Controlli solo a metà dei calabresi rientrati. I medici: “Molti aspettano ancora il risultato”

All’ospedale di Crotone è arrivata la nuova macchina completamente automatizzata che dovrebbe permettere, in Calabria, di aumentare la capacità di processare tamponi: circa 200-250 in più al giorno (oggi, quotidianamente, ne vengono eseguiti una media di 1.100-1200). Ma parliamo di un centro sanitario spoke, privo di una struttura autonoma di microbiologia e virologia. E la capacità massima potrà essere raggiunta solo a regime, con una operatività 24 ore su 24 e personale formato. Intanto sono ancora in itinere, in attesa delle autorizzazioni, i tre laboratori (a Lamezia Terme, Locri e Vibo Valentia), che dovrebbero portare a nove le strutture preposte all’analisi dei campioni. Così per ora si registra il caos: perché sono tanti i calabresi rientrati dal Nord nelle loro case, a partire dal 4 maggio, quando è scattata la fase 2, che hanno terminato la quarantena ma ancora non hanno avuto l’esito del tamponi. Tamponi che la presidente Jole Santelli aveva promesso a tappeto su tutti i calabresi tornati nei loro paesi e città: ma li ha sospesi da oltre una settimana.

Delle oltre diecimila persone – tante sono quelle che si sono registrate sul portale della Regione dai primi di maggio – solo poco più di 5.100 sono state sottoposte al test dagli operatori dei laboratori mobili che nei primi giorni dell’esodo erano stati dislocati tra stazioni ferroviarie, all’aeroporto di Lamezia e sull’autostrada A2. “Quanto a quelli sui quali sono stati eseguiti, molti sono ancora in attesa del risultato”, dice Filippo Larussa, segretario regionale del sindacato dei medici dirigenti Anaao. “Non è tanto la mancanza di reagenti a pesare – prosegue Larussa –, quanto le difficoltà nel processamento”. Difficoltà confermate, nei giorni scorsi (come riportato dal Fatto) dai 1.500 tamponi rimasti nei frigoriferi senza essere analizzati, tra l’ospedale “Pugliese-Ciaccio” di Catanzaro, l’azienda sanitaria di Reggio Calabria e quella di Cosenza. Dall’inizio dell’epidemia la Protezione civile ha inviato qui 147.600 tamponi. Ma ne sono stati effettuati fino ad ora nemmeno la metà: 58.588, in base all’ultimo bollettino diramato dalla Regione. Cosa che, secondo l’ultimo rapporto di Altems (la scuola di economia e management dei sistemi sanitari dell’Università Cattolica di Milano) colloca la Calabria agli ultimi posti in Italia per numero di tamponi eseguiti, ogni mille abitanti, nella settimana compresa tra il 12 e il 19 maggio: 4,57 test contro una media nazionale di 7,14.

Tamponi, contagi e isolati: Gallera è l’Assessore Zero

Uno pensa sempre che Giulio Gallera, assessore lombardo alla Sanità, a un certo punto della corsa si sia fermato, abbia capito di non potere più andare a briglia sciolta e abbia chiesto a qualche illuminato di affiancarlo nella comunicazione, perché peggio di così ha fatto solo Francesco Totti quando disse: “Io rispetto l’omofobia”.

Quella di Totti però era una gaffe e lui poverino voleva dire altro, mentre l’aggravante, nel caso di Gallera, è che Gallera di solito intende dire proprio quello che dice. E ne dice talmente tante che spesso, nei dibattiti televisivi, stordisce l’avversario a colpi di: “Non è vero, ho detto anche questo!”, e di solito è vero, perché ormai tra interviste, bollettini e conferenze stampa, ha detto più o meno tutto e il contrario di tutto, eccetto forse “Una volta ho visto il Big foot” e “Heil, Hitler!”. Tra l’altro, siccome adesso i temi sono più “tecnici”, Gallera è particolarmente in difficoltà. È sempre lì, su Lombardia News con lo sguardo dritto e scaltro del gatto che guarda una sparatoria in tv, e il risultato è lo spassoso monologo di venerdì pomeriggio, quando accanto a un tizio tramortito dalle sue spiegazioni, ha dato prova del fatto che l’epidemia passa, Gallera resta, e questo è ciò di cui bisogna avere davvero paura in Lombardia.

Dunque: il tema è questo. Gallera aveva dichiarato una settimana fa che i test sierologici sono inutili e inaffidabili e li sconsigliava. Aveva aggiunto che chi li fa se li paga e se è positivo si paga anche il tampone. Poi ci ha ripensato: se sei positivo ti paghi i test, ma il tampone te lo paga la Regione. Poi ci ha ri-ripensato: paga tutto la Regione – test e tamponi – e la Regione ha iniziato a diffidare alcuni privati dal fare i test. Insomma, sarebbe il caso di fare il tampone a Gallera e capire intanto se sta bene lui. Fatto sta che venerdì su fb inizia il suo monologo: “Da lunedì 11 maggio abbiamo introdotto una strada molto tempestiva della sorveglianza della salute dei nostri cittadini. Adesso se hanno la febbre, vengono messi in isolamento i familiari. È un sistema che sta riscontrando un buon favore. Per le persone che hanno avuto il Covid a domicilio e non sono state tamponate assieme ai loro contatti, abbiamo attivato il test sierologici della Regione Lombardia!”.

A parte quell’impavido utilizzo dell’aggettivo “tempestivo” parlando di un provvedimento che andava preso tre mesi fa, Gallera annuncia la novità dei test ammettendo in sostanza di aver lasciato a casa malate un sacco di persone. Bene, ho pensato. Era ora. Poi aggiunge beato: “Abbiamo già 42.681 concittadini che hanno fatto il test, compresi i conviventi di queste persone. Cosa è emerso? Queste erano in teoria le persone che avevano fatto i Covid a domicilio o che erano i contatti stretti di una persona positiva. Quelli che “Sicuramente io l’ho fatto, ho bisogno di fare un test”. Bene è emerso che di questi 41.000, SOLO 14.530 sono risultati positivi. Quindi il 34%.Vuol dire che le altre persone che ritenevano di avere avuto il Covid o i contatti diretti, quelli che “Io sono stato in casa con un parente che ha avuto il Covid quindi sicuramente ce l’ho avuto anche io”, non lo avevano avuto. Il dato non è così scontato! A Bergamo i positivi risultano essere il 58 per cento, ma ci si immaginava che tutti quelli che avevano manifestato sintomi o erano stati vicini potessero risultare positivi! A Bergamo invece solo il 58%, a Pavia il 41%, a Crema, Cremona e Mantova solo il 38%, a Brescia il 35%, a Milano il 18,4%. Quindi una realtà meno allarmante di quella che i cittadini pensavano di avere!”. Giuro, ha detto tutto questo, comprese le virgole (sbagliate anche quelle, per giunta). In pratica, la Lombardia è piena di fessi che pensavano di avere avuto il Covid e invece SOLO il 58 % dei bergamaschi sottoposti a test l’hanno avuto senza cure e tamponi! Il restante 42% ha disturbato inutilmente la Regione, e che cazzo (a Gallera sfugge inoltre che se uno ha avuto il Covid tre mesi fa potrebbe non avere più un numero significativo di anticorpi, ma vabbè). Ma non è finita qui, va avanti tipo il protagonista del film dell’orrore a cui qualcuno dice “Non andare in quella casa che c’è l’anticristo e lui ci va lo stesso di notte col temporale”:

“Su 81.000 sanitari solo il 13% ha gli anticorpi, a Bergamo il 29, a Brescia il 17, a Milano solo il 9! Questo dato inconfutabile indica che i grandi sforzi della Regione Lombardia hanno tutelato i nostri operatori sanitari!”. Quindi 10.000 sanitari contagiati sono un successo (ci sarebbero anche quelli morti, guariti o tamponati in precedenza, ma vabbè).

Infine, l’apice. Gallera deve spiegare l’rt , l’indice di contagio, ben contento che in Lombardia sia dello 0,51 (in pratica, grazie alle misure di contenimento, ormai 1 persona infetta non ne infetta neanche una). Solo che lui non ha capito cosa sia l’indice di contagio e, soprattutto, la statistica, per cui spiega: “Con lo 0,50 oggi per infettarmi devo trovare due infetti allo stesso momento, e non è così semplice”. In pratica ritiene che l’indice di contagio abbia a che fare non con la statistica, ma con la prossimità: mezza persona contagiosa più mezza contagiosa fa un contagio certo, se incontro quelle due mezze persone. Insomma, qualcuno trovi un mezzo comunicatore per Gallera. E che qualcuno tamponi se non lui, almeno le sue figuracce.

Lombardia senza tregua. Più infetti con meno test

La curva continua a flettere, ma lo fa sempre molto lentamente e non ancora nella misura sperata. Mentre a Milano i Navigli tornano a riempirsi nel primo weekend dalla fine del lockdown, la Lombardia martoriata dal Covid-19 ha fatto registrare altri 441 casi totali su un totale nazionale che, secondo il bollettino della Protezione civile pubblicato ieri, ne conta 669. I due terzi del totale, quindi, quasi il doppio di tutti i contagi registrati nelle ultime 24 ore dalle altre venti Regioni (228).

“Segnalo – ha commentato l’assessore al Welfare, Giulio Gallera – che fra i nuovi positivi, contiamo 108 tamponi riguardanti operatori sanitari e ospiti delle Rsa, un numero più alto rispetto alla stessa casistica degli ultimi giorni. La diffusione del contagio fra la popolazione rimane quindi stabile”. Un dato che consola, ma fino a un certo punto: i 441 casi (trend comunque in diminuzione a livello settimanale) sono emersi dai 17.191 tamponi comunicati ieri, ma venerdì i nuovi contagi erano stati 293 e a fronte di 19.028 test. Tradotto: la Regione ha fatto meno tamponi (comunque il secondo miglior dato della settimana) e trovato più contagi. Segno che nella flagellata Lombardia la curva cala a rilento, in un contesto in cui i risultati del nuovo allentamento del lockdown iniziato il 18 maggio con la riapertura di bar e ristoranti (di cui la movida denunciata da Fontana è figlia) si vedranno solo tra una decina di giorni. Nel frattempo Bergamo è tornata a superare Milano per casi giornalieri: 102 contro 88, l’ultima volta era accaduto il 19 maggio.

A livello nazionale i casi totali sono 229.327, e comprendono gli attualmente positivi (57.725, -1.570 su venerdì), i dimessi o guariti (138.840, +2.120) e le persone decedute. Queste ultime sono 119 in più (56 delle quali in Lombardia), per un totale di 32.735 vittime. Un capitolo spinoso per i vertici dell’Istituto Superiore di Sanità dopo che il Corriere della Sera ha rilevato una differenza nel numero dei morti comunicati il 21 maggio sul monitoraggio delle Regioni e quello riportato lo stesso giorno nel bollettino della Protezione civile: il documento dell’Iss ne aveva 1.390 in meno. Nella risposta all’articolo l’Istituto scriveva che il loro bollettino “raccoglie per ciascuna persona diagnosticata con Covid-19 varie informazioni tra cui la data del decesso. Tali informazioni individuali hanno un ritardo rispetto a quelle comunicate tempestivamente dalla Protezione civile”. Sui “dati dei morti con la data di decesso è normale che ci sia in media una settimana di ritardo – fanno sapere dall’Iss al Fatto – è così in tutto il mondo. Il dato aggregato arriva subito, quello dettagliato qualche giorno dopo”. “I dati del bollettino inoltre riferivano ai dati estratti giovedì 21 e ricevuti mercoledì”, spiegava ancora l’Istituto al quotidiano di via Solferino. Significa che i dati che finiscono nel monitoraggio sono in ritardo di due giorni? “I dati sono prodotti il mercoledì – spiegano ancora dall’Iss.- Il giovedì sono mandati alle regioni per una verifica”. E arrivano non aggiornati sul bollettino che viene illustrato il venerdì in conferenza stampa.

Ora per il prosieguo della Fase 2 rimane determinante la disponibilità di dispositivi di protezione individuale. Domenico Arcuri ha dichiarato risolto il problema grazie all’inizio della produzione italiana: “Questa settimana abbiamo distribuito oltre 43 milioni di mascherine, il numero più alto dall’inizio dell’emergenza – ha detto il commissario straordinario –. Da ieri (venerdi, ndr) i primi 20 mila tabaccai distribuiscono le chirurgiche a 50 cent, così come ringrazio farmacisti e parafarmacie. Oramai anche in questi punti vendita le mascherine si trovano. Penso che la partita sia definitivamente risolta”.

Il caso Mattarella “nel cassetto”, ultima umiliazione per Falcone

È la mattina del 15 ottobre 1991. Sono le 9:30. Mancano solo sei mesi alla strage di Capaci e Giovanni Falcone fa ingresso nel Csm. Gli ultimi giorni della sua vita li passa a difendersi. Non soltanto da Cosa Nostra.

Quel giorno deve difendersi da una serie d’accuse infamanti dinanzi ai suoi colleghi, nella prima sezione del Consiglio. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, gli imputa di non aver indagato a fondo sull’omicidio del presidente siciliano Piersanti Mattarella – fratello di Sergio, l’attuale presidente della Repubblica – ammazzato il 6 gennaio 1980. Un omicidio mafioso (con presunte complicità mai dimostrate nell’estremismo nero) che ancora oggi, 40 anni dopo, resta senza colpevoli. Falcone – che ha istruito il maxiprocesso, ha inventato e difeso il lavoro in pool, tanto contestato e poi smantellato – viene accusato di non aver esaminato otto pacchi di documenti sulle “sei scuole”, gli appalti scolastici sui quali lo stesso Mattarella aveva avviato un’indagine. Orlando – e non soltanto lui – lo ha accusato di aver “tenuto le prove nel cassetto”. E l’ha costretto a difendersi al Csm. Il Fatto pubblica oggi dei passaggi inediti di quell’audizione.

Il vicepresidente della Prima Commissione Giorgio Lombardi sottolinea di aver sempre registrato un “idem sentire” tra Orlando e Falcone – “due campioni di questa lotta” – mentre ora prende “atto che uno attacca l’altro”. “Diceva Enzo Biagi – risponde Falcone – che ‘si può uccidere anche con la parola’…”. Ricordando il fallito attentato contro di lui all’Addaura, avvenuto due anni prima, aggiunge: “C’era chi diceva a tutti i giornalisti, ma non era Orlando, che quelle bombe, quei candelotti di dinamite me li ero messi da solo. Io non voglio parlare degli amici. Quando nel corso di una polemica vivacissima tra Orlando e altri, una giornalista mi chiese cosa ne pensassi di Orlando, io ho detto ‘ma che vuole che possa rispondere di un amico’, ecco. Dopo poche ore, tornato in sede, ho appreso di quell’attacco riguardante le prove nei cassetti. Ecco, questa è la situazione. Non intendo dare valutazioni di nessun genere”. Parole di un’amarezza sconcertante.

C’è persino, al di là delle accuse di Orlando, chi gli ha contestato di non aver indagato, per l’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, sul cavaliere del lavoro Carmelo Costanzo. Il mafioso catanese Nitto Santapaola aveva riferito a verbale che Costanzo era preoccupato. Che l’arrivo del generale Dalla Chiesa avrebbe provocato problemi ai loro affari. “Una deposizione che sicuramente è conosciuta” dice a Falcone il presidente della Prima commissione Luciano Santoro. “L’ho raccolta io” risponde laconico Falcone.

Santoro gli legge l’accusa giunta al Csm: “Nessun provvedimento giudiziario è stato assunto nei confronti del Costanzo per il delitto Dalla Chiesa, neppure un’informazione di garanzia che fosse il segno della volontà di sviluppare le indagini”. “E per quale reato? – obietta Falcone – per concorso in omicidio?”. Dopo aver espresso il suo “sdegno” continua: “Cioè, sostanzialmente, io – Costanzo – dico: ‘Ma a Palermo che fanno, niente, per ammazzare Dalla Chiesa?’. Dopodiché Dalla Chiesa viene ammazzato e noi dovremmo emettere informazione di garanzia, per concorso in omicidio, nei confronti di Costanzo. Io non lo so: siamo tutti giuristi, qua. Mi domando che senso ha un’affermazione del genere”.

Parlando dell’omicidio di Piersanti Mattarella, spiega il suo “punto di vista” sulla vicenda delle “sei scuole”. Evoca anche l’audizione dell’attuale presidente della Repubblica: “Io credo che nell’omicidio Mattarella si sia indagato troppo a lungo su fatti specifici – le famose sei scuole – che, sì, sono sicuramente il sintomo di una querelle tra le organizzazioni mafiose e il compianto Piersanti Mattarella ma, come per esempio mi ha detto in maniera molto lucida e chiara il fratello di Piersanti, in un esame testimoniale che ho raccolto proprio io, sarebbe davvero riduttivo – e contrario alla realtà – pensare che l’omicidio di Piersanti Mattarella sia stato provocato da uno o più appalti rifiutati. La manovra moralizzatrice di Piersanti Mattarella – continua Falcone – era ben più ampia e articolata e cercava, soprattutto, di rendere la classe dirigente siciliana più stabile e coesa e meno permeabile a influenze di qualsiasi genere”.

Per spiegare “l’importanza dell’opera politica”, Falcone riporta la testimonianza resa dall’avvocato Sorgi, che il giudice stima moltissimo e, pochi mesi prima del suo omicidio, aveva accompagnato in auto Mattarella ad Augusta: “Mattarella – racconta Falcone – si confidava con lui, in questo viaggio, dicendogli che era felice perché, mentre prima aveva ereditato il collegio elettorale di suo padre, e veniva votato pressoché esclusivamente a Castellammare del Golfo, dove non si può dire che tutti siano delle brave persone – in realtà Castellammare del Golfo è una delle zone a più alta densità mafiosa –, mentre negli altri collegi elettorali veniva votato molto poco, nelle ultime elezioni prendeva molto meno voti a Castellammare del Golfo, ma in compenso veniva votato un po’ ovunque. Quindi – conclude Falcone – lui era felice per questa azione moralizzatrice che gli aveva fruttato il consenso un po’ ovunque. Fatta questa premessa, io personalmente sono convinto che, se si pensa che dall’esame di un qualsiasi appalto di una scuola si può risalire a qualcosa di significativo, ho i miei dubbi”. Il Csm archivia la pratica il 4 giugno 1992. Falcone è morto da due settimane.

“Problema di democrazia”. “Vale anche in Rai”

Vecchia questione, quella che lega editori, economia e politica. E che influisce su come i cittadini esercitano la democrazia. Questo il pensiero di Claudio Gatti, giornalista d’inchiesta (i suoi ultimi libri, Enigate e I demoni di Salvini): “Il giornalismo libero e intellettualmente onesto è elemento fondante di una società democratica interessata a evolversi verso giustizia, equità e moralità. Non sono 40 anni di giornalismo che mi portano a dirlo, ma 50 di impegno sociale e civico in cui mi sono reso conto che una cittadinanza non consapevole di quel che succede intorno è menomata nella capacità di decidere sul più importante contributo che le è concesso dare alla società, il voto”. D’altra parte, “per votare ‘bene’ occorre essere informati, cioè avere accesso a fatti, analisi e opinioni”, ma quelli di maggior peso “sono quelli che riguardano i soggetti di potere politico o economico”: “Se il giornalista – continua Gatti – si mette al servizio di quei soggetti, non solo non contribuisce al ‘buon voto’, ma fa l’esatto contrario”. Eppure neanche se i media fossero tutti “di proprietà di lettori/utenti” si otterrebbe “il risultato desiderato, perché il giornalismo sarebbe libero ma non per forza intellettualmente onesto”: “Per informare ‘bene’, ai giornalisti non serve tanto una proprietà non invasiva quanto essere pronti a fare le valigie quando non è concesso di lavorare in modo libero e intellettualmente onesto”.

Ma il caso Fca/Repubblica, secondo la firma del Corriere Milena Gabanelli, non c’entra con conflitto di interessi dell’editore: “Riguarda altre questioni. Innanzitutto il dividendo: se chiedi un prestito e vuoi che lo Stato faccia da garante, non ti spartisci gli extra, li investi. E poi il prestito deve essere vincolato alla transazione verde, come richiesto dal Green deal europeo. Queste sono decisioni che spettono al Governo, indipendentemente da quello che scrivono i 3 giornali del gruppo Gedi”. Il tema, però, esiste: “Mi fa piacere – prosegue la Gabanelli – che Orlando abbia scoperto che gli editori non puri comprano i giornali per esercitare pressioni. Ma i giornali costano, i lettori preferiscono non pagare e avere notizie online gratis e nessun editore ha voglia di spendere soldi”. E neanche la Rai, che dovrebbe essere editoria pura per eccellenza, si può considerare tale: “Rappresenta gli interessi dei partiti e dei loro dante causa. Se fosse davvero indipendente, avrebbe una forza tale da rendere questo dibattito quasi privo di senso”.

Secondo Gavin Jones, corrispondente da Roma di Reuters, l’equivoco sugli editori è “il cuore delle recenti accuse di Orlando”: “Molti hanno notato un cambio nella linea editoriale di Repubblica, inclusi alcuni giornalisti che ci lavorano. È legittimo che gli editori abbiano altri interessi, ma il lettore si deve sempre chiedere se l’articolo che legge sia stato scritto così per pura scelta giornalistica o per promuovere altri interessi”. Non è azzardato dunque sostenere che quegli editori si muovano per provocare un effetto politico: “Quando si vuole ridicolizzare qualcuno – dice Jones – gli si attribuisce la parola ‘complotto’, che Orlando non ha mai detto. Ci sono però interessi singoli e separati che vorrebbero la caduta del governo. Ma dovremmo fare un governo Draghi con dentro Lega, FdI, M5S, Pd? Su cosa andrebbero d’accordo?”

Fca, marchette e liti interne. Il mese pazzo dei giornaloni

L’idea di licenziare Carlo Verdelli da Repubblica proprio nel giorno della campagna social in sua difesa a causa delle minacce di morte ricevute era sembrata una mancanza di garbo. A ben guardare, però, serviva indirizzare il quotidiano verso una precisa linea politica in tempo per la Fase 2, cioè quella della ricostruzione. Questa almeno è la versione espressa nei giorni scorsi dal vicesegretario del Pd, Andrea Orlando: “Noi spendiamo 80 miliardi di euro per la pandemia e nelle prossime settimane vedrete gruppi editoriali e centri di potere che tenteranno di buttare giù il governo”.

A Repubblica il caso è attuale ed è l’emblema dell’eterna stortura nel rapporto tra media e politica. Verdelli è stato sostituito a fine aprile e al suo posto Exor (quindi John Elkann, quindi Fiat-Chrysler) ha chiamato Maurizio Molinari dalla Stampa. Tempo pochi giorni e la sterzata a destra del quotidiano è stata evidente, con l’editorialista Stefano Folli emblema del nuovo corso: “L’assetto su cui si regge l’avvocato del popolo non è solido”, “occorre predisporre un piano B”, “nel Pd c’è insofferenza verso Conte e il suo protagonismo”. Il tutto immerso in pagine in cui già da inizio maggio si gridava alla “Milano che riparte”, al “Piemonte che riparte”, alla “paura che si allontana”, come a dire: presto con le riaperture. Ma le grane più grosse sono arrivate col caso Fca-Intesa. Buona parte della redazione non ha gradito la cortesia con cui è stata trattata la notizia del prestito richiesto da Fca con garanzie statali per oltre 6 miliardi di euro. Alla richiesta di pubblicare un comunicato del cdr sul tema, Molinari si è però opposto, provocando altri malumori. Nel frattempo, Gad Lerner ha annunciato il suo addio al gruppo (“Non lo riconosco più”), come già aveva fatto Enrico Deaglio.

Su La Stampa, invece, il neo direttore Massimo Giannini ci ha dovuto mettere la faccia, difendendo gli editori e definendo le parole di Orlando “fetido venticello della calunnia sparata a caso e un tanto al chilo che finisce per avvelenare i pozzi”.

Due giorni fa però quel “fetido venticello” è tornato alla mente leggendo il Corriere della Sera, improvvisamente in soccorso della Regione Lombardia. Raccontando l’accusa del grillino Riccardo Ricciardi alla gestione di Attilio Fontana, il quotidiano ha titolato: “M5S all’attacco della Lombardia”. Ecco poi la Nota di Massimo Franco: “Un attacco scomposto che certifica un M5S diviso”; sotto, l’intervista a Giancarlo Giorgetti: “Chiedono collaborazione e provocano sui morti”; infine il corsivo di Venanzio Postiglione: “Milano e la Lombardia: i teatrini politici non aiutano a capire”. A pagina 4, poi, una insospettabile velina dell’editore Urbano Cairo in persona: “Renzi? Ha più parlamentari che voti”. Chiosa del pezzo: “A Otto e mezzo Lilli Gruber ha dichiarato: ‘Con noi Cairo non ha mai interferito’”. Posizione ripresa da Beppe Severgnini, che ha pure ricordato le qualità morali del suo editore: “Cairo ha rinunciato ai dividendi perché in questo momento erano inopportuni”. Com’è umano lei.

Il tutto in un contesto editoriale in cui altri proprietari da tempo hanno palesato la propria linea o neanche hanno avuto bisogno di farlo (la famiglia Berlusconi edita Il Giornale, il deputato forzista Antonio Angelucci Libero e Il Tempo).

Il Sole 24 Ore, per esempio, è espressione di Confindustria, il cui nuovo presidente, Carlo Bonomi, da settimane spara sul governo: da un lato ipotizza “l’esplosione di una emergenza sociale a settembre od ottobre” se “non investiremo sul settore produttivo”, dall’altra lamenta i troppi “soldi a pioggia” per “reddito di emergenza, reddito di cittadinanza, cassa integrazione, Naspi”. Ovvero per chi non ha la fortuna di essere proprietario di una multinazionale.

Anm al capolinea, si dimettono i vertici

Magistratura in crisi profonda. Il governo dell’Anm, il sindacato delle toghe è a un passo dello scioglimento. Si sono dimessi il presidente Luca Poniz, di Area, la corrente dei progressisti, e il segretario Giuliano Caputo, di Unicost, la corrente centrista.

Il motivo è sotto gli occhi di tutti: la pubblicazione delle chat e delle intercettazioni di Luca Palamara, il pm romano sospeso e indagato a Perugia per corruzione. Fino a un anno fa era il dominus di Unicost e delle nomine al Csm. Parlava con decine di magistrati di tutta Italia e soprattutto vertici e attivisti delle correnti: Unicost, Magistratura Indipendente, destra, la corrente di Cosimo Ferri, parlamentare renziano, da anni magistrato in aspettativa ma leader ombra di Mi, potente al Csm, e pure con toghe di Area, la corrente di sinistra. Conversazioni e messaggi che hanno confermato quanto denunciato in questi anni, da pochi e isolati, cioè il sistema delle nomine a pacchetto, in base all’appartenenza alle correnti e non al merito: “Uno a te uno a me”. Finora, dopo il materiale pubblicato in questi giorni dal Fatto e dalla Verità “regge” Autonomia e Indipendenza, fondata da fuoriusciti di Mi, Piercamillo Davigo, Sebastiano Ardita, Alessandro Pepe e Marcello Maddalena.

Le dimissioni dei vertici dell’Anm sono arrivate dopo una riunione fiume, di oltre nove ore, del Cdc, il parlamentino dell’Anm, che dopo questo terremoto dentro la magistratura è stato aggiornato a domani sera alle 19. Si vuole provare a trovare una nuova intesa.

In vista della riunione, i gruppi delle varie correnti, domani, si riuniranno ciascuno per conto proprio per capire come eventualmente proseguire, se c’è la possibilità di formare una Giunta transitoria, in grado di portare l’Anm alle elezioni, già previste, di ottobre per il rinnovo dei vertici del sindacato dei magistrati. Vertici che avrebbero dovuto essere rinnovati a marzo se non fosse scattata l’emergenza Covid-19.

Dunque, per ora resta in Giunta solo il membro di Autonomia e Indipendenza Cesare Bonamartini, vicesegretario uscente. “Non si può pensare che noi siamo rimasti o vogliamo rimanere in sella ed esporci ad attacchi ingiustificati – ha detto Luca Poniz prima di dimettersi– Tutti sanno che l’emergenza ci ha costretti a un lavoro difficilissimo. Se qualcuno pensa che la proroga nella quale ci siamo trovati nostro malgrado serva per proteggere una posizione o mantenere l’assetto di rapporti politici, è una cosa che non si può tollerare”.

Le parole di Poniz sono la risposta a Mi, che aveva chiesto l’anticipo delle elezioni. E i magistrati di Area chiedono una pubblicazione integrale degli atti della procura di Perugia trasmessi al Csm, alla procura generale della Cassazione e al ministero della Giustizia per valutare eventuali procedimenti disciplinari: con “l’integrale pubblica conoscenza degli atti del fascicolo di Perugia”, la cui richiesta è stata avanzata dall’Anm come persona offesa, “sarebbe interrotta l’operazione in atto che mira a screditare più che a informare”. L’anno scorso per quelle intercettazioni sono stati costretti a dimettersi 5 togati del Csm e il Pg della Cassazione Riccardo Fuzio. Nei giorni scorsi ha lasciato anche Fulvio Baldi, capo di Gabinetto del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede.

Miracoli del Covid: i 2 nemici insieme (alla vigilia del voto)

Si rivedranno. Ai primi di giugno. La strana coppia che non ti aspetti: Vincenzo De Luca e Luigi de Magistris. Il governatore della Campania e il sindaco di Napoli si sono visti l’altroieri, di pomeriggio, a Palazzo Santa Lucia. Per mezz’ora. Da soli. Per la prima volta in tanti anni, trascorsi a scambiarsi attacchi e sgambetti con la segreta speranza di essere l’uno l’autore della rovina (politica) dell’altro. Ora la tregua, istituzionale ma non solo. Miracoli del Covid-19. Perché c’è Napoli da far ripartire, una fase 3 da avviare: basta con le polemiche, par di capire. Conoscendo i due, la pace (armata) potrebbe durare poco. Per ora c’è. E va spiegata.

Una fitta nube avvolge quel che davvero si sono detti De Luca e De Magistris in assenza di testimoni. Pochi e sobri convenevoli prima che il presidente dicesse “ci lasciate soli”?. E le porte si sono chiuse.

Fonti dello staff di De Luca assicurano che la politica, le elezioni regionali di settembre in Campania, gli inviti del ministro Enzo Amendola a De Magistris affinché formi una lista di sostegno al Pd e alla ricandidatura di De Luca, le amministrative di Napoli del 2021, la pericolante maggioranza di Palazzo San Giacomo, i rapporti tra il Pd e il movimento DemA, sono temi rimasti fuori dall’uscio. “Il sindaco – rivela uno stretto collaboratore del governatore – ha solo chiesto a De Luca e alla Regione Campania una mano per organizzare insieme iniziative turistiche e culturali che rilancino l’immagine di Napoli e non hanno parlato di altro”.

La ricostruzione è confermata dall’altro versante. “L’idea dell’incontro è nata in De Magistris durante la sua ospitata a Un giorno da pecora – ci riferisce una persona vicinissima al sindaco – lunedì ha cercato De Luca sul cellulare, il presidente lo ha richiamato da uno 089 (prefisso di Salerno, ndr), il sindaco non è riuscito a rispondere subito e alla fine l’ha richiamato da uno 081 (prefisso di Napoli, ndr). È stato così fissato l’appuntamento, per capire cosa si può fare insieme in questa fase 3, per combattere la pandemia sociale, le piccole aziende in crisi. De Magistris è contrario alla chiusura alle 23 dei bar, forse gliel’avrà detto, ma ognuno è rimasto sulla sua posizione”.

All’incontro pacificatore si è arrivati da posizioni di forza diametralmente opposte. De Luca è all’apice della popolarità e del consenso. Piace persino a Naomi Campbell, che ne ha ospitato su Instagram la celebre battuta sul lanciafiamme. De Magistris è indebolito: la sua traballante maggioranza chiamata a giugno ad approvare una manovra di bilancio si fonda anche su 6 consiglieri che rispondono al governatore, vorrebbero candidarsi con lui e premono per un accordo che si allarghi alle prossime regionali.

De Luca è certo di una ricandidatura a presidente. De Magistris nel 2021 esaurirà il secondo e ultimo mandato e in questi pochi mesi deve prendere decisioni urgenti sul suo futuro politico. De Luca non vuole tessere alleanze: “Chi starà con me, è il benvenuto. Chi non vuole esserci, non ci sarà”. De Magistris riflette se fare una lista propria alle Regionali e lasciare Napoli con qualche mese di anticipo, oppure andare fino in fondo. E se dovesse optare per la discesa in campo alle Regionali, con chi? Da solo? Alleandosi con il centrosinistra, e quindi con De Luca? Ricucendo il filo con il M5S attraverso il suo forte rapporto personale con il presidente della Camera Roberto Fico? Una sola cosa appare certa: “Sicuramente – ha precisato De Magistris – non è nell’ordine naturale delle cose che io possa politicamente sostenere una candidatura di Vincenzo De Luca”. Ma non è nemmeno detto che debba osteggiarla. Si chiama ‘desistenza’. Qualcuno ci sta pensando.

La notte, no: stretta sui locali (anche a Brescia)

La voglia di movida non la ferma neppure il volitivo Vincenzo De Luca che ha imposto la chiusura dei bar, anzi dei “baretti”, per dirla con il presidente della regione Campania. Che teme un nuovo picco dei contagi e minaccia sfaceli contro chi si assembra. Ma “quelli della notte” non lo filano proprio e anzi già si sono organizzati, almeno a Napoli, con i drink fai-da-te: basta portarsi le scorte da casa o trovare un supermercato aperto e chi si è visto si è visto. Tanto più che il sindaco della città Luigi De Magistris è “completamente contrario alla chiusura anticipata dei locali: dobbiamo aprire tutto”. Perché va bene la mascherina e le precauzioni, ma bisogna ricominciare a godersi la città, la natura. Va rimessa in moto l’economia. “Ed è quello che farò io a Napoli, aprirò tutto h24: parchi, strade, metteremo una piattaforma di legno sulle scogliere. Non dobbiamo contingentare gli orari, le persone devono distribuirsi, devono uscire”. I napoletani non hanno perso tempo: dal Vomero a Chiaia tutti in strada nel primo weekend post-lockdown. Ma lo stesso spettacolo è andata in scena un po’ ovunque, da Potenza a Savona. E persino Brescia, una delle città martiri del coronavirus. Dove il sindaco Emilio Del Bono a vedere tanta gente affollarsi e con le mascherine fuori posto, venerdì sera, ha fatto intervenire i vigili per impedire nuovi ingressi in Piazza Arnaldo, il cuore della movida in centro città. Dove poi ha ordinato la chiusura dei locali alle 21 e 30 per il resto del fine settimana. In Liguria il governatore Toti ha tirato le orecchie agli amministratori che non hanno controllato. Lui stesso a Genova, come ha raccontato via social, ha potuto constatare che tutto è filato liscio anche grazie agli steward ingaggiati dai locali. Ma altrove no, specie in quel di Savona. “Amici, così non va per niente bene. Ripartire e divertirsi in sicurezza si può e si deve, ma bisogna farlo con prudenza e responsabilità”. Che l’allarme sia altissimo anche altrove lo dimostra il caso di Potenza dove il sindaco Mario Guarente ammette che c’è un problema non tanto di movida, quanto di giovani. O almeno di quelli che, non si sa bene a far cosa, si sono intrattenuti nei parchi della città fino a notte inoltrata. E che “hanno lasciato molti, direi troppi rifiuti” ha specificato Guarente che si è intrattenuto con alcune comitive, forte pure dei suoi 36 anni, per convincere tutti che bisogna stare in guardia perché l’emergenza non è finita. Chissà cosa avrebbe fatto se fosse stato sindaco di Roma dove i numeri sono ben altri. I giovani sono tornati a Ponte Milvio e Trastevere sotto l’occhio di mille agenti schierati da Virginia Raggi. Ieri sera è stata chiusa per troppi assembramenti la fontana della piazzetta del quartiere Monti.

Fontana, l’ansia di riaprire. Il governo: “Contano i dati”

Il governatore assediato teme i confini ancora chiusi, le stimmate di presidente del disastro in Lombardia anche dopo il 3 giugno, il giorno in cui tra le Regioni dovrebbe tornare la libertà di circolazione. Così il leghista Attilio Fontana avverte, ma soprattutto implora su Repubblica: “Non ci sarà bisogno di tenerci bloccati, anche per il giro d’affari che c’è, non ce lo meritiamo”. Ma dal governo ripetono a più voci che a comandare saranno i numeri, cioè i dati, proprio come si era deciso: “Se la prossima settimana in Lombardia il rischio di contagio dovesse essere alto non si potrà uscire o entrare dai suoi confini”.

L’ennesimo giorno di schermaglie tra l’esecutivo e le giunte locali passa ancora di lì, per la Lombardia dove secondo la Protezione civile ieri i nuovi casi di contagio da coronavirus sono stati 441, circa il doppio di tutti quelli registrati nelle altre regioni, 228. Anche per questo da Roma citano il nuovo Dpcm, in base a cui il governo potrà a impedire qualsiasi giunta di spalancare le porte dopo il 3 giugno se i 21 parametri per la verifica segnassero bandiera nera. E ieri sera anche quei numeri hanno spinto Fontana a rialzare la voce: “Siamo pronti a intervenire con nuove restrizioni per evitare che il lavoro svolto finora venga vanificato da alcuni incoscienti”. Lo dice, il governatore, “dopo aver visto nelle ultime ore foto e video di assembramenti e movida in diversi comuni lombardi”. Ma la partita è quella delle riaperture dei territori, un treno che Fontana non vuole perdere. Anche perché ogni giorno cresce il numero di chi ne chiede il passo di lato, con l’hashtag #commissariatelalombardia che si dilata. “La pressione delle associazioni locali è fortissima” nota un esponente di governo del M5S. Il primo problema per il Fontana che giura di non “aver fatto errori” e nel contempo smentisce il suo assessore alla Sanità Giulio Gallera: “Ha detto che la zona rossa avremmo potuto farla noi? Ha sbagliato”. E proprio Gallera accusa: “Contro la Lombardia ci sono attacchi politici”. Da fuori, il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia usa toni concilianti: “Dobbiamo abituarci a un monitoraggio settimanale che può far suonare l’allarme, nessuna regione deve sentirsi offesa se viene paragonata a un’altra”.

Fuori virgolette, fonti di governo: “I numeri in Lombardia, Molise e Umbria oscillano molto tra i vari livelli di rischio. La prossima settimana valuteremo in base ai dati”. Per stemperare gli animi, martedì Boccia andrà a Milano con un volo dell’aeronautica, portando con sè un centinaio di infermieri destinati agli ospedali del Nord. Incontrerà il prefetto e Fontana, per fare il punto. Anche se non c’è certo solo la Lombardia da gestire. Il governatore del Veneto Luca Zaia, anche lui leghista ma con altri numeri e un altro consenso, continua a forzare: “Le Regioni hanno superato l’esame di maturità, Roma percepisce ogni forma di autonomia come una sottrazione di potere, che invece è un’assunzione di responsabilità. Ma le giunte escono benissimo dalla partita del coronavirus”. Lo pensano tutti i governatori uscenti, che infatti hanno voglia matta di urne, già a luglio.

Tra questi il pugliese Michele Emiliano, che ieri ha varato un’altra task force, ossia il “gruppo strategico di ripartenza in materia economica”. “I governatori parlano continuamente delle elezioni” conferma un ministro. Rapido, nel ricordare che “se Zaia le vorrebbe in estate, Matteo Salvini invece preferirebbe l’autunno inoltrato…”. Perché il governatore, suo avversario, potrebbe uscire fortissimo da urne a luglio.

Ora però il governo discute della data del 13 settembre. Troppo presto a detta dei Cinque Stelle campani, trainati dal deputato Luigi Iovino: “Con elezioni a settembre si rischia il trionfo del clientelismo, perché la campagna elettorale sarà impossibile”. Lui e altri nella maggioranza vorrebbero spostare tutto almeno al 27 settembre, che però coincide con la festa ebraica dello Yom Kippur.

Il governo si sta così orientando per un election day il 20 settembre con Regionali e comunali, per tenere il 4 ottobre il secondo turno delle amministrative. In una delle due date, il referendum sul taglio dei parlamentari.