, interpretandoli alla luce del contesto socio-emotivo attuale, è stata Alessia Marconcini, una psicoterapeuta a orientamento dinamico. Li ha raccolti nel libro Mi ritrovo dinanzi a uno specchio. I sogni della quarantena, pubblicato dalla casa editrice barese Progedit.

Dalle pagine emerge l’inconscio collettivo che oscilla tra la paura della morte e il desiderio riparatorio di una vita piena. Per un verso lo smarrimento, la confusione, il timore di perdere le persone care fino al “si salvi chi può”. Per l’altro l’evasione, la fantasia che sopperisce alla frustrazione data dall’immobilismo e dall’isolamento.

“L’idea è nata – spiega Alessia Marconcini – nella distanza fisica dagli altri: ho avvertito che le persone mi scrivevano più spesso dei loro sogni e ho notato alcune ricorrenze”. Alla richiesta di raccontarli hanno aderito decine e decine di persone dislocate in varie parti del mondo. C’è chi ha sognato di percorrere Praga sui pattini, chi di immergersi nell’acqua con un splendido cigno bianco, chi ha scoperto di aver cucinato un gatto col risotto. Chi è salito a bordo di un’immensa nave. Chi ha provato a parcheggiare la bici senza riuscirci. Chi si è abbandonato alle fantasie erotiche compensatorie, spiando una donna col collo da cigno e il corpo snello e sinuoso.

E poi c’è chi ha portato con sé a letto l’angoscia. Ed ecco un palcoscenico di un teatro mentre va in scena la Seconda guerra mondiale. Un veleno che ha iniziato a fare effetto. La propria casa che è diventata diversa. E ancora la prigione, l’ospedale, un minorenne mandato in guerra. “Con i megafoni ci dicono che non possiamo più aprire le finestre”, scrive una delle sognatrici. La paura del contagio e della morte hanno tormentato il sonno di tanti.

Mi ritrovo dinanzi a uno specchio. I sogni della quarantena è un libro che parla di noi, all’improvviso, protagonisti di una pandemia. “Raccontare i sogni – fa sapere l’autrice – è un modo per parlare di sé e per allentare il carico emotivo senza farlo in piena consapevolezza e dunque senza censure, la rappresentazione onirica può farsi risorsa per la ricerca di soluzioni”.

Chissà allora che non sia tra le braccia di Morfeo il luogo adatto per elaborare quelle “paure ancestrali di avvelenamento, contaminazione, perdita” che la pandemia ha ridestato.

Secondo la psicoterapeuta “condividere i propri sogni è un invito a comunicare e incentiva forme dialogiche di interpretazione di questa difficile realtà per tornare a sognare e costruire insieme un futuro migliore”. Lontani dai boati e dai sibili che ci attanagliano di notte. Magari vestiti a festa, come in uno dei sogni raccontati, pronti ad accogliere il tanto auspicato ritorno alla normalità.

Polvere, fatica e Pasta party: “l’Eroica” voglia di pedalare

Renato Vallanzasca mi confidò un giorno: “Pedalare stanca, ma si può essere più forti della fatica. Grazie alla tenacia, si possono valicare montagne che si credono impossibili anche a sessant’anni”. Un altro bandito, famoso si fa per dire negli anni Venti, diceva le stesse cose: usava spesso e volentieri la “spicciola” per scappare dopo ogni furto e rapina, si chiamava Sante Pollastri, e Francesco De Gregori ne fece una canzone, “due ragazzi del borgo cresciuti troppo in fretta/un’unica passione per la bicicletta/un incrocio di destini in una strana storia/di cui nei giorni nostri si è persa la memoria”. Il campione era Costante Girardengo. Era il tempo del ciclismo “eroico”, dello scrittore Alfredo Panzini che inforca la sua bicicletta a Milano, e punta da Porta Romana alla Romagna per raggiungere la famiglia in villeggiatura, poi scriverà la sua avventura a pedali nel romanzo La lanterna di Diogene.

La bicicletta diventa emblematica anche nel secondo dopoguerra – pensate a Ladri di biciclette di Vittorio De Sica (1948), agli entusiasmanti duelli tra Bartali e Coppi che divisero l’Italia: è ancora lo sport più popolare perché del popolo, che mitizza la grande fatica, poiché la conosce, la vive, la soffre; la lentezza della bici è ancora sopportata, ma per poco.

