“Fase 2 senza criterio. La colpa non è certo dei ragazzi in strada”

È per tutti il professore del modello veneto, più tamponi per testare i contatti delle persone positive e grande attenzione agli asintomatici. Ha funzionato Ma proprio il governatore leghista del Veneto Luca Zaia ha attaccato Andrea Crisanti, ex Imperial College, ora professore di Microbiologia a Padova, per rivendicare i meriti della dirigenza regionale. Cioè suoi.

Per lo staff di Zaia lei è “un numero 10”, grandi giocate senza “fare squadra”.

È una polemica a senso unico. Io l’ho ignorata fino all’ultimo, ma quando vengono dette delle bugie a fini politici, con sprezzo di tutte le sofferenze e dei morti, devo rispondere perché sono indignato. Si vuole riscrivere la narrativa per accaparrarsi un dividendo politico.

Zaia dice che in Veneto fin da gennaio c’era già un piano sui tamponi redatto da una funzionaria regionale.

Se in Veneto esisteva un piano regionale sui tamponi al 31 gennaio allora mi devono spiegare come mai l’11 febbraio il direttore della Sanità regionale mi ha minacciato di danno erariale perché cercavo di intercettare gli asintomatici che venivano in Italia. Sia chiaro che se non fossi stato fermato, probabilmente le prime infezioni le avremmo intercettate e l’epidemia avrebbe avuto un corso completamente diverso. Chi ha scritto quelle lettere ha una responsabilità precisa. Mi indigna che queste persone tentino di riscrivere la storia.

Abbiamo riaperto quasi tutto, c’è un sacco di gente in giro, ma cosa lo giustifica?

Ci sono meno persone infette, c’è l’uso delle mascherine, la cautela di evitare assembramenti in spazi chiusi. Ma purtroppo queste riaperture sono state fatte senza analisi di rischio. Non siamo in grado di prevedere nulla. Bisognava cercare di capire esattamente quanti sono i casi reali, facendo emergere tutto il sommerso, tutte le persone che telefonano perché stanno male a casa. E invece siamo in mano a guanti, mascherine e bel tempo.

Anche i grandi assembramenti per l’aperitivo non sono d’aiuto.

Sicuramente. Ma non condivido tutta questa esecrazione dei ragazzi che non osservano le disposizioni. Sono vittime di messaggi assolutamente incoerenti: prima che le mascherine non servono, poi che devono essere marcate Ce, poi che possono andare anche senza il marchio e alla fine che van bene anche se te le fai da solo. Ma un ragazzino di 17 anni che deve pensare? Che non servono! E invece, purtroppo, servono. Vuoi fare la riapertura? Compra 500 milioni di mascherine e distribuiscile. Non si può dire: ‘Eh va bè, le mascherine non ci stanno, fate da voi’. E poi ci lamentiamo che i ragazzi non ci credono?

Le mascherine fatte in casa funzionano?

Non lo sa nessuno. Sicuramente le mascherine chirurgiche marcate CE sì. Negli ospedali medici malati sono andati a lavorare infetti, ma indossavano le mascherine come i colleghi e non si è infettato nessuno.

Aprire le frontiere?

Una follia. Senza nessun approccio per tracciare, controllare queste persone, verificare se sono infette rischiamo di mandare all’aria tutto il lavoro fatto finora Lo trovo veramente irresponsabile.

Il virus Sars-CoV-2 si è indebolito?

No. I virus non si indeboliscono, è una categoria impropria. I virus diventano più o meno virulenti, con una maggiore o minore capacità di creare danno. I virus nella fase iniziale di un’epidemia, come l’attuale, tendono a diventare più virulenti, maggiormente trasmissibili. Tutt’altro scenario.

Perché i medici dicono che è cambiato il profilo dei malati, che sono meno gravi?

Perché la carica virale è diminuita. Accade per tutte le malattie infettive, c’è una correlazione tra gravità della malattia e gravità infettiva. Se io parlo con lei mezz’ora e le scarico addosso liberamente una montagna di virus le assicuro che avrà una malattia estremamente grave. Se usiamo tutti e due una mascherina e si infetta con poco virus, darà il tempo al suo sistema immune di neutralizzarlo.

Quindi se non si ripeterà più la situazione di febbraio, la circolazione incontrollata del virus, i malati potrebbero essere sempre meno gravi?

È una generalizzazione condivisibile. Dopo il lockdown di Vò, la prima zona rossa in Veneto, quando erano tutte in isolamento le persone sono guarite rapidamente e anche dei nuovi contagiati nessuno si è infettato in modo grave. Il virus era lo stesso di adesso.

Lei ha detto che il caldo ci aiuterà. Come?

Ho detto che lo spero. È possibile, per analogia con altri coronavirus, che il caldo secco possa ostacolare la diffusione del virus. Le goccioline emesse si essiccano rapidamente e perdono infettività.

Migliaia di persone hanno manifestato chiedendo “Ridateci la scuola”. Come sarà il rientro a settembre?

