In Svezia non è peggio

In questi giorni i media ci hanno disegnato un’immagine della Svezia molto strana. Si è detto che non ha accettato di fare il lockdown, che era insensibile agli esempi del mondo intero nel quale i governi hanno assunto poteri speciali per gestire la pandemia. Che, conseguentemente, gli svedesi stessero contando migliaia di morti. Non è così. Semplicemente la Svezia ha scelto di trattare i propri cittadini da persone adulte e responsabili. Non ha imposto, ma consigliato. L’ha detto in conferenza stampa il capo del Programma di emergenze sanitarie dell’Oms, Mike Ryan: “La Svezia ha messo in atto misure di salute pubblica molto forti. Quello che hanno fatto di diverso è che si sono basati su un rapporto di fiducia con la cittadinanza”. Anziché ricorrere a decreti, hanno puntato sulle pratiche igieniche, sul distanziamento sociale responsabile. Hanno protetto gli anziani in residenze di assistenza, malgrado non li abbiano privati delle visite dei familiari. Il risultato a oggi sono 32.172 casi e 3.871 decessi (12,03%), metà di questi nelle residenze per anziani.
In Italia abbiamo avuto ufficialmente 229.317 casi e 32.735 decessi (14.29%). Per due mesi le terapie intensive sono state intasate, in Svezia hanno mantenuto sempre il 20% di letti liberi. In quasi tutto il mondo, la popolazione comincia ad avere problemi psicologici importanti, oltre che di salute, visto che le patologie non Covid sono state ignorate.
Non parliamo dell’economia. Non possiamo dire quale modello di risposta alla pandemia sarà vincente. A oggi, stando ai numeri e alla qualità della vita, non possiamo dire che la Svezia stia peggio.

Fondo Ue, Austria & C. fanno il lavoro sporco

Ieri era il giorno, atteso, del poliziotto cattivo nel balletto in corso attorno alla risposta europea alla peggiore recessione mai avvenuta in tempo di pace. La Commissione Ue, com’è noto, la prossima settimana dovrà avanzare ai governi nazionali riuniti nel Consiglio europeo la sua proposta sul Recovery Fund: dopo quella già al ribasso di Francia e Germania, i poliziotti (quasi) buoni, arriva dunque il “non paper” dei cosiddetti “Paesi frugali”, Austria, Danimarca, Paesi Bassi e Svezia che – in buona sostanza – è che la Ue non faccia nulla.

Per gli amanti dei particolari il “non paper” dei nordici sostiene che la reazione alla crisi debba risolversi in prestiti “a condizioni favorevoli”, bontà loro, della durata di due anni, vincolati a obiettivi Ue e su cui dovrebbero vigilare “la Corte dei conti europea, l’Ufficio Ue anti-frode e la Procura europea”. In cambio i felici percettori dei prestiti si impegnano a fare le riforme (austerità) sotto il controllo di Bruxelles. Per tutto il resto ci sono l’ex fondo Salva-Stati, il famigerato Mes, il programma “Sure” contro la disoccupazione e quello della Banca europea degli investimenti per le imprese: una massa di manovra molto teorica da 500 miliardi, tutti sotto forma di prestiti (e per il Mes con possibili “condizioni” a posteriori) e solo dopo che i singoli Paesi avranno fornito garanzie in denaro pro-quota. Quanto al budget Ue – attualmente all’1% del Pil europeo – che Merkel e Macron vorrebbero temporaneamente raddoppiare, “le nostre idee non cambiano”: cioè resta all’1% del Pil e loro quattro vogliono pure che sia confermato lo sconto sui contributi che versano.

In sostanza, la proposta dei “frugali” è un insulto, ma nessuno – neanche loro – pensa che sia realistica: è solo un mezzo di pressione sulla Commissione di Ursula von der Leyen e sugli altri Paesi europei in vista della trattativa che si apre questa settimana.

Per capire dove si va a parare sarà meglio un breve riepilogo delle posizioni. All’inizio c’era la proposta di un Fondo per la ripresa da 1.500 miliardi avanzata dai Paesi periferici (Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, etc.) appoggiata dalla Francia e informalmente dalla Bce a guida francese: l’idea è che un’azione comune dell’Ue in termini di sussidi e non prestiti consenta agli Stati più colpiti di non vedere la propria finanza pubblica uscire dai binari col rischio di finire in procedura di infrazione appena il Patto di Stabilità, oggi sospeso, tornerà a vivere.

La Germania, esattamente come i suoi satelliti che oggi fanno il poliziotto cattivo, ritiene che la reazione corretta sia “prestiti in cambio di riforme”: sfortunamente, però, gli acquisti massicci della Bce hanno protetto i Paesi deboli, che uno dopo l’altro hanno rifiutato il ricorso al Mes. Berlino, a quel punto, ha trovato un generico compromesso con la Francia su un Recovery Fund da 500 miliardi che, attraverso un’emissione di debito comune, erogherà sussidi a zone e settori più colpiti (ma i dettagli non ci sono) in cambio di riforme e basso deficit: quel debito andrà ripagato pro-quota da tutti secondo il loro peso economico in un arco di tempo medio-lungo (anche qui i dettagli non ci sono).

Angela Merkel, così, spera di disinnescare la mina aperta dalla sentenza della Corte costituzionale tedesca sugli acquisti della Bce, giudicati sproporzionati e in aperta violazione dei Trattati Ue. Tradotto: c’è il Fondo europeo, la Bce torni a cuccia. E qui arrivano i “frugali”: il loro obiettivo è ridurre la portata della proposta franco-tedesca sui sussidi fino a dimezzarla o giù di lì. L’Italia, ovviamente, ha già respinto ufficialmente la proposta: la partita vera si gioca a partire da mercoledì.

Lo stallo su Aspi agita i giallorosa: “Ora si decida”

Ad agosto saranno passati due anni dacché il Ponte Morandi crollò a terra uccidendo 43 persone e ferendo un’intera città: nel frattempo il ponte è stato quasi ricostruito, ma i due governi (con lo stesso premier) in carica da quel giorno non sono riusciti a decidere cosa fare della concessione di Autostrade per l’Italia, la società controllata dalla holding Atlantia (a sua volta controllata dalla famiglia Benetton), che aveva in gestione quel ponte e doveva – al minimo – evitare che cadesse.

Venerdì sera un cda straordinario di Atlantia è, nel classico stile della casa, tornato a minacciare il governo: se non ci viene concessa la garanzia pubblica richiesta su due miliardi di prestiti (1,2 per Autostrade) bloccheremo gli investimenti e faremo causa allo Stato. Si tratta, dicono, di una reazione alle parole del sottosegretario grillino allo Sviluppo, Stefano Buffagni, secondo cui il Tesoro dovrebbe negare ad Atlantia la garanzia: in realtà ha più a che fare col fatto che la società dei Benetton ha tempo fino al 30 giugno per far causa allo Stato per la modifica contrattuale contenuta nel dl Milleproroghe (e cioè l’eliminazione dello scandaloso indennizzo miliardario da corrispondere ad Aspi anche in caso di revoca della concessione per colpa grave).

Ieri, però, la maionese giallorosa è impazzita. I 5 Stelle, silenti da mesi, si sono rimessi a chiedere la revoca immediata della concessione, una scelta che non è più sul tavolo da mesi. Giancarlo Cancelleri, viceministro grillino alle Infrastrutture e cioè al ministero competente sulla vicenda, ha attaccato Autostrade, ma soprattutto la sua ministra, cioè Paola De Micheli del Pd, con cui è in lite per il futuro “sblocca-cantieri”: “Sulle garanzie pubbliche i Benetton ricattano il governo. Mi rivolgo alle altre forze di maggioranza: stiamo perdendo tempo, revochiamogli le concessioni, non è gente seria”, ha scritto su Facebook proponendo di “commissariare” Aspi. Quanto a De Micheli, “ha questo dossier dove ha fatto una sorta di trattativa con Autostrade e che non conosce nessuno: né il M5S, né altre forze di governo, né Conte. Ebbene lo tiri fuori”.

La cosa, ovviamente, ha irritato la ministra e il suo partito: “Le liti in maggioranza sono da evitare, c’è il rischio che la corda si spezzi”, è la replica di un altro sottosegretario alle Infrastrutture, Salvatore Margiotta del Pd. In realtà, il dossier non è affatto segreto e De Micheli, fuori dalla grazia di dio per l’irrispettoso “ultimatum di Atlantia”, l’ha consegnato al premier una decina di giorni fa. In quel testo le responsabilità di Autostrade nel crollo del Morandi emergono chiaramente e le vie d’uscita prospettate sono due: la revoca della concessione o l’estromissione degli azionisti di Aspi.

La prima opzione, però, è sparita dal tavolo da mesi: rischiosa a livello legale ed economico, visto che si tratta di far fallire una società molto esposta sui mercati. Meglio che i Benetton escano: il problema – come ha dimostrato l’ultima, ridicola proposta della famiglia veneta (il 5 marzo) – è che Luciano & C. non vogliono perdere neanche un euro. Sono disponibili a farsi da parte solo a prezzo pieno. “Comunque la si pensi, dopo due anni bisogna decidere”, dice ancora Margiotta. E questa è rivolta a Conte, che viene descritto fuori dalla grazia di dio per l’uscita di Atlantia: a Palazzo Chigi si sono convinti che una scelta sarà fatta la prossima settimana.

Quanto alle garanzie pubbliche, lasciamo spiegare la situazione al vicesegretario Pd Andrea Orlando: “Sarebbe meglio evitare ultimatum e ricatti. Il decreto prevede che ci sia una trattativa su prestiti di questo livello e bisogna tenere conto di due cose che vanno risolte come pre-condizione: Autostrade gestisce una concessione e quindi serve il rispetto delle tariffe; quest’azienda ha un contenzioso con lo Stato”.

Il problema è che non si sa su quali basi proceda la trattativa, già ben avviata, tra il Tesoro e Atlantia: il paradosso è che lo Stato potrebbe garantire prestiti di un’azienda che, in caso di revoca, fallirebbe. Solo l’ennesimo cortocircuito grottesco di questa vicenda. Qualcuno sa cosa sta facendo il ministero di Gualtieri? Non pare, comunque De Micheli ci tiene a far sapere che “il ministero delle Infrastrutture non è coinvolto”.

“I piccoli devono essere trattati come la Fca. Non li lascino a metà tra fallimento e mafie”

“Le banche possono e devono fare di più. Solo negli ultimi giorni la macchina dei prestiti garantiti sta funzionando meglio grazie all’attività di controllo e di monitoraggio che gestiamo insieme all’help desk della Banca d’Italia. Ma ora patti chiari: il piccolo imprenditore deve avere gli stessi diritti del grande gruppo industriale”. Carla Ruocco, la deputata M5S che presiede la Commissione d’inchiesta sul sistema bancario, conferma che dalla potenza di fuoco annunciata all’effettiva erogazione ce ne passa: “I problemi e le inadempienze delle banche sono stati segnalati, ora confidiamo nella loro collaborazione”.

Tutto è perdonato? Ai tempi della prima commissione banche, istituita dopo il salvataggio delle banchette fallite, è stata la portavoce della rabbia dei risparmiatori.

Assolutamente no. Dopo le prime audizioni sulla liquidità alle imprese e alla famiglie è stato subito chiaro che c’è qualcosa che non va e lo abbiamo denunciato. È stato creato un danno economico agli imprenditori più vulnerabili che, a forza di aspettare i soldi, sono diventate facili prede adescabili dal racket. Alcune banche stanno interpretando meglio di altre il rapporto con il cliente, comprendendone l’urgenza delle richieste e molte situazioni sono state sanate.

E per le altre?

Abbiamo cambiato il decreto Liquidità estendendo da 6 a 10 anni il tempo della restituzione dei prestiti per professionisti e Pmi, che salgono da 25mila a 30mila euro, con copertura del 100% offerta dal Fondo centrale.

Più soldi e più tempo, ma come si fa con i paletti che le banche mettono per ritardare le erogazioni?

Le banche stanno collaborando più attivamente. Non potevano pensare che essendo enti privati non dovessero seguire le indicazioni previste dal decreto che ha un chiaro scopo: fornire nel più breve tempo possibile liquidità attraverso una procedura de-burocratizzata.

Troppa rapidità che ha spinto gli istituti di credito a richiedere uno scudo penale.

Io non sono favorevole. Capisco che è una situazione difficile, ma sono stati quasi azzerati gli adempimenti imposti per la valutazione del merito di accesso al credito perché c’è la copertura statale. È inaccettabile mettere in discussione le richieste presentate dai piccoli imprenditori che si ritrovati ricattati, pena l’erogazione del prestito, se non avessero presentato documenti non necessari.

Per le banche prevale la logica del profitto, non quella sociale.

E no. Sono istituti di diritto privato ai quali lo Stato è andato già più volte in soccorso, sostenendoli. Continueranno sempre ad essere tutelati anche nella cornice europea. Ora gli è stato chiesto un aiuto del tutto garantito.

Il caso Fca dimostra che l’aiuto è diretto sempre ai soliti noti.

La strategia industriale è chiara: bisogna far arrivare liquidità a tutti, senza distinzioni. Non c’è nessun kamikaze che vuole buttare all’aria il settore dell’automotive, ma si deve vedere perché questa celerità riservata a Fca, gruppo che tra l’altro ha la sede legale nei Paesi Bassi e quella fiscale a Londra, non è stata riservata anche agli altri. Presto Sace verrà riascoltata in commissione: almeno per noi il grande gruppo va messo sullo stesso piano di tutti gli altri imprenditori.

Le banche si tengono i soldi: sì a un prestito garantito su 4

Altro che significativa accelerazione annunciata dal sistema bancario. Nella rincorsa ai prestiti garantiti dallo Stato fino a 25mila euro, ora c’è la certificazione che metà dei piccoli imprenditori che ne hanno fatto richiesta sono ancora a mani vuote. E va peggio a quelli fino a 800mila: li hanno ricevuto solo 1 su 4.

Ad attestarlo sono le stesse banche, costrette a rispondere al questionario che gli ha inviato 10 giorni fa la Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema finanziario presieduta da Carla Ruocco (M5S). Questa volta i 148 gruppi bancari coinvolti (Bnl e Banca Generali non hanno risposto) non si sono potuti nascondere dietro cavilli o promesse: ritardano l’applicazione di una misura in vigore da un mese a sostegno del rilancio dell’economia.

Così, a fronte di 544.411 domande presentate dagli imprenditori per ottenere prestiti fino a 25 mila euro, solo il 52,8% (cioè 287.590) sono state accolte ed erogate. Intesa San Paolo, a cui Fca ha richiesto un prestito da 6,3 miliardi di euro, si ferma addirittura a un terzo delle richieste.

Ma al 22 maggio il presidente dell’Associazione bancaria (Abi) Antonio Patuelli ha spiegato che “l’80% delle domande pervenute alle banche è stato accolto, il 19% è in corso di esame e solamente l’1% è stato rigettato”. Più di qualcosa non ha funzionato nel sistema messo in campo per far arrivare liquidità immediata alle Pmi grazie alla garanzia al 100% dello Stato. Tanto più che almeno per questi piccoli prestiti (ora elevati a 30.000 mila con l’estensione da 6 a 10 anni del tempo della restituzione) avrebbe dovuto essere tutto facile e veloce: presentare solo una domanda e l’autocertificazione alla filiale per avere in massimo tre giorni la liquidità necessaria già a partire dal 14 aprile. Una procedura che non deve passare neanche per il Fondo di garanzia per le Pmi gestito dal Mediocredito Centrale. Eppure, chi entra in filiale per richiedere i 25mila euro, deve presentare una mole inaudita di documenti, mentre i due più importanti gruppi bancari (Intesa e Unicredit) hanno anche “consigliato” ai clienti nei primi giorni di usare i soldi del prestito per chiudere i fidi e mettersi al riparo da possibili insolvenze. Richiesta subito censurata da Abi e Bankitalia, tanto che ora nessuna banca ne parla più. Resta però sicuro il rifiuto del prestito per chi non è già correntista.

A tenere banco sul fronte dei prestiti garantiti resta il nodo dei tempi di erogazione, che in media superano i 7 giorni per i pochi che li ricevono. “C’è uno scaricabarile indegno fra politica e finanza, in mezzo al quale finiscono stritolati i bancari, oggetto di un centinaio di episodi di violenza”, denuncia il segretario della Fabi, Lando Sileoni.

Se, invece, si analizzano i dati sui prestiti fino a 800mila euro, gestiti sempre dal Fondo centrale di garanzia, la situazione si fa ancora più buia: su 47.600 domande presentate, ne sono state accolte/erogate 11.663, vale a dire il 24,5% con tempi di erogazione che per alcuni istituti variano tra 10 e 25 giorni “in ragione della loro complessità”, sostengono le banche. Pure questa procedura è tecnicamente sburocratizzata, ma renderla complicata restano le non necessarie e troppo lunghe istruttorie delle banche che, dalla prossima settimana, diventeranno vietate per legge con l’introduzione obbligatoria dell’autocertificazione delle imprese. Anche sul tema dei costi sostenuti dagli imprenditori che richiedono i prestiti, le risposte sono diversificate: i tassi d’interesse vanno dallo 0,92% di Unicredit all’1,09% di Intesa. Paletti assurdi e lentezze sono un favore che il mondo del credito fa alle mafie alla ricerca di buoni affari.

Dal “mettetevi una mano sul cuore” al “fate presto, fate di più” anche il premier Giuseppe Conte nelle scorse settimane ha chiesto al sistema bancario di rendere più snelle le procedure, ma l’esortazione fatica a concretizzarsi. Al 22 maggio, le domande di nuova liquidità arrivate al Fondo di garanzia sono 357.690 mila per un ammontare di 16 miliardi, di cui 322.997 relative ai mini-prestiti (6,7 miliardi). Numeri in crescita rispetto alle prime settimane, ma esigui rispetto alla platea potenziale (oltre 4 milioni di imprese).

Non c’è lucenemmeno per i prestiti miliardari gestiti da Sace (quelli chiesti da Fca e Atlantia): ad oggi ne sono stati concessi solo 17 per la miseria di 152 milioni di euro. E anche la moratoria sulle rate dei mutui della prima casa si è trasformata in una doglianza da parte delle famiglie che si sono viste rimandare o respingere la richiesta nella metà dei casi: su 114mila domande, ne sono state accolte 63mila. Nella maggioranza dei casi, si sono lamentate per la mancata sospensione del mutuo e in particolare per l’addebito della rata successiva alla richiesta.

Venezia, la frittata dell’Ovetto mai usato e costato 2 milioni

L’ovetto dove lo metto? Resta infatti solo quest’ultima questione da risolvere: Venezia deve esibire in un museo la sua vergogna o farla seppellire in qualche cimitero? Alle 14:30 di tre giorni fa è stato infatti rimosso il figlio brutto dell’opera più inguaiata che l’Italia repubblicana ricordi: il ponte della Costituzione, più noto come ponte Calatrava. Un dorsale di spigola in acciaio che nelle intenzioni avrebbe dovuto collegare sul Canal Grande il piazzale Roma con la stazione ferroviaria. Nella tragica sequenza degli errori di progettazione l’ultimo, quello dell’ovetto, ha le sembianze di una fenomenale burla.

 

Cemento, progetti e un assessore imprigionato

Sette anni fa i veneziani si accorsero che il ponte era una stramaledetta gradinata di vetro e acciaio. Gli abili, durante le giornate di pioggia, rischiavano l’anca. I disabili niente, perché a loro era inaccessibile. E allora, mumble mumble, il Comune, che non voleva neanche più sentir parlare di Calatrava dopo che il ponte era costato circa il doppio, (da 6,7 milioni di euro a undici) triplicando i tempi di esecuzione (da un anno e mezzo a sei), si affidò a tecnici di fiducia ponendo la domanda. I disabili come lo attraversano? Risposta: con l’ovovia! Un ovetto, di quelli in transito sulla val di Fiemme, quelli cari agli sciatori, avrebbe collegato una sponda all’altra su un binario di acciaio. I disabili avrebbero utilizzato l’ovetto e gli abili i gradini di vetro. L’ovovia costava solo altri 2 milioni di euro.

Già era successo dieci anni prima che l’impresa esecutrice del ponte, rifacendo i conti, aveva notato che il cemento stimato per le fondamenta fosse la metà di quello necessario (cinquemila metri cubi invece che diecimila), e pure il ferro per fare la struttura in acciaio a spina di pesce fosse gracile. E infatti pure l’acciaio fu raddoppiato.

Così anche l’ovetto fu progettato per umani in formato mignon, pur di tenerlo nelle dimensioni giuste. E quando sette anni fa andarono a provarlo capirono invece che l’uovo friggeva. I disabili con qualche chilo in più non riuscivano nemmeno a entrarci. E gli snelli d’estate cuocevano per il caldo. Successe anche che un assessore rimanesse incastrato dentro nei giorni dell’inaugurazione.

 

Scivoloni, cavilli, deroghe e danno erariale

Cosicché l’ovetto faceva solo ridere o anche piangere. Stava lì fermo, immobile. Nessuno si avventurava a montarci su.

Quando il ponte iniziò a traballare, e i primi veneziani caddero col culo a terra per via degli scalini vetrati, ci si rese conto che anche l’ovovia faceva ribrezzo. Un bel monumento allo spreco. Il sindaco Brugnaro, appena eletto, decise che era da rimuovere.

Ma si può rimuovere un’opera costata 2 milioni di euro senza procurare danno erariale? E allora, nella meravigliosa liturgia dei cavilli e delle deroghe, il comune ha dovuto provare alla Corte dei conti che l’opera fosse totalmente, completamente inutile. Mai vista una roba più inutile di quella. Mai una più orribile, mai uno spreco più documentato.

 

L’ultimo dilemma: al museo o in discarica?

I magistrati contabili si sono riuniti e infine hanno dato l’ok: l’ovetto può essere rimosso.

Quando l’altro giorno la gru l’ha portato via, anche il procuratore ha esultato: “Visto come la magistratura può essere collaborativa?”.

Ora resta solo da capire cosa farne dell’ovetto. Se appunto mostrarlo, come monumento speciale allo spreco, e quindi depositarlo in un museo facendo osservare da vicino cosa l’uomo può inventare se si ingegna. Oppure nasconderlo in qualche discarica, o anche farlo trasportare in fonderia e cremarlo, cospargendo le sue ceneri nel Canal Grande.

Resta il ponte però. Che solo di manutenzione costa quasi 170 mila euro all’anno. È sempre incerottato, monitorato, analizzato. Perché non ne vuole sapere di stare fermo.

Si elettrizza, un po’ si scuote. E tossisce sempre.

La sera in cui Licio Gelli minacciò lo Stato

Gli artigli di Licio Gelli. Sfoderati per minacciare lo Stato. In relazione alla più grave delle stragi italiane, quella di Bologna. È quanto emerge da un documento riservatissimo, agli atti dell’inchiesta della Procura generale di Bologna che ritiene Gelli mandante e finanziatore della strage.

È una nota datata 15 ottobre 1987, firmata dall’allora capo della polizia Vincenzo Parisi e indirizzata al ministro dell’Interno, Amintore Fanfani. Parisi riporta quanto successo la sera prima: il 14 ottobre, si era presentato nell’ufficio di Umberto Pierantoni, direttore centrale della polizia di prevenzione, l’avvocato di Gelli, Fabio Dean. A dire del suo assistito: “Se la vicenda viene esasperata e lo costringono necessariamente a tirare fuori gli artigli, allora quei pochi che ha, li tirerà fuori tutti”. È un annuncio, una previsione, una minaccia. Gelli si era consegnato in Svizzera, da cui sarà estradato in Italia dove era imputato per la bancarotta del Banco Ambrosiano e per la strage di Bologna. L’avvocato Dean esibisce gli artigli di Gelli non in riferimento all’Ambrosiano, ma proprio a Bologna: stigmatizza infatti il “sistema persecutorio” nei confronti del Venerabile e definisce “tragicamente ridicola” l’imputazione per la strage. Dice che l’ufficio in cui si trovava, nel cuore del Viminale, poteva “fare molto” per “ridimensionare il tutto”, tenuto conto che Gelli desiderava soltanto “morire nella sua terra e nella sua villa”: malato, puntava agli arresti domiciliari. Vivrà sereno e riverito per altri 28 anni, fino al 15 dicembre 2015. “Al termine”, si legge nella nota, “l’avvocato Dean ha espressamente chiesto che le considerazioni, di cui sopra, fossero rappresentate nella giusta sede, soggiungendo poi che tra i documenti sequestrati a Gelli nel 1982 vi sono degli appunti con notizie riservate, che spetterà, poi, a Gelli avallare o meno, sulla base di come gli verranno poste le domande stesse”. Tra le carte sequestrate nel 1982 c’è il “Documento Bologna”, che racconta del conto svizzero numero 525779XS aperto da Gelli presso la Ubs di Ginevra e dei milioni di dollari usciti da quel deposito proprio tra il luglio 1980 e il febbraio 1981, i mesi della strage e dei depistaggi. Gli artigli di Gelli ottennero un risultato? Certo è che una parte del “Documento Bologna” non fu allegata al verbale d’interrogatorio, sette mesi dopo, quando il 2 maggio 1988 il Venerabile fu interrogato sull’Ambrosiano.

La Procura generale di Bologna ha sentito, a giugno 2018, Pierantoni, sulle “prospettazioni minacciose” dell’avvocato Dean. Pierantoni ha risposto di aver fatto soltanto da “registratore” per Parisi: “Io dovevo solo riceverlo, su delega del capo della Polizia per cui ho raccolto le dichiarazioni di Dean”. Come spiega la frase “il suo ufficio può fare molto”? Risposta: “L’avvocato Dean evidentemente voleva ‘ingraziarsi’ il mio ufficio, ritenendo che l’ufficio stesso fosse in grado di poter fare qualcosa nell’interesse del suo cliente. Era evidentemente una sua idea”.

Chissà se davvero poteva fare qualcosa e se qualcosa ha fatto. C’è stata un’interlocuzione con Dean e un confronto con il capo della Polizia? “Non ricordo se vi sia stata interlocuzione”, risponde Pierantoni, “a me non interessava e non interessava nemmeno al mio ufficio. Si trattava di ‘politica sporca’. Non ricordo se commentammo questa visita con il capo della polizia”. Politica sporca? “Ho usato questo termine perché Gelli era il capo della P2, nota associazione a delinquere”. Apparati dello Stato, volonterosi funzionari di logge segrete, stragisti: la filiera che l’ultima indagine sulla bomba di Bologna sta cercando di chiarire.

Prescrizione causa Covid. Pestaggio senza colpevoli

“Tutto questo è assurdo, ora ho una sfiducia totale nella giustizia e il messaggio che passa è che chiunque possa andare in un locale, picchiare chi vuole e poi non succedergli nulla: è incredibile”.

Elia Bosi, 30 anni, risponde al telefono da Berlino dove si è trasferito nel 2018 per lavorare come sviluppatore informatico: è infuriato con la giustizia italiana che dopo sette anni non è riuscita nemmeno ad arrivare a una sentenza di primo grado sul pestaggio che ha subito l’8 marzo 2013 provocandogli un trauma cranico e una prognosi di 15 giorni. E dopo il danno, anche la beffa: causa covid-19 le ultime udienze del processo sono state rinviate di un anno, al luglio 2021, quando il giudice potrà solo pronunciare queste parole: “Reato estinto per intervenuta prescrizione”.

Tutto inizia l’8 marzo 2013, quando in un famoso locale del centro di Perugia, Elia si trova con il suo migliore amico e due ragazze per passare una serata in compagnia: “Sono subito entrato per prendere un drink al bancone – ricorda oggi Elia, che all’epoca aveva 23 anni – poi mi sono girato e c’erano quattro ragazzi che hanno iniziato ad accusarmi di avere rovesciato il bicchiere addosso a uno di loro, ma non era assolutamente vero”. Un piccolo screzio, poi tutto sembra risolto con un “cinque”. “Pensavo che fosse tutto finito lì ma dopo un po’ i quattro ragazzi tornano da me con altri rinforzi e iniziano a spintonarmi – continua Elia – il buttafuori, che solo in seguito ho scoperto essere un loro amico, li allontana dal locale ma poi torna dentro e mi prende per un braccio. Mentre mi teneva, mi ricordo che mi diceva: ‘ora chiariamo la situazione’. Mi ha trascinato fuori, in mezzo al gruppo che ce l’aveva con me”.

A quel punto Elia, raggiunto dal suo migliore amico, si trova in una situazione pericolosa: “Eravamo due contro dieci: abbiamo avuto paura e potevamo solo chiedere scusa” ricorda oggi. Ma niente da fare, il gruppo inizia a picchiarlo: prima gli spintoni, poi calci e pugni. Elia esce dal pestaggio con la testa rotta e sul posto arriva l’ambulanza che lo trasporterà all’ospedale di Perugia. Il giorno dopo torna a casa ma dopo un forte mal di testa avverte problemi di equilibrio e deve tornare all’ospedale di Foligno: i medici accertano un trauma cranico, colpi alla cervicale, al ginocchio e al piede destro per un totale di 15 giorni di prognosi. Per i successivi trenta giorni il ragazzo dovrà portare anche un tutore e usare le stampelle. Ed è proprio dall’ospedale che parte d’ufficio la denuncia, poi replicata ai carabinieri di Bevagna dallo stesso Elia, che ha riconosciuto solo tre ragazzi che lo hanno picchiato, più il buttafuori.

Partono le indagini della Procura di Perugia, che durano più di due anni, fino all’atto di citazione in giudizio con l’accusa di lesioni personali in concorso per i tre ragazzi, e di violenza privata e omissione di soccorso per il buttafuori. La prima udienza del processo davanti al giudice monocratico di Perugia si tiene il 21 aprile 2016: dopo quattro anni sono stati sentiti sei testimoni della parte civile più uno del buttafuori e per il 22 maggio era stata fissata un’udienza per i “testi” dei tre ragazzi.

Niente da fare, per l’emergenza covid-19 il Tribunale di Perugia è interdetto ai testimoni e quindi il giudice decide di rinviare una delle ultime udienze a luglio 2021. Ma nel frattempo la tagliola della prescrizione scatterà a settembre, per cui tra un anno il giudice non potrà far altro che dichiarare l’estinzione del reato. “Mi viene da piangere – dice l’avvocato di Bosi, Carla Magrini, del foro di Spoleto – non è possibile che un ragazzo che si è rivolto con fiducia alla giustizia, veda svanire tutto a causa della prescrizione”. Elia conferma: “Dopo quello che ho passato, se penso che non avrò mai giustizia mi viene un nervoso…”.

Lo shopping di Egitto e Turkmenistan: elicotteri, caccia e armi

Il Turkmenistan, dove sta il Turkmenistan? Pochi lo sanno davvero, e ancora meno probabilmente ne conoscono la Capitale, Ashgabat. Chi però lo sa, senz’altro, sono gli uomini di Leonardo, la multinazionale degli armamenti che ha preso il posto di Finmeccanica e che nel 2019 ha venduto ai turcomanni 6 modernissimi aerei da combattimento M346. Facendo balzare il Paese asiatico, governato da una dittatura, al secondo posto dell’esclusiva classifica dei clienti di armi italiane con 446,1 milioni di euro su un totale del settore tricolore di 5,17 miliardi nel 2019. Nel 2018 il suo conto era a zero. Primo invece, con quasi il doppio di cifra d’affari, è l’Egitto del generale Al Sisi: 881 milioni in gran parte spesi per l’acquisto di 32 elicotteri, 24 AW149 e 8 AW189. Anche questa una commessa targata Leonardo. Gli AW149 sono destinati alla Marina egiziana che ha in corso un importante programma di potenziamento, soprattutto in funzione del controllo degli estesi giacimenti di gas recentemente scoperti nella sua piattaforma continentale. E il Cairo attende la consegna di una coppia di fregate Fremm di Fincantieri, inizialmente fabbricate per la Marina italiana e per tale motivo ancora bloccate dai militari. Le Fremm potrebbero attivare altri e più sostanziosi accordi sulle armi a scapito dei sempre guardinghi francesi, ma l’Egitto resta, per la pubblica opinione italiana, lo Stato che non collabora con le autorità giudiziarie di Roma sull’uccisione del ricercatore Giulio Regeni e che, di recente, ha arrestato Zaki, lo studente che rientrava a casa da un viaggio di studio a Bologna.

I dati sulle vendite si ricavano in gran parte dalla relazione annuale – imposta dalla legge 185/90 – sul commercio delle armi che il governo presenta al Parlamento. Nel documento di quest’anno, Egitto e Turkmenistan hanno spodestato dai primi posti dei compratori emiri e sceicchi del Golfo. E lo hanno fatto con il botto. L’acquisto degli M346 era stato smentito più volte da Leonardo. L’aereo è uno dei più moderni sistemi d’arma prodotti dall’industria italiana. I 6 aerei per il Turkmenistan (4 della versione FA da combattimento e 2 della versione da addestramento, per un totale di 293,1 milioni di euro) non sono mezzi particolarmente sofisticati, tuttavia abbastanza efficaci da essere stati acquistati persino da Israele. Ma da nessuna parte della pur voluminosa relazione (sono oltre 1.800 pagine in due tomi) appare la notizia che il Paese asiatico, noto per il suo regime repressivo e per essere quasi agli ultimi posti nelle classifiche della libertà di stampa e ai primi della corruzione, sia il committente dei caccia Leonardo. L’informazione la abbiamo potuta ricostruire soltanto con un complesso intreccio di dati sparsi tra transazioni bancarie, contratti e altro.

Dalla relazione 2020 apprendiamo pure che Arabia Saudita con 105,4 milioni ed Emirati Arabi Uniti con 89,9 milioni arretrano dai primissimi posti rispettivamente all’11º e 12º. I ritmi di acquisto dei due Stati sono rallentati dopo che negli anni scorsi avevano fatto il pieno di bombe della sarda RWM (ma di proprietà della tedesca Rheinmetall) e fatte cadere a centinaia sulle teste degli yemeniti. Al contrario aumentano gli acquisti dell’Algeria: 172 milioni per navi cacciamine. Queste sono informazioni poco più che aneddotiche perché la relazione è sempre più nebulosa. Per colpa di un’operazione sistematica di smantellamento della legge 185. Dalla relazione si apprendono altri andamenti del settore, alcuni curiosi, altri preoccupanti. Scopriamo così anche l’attivismo sul mercato degli armamenti dell’Agenzia Industrie Difesa (Aid), una società del ministero della Difesa che commercializza i surplus delle forze armate e i prodotti degli stabilimenti industriali delle stesse.

Nel 2019 all’Aid sono state intestate 4 licenze per complessivi 4.675.530 euro. In maggioranza per materiali dismessi dalle Forze armate italiane. Si tratta di 26 elicotteri HH-3F Pelican e complessivamente 230 mezzi definiti “carri armati”, in realtà veicoli cingolati M-113. Gli elicotteri sono stati venduti, assieme a moltissime parti di ricambio alla società statunitense Clayton. Difficile sapere chi sia e cosa faccia veramente questa azienda. Probabile che usi gli elicotteri per venderli a pezzi come ricambi. Ma i Pelican sono elicotteri militari.

Così come è certo che finiranno lungo i rivoli e rivoletti del mercato parallelo delle armi i 230 veicoli cingolati M-113, venduti alla società belga Fts per un pugno di euro, appena 1,15 milioni di euro. La stessa azienda belga ha comperato dei cingolati antiaerei Sidam del- l’Esercito per 668mila euro. Questa vendita non risulta dalla relazione governativa. Come non risulta la vendita per 4 milioni di euro alla società svizzera Ruag di 100 carri armati Leopard 1-A5, più ricambi, prelevati dai depositi dell’Esercito di Lenta, in provincia di Vercelli. Anche la Ruag propone mezzi militari “ricondizionati”. Il dilemma: a chi? Usciti dal territorio italiano, in che mani andranno i Pelican, gli M-113, i Leopard? Non potendo più controllare la destinazione finale di un’arma non si può sapere chi saranno gli utilizzatori degli armamenti. E la legge 185 non esiste più. Torniamo a Finché c’è guerra c’è speranza. Ma senza la satira.

Scuola: Concorso o no? La lite nella maggioranza

La storia è di vecchia data: da un lato sindacati, parte del Pd e LeU che vogliono l’assunzione dei precari della scuola con tre anni di servizio per soli titoli, dall’altro il ministero dell’Istruzione che vuole che arrivino in classe con regolare concorso. È vecchia, ma ritorna, con la scusa dell’emergenza. Il decreto che prevede la gara è in discussione in commissione al Senato, si cerca una soluzione anche con la mediazione del premier Conte (e dopo diversi incontri inconcludenti) per evitare il rischio che LeU e Pd votino con la Lega. È già stata respinta la proposta di un concorso ad anno scolastico iniziato (con i precari in cattedra) se dovessero aumentare i contagi.

 

A favore

“Meglio la prova con ‘le crocette’ che una sanatoria”

Alessandro Fusacchia, ex capo di gabinetto del ministero dell’Istruzione con Stefania Giannini dal 2014 al 2016, oggi deputato (eletto con +Europa), continua a occuparsi di scuola in commissione Cultura ed è decisamente contrario alla cosiddetta “sanatoria”.

Tanto per cambiare si litiga sulle assunzioni della scuola.

Ci sono ragioni storiche profonde: stratificazioni di gruppi diversi di precariato, rivendicazioni di ogni tipo. Colpa dei tagli all’istruzione, perché tutto dipende dall’abuso di supplenze che lo Stato ha fatto nel corso degli anni. E poi la scuola è un bacino di voti importante, a cui i partiti finiscono per ammiccare.

La ministra Azzolina insiste sulla prova selettiva, il Pd vuole cancellarla. Lei da che parte sta?

Non avrei mai pensato di sentirmi più vicino a una ministra dei 5 Stelle che a tanti colleghi del Pd… D’altra parte il Partito Democratico è tante cose diverse insieme.

Pure i sindacati sono sul piede di guerra.

Ha mai visto genitori e ragazzi protestare perché i loro docenti non sono selezionati adeguatamente? No, scioperano sindacati e docenti. E spesso il governo cede, dimenticandosi degli studenti. Spero non succeda anche stavolta.

Ma è davvero così sbagliato semplificare la procedura in una fase delicata?

La procedura è già stata semplificata. I concorsi dovevano essere due, questo straordinario per i precari e un altro ordinario aperto a tutti, e dovevano essere contestuali. Il secondo è stato posticipato per l’emergenza e nessuno si è lamentato, ma adesso eliminare pure l’unica prova selettiva significa fare una sanatoria.

Guai a pronunciare quella parola con i precari…

E come dovremmo chiamarla? Senza selezione non è più concorso. E non prendiamoci in giro con la storia dell’esame alla fine dell’anno di prova: quello è un pro forma.

Il test a crocette è il modo giusto per scegliere i nostri insegnanti?

Sicuramente no, ma è quello che abbiamo a disposizione. E poi non serve per trovare i più bravi, solo per non far passare quelli non adatti, la soglia sarà bassa.

Parliamo di docenti che hanno già insegnato per almeno tre anni.

Delle sacche di precariato esisteranno sempre, bisogna uscire da questa logica. Quando facevo il capo di gabinetto, i precari storici avevano 10 anni e passa di servizio, si sta allargando pure il concetto di precariato.

Non meritano di essere stabilizzati?

È un credito che va riconosciuto, infatti c’è un punteggio che vale ai fini della graduatoria. Però la scuola non è una fila dove viene servito chi ha preso prima il numeretto: non esiste un motivo per cui un docente con anni di servizio alle spalle debba essere assunto prima di un giovane neolaureato. Nessuna categoria è migliore dell’altra a priori: per questo serve il concorso.

C’è anche una questione di tempi: lei conosce il ministero, pensa che le graduatorie sarebbero pronte per settembre?

Parliamo di test al computer, correzione automatica, il giorno dopo ci saranno già i risultati. Il vero tema è la possibilità di far svolgere in questa fase prove con decine di migliaia di candidati, ma questo lo deve stabilire il Comitato tecnico-scientifico, insieme agli uffici del Miur. Se c’è l’ok, non vedo perché rinunciare. Viceversa, la soluzione non è la sanatoria ma rimandare.

Come finirà?

Col solito compromesso, spero non al ribasso per la scuola. Capisco le ragioni dei precari, ma anche gli studenti hanno diritto ad avere un bravo insegnante. Parte dei problemi che abbiamo avuto durante l’emergenza Coronavirus con la didattica a distanza è dipesa anche dal fatto che i docenti in passato non sono stati selezionati e formati adeguatamente.

Lorenzo Vendemiale

 

Contrario

“Quel test non dà garanzie: contratto a chi già insegna”

“Assumere i docenti attraverso un test a crocette? Significa sottoporli a una lotteria, non è un buon modo per selezionarli”. Francesco Sinopoli, segretario della Flc Cgil, riassume così la posizione di tutto il fronte sindacale sul concorso straordinario riservato agli insegnanti precari con almeno tre anni di anzianità. Il ministero dell’Istruzione è infatti pronto a organizzare le prove a risposta multipla già quest’estate, con tutte le precauzioni per svolgerle in sicurezza. Ma le sigle della scuola sono contrarie e si dicono pronte a una grande mobilitazione.
La proposta, che in Parlamento trova la sponda di Pd e Leu, è eliminare la prova scritta: “Assumerli a settembre in base ai titoli – spiega Sinopoli – e fare una prova orale alla fine del primo anno che permetta di confermare il ruolo”.

Segretario Sinopoli, mandare questi insegnanti in cattedra senza un quiz di selezione non significa trasformare un concorso straordinario in una sanatoria?

No. Facciamo una premessa: il concorso straordinario rivolto a chi ha un contratto a tempo determinato da almeno tre anni risponde a un principio fissato dalla Corte di Giustizia europea. In questo caso sanare significa rispondere a un abuso perpetrato dallo Stato ai danni di precari che sono già oggi nella scuola. Ogni anno li troviamo come supplenti e li troveremo anche se non dovessero superare i concorsi perché sono necessari.

Che problema c’è se questo avviene attraverso una prova a crocette?

Non è così che si seleziona la qualità. Noi non è che diciamo di far scomparire la procedura selettiva, che si terrebbe comunque con l’orale, semplicemente vogliamo togliere i quiz. Tra l’altro siamo in un contesto in cui nessuno è certo di poterli organizzare.

Per questo la ministra Azzolina ha suggerito una mediazione: rinviarli nei prossimi mesi, una volta finita l’emergenza sanitaria, e nel frattempo assumere i docenti a tempo determinato per il prossimo anno scolastico…

Noi come sindacati non abbiamo ricevuto alcuna proposta. Si tratta di questioni interne alla maggioranza che abbiamo solo letto sui giornali. Comunque, se pensiamo di limitarci a rimandare il test a crocette di due o tre mesi, dico che comunque non sono d’accordo. Il mio insegnante dovrebbe essere selezionato sulla sua capacità di insegnare. Oggi l’unica soluzione è una selezione per titoli e alla fine una verifica orale.

La prova scritta faceva parte dell’accordo che ha preceduto il decreto scuola.

Vorrei chiarire che la proposta che stiamo facendo oggi l’avevamo fatta anche allora. Era la nostra idea originaria. Adesso pensiamo che, nel contesto che si è presentato, le nostre ragioni tornino. Non siamo nella stessa situazione di prima, è molto diversa e abbiamo l’urgenza di avere insegnanti in cattedra.

Che garanzia di qualità può dare agli studenti e ai genitori il solo fatto di aver insegnato per tre anni? Non servirebbe anche una valutazione?

È singolare che un datore di lavoro, in questo caso lo Stato, prima non sia in grado di individuare chi non sa svolgere la prestazione lavorativa, ma poi continui a richiamare le stesse persone. Allora bisognerebbe fare un altro ragionamento. Che cosa serve? Forse una formazione sulla quale possiamo investire mentre lavorano? Noi dovremmo avere un percorso di formazione, ma non lo abbiamo più. Il Fit (acronimo di Formazione Iniziale e Tirocinio, ndr) andava riformato ma non cancellato.

Che cosa farete se la vostra proposta non sarà accolta?

Non escludiamo nulla. Chiederemo che ci sia un confronto e poi decideremo, però non staremo fermi, non aspetteremo che a settembre ci si trovi con le risorse attuali.

Roberto Rotunno