Ormai il paese farà il salto della “grande trasformazione”, relega l’arcaicità delle due ruote mosse dalle gambe, per adeguarsi alla frenesia motoristica. Pure il ciclismo si adegua. Segue canoni diversi: la tecnologia progressivamente trasforma la bici in oggetti sofisticati, in mezzi dove leghe ultraleggere dimezzano pesi, cambi elettronici, ruote fantasmagoriche. E le stesse tecniche di allenamento seguono l’evoluzione della medicina sportiva. Per sfociare, poi, talvolta e purtroppo nella deriva del doping.

Ma ecco che il mondo è attaccato da un virus imbattibile come lo era Merckx. Il Covid-19 da esso innescato, scatena una pandemia, il mondo per resistere si asserragli in casa. La tattica del contenimento, il distanziamento, le mascherine, rendono più complicata la nostra vita quotidiana. La rendono “eroica”, parola che spesso ritroviamo nelle cronache di questi mesi sconvolgenti. Il che favorisce la nascita di una nuova cultura dell’eroismo. Un ritorno ad un passato virtuoso. Per esempio, meno auto, più bici.

Nello sconquasso generale, la bicicletta diventa il simbolo del “rilancio”. Della difesa di una libertà compromessa dalla paura, dalla diffidenza, dalle regole della prevenzione e della sicurezza sanitaria. Pedalare stanca ma fa bene. Anzi, si va oltre: l’industria della bicicletta è immune al coronavirus. Va così bene che è difficile procurarsene una, soprattutto dopo l’erogazione del bonus di 500 euro deciso da governo Conte.

E che dire dell’appello lanciato dai sindaci? “Andate in bicicletta” incitano, promettono corsie preferenziali – magari! per ora, rare come il tartufo bianco – e molti futurologi si affannano a immaginare le città di domani percorse da mezzi di trasporto dell’altroieri.

Non solo. Piglia sempre più consistenza la voga delle Strade Bianche, di andare in bici come una volta lungo percorsi in mezzo alla natura, non asfaltati. Polvere e fatica. Molti anni fa, Giancarlo Brocci, medico e tenace cicloturista, ebbe la geniale idea di far rivivere lungo le meravigliose strade del Senese e del Chianti l’epica del ciclismo eroico. Perché non organizzare una manifestazione ciclistica in cui le biciclette debbano essere rigorosamente “da corsa d’epoca”, definite “bici eroiche o di aspirazione storica” (vintage) e chi le inforca abbigliati come Girardengo, Bartali e Binda? Telaio in acciaio o in alluminio tipo “Alan”; i pedali devono essere forniti di fermapiedi e cinghietti (esclusi dunque gli sganci rapidi); le ruote devono essere montate con cerchi a profilo basso e con almeno 32 raggi (ammessi cerchi in legno, alluminio e acciaio); i fili dei freni debbono esterni al nastro manubrio, ed è consentito il loro passaggio all’interno del manubrio… insomma, provate a spingere queste bici vi sembreranno cancelli, ma che soddisfazione rivivere emozioni perdute, tastare i ricordi dei nonni, divertirsi e non soggiacere alle paranoie che stanno distruggendo “il vero spirito dello sport, ucciso dall’invadenza e dalla prevalenza di procuratori e preparatori”, bofonchia oggi Brocci, “l’Eroica dimostra che può esistere un modo di concepire lo sport diverso da quello esasperato che ha devastato la sua cultura”.

L’Eroica è diventato un brand internazionale. Pure un bel business.

Quando iniziò, Gaiole in Chianti aveva zero posti letto per i cicloturisti. Ora sono 1240. Il 4 ottobre prossimo, come ogni anno, si va in scena. Salvo complicazioni virali. Sono comunque allo studio alternative per limitare i rischi, niente docce, niente Pasta party alla fine, questo è ovvio, ma la consapevolezza che pedalare forse stanca ma è ancor di più, in questo contesto, eroico.

“Per ‘I laureati’ ho bluffato, rischiato, detto bugie e rinunciato a Carlo Conti”

C’è sempre un inizio in ogni cosa che si fa, cantavano gli Audio 2 ne I laureati, e quell’inizio, esattamente 25 anni fa, ha consegnato Leonardo Pieraccioni al ruolo di giovane fenomeno del cinema italiano, 15 miliardi di incasso, nuova verve alla commedia e la narrazione di un ragazzo leggero per vocazione, ma solido negli intenti, con accenni da convinto provinciale (“nonostante i successi alle feste romane nessuno mi filava”) di chi è consapevole, fiero e divertito di aver reso ben oltre ogni aspettativa.

E la storia de I laureati rientra nella bellezza del cinema.

Una peripezia?

Dietro quel film c’è tutto: caso, ostinazione, bugie, bluff, incoscienza, divertimento e amicizia.

Secondo Vittorio Cecchi Gori nasce dalla festa per la sua elezione al Senato.

Quello è l’atto finale di un percorso complicato: lì gli consegnai un copione dal titolo La casa fuori corso, che sembrava un film dell’orrore diretto da Pupi Avati, corredato da una piccola forzatura.

Cioè?

A Giovanni Veronesi avevo strappato un sì: “Ho scritto questo film, qualora dovessi trovare un produttore forte e con le spalle larghe, mi dai una mano per migliorarlo?”. Risposta: “Certo!”. Così con Vittorio e Rita Rusic spesi il suo nome, lui già reduce dai successi con Francesco Nuti. (Silenzio). Un attimo, prima di Cecchi Gori ero caduto in uno stereotipo del cinema.

Quale?

Ai ragazzi spiego sempre: non consegnate mai il vostro lavoro, il vostro scritto, a qualcuno che vi promette di portarlo a un produttore.

Invece, lei…

Mi fidai di un politico fiorentino, grandi parole e altrettanta speranza, e da genio mi rassicurò: “Conosco la Rusic, ci penso io”.

Un classico.

Il punto è un altro: alla mia ennesima sollecitazione su un riscontro, decise di mettere fine all’agonia: “Lo ha letto e giudicato legnosetto” (ride). Quando ho conosciuto la Rusic, timidamente le ho ricordato il precedente: “Signora, sono Pieraccioni, lei ha già letto il mio scritto, e non l’ha convinta”. E lei: “Non ho mai ricevuto nulla, dammelo”; dopo poche ore ecco la sua telefonata: “Va bene, anche a Vittorio piace”. (Ride ancora) mi vendicai rivelando nome e cognome del politico millantatore.

Perché la storia dei quattro fuori corso?

Per me la commedia perfetta sono i primi due Amici miei, capolavoro assoluto di sceneggiatura, di regia e interpretazione: li vedo ogni sei mesi e godo; loro erano dei cinquantenni-sessantenni con la paura di morire e io pensai ai trentenni con la paura di crescere.

A partire da lei.

Avevo 28 anni, affrontavo gli interrogativi sul futuro e avevo capito che a volte, l’università, era una forma di rifugio dalle responsabilità; comunque in Toscana, in particolare a Firenze, ci si riconosce in quei quattro di Amici miei.

Lei, in chi?

Nel giornalista Perozzi, eterno giocherellone, intenzionato a non crescere del tutto.

Prima di Cecchi Gori?

Con Carmine Parmeggiani, produttore esecutivo, abbiamo bussato a ogni porta dei possibili finanziatori e dopo il quinto “no” mi sono mentalmente vestito da uomo sicuro e, con uno di loro, ho giocato la carta della seduzione: “Ha presente quelle situazioni che nel cinema capitano una volta ogni dieci anni? Delle serie: ‘È venuto da me e non era nessuno, e adesso è famoso?’. Quello sono io”.

Ci credeva?

Per niente, e nel suo sguardo lessi un palese “ma che cazzo dici?”.

Gherardo Guidi, patron de La capannina di Viareggio, ha confessato che il “no” a “I laureati” è il suo rimpianto.

Il viaggio dalla Versilia a Roma lo interpretò come un segno del destino.

Cioè?

Per impressionare Guidi suggerii a Carmine una soluzione: “Non abbiamo un ufficio, non abbiamo niente, quindi trova una stanza a Cinecittà e incontriamolo lì, così respira l’ossigeno dei vincenti”.

Risultato?

Siamo riusciti a ottenere un dietro le quinte fasullo, illuminato da una lucina e con una scrivania realizzata grazie alle cassette della frutta.

Altro che vincenti…

Il problema fu il suo viaggio: era luglio e gli si ruppe subito l’aria condizionata; arrivò devastato dal caldo, sudato, e il buongiorno fu: “Che viaggio tremendo!”.

Fino a Cecchi Gori.

È stato la mia fortuna: senza la sua struttura, così solida, piena di professionisti e con una vera distribuzione, non sarebbe finita bene; poi allora c’era la sindrome del “cosa ne penserà Nanni?”, e per Nanni si intendeva Moretti.

Nanni Moretti come metro di giudizio?

Nel 1995 nessuno voleva esordire con un film che non potesse arrivare al suo festival, e tutti si impegnavano per raccontare storie “alte”, mentre io ero e sono un cabarettista prestato al cinema, con l’intenzione di girare senza alcun pensiero alla critica.

E…

Dopo l’uscita le critiche giornalistiche me le leggeva il Ceccherini assediato dalle lacrime agli occhi per le risate; peste e corna mentre il botteghino andava benissimo.

Non si offendeva?

Mai, e il massimo lo raggiunse Michele Anselmi (storico critico, ndr) con giudizi pesanti, compresa l’accusa di scarsa genuinità; (cambia tono, sornione) negli anni, con Veronesi, ci siamo divertiti ad assegnare nei film i nomi dei detrattori a personaggi che magari inciampavano. E Michele Anselmi c’è in Ti amo in tutte le lingue del mondo mentre è carponi, frustato sul sedere.

Come mai ne “I laureati” mancano i suoi amici, Conti e Panariello?

Eliminati con una cattiveria incredibile; nella vita non bisogna mai fidarsi di due categorie di persone: gli attori e i politici, e gli attori sono puttane micidiali, ma avevo la necessità di un respiro più nazionale, non solo toscano.

Come la presero?

Panariello non lo ricordo, e non so neanche se era incluso, mentre con Carlo nessun problema, tanto era un cane davanti alla macchina da presa, ma è bravo a teatro.

Gli altri protagonisti.

Andai dalla Cucinotta reduce da Il postino, poi da Gian Marco Tognazzi, bravissimo e portatore sano di un cognome che mi legava ad Amici miei; infine da Rocco Papaleo che già al primo incontro mi regalò una perla di se stesso.

Come?

Era un nome, e dopo avergli raccontato il film, insisto tantissimo sul desiderio di averlo nel cast e, all’ennesima sollecitazione, davanti alla porta della stanza, si gira e con accento lucano mi rassicura: “Leonà, se ti fa tranquillità ti dico subito di sì, perché non ho tutte queste richieste”.

Massimo Ceccherini…

Già al tempo la sua pessima fama lo precedeva, così lo guardai negli occhi: “È il mio primo film, non fare cazzate: domani mattina alle 8 sii puntuale”. Si presentò alle sette e mezzo.

Applausi e commozione…

In realtà piansi l’ultimo giorno di riprese: ero convinto che fosse il mio primo e unico film, eppure mi ero divertito tantissimo, ero certo che una goduria del genere non mi sarebbe più toccata.

Alla fine Ceccherini fece l’istrionico?

Massimo è la persona più buona e onesta, uno che non ti nasconde mai i suoi pensieri; poi ci sono due Ceccherini: uno prima della pausa sul set e un altro dopo, quando qualche scellerato tira fuori la bottiglia di vodka, ed è la fine. (Ci pensa) Lui conosce i limiti e non ha mai mandato in crisi la produzione.

Lei come regista…

Per I laureati ho girato un film lungo tre ore e 25, per questo ho tagliato tanti personaggi e cammei, come la presenza di Giancarlo Antonioni, per me un totem.

Trattò sul compenso?

Ho ancora incorniciato il foglietto con la cifra.

Una conquista.

Non avevo l’agente, e mi affidai ai suggerimenti di Veronesi: “Fai così: se ti offrono 40 milioni, rilancia a 50; se sono 50 punta a 60”. Bene. Vado all’appuntamento con l’avvocato di Cecchi Gori e dopo i convenevoli esordisce: “Noi abbiamo pensato a 70”. E io: “Benissimo!”. Risposta: “È stata la trattativa più veloce della mia storia”.

Alessandro Haber.

Nel film è il professor Galliano, in omaggio a Galliano Juso (celebre produttore degli anni Settanta, ndr).

Sì, ma da ventottenne all’esordio non sentiva la pressione di guidare un attore già esperto?

No, perché impostai il lavoro al contrario della regola consolidata: di solito l’attore si affida al regista, ma quando ho personalità così particolari sono io che mi affido al loro buon cuore; con Haber non si può scendere in guerra…

Mai.

Lui è celebre perché quando il regista capisce di aver ottenuto il ciak giusto, si impunta perché è convinto di poter offrire di più; in quel caso è inutile discuterci, e gli concedevo l’ulteriore ripresa.

C’è l’esordio della Arcuri.

Sempre una meravigliosa donna, ma a quel tempo era incredibile, e il suo talento l’ho capito dopo, mentre guardavo il girato: la scena con lei si svolge in una sala d’attesa, io e lei seduti, e aveva intuito che rischiava di apparire solo di spalle, così si piazzò di profilo.

Sveglia.

Sveglissima lei, coglione io che non l’ho sgamata subito.

Quando ha detto: è un successo?

A quel tempo si telefonava ai cinema o si andava a verificare di persona; io chiamai un amico: “Mi accompagni?”. Ci presentammo al Manzoni di Firenze e appena arrivati iniziai a urlare di gioia, e non è metafora, è realtà: c’era la coda al botteghino.

Festa anche per i produttori: 15 miliardi d’incasso.

C’è una frase di Cecchi Gori che mi accompagna da allora; con Ceccherini andiamo a trovarlo e per spiegare se stesso si affida ai ricordi: “Sono di Firenze, nato in via Landucci, vivevo con la nonna e si mangiava in cucina”. Io e Massimo stupiti, come a dire: “Perché, sennò dove?”.

E invece…

Da figlio di un grande produttore aveva la sala da pranzo, ma intendeva sottintendere “sono dei vostri”.

Con il successo, l’invidia?

Il top fu dopo Il ciclone: venni invitato a una festa di cinematografari e nonostante l’invito credevo di essere invisibile: nessuno si è avvicinato, nessuno mi ha salutato, nessuno mi ha guardato, ed è uno dei motivi per cui non ho mai abitato a Roma.

Via dalla Capitale.

Inizialmente dormivo in un residence nel quartiere Prati, poi ho iniziato l’avanti e indietro con Firenze, con i miei amici storici che quando mi vedevano ogni volta sottolineavano: “Uh, è arrivato il regista”, con chiaro tono canzonatorio.

Un rimpianto?

Con Ceccherini desideravamo vincere un David, legarlo al cofano della macchina e tornare così a Firenze.

Ma Nanni Moretti lei lo amava?

Nei primissimi anni Novanta, con Domenico Costanzo, giravamo dei corti; una sera andiamo a un appuntamento in cui Nanni incontrava il pubblico e Domenico, con una faccia tosta incredibile e la vocina fioca, si avvicina a lui e lo invita a casa per vedere le nostre opere. Intorno a noi tutti scoppiarono a ridere, ci prendevano in giro.

Eppure…

Il giorno dopo suona il campanello e ci troviamo Moretti in casa.

Passati 25 anni, quel gruppo ha espresso le giuste potenzialità?

Credo di sì, ci siamo ampiamente salvati da altre fini; (sospira) e il bello potrebbe anche venire adesso…

Perché?

È finito il momento di grande clamore e incassi, ora sento meno responsabilità, meno pressione; adesso ho maggiore libertà e magari posso tornare a lavorare pure con Cecchi Gori. Chissà.

(Sempre gli Audio 2: “È come un giro di lancette che si sa, sovrapposte insieme a ogni ora, ma libere libere che…”)

Così il flauto di Woody Allen è la mucca di Buster Keaton

 

Ho perso la verginità a 26 anni. A 19 vaginalmente, ma a 26 nel modo che il mio ragazzo definisce “vero”.

– Sarah Silverman

 

Le pratiche della comicità hanno la forma della confusione, tramite la quale le unità vengono slegate dal tutto, e le cose possono tornare a respirare. “Questi analisti moderni! Fanno pagare così tanto. Ai miei tempi, per cinque marchi ti curava Freud in persona. Per dieci marchi, ti curava e ti stirava i pantaloni. Per quindici marchi, Freud lasciava che tu curassi lui, e questo includeva una scelta fra due contorni. E la durata della terapia! Due anni! Cinque anni! Se uno di noi non riusciva a curare un paziente in sei mesi gli rimborsavamo i soldi, lo portavamo a una qualsiasi rivista musicale e riceveva o una fruttiera di mogano o un completo di coltelli in acciaio inossidabile per l’arrosto. Ricordo che potevi sempre riconoscere con quali pazienti Jung aveva fallito, poiché lui gli regalava grossi panda impagliati”. (Woody Allen, Rivincite)

Una teoria semplice e utile della prassi divertente va fondata sulla considerazione che ogni gag (sia fisica, come la scivolata su una buccia di banana, sia linguistica, come una battuta) non è che la versione parodistica di atti fisici e linguistici neutri. Un atto neutro è un atto pertinente al suo contesto: la versione parodistica lo traduce in un atto non pertinente (per esempio assurdo, offensivo, umiliante, spaventoso) rispetto al contesto rappresentato, in cui porta il caos. Un esempio assurdo è la celebre vignetta di Charles Addams (in basso nella pagina), che ha un corrispettivo linguistico in questo joke di Steven Wright: “La mia ragazza ha comprato un elefante. Poi l’ha perso. È da qualche parte nell’appartamento”. Don Rickles fu un maestro della battuta offensiva: “Orson Welles ha sposato un sacco di belle donne. Sono tutte piatte, adesso”. Un esempio umiliante: “Ho comprato un vocabolario. La prima cosa che ho fatto, ho cercato la parola ‘vocabolario’. C’era scritto: ‘Sei un idiota’”. (Demetri Martin). Gahan Wilson fu uno specialista di vignette horror (una sua vignetta è in apertura di questa pagina), il cui corrispettivo linguistico è questo joke di Steve Martin: “Mi piace una donna con la testa sulle spalle. Odio i colli”.

Tridimensionalità della gag. Le tattiche della traduzione non pertinente sono di tre specie: comica, spiritosa, umoristica. Ogni fenomeno divertente è, in misura maggiore o minore, comico e spiritoso e umoristico: più il suo spettro divertente è completo, maggiori sono l’effetto buffo e il senso di grandiosità della gag, poiché si potenzia il caos che, come negli antichi riti sacrificali, è indispensabile alla scena comica. Per esempio, la bellezza complessa della battuta di Buddy Hackett “Giocare a golf è più divertente che camminare nudi in un posto strano, ma non di molto” dipende da tale completezza: funziona a livello comico (l’infantile), spiritoso (l’ostile) e umoristico (l’emotivo). E la comicità involontaria? Un fenomeno involontario è divertente solo se ricalca una tattica divertente. È il motivo per cui la natura non è buffa, finché Christo non la impacchetta, o Cattelan non la fissa su un muro con del nastro adesivo.

Gli atti divertenti (comportamentali, visivi, plastici, linguistici, sonori, ecc.) sono traducibili l’uno nell’altro, e negli atti divertenti di altre socioculture (equivalenza pragmatica). Una conseguenza è che, molto più spesso di quanto si immagini, gag apparentemente diverse sono in realtà la stessa gag (isomorfismo). Per esempio, nel film Stardust memories, Woody Allen riceve in regalo un flauto da Charlotte Rampling. Segue questo scambio:

WA: Grazie, è magnifico. E… suonerà il Concerto per flauto di Mozart?

CR: Devi farlo tu.

WA: Oh, io devo farlo… Vuoi dire che lui non…

Nel film Go west!, Buster Keaton s’accosta a una mucca per mungerla; siede su uno sgabello; infila il secchio sotto le mammelle; e aspetta. Ecco: quella battuta di Allen è isomorfa a questa gag di Keaton. È la stessa gag, tradotta in un altro tipo di atto.

Il modello teorico pone una relazione fra atti e contesto poiché da essa dipende la determinazione completa del significato di un’azione, incluso il suo valore simbolico (Bourdieu, 1982).

Comicità e risata. La correlazione fra comicità e risata non è proporzionale, perché l’apprezzamento della comicità dipende da preferenze e percezioni individuali (la memoria, agendo sulla coscienza, modula l’effetto divertente). Così, paradossalmente, una stessa contingenza (socioculturale, ideologica, psicologica) può aumentare la risata o diminuirla. Anche per questo, una battuta sugli ebrei fa ridere se la dice Mel Brooks, ma non se la dice Goebbels (a meno che non siate nazisti: la risata dice innanzitutto chi siete).

Ridere in gruppo è un conforto psicologico e sociale, poiché il comportamento umano si fonda sull’emulazione, e cerca la conformità. La risata può anche suscitare sconcerto, qualora le dinamiche di gruppo ci inducano a ridere di gag che ideologicamente non condividiamo: questo può aiutare a vincere i propri pregiudizi, può rinforzarli, può spingere ad abbracciarne di nuovi; in tutti i casi, viene coinvolta l’identità sociale, che origina dall’appartenenza a un gruppo e alle sue regole, e implica l’esclusione di altri gruppi e di altre regole.

La risata come sintomo di appartenenza/esclusione. Comicità e satira sono fenomeni sociali, come il diritto e il mito: non esistono al di fuori degli individui e delle società che le creano e le vivono (Bleger, 1967). La risata che accoglie l’ingresso di qualcuno in un gruppo è ben diversa da quella che festeggia la sua esclusione.

Le norme sociali non sono leggi: sono ciò che tendiamo a emulare degli altri; sono sia manifeste che implicite; tendono a imporsi, autoreferenziali, sul piano percettivo, affettivo, e cognitivo; e, più sono invisibili, più sono efficaci, in quanto i comportamenti che inducono sembrano così spontanei che non ci interroghiamo sul loro perché. Porsi domande è il peso da cui la norma sociale ci alleggerisce; per questo solo di rado (in coscienze molto critiche, o in casi eccezionali) il comportamento non è frutto di un condizionamento sociale. Stare in gregge è più facile (meno sforzo), più piacevole (asseconda il bisogno di essere accettati), più tranquillizzante (si sopravvaluta il giudizio del gruppo), e più vantaggioso (conformità e obbedienza possono favorire l’incremento di status).

(5. Continua)

Bolsonaro punì i federali per salvare i figli

Appare sempre piu vicino il tracollo e la messa in stato d’accusa del presidente Jair Bolsonaro, dopo che il Tribunale Supremo ha diffuso un audio-video in cui ad aprile lo stesso Bolsonaro, lamentando di non ricevere informazioni adeguate sulle attività degli investigatori, ammette ai suoi ministri: “Non posso sempre restare sorpreso dalle indagini! Accidenti, la Polizia Federale non mi fornisce informazioni, lo stesso fa l’intelligence delle Forze Armate, e pure l’Abin ha i suoi problemi”. Poi prosegue: “Ho cercato di sostituire gli ufficiali della sicurezza a Rio de Janeiro e non ci sono riuscito, è finita. Ma non aspetterò che la mia famiglia o i miei amici restino fregati”. Il presidente prosegue: “Se non puoi cambiare un funzionario delle forze dell’ordine, cambia il capo. Se non riesci con il suo capo, allora punta al ministro”.

Così avvenne, con una differenza: il ministro della Giustizia, Moro, anticipò Bolsonaro e si dimise dopo che il presidente aveva licenziato il capo della polizia federale Mauricio Valeixo, senza spiegazioni. Valeixo aveva lavorato con Moro all’inchiesta Lava Jato che portò alla luce il sistema di corruzione con il coinvolgimento dell’intera classe politica brasiliana. Se Bolsonaro non aveva dato una motivazione a quel siluramento, fu Moro a fornirla, accusando il presidente di volere un nuovo capo della polizia federale che gli avrebbe fornito informazioni sulle indagini che coinvolgono la sua famiglia. I figli del capo di Stato sono sotto inchiesta: Flavio Bolsonaro, senatore, è accusato di riciclaggio di denaro e appropriazione indebita; Carlos Bolsonaro, membro del consiglio comunale di Rio de Janeiro, è sospettato di essere il regista della campagna di disinformazione e delegittimazione verso coloro che criticano il modo di condurre il paese da parte del padre. Bolsonaro ha fornito la sua versione scrivendo sui social che quando parlava di agenti della sicurezza si riferiva a membri della scorta personale e non ad alti funzionari di polizia. “In ciò che ho detto non c’era alcuna indicazione di interferenza nel lavoro della polizia federale”. Di certo la pubblicazione del dialogo ha suscitato grande interesse se è vero che il sito web del Tribunale Supremo non ha retto alle migliaia di accessi. La riunione di gabinetto con Bolsonaro contiene anche altre situazioni compromettenti, con il ministro dell’Ambiente Ricardo Salles che suggerisce di approfittare del coronavirus – dato che la stampa “guarda dall’altra parte” – per semplificare le normative ambientali sull’Amazzonia, e il suo collega dell’Economia, Paolo Guedes, che parla apertamente di vendere il Banco do Brasil. Le reazioni politiche sono veementi. Il senatore del PT Umberto Costa dichiara: “Bolsonaro confessa un crimine: come presidente è finito”.

Una crisi politica che arriva quando il Brasile diventa il terzo Paese al mondo per contagi da Covid-19 con 330.890 infetti e 21.048 morti.

Erdogan, Putin e la replica dello schema Siria in Libia

Le Nazioni Unite hanno lanciato un’indagine sul trasferimento di otto aerei da guerra di fabbricazione russa in Libia destinati al comandante Khalifa Haftar, che in questi giorni sta perdendo terreno in Tripolitania di fronte alla rioffensiva delle forze di Fayez al-Sarraj. Osservando le dinamiche sul territorio, è un dato di fatto che quest’anno la Libia sia divenuta, assieme alla Siria, il teatro di guerra in cui le potenze straniere intendono affermare la propria forza geopolitica. Gli attori esterni principali che si scontrano dietro i due contendenti locali – Fayez al Sarraj premier del governo di Accordo Nazionale, Gna, riconosciuto dall’Onu e l’uomo forte della Cirenaica, il comandante Khalifa Haftar – sono la Russia e la Turchia, paesi contrapposti anche in Siria, ma in buoni rapporti diretti.

Come in Siria, Ankara e il Cremlino si combattono indirettamente allo scopo, da ultimo, di spartirsi il paese. Dopo la fallita “liberazione” di Tripoli lanciata dalle milizie di Haftar 14 mesi fa, la Turchia dall’inizio del 2020 ha deciso di impegnarsi molto di più per difendere il “fratello musulmano Sarraj (Erdogan e Serraj sono esponenti della Fratellanza Musulmana, ndr) inviandogli numerosi addestratori del proprio esercito e decine di miliziani ben pagati tra i quali un agguerrito gruppo di turcomanni della Siria nord occidentale impegnati fino ad allora a combattere contro il regime di Assad. Gli aerei e i droni armati mandati, nel frattempo, ad Haftar dagli Emirati Arabi e le centinaia di mercenari della societá di sicurezza privata russa Wagner arrivati da Mosca per aiutare i suoi combattenti sul terreno, sono riusciti a far prevalere sul campo questi ultimi. Fino a quando il mese scorso la Turchia ha aumentato l’invio di droni armati che hanno permesso alle forze di Sarraj di spezzare la catena dei rifornimenti delle truppe nemiche e riconquistare nel corso degli ultimi dieci giorni basi e cittá lungo la costa occidentale, al confine con la Tunisia. La tensione si è così nuovamente impennata e lo si deduce anche dall’arrivo dei jet russi per tentare di risollevare Haftar. Un funzionario europeo, che ha chiesto l’anonimato, riferendosi alla dichiarazione del ministro degli interni libico, Fathi Bashaga, in cui si afferma che almeno otto aerei russi da combattimento sono volati nella Libia orientale dalla base aerea di Hmeimim in Siria, ha affermato che si tratta “di un numero ben più ingente di velivoli da guerra”.

Secondo il rapporto pubblicato dal Financial Times, gli Emirati Arabi Uniti hanno trasportato fino a 10.000 tonnellate di equipaggiamento militare nei primi 4 mesi di quest’anno per sostenere Haftar. Abu Dhabi, come la Russia, ha negato l’uso dei propri jet militari in Libia. Intanto l’Onu ha anche affermato che le autorità statunitensi stanno indagando su una spedizione a Bengasi (la roccaforte di Haftar in Cirenaica) di circa 11.000 tonnellate di carburante per aerei da caccia dagli Emirati Arabi Uniti avvenuta due mesi fa. Tutto ciò sempre in violazione dell’embargo internazionale vigente sul trasferimento di armi alla Libia. A detta di alcuni esperti militari, le forze di Haftar non hanno però la capacità di far volare gli aerei da guerra inviati da Mosca. L’esercito libico del Gna ha recentemente ottenuto il controllo di Al-Watiya, una base militare di importanza strategica nella Libia occidentale che è stata utilizzata per anni dalle forze di Haftar. La riconquista della base aerea è stata vista da molti analisti come un duro colpo per il comandante golpista a lungo sostenuto in Europa dalla Francia. Un portavoce del ministero degli Esteri turco ha dichiarato: “Ribadiamo ancora una volta che se verranno toccati gli interessi turchi in Libia ciò avrà conseguenze molto gravi e gli elementi putchisti di Haftar saranno considerati un obiettivo legittimo”. Gli attacchi di Haftar contro Tripoli hanno provocato in un anno almeno mille vittime tra i civili. Ieri l’ambasciatore americano in Libia, Richard Norland, ha avuto un colloquio telefonico con il premier al Sarraj, nel quale ha ribadito “l’urgente necessità di porre fine al flusso destabilizzante di equipaggiamenti militari e mercenari russi e stranieri”.