Premesso che anche i bambini si possono infettare, non c’è dubbio che siano molto più resistenti degli adulti. Se noi permettiamo di andare allo stadio non ha senso non mandare i bambini a scuola. Il rapporto è un bambino malato ogni 1.000 adulti. Il vero problema è regolare il flusso dei genitori che li vanno a portare e a prendere. Si possono fare dei modelli matematici per calcolare il rischio, dipende dalle dimensioni della scuola, delle classi, da come comunicano tra loro. Che aspettiamo?

Non è che anche lei, come il suo collega Massimo Galli, da giovane era nel movimento studentesco?

(ride…) Non mi esprimo. Però non so Galli, ma io ho tenuto fede alle mie convinzioni di studente. Fin da giovane mi sono battuto contro le divisioni sociali e anche nel mio lavoro mi sono sempre impegnato per migliorare la salute dei Paesi poveri e in via di sviluppo.

Un Fatto nuovo

Che senso ha un giornale di carta nell’èra del web? Perché mai aspettare il giorno dopo per conoscere le notizie del giorno prima che tutti, o almeno molti, hanno già ricevuto in tempo reale? Ce lo domandavano in molti già nel 2009, quando con Antonio Padellaro, Peter Gomez, Marco Lillo e un pugno di altri colleghi ci imbarcammo nella folle impresa del Fatto Quotidiano. E ce lo domandavamo anche noi. La risposta, per chi c’era, è nota: 30 mila abbonati al buio, sulla fiducia, prima di vedere il nostro giornale. E almeno il doppio di acquirenti dopo l’uscita nelle edicole. Da allora sono trascorsi 11 anni, il web gratuito e il digitale a pagamento hanno preso sempre più piede e si sono mangiati più della metà dei fatturati della carta stampata e delle edicole, nonché i tre quarti dei distributori. Eppure Il Fatto è più vivo che mai, con 50 mila acquirenti stabili (e almeno il quadruplo di lettori abituali) fra abbonati e habitué dell’edicola, una società editoriale multimediale guidata da Cinzia Monteverdi che, anziché tagliare sul personale come fanno altri, si tiene stretto il “capitale umano” e ci investe nuove risorse. Qualche mese fa, finiti i festeggiamenti del decennale, quando nessuno immaginava lo tsunami da Covid, ci siamo detti che era il momento di pensare a un Fatto nuovo. Non solo nella grafica, ma anche nell’offerta dei contenuti, per tenere il passo con i tempi che cambiano: con l’esigenza sempre più diffusa di un giornale più chiaro, leggibile, esclusivo, originale e sorprendente. Meno legato al flusso delle notizie del giorno prima, già masticate dai siti e dai social, dai tg, dai talk show e dalle rassegne stampa, e più ancorato ai “fatti del Fatto”. Cioè ai nostri scoop, inchieste, storie, analisi, commenti, interviste, dibattiti, fact checking.

Un esempio, per capirci: l’altro giorno il deputato Ricciardi ha scatenato reazioni furibonde, alla Camera e fuori, col suo atto d’accusa al “modello Lombardia”. L’indomani era impossibile che qualcuno non ne sapesse nulla, visto che fra il pomeriggio e la sera precedenti se n’era parlato dappertutto: in questi casi, se saremo bravi e mentalmente elastici, il nostro compito del giorno dopo non sarà di fornire una “ribollita” del déjà vu, ma una breve sintesi dell’accaduto seguita dai nostri approfondimenti, ascoltando voci favorevoli e contrarie alla tesi del deputato e indagando (come han fatto Maddalena Oliva e Davide Milosa) i principali errori commessi tuttoggi dalla Lombardia. Solo così offriremo ai lettori un valore aggiunto rispetto a ciò che già si sa o che gli altri non dicono.

Le notizie in pillole le troverete nella sezione “Zoom”, quelle esclusive nel “Focus”, le letture più ampie nel “Radar”: queste e altre novità scoprirete da martedì, distribuite su 24 o su 20 pagine a seconda dei giorni, insieme a nuove rubriche e iniziative, alle pagine di politica, cronaca, economia (l’inserto speciale del mercoledì passa al lunedì), esteri, “secondo tempo”, lettere e commenti.

Ma, dicevo, mentre il nostro art director Fabio Corsi e la sua squadra lavoravano al nuovo progetto grafico e noi giornalisti ai nuovi contenuti (a proposito: grazie a tutta la redazione per il magnifico lavoro durante la quarantena e soprattutto al nostro condirettore Ettore Boffano, tornato dalla pensione per qualche mese per aiutarci nell’operazione-rilancio), il mondo intorno a noi cambiava un’altra volta a causa della pandemia. E il panorama imprenditorial-editoriale veniva sconvolto da nuovi sommovimenti, con lo spadone della nuova razza padrona sbattuto sul tavolo di “Stampubblica” e, di riflesso, della politica. I valori costituzionali della salute e dell’eguaglianza, che parevano tornati al centro della vita pubblica, sono finiti di nuovo in un angolo a suon di diktat della Confindustria e dei suoi gregari politici e giornalistici, ansiosi di “riaprire tutto subito” e poi di mettere le mani sui soldi pubblici (statali ed europei) della ricostruzione. Un clima mefitico che ci ha ispirato lo slogan della nostra campagna promozionale: “Per non tornare alla ‘normalità’ di prima”.

Intanto, non saprei dire se per merito nostro o per demerito altrui, accadeva un piccolo miracolo: proprio mentre la gente era chiusa in casa, i nostri acquirenti in edicola e i nostri abbonati digitali aumentavano a vista d’occhio. E nuove firme importanti si avvicinavano al Fatto come a una scialuppa di salvataggio: alcune le avete già viste, altre le scoprirete da martedì in edicola.

Infine c’è la nuova offerta digitale, per gli abbonati online vecchi e nuovi (attenzione alle offerte post-Covid a prezzi molto convenienti): un pool di nostri giornalisti, coordinato da Salvatore Cannavò, invierà newsletter quotidiane e settimanali con contenuti supplementari a quelli della carta, alcuni gratuiti e altri a pagamento sul sito ilfattoquotidiano.it, oltre alla versione digitale del nostro mensile Millennium diretto da Peter Gomez e ai programmi di Loft (la nostra tv diretta da David Perluigi). Ancora due giorni di attesa, poi il Fatto nuovo sarà vostro. Noi ce l’abbiamo messa tutta. Voi ci direte se ne sia valsa la pena. Grazie.

Promozioni, penalty e sfide: addio a un signore del calcio

È stato il Clark Kent del calcio italiano. Educato, mansueto, riflessivo, il mondo in cui si è ritrovato a vivere, quello cinico e senza regole del pallone in cui per una vita è stato sballottato come in una gigantesca centrifuga, lo ha costretto a continue e a volte impossibili sfide: che lui ha accettato e giocato, ma preferendo restare sempre più Clark Kent che Superman, più Gigi Simoni che un supereroe delle Panchine. Se mai c’è stato un gentiluomo a calcare i campi di calcio e a posare le terga sulle infuocate panchine degli stadi italiani, questi è stato Gigi Simoni: morto ieri a Pisa a 81 anni, 65 dei quali spesi dapprima a giocare a calcio (iniziò nel ’55 nel vivaio della Fiorentina), poi a insegnarlo (un’infinità di promozioni in Serie A e la punta massima raggiunta con l’Inter di Ronaldo, la Coppa Uefa vinta nel 97-98 e lo scudetto perso nella famigerata sfida di Torino contro la Juventus e l’arbitro Ceccarini). Mite, umile, garbato, il calcio gli ha riservato solo prove enormi o comunque ingrate; a cominciare da quella dell’estate ’67 quando la Juventus provò in tutti i modi ad acquistare dal Torino l’astro nascente Gigi Meroni, 24enne ala destra dal genio puro, senza riuscirci: spaventato dall’insurrezione popolare, il presidente Orfeo Pianelli rinunciò ai 750 milioni di lire della Real Casa e chiese a Simoni, che in granata a sinistra era il dirimpettaio di Meroni, il favore di andare lui a vestire il bianconero per dare un contentino al popolo juventino. “Così, un po’ contro natura, vestii quella maglia che con le righe ti faceva sembrare gobbo: non fu una stagione memorabile, a dirla tutta”, raccontò Simoni. Che da calciatore aveva avuto un battesimo di fuoco niente male, protagonista del miracolo del Mantova di Edmondo Fabbri che nel ’61 arrivò a piantare la bandierina in Serie A. Simoni si ritrovò a giocare a fianco di Giagnoni, altro uomo in odore di leggenda granata, di William Negri e di Angelo Benedicto Sormani per non dire del tecnico Hidegkuti, mito vivente del calcio ungherese.

È stata però la panchina a riservare a Simoni le emozioni e i traumi più forti. Dopo essere diventato il primatista di promozioni in Serie A (ben 7 tra Genoa, Brescia, Pisa e quella storica con la Cremonese), nell’estate del ’97 arriva la chiamata che ti cambia la vita: a farla è Massimo Moratti che offre a Simoni la panchina dell’Inter proprio nei giorni in cui perfeziona l’acquisto dal Barcellona del non ancora 21enne Ronaldo, 51 miliardi di lire. Per i tifosi è come andare sulla luna. E per Gigi Simoni, che fino a quel momento aveva avuto a che fare con Tentoni e Dezotti o con Caccia e Di Napoli, anche. L’Inter conduce tutta la stagione a livelli altissimi: ma nonostante il trionfo in Coppa Uefa sfociato nella maestosa finale di Parigi (3-0 alla Lazio di Eriksson, lo squadrone di Nesta, Nedved e Mancini), nel ricordo di tutti, e soprattutto di Simoni, resta lo sfregio della sfida Juventus-Inter che il 26 aprile 1998 decise lo scudetto: il match dell’arbitro Ceccarini, quello del rigore-non rigore Iuliano-Ronaldo tuttora ricordato come una delle massime vergogne dello sport italiano. “E volete saperlo? – raccontò un giorno Simoni –. Ceccarini fece quel che tutti ricordano, eppure in tribunale io gli feci anche guadagnare dei soldi. Lui aveva fatto causa alla Gazzetta per diffamazione; mi chiesero se potevo dire che si fosse venduto la partita e io questo, non avendone le prove, non avrei mai potuto affermarlo. Così dissi che potevo solo giudicare le azioni che avevo visto, e giudicarle male. Alla fine vinse la causa e ottenne un risarcimento. Con tutto quel che m’aveva fatto…”.

Contro natura, appunto. Come l’esonero che sei mesi dopo, a fine novembre, gli arriva tra capo e collo per decisione di Massimo Moratti. L’Inter, che dopo quell’amaro secondo posto ha comprato anche Roberto Baggio affiancandolo a Ronaldo e portando 60 mila tifosi a sottoscrivere l’abbonamento, non gioca bene come il presidente vorrebbe. Il 25 novembre, però, stende a San Siro il Real Madrid per 3-1 (con 2 gol di Baggio nel finale) e il popolo impazzisce. Chi impazzisce di più, però, è Simoni: che di lì a 4 giorni, dopo un’Inter-Salernitana 2-1 rimediata da un gol di Zanetti al 90’, riceve da Mazzola la comunicazione dell’esonero. “Ho 60 mila abbonati, non voglio che vedano più partite così”, spiega Moratti. “Come vissi quel licenziamento? Come un fatto contro natura – non smise mai di raccontare Simoni –; anche se Moratti fu onesto, poi, nel riconoscere che aveva sbagliato. Fu un peccato. Avremmo potuto vincere ancora tanto, probabilmente”. Parola di Clark Kent, pardon, di Gigi Simoni.

Tanti auguri Clint. 90 anni di vita, 66 di arte

Il primo contratto, sessantasei anni fa. A Hollywood ci sono vite che durano assai meno, figurarsi le carriere. Lo firma nell’aprile del 1954 con Universal-International: 75 dollari a settimana. Che scegliesse il grande, anziché il più facile e remunerativo piccolo schermo dell’epoca, avrebbe detto qualcosa.

Fantascienza con le “creature”, western e altri B-movie, ne La vendetta del mostro (1955) di Jack Arnold è un tecnico di laboratorio e conta i topi, tre ancora in gabbia, uno fuori. Un’epifania freudiana: la nevrosi ossessiva di questo californiano “uomo dei topi” sarà il cinema.

Stesso regista, stesso anno, altro titolo, Tarantola: esce in sala il 14 dicembre, il 1° novembre si fa convenzionalmente iniziare la Guerra del Vietnam, il coinvolgimento americano può attendere, ma il venticinquenne attore ha già a che fare con il napalm. E, ancora, i mostri. L’eponimo ragno gigante minaccia la città, dalla Sands Air Base si alza una squadriglia di caccia, la comanda lui. Cabina di pilotaggio, casco, respiratore e visore, quattro inquadrature, altrettante battute: “Sparate due missili a questo primo passaggio”, “Ecco qui”, “Rilasciate il napalm, seguite in ordine”, “Sganciateli tutti”.

Il prossimo 31 maggio Clint Eastwood compie novant’anni: nondimeno, la ripartenza se la batte con il traguardo. È ancora di questa terra, malgrado una carriera sovrannaturale, malgrado gli occhi, le rughe, i ruoli e i film stampigliati sull’immaginario collettivo, malgrado la leggenda.

La figlia Alison s’è lasciata sfuggire che “papà odia festeggiare il compleanno”, e non farà eccezione tra due domeniche, Clint – alla trasmissione This Morning a fine gennaio – ha ribadito la predilezione per i giorni feriali: “Mi piace il cinema, è bello poter avere un lavoro retribuito”.

La pensione può attendere, è un uomo del fare: ha diretto trentotto film, l’ultimo Richard Jewell è uscito lo scorso 13 dicembre. Ventitré di questi li ha anche interpretati, soglia oltrepassata solo da Woody Allen. “Gli europei mi hanno incoraggiato molto più degli americani”, e pure la dieta mediterranea, a base di spaghetti-western: a Sergio Leone, cui avrebbe proverbialmente offerto due espressioni, con il cappello e senza, in Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo, rubò il mestiere. Non l’autorialità, ma l’industriosità: prima di George Lucas, c’è stato Clint Eastwood, sulla strada dell’indipendenza produttiva.

Impiega i soldi della Trilogia del dollaro e capitalizza l’insofferenza: il suo sogno americano non è quello hollywoodiano, l’American Rebel Eastwood – asserisce il biografo Marc Eliot– fa dentro e fuori lo studio system come Steve McQueen, come Jack Nicholson, ma è più attrezzato. E più deciso.

“Devi avere il film bene in mente ancora prima di realizzarlo. Se non ce l’hai, non sei un regista, sei uno che tira a indovinare”, e Clint non tira nemmeno a campare, pianifica: non ama Hollywood, non ama chi comanda né le sceneggiature che gli arrivano. Sicché fa di testa propria, e tra tante fortezze edifica la sua casetta: di produzione.

Non è peregrino che i suoi film non siano “di Clint Eastwood”, bensì “della Malpaso Company” o “Una produzione Malpaso”. A occhi europei, che ancora scontano l’ipermetrope politique des auteurs, potrebbe sembrare una intenzionale diminutio, ma è il suo contrario: è un certificato di libertà creativa – progetti, budget, tempi – rinnovato a ogni ripresa.

L’allergia al pensiero dominante, la refrattarietà al politicamente corretto, la direzione ostinata e contraria sono indissolubilmente legati al controllo dei mezzi di produzione: versione a stelle e strisce del libero arbitrio, Clint può perché ha.

Media realizzativa del fuoriclasse implacabile: 153 premi e 173 nomination; cinque Oscar: film e regia per Unforgiven (1993), onorario nel 1995, film e regia per Million Dollar Baby (2005); un patrimonio netto – gli han fatto i conti in tasca – di 375 milioni di dollari.

Eppure, nonostante le ricorrenze nella sua filmografia, i dollari non dicono tutto: oltre al divo c’è di più, c’è Dirty Harry, c’è il Kowalski di Gran Torino, c’è Il corriere – The Mule, diretto e interpretato a ottantott’anni nel 2018 (178 milioni al box office). C’è qualcosa del working class hero, almeno, il massimo che a una star hollywoodiana sia credibilmente concesso di essere.

Nonostante il divario di fama, soldi, status, ciascuno dei suoi spettatori confida di poterci prendere una birra insieme: ha ragione, e quella birra Clint la produce pure, Pale Rider Ale, ribattezzata dall’omonimo Il cavaliere pallido.

Negli ultimi cinque film ha scampato e scontato attentati (Richard Jewell), trafficato droga (Il corriere), ostacolato altri attentati (Ore 15:17 – Attacco al treno, 2018), salvato vite (Sully, 2016), procurato morti (American Sniper, 2014): strozzata o stentorea, sempre solista, la sua voce non ha smesso di cantare l’America.

In un cinema, e un mondo, votato alle vittime, ha ritrovato gli eroi. Sa chi sono, gli basta volgere gli occhi di ghiaccio allo specchio: il napalm nei serbatoi, il mostro là fuori, e Clint Eastwood ai comandi.

 

Strategie di BoJo: frontiere chiuse e scuole aperte

Lo ha annunciato ieri in conferenza stampa il ministro dell’Interno Priti Patel: dall’8 giugno il Regno Unito “chiuderà” le frontiere, imponendo la quarantena a tutti i viaggiatori in ingresso.

Un auto-isolamento obbligatorio di almeno 14 giorni anche in assenza di sintomi, garantito con una autocertificazione da compilare ai controlli di frontiera, in cui si dovranno fornire informazioni sul proprio viaggio, i propri contatti, l’indirizzo in cui si trascorrerà la quarantena e dare la disponibilità a controlli casuali da parte delle autorità sanitarie. Questo per poterli rintracciare nel caso sviluppino il Covid, o nel caso lo sviluppi qualcuno con cui potrebbero essere stati in contatto durante il viaggio.

Chi dovesse essere scoperto a violare l’auto-isolamento rischia una multa di 1.000 pound o una denuncia penale con sanzione non definita, la cui entità sarà correlata all’aumento del rischio di infezione dall’estero; ai viaggiatori non residenti nel Regno Unito che rifiutino di osservare le regole può essere negato l’ingresso nel paese.

Le nuove disposizioni si applicano ai viaggi aerei e via terra, con alcune esenzioni: lavoratori stagionali (in particolare per la raccolta della frutta) che dovranno auto-isolarsi nella sede di lavoro, camionisti, personale medico o tecnico e i viaggiatori che si muovano all’interno della Common Travel Area, che include Irlanda, le isole del Canale e l’isola di Man. Una misura preventiva che ha sollevato polemiche, visto che arriva con mesi di ritardo, in cui secondo alcune stime gli ingressi sono stati circa 20 milioni, i contagiati oltre 254mila, mentre i morti da Covid registrati ufficialmente ieri erano 36.393 di cui 351 nelle ultime 24 ore. Gli arrivi in aereo comunque, secondo dati ufficiali, sarebbero calati del 99% dal 23 marzo, data di inizio del lockdown, con 95 mila persone atterrate negli aeroporti britannici solo nel mese di aprile.

A fine febbraio e all’inizio di marzo ai viaggiatori in arrivo dalla zone a rischio veniva solo consigliato l’auto-isolamento, senza controlli o sanzioni, ma anche queste blande disposizioni erano state ritirate il 13 marzo e sostituite con manifesti informativi sul lockdown.

Contestazioni a cui ha risposto il capo dei consulenti scientifici dell’Home Office, il prof. John Ashton, spiegando che limitare gli arrivi in quei mesi non avrebbe avuto un impatto irrilevante sui contagi. Ora che la diffusione del virus sembra essersi ridotta e il numero di arrivi è in aumento, invece, l’impatto di eventuali contagi dall’estero può fare la differenza. Misure da rivedere ogni tre settimane: a seconda dell’andamento dell’infezione, il governo potrebbe allentarle o studiare accordi bilaterali con paesi a bassa trasmissione e con screening efficaci in partenza, rimuovendo la quarantena per i cittadini di quei paesi.

Cresce intanto la resistenza di genitori, insegnanti, sindacati della scuola e almeno 35 amministrazioni locali all’annunciato ritorno in classe, dal 1 giugno, delle classi di inizio e fine ciclo scolastico (asili, primine, prime, ultimo anno delle elementari). Tutti chiedono maggiori rassicurazioni, fra cui l’avvio di una efficace campagna di tracciamento e testing, forniture di Dpi, risorse per la sanificazione dei locali e valutazioni del rischio.

Preoccupazione condivise anche da medici ed esperti, fra cui il capo dei consulenti scientifici del governo. Tra le preoccupazioni principali degli insegnanti inglesi c’è quella legata al fatto che in parte molti di loro hanno continuato a lavorare anche in lockdown quando il governo ha voluto assicurare un sostegno per i bambini delle famiglie vulnerabili. Ma si tratta di un dibattito quasi esclusivamente inglese: la Scozia riaprirà l’11 agosto, data normale di inizio dell’anno scolastico, il Galles “quando riterremo che sia sicuro farlo”, l’Irlanda del Nord non prima di settembre.

Non solo Londra: app di tracciamento dannose per la privacy oppure inutili

Lo scorso martedì, un portavoce di Downing Street lo ha confermato: la app che il servizio sanitario nazionale sta sviluppando per il tracciamento degli infetti da Covid non sarà pronta per il 1º giugno, data fissata dal governo per un ulteriore rilassamento del lockdown, compreso il ritorno a scuola di alcune classi. Poco prima il capo dei consulenti scientifici del governo, la professoressa Angela McLean, aveva chiarito che le scuole dovrebbero essere riaperte solo in presenza di un efficace sistema di tracciamento e test, per evitare una recrudescenza del virus. Il Regno Unito punterà, per ora, sul tracciamento non virtuale, affidato ad alcune migliaia di operatori reclutati nelle scorse settimane. Cosa è andato storto? La app si basa su tecnologia Bluetooth: lavora in background sul telefono degli utenti, archiviando anonimamente l’Id di altri utenti nei dintorni. Chi sviluppa sintomi di Covid può farlo sapere a tutti gli utenti con cui è venuto in contatto, tramite un database centrale dell’Nhs. È il cosiddetto approccio centralizzato, che il governo britannico ha preferito a quello decentralizzato sviluppato da Apple e Google in cui le informazioni restano nel dispositivo e non vengono condivise centralmente. Questa scelta, secondo il governo, consente una migliore identificazione degli hotspot di contagio e una risposta sanitaria più efficace.

Crea però problemi di sicurezza, visto che non può contare sulle interfaccia di Apple e Google, e di privacy, visto che il proprio Id, associato all’iniziale del proprio codice postale, rende potenzialmente identificabile l’utente e chi è venuto in contatto con lui. Problemi evidenziati nelle settimane di sperimentazione nell’isola di Wight, dove è stata scaricata solo da 50mila dei 140mila abitanti. Il conflitto fra privacy ed efficacia del tracciamento virtuale si è posto ovunque, come scrive ScienceMag in un ampio articolo. La Cina lo ha risolto portando all’estremo la sorveglianza, con il controllo centralizzato di movimenti e acquisti. Le app di tracciamento di Corea del Sud, India, Islanda e alcuni stati americani, come Utah e North Dakota, localizzano i telefoni tramite tecnologia Gps: tracciamento non sempre preciso e legalmente contestabile. La Norvegia ha scelto un approccio centralizzato, mentre le app in sviluppo in Svizzera e Germania preferiscono quello decentralizzato, anche per evitare possibili violazioni della legge europea sulla privacy, che vieta la divulgazione di dati sanitari. Poi c’è la questione dell’efficacia, sui cui in questa fase ci sono solo proiezioni epidemiologiche.

Per funzionare, il tracciamento virtuale deve coinvolgere una porzione molto ampia della popolazione; identificare i rischi reali, cioè per esempio, nel caso del Bluetooth, funzionare anche se in tasca invece che in mano o su un tavolo; registrare nuove infezioni; contribuire effettivamente a ridurre il contagio. Anche su questo aspetto della lotta al Covid non ci sono ancora certezze.

La Cina post-virus: armi, zero crescita e più censura

Che la Cina, dopo aver chiuso il primo trimestre dell’anno con un tonfo del 6,8%, stia affrontando un anno di crisi inedita, non solo a causa della pandemia originata nella città di Wuhan, è emerso ufficialmente dalla relazione annuale di fronte all’Assemblea Nazionale del Popolo pronunciata dal primo ministro Li Keqiang.

Il numero due di Pechino ha sottolineato il carattere imprevedibile delle conseguenze che peseranno a tal punto da costringere il governo a evitare di fissare l’obiettivo di crescita economica dell’anno. Non era mai accaduto negli ultimi 25 anni.

Per la super potenza comunista cinese che ha fatto della programmazione economica ventennale (possibile solo nei regimi) un simbolo della propria solidità e stabilità, ammettere di dovervi rinunciare è già di per sé un indice di indebolimento senza precedenti. Tradotto: impossibilità di raddoppiare il Pil entro fine anno, uno dei traguardi decennali messi in agenda dall’esecutivo precedente.

Per controbilanciare, il presidente a vita Xi Jinping ha dovuto derogare al proprio obiettivo principale, ovvero limitare il debito pubblico. Quest’anno il deficit sforerà di quasi 1 punto percentuale la linea rossa del 3%.

La lista delle priorità è stata dunque ridefinita da questa pandemia epocale che ha spinto al massimo la frizione già in corso tra Cina e Stati Uniti. Prima le liti sui dazi, poi le proteste di Hong Kong, quindi le accuse incrociate di aver dato origine al Covid-19, sta di fatto che le due super potenze ora sono ai ferri corti e, vuoi per deterrenza, vuoi per difendersi, la Cina ha aumentato ulteriormente le spese militari. Rispetto all’anno scorso, il budget militare salirà del 6,6% in proporzione al Pil. Si tratta di una decisione presa per mostrare i muscoli non solo a Washington e all’Occidente ma anche in ambito domestico, precisamente agli abitanti dell’ex colonia britannica di Hong Kong che dallo scorso anno scendono in piazza per protestare contro l’ingerenza di Pechino, sostenuti anche dalla Casa Bianca. Il rispetto dell’autonomia della metropoli sancito sulla base del principio “un Paese, due sistemi” è ritenuto non negoziabile da molti abitanti di Hong Kong, soprattutto giovani, ma la Cina ha iniziato a minarlo cercando di imporre nel 2019 la legge sull’estradizione, poi ritirata in seguito alle continue proteste. Uno smacco enorme per il regime “patrigno” che ora mostra di aver perso definitivamente la pazienza sottoponendo al vaglio dell’Assemblea una nuova legge sulla sicurezza di Hong Kong. L’approvazione è scontata ma le conseguenze non lo sono.

Secondo il Segretario di Stato americano Mike Pompeo, che chiede a Xi di riconsiderare la decisione, questa “è un cappio attorno al collo dell’autonomia della metropoli” asiatica anglofona la cui Borsa ieri ha perso ben il 5 per cento. Le nuove norme sono destinate a provocare proteste ancora più forti che però, proprio a causa delle misure, verranno sanzionate più pesantemente. La legge, che punisce la secessione e l’eversione contro lo Stato, terrorismo e interferenze straniere, diventerà operativa dopo l’inserimento nell’Allegato 3 della Basic Law, la mini- Costituzione locale.

La mossa supererebbe lo scrutinio del parlamentino dell’ex colonia e spianerebbe la strada all’apertura nella città di un Ufficio sulla sicurezza nazionale di Pechino, senza le autorizzazioni che devono essere richieste al governo locale. La tanto detestata governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, in una nota, ha specificato che collaborerà pienamente con Pechino secondo il nuovo quadro normativo che di fatto svuota, senza abolirlo, il modello “un Paese, due Stati”. Il numero 2 della nomenklatura ha affermato che quest’anno è anche dirimente difendere l’occupazione e la qualità della vita del popolo. Al di là dei proclami sono stati predisposti tuttavia pochi sussidi per aiutare i più deboli. Nonostante il brand “comunista” farebbe pensare il contrario.

Solo i cinesi che vivono nelle zone più remote e i migranti interni hanno ottenuto un leggero aumento dei sussidi sanitari e il premier ha promesso l’ammodernamento del sistema sanitario pubblico nazionale, che garantisce poche prestazioni gratuite. Il governo si è impegnato anche a creare 9 milioni di posti di lavoro nelle città, contro gli 11 dello scorso anno. Il Fondo monetario stima per la Cina una crescita annuale dell’1,2%, il dato più basso di sempre.

Il Covid non ferma i licenziamenti: Jabil e le altre

Era prevedebile che le aziende avrebbero cercato di aggirare il divieto di licenziare imposto dal governo durante l’emergenza Covid. Ma la mossa della multinazionale americana Jabil, che giovedì ha deciso di mandare a casa 190 operai di Marcianise (Caserta) ha sorpreso anche chi ha sempre seguito da vicino la tragedia di quella fabbrica. Il pretesto è che si tratta di una crisi avviata un anno fa con una procedura per dimezzare il personale. Negli ultimi due mesi, Jabil – che produce componenti elettronici – si è tenuta a galla con la cassa integrazione concessa a tutte le imprese per l’emergenza sanitaria. Nessuno sa perché non vuole continuare a utilizzarla e cercare un’alternativa ai licenziamenti

“Era nell’aria – ha spiegato uno dei lavoratori da due giorni in presidio – ma non in questo modo. A giugno dell’anno scorso hanno dichiarato 350 esuberi su 700 ed è partito un piano di ricollocazione. Finora è stato accettato da 160 nostri colleghi”.

Insomma, Jabil si era impegnata ad aiutare gli operai nella ricerca di un posto nelle altre aziende del territorio; a marzo 2020 avrebbe licenziato quelli ancora non reimpiegati. All’inizio è sembrato funzionare, poi però è arrivata la pandemia e il meccanismo si è inceppato. “Anche le imprese che hanno assunto i 160 lavoratori ex Jabil ora sono in difficoltà e stanno usando la cassa integrazione – prosegue l’operaio – quindi vorremmo capire se ci sono ancora reali prospettive”. Jabil ha attivato la Cassa integrazione alla fine di marzo. Oggi, spiega Francesco Percuoco della Fiom, “potrebbero usare altre cinque settimane”. Quindi si potrebbe dare nuovo respiro in attesa di soluzioni per i 190 rimasti in esubero. Giovedì sera, però, l’azienda ha detto a Fim, Fiom, Uilm e Failms che non proseguirà con la cassa e li licenzierà il 25 maggio. “In un periodo come questo – fa notare un altro lavoratore – sarà impossibile trovare nuove opportunità. Io ho 50 anni e sono qui dal 1996: prima ero dipendente della Marconi, poi sono passato a Jabil nel 2001 nell’ambito della cessione di ramo d’azienda”.

Le acquisizioni della Jabil nel polo industriale casertano sono note. Nel 2015, è stata la Ericsson a finire sotto l’ombrello degli americani. I conti su quanto queste scalate siano costate in termini occupazionali sono fatti dagli operai stessi: “Da oltre duemila, siamo passati a 540 e ora diventeremo 350”. L’azienda ha scaricato le responsabilità dell’operazione sui lavoratori stessi: “Nonostante gli sforzi – ha scritto in una nota – ad oggi si registra purtroppo un risultato deludente sulle adesioni al reimpiego”. Il ministero del Lavoro ha già fatto scattare le verifiche e dai primi risultati, ha detto la titolare Nunzia Catalfo, sembra che questo caso rientri “nello stop alle procedure di licenziamento per emergenza covid”. Quindi una forzatura non sanabile nemmeno dal fatto di essere la coda di una procedura iniziata prima della crisi sanitaria.

Ma le storie di addetti messi alla porta nonostante i divieti si stanno moltiplicando in Italia. Da settimane sono in protesta 270 lavoratori di Roma Multiservizi e altre aziende collegate perché rischiano il posto in seguito alla mancata proroga di un appalto. La Flai Cgil ha raccontato che la Gastronomia Umbra ha licenziato 14 persone per esternalizzare le attività produttive. Agli impianti sciistici Vialattea, nell’Alta Valle di Susa, la Sestrieres Spa ha licenziato in anticipo i suoi 200 stagionali anziché mantenerli e metterli in cassa integrazione.

In questa situazione riaffiorano anche le crisi aziendali. Lunedì ci sarà lo sciopero dell’ex Ilva perché l’Arcelor Mittal (11 mila operai) è ormai chiaramente intenzionata a mollare. Grande incertezza è tornata sull’Ast di Terni (2.500 addetti), con la ThyssenKrupp pronta a vendere l’acciaieria. E il destino della Whirlpool di Napoli (450) è sempre segnato dalla volontà di fuga della multinazionale degli elettrodomestici.

Atlantia vuole l’aiuto statale e minaccia causa al governo

La guerra tra il governo e i Benetton si arricchisce di un’altra tappa. Stavolta siamo alle minacce esplicite. Ieri Atlantia, la holding controllata dalla famiglia di Ponzano Veneto, che a sua volta controlla Autostrade per l’Italia, ha riunito un consiglio di amministrazione straordinario per prendere alcune decisioni, e minacciarne altre. Tra le prime c’è lo stop agli investimenti, con soldi che verranno usati solo per le manutenzioni. Tra le seconde l’avviso di unabattaglia legale per la questione delle concessione.

La situazione sta diventando surreale. Dalla tragedia del Ponte Morandi di Genova (43 morti) di agosto 2018 il governo minaccia di revocare la generosa concessione di Autostrade, che negli anni l’hanno trasformata in un vero bancomat in grado di arricchire i Benetton con pochi eguali nel mondo, anche a scapito del freno tirato su investimenti e manutenzioni. Eppure in quasi due anni non è stato fatto nessun passo avanti significativo sulla procedura.

La partita è resa quasi grottesca dall’intenzione di Atlantia di ricorre alle garanzie pubbliche sui debiti bancari stabilite dal decreto liquidità, alle quali, a rigor di legge, avrebbe diritto. La scelta – che spiega il nervosismo ed è alla base della mossa di ieri – riguarda garanzie elargite dalla pubblica Sace su due miliardi di prestiti, destinati per 1,2 miliardi alla sola Aspi e gli altri alle controllate Aeroporti di Roma, Telepass e Pavimental. A far scattare Altantia è stata l’uscita di ieri del viceministro allo Sviluppo Stefano Buffagni, che auspica il rigetto della richiesta.

La realtà è che al ministero dell’Economia -che deve autorizzare l’aiuto – la trattativa è già partita. Giovedì ci sono state le prime riunioni tra gli emissari dei Benetton e lo staff del ministro Roberto Gualtieri. Se fosse concessa, la garanzia pubblica porterebbe a una situazione incredibile: da un lato lo Stato minaccia di togliere la concessione ad Autostrade, dall’altro gli garantisce i debiti, che ovviamente si troverà a pagare in caso di revoca visto che Aspi non sopravviverebbe senza la concessione.

La garanzia pubblica permetterebbe ad Atlantia di abbassare i costi di finanziamento. Il gruppo dei Benetton accusa lo Stato di avergli reso impossibile ricorrere al mercato del credito dopo che il decreto “Milleproroghe” di dicembre 2019 ha tagliato il maxi indennizzo previsto dalla concessione anche in caso di revoca per colpa grave (come sarebbe il caso del Morandi). Eppure Atlantia ha tirato via dalla sua controllata Autostrade dividendi per 8 miliardi negli ultimi 10 anni.

Nella nota diffusa ieri, viene spiegato che il cda ha dato mandato ad Aspi di usare i 900 milioni di linea di credito concessa, bontà sua, da Atlantia destinandola alle manutenzioni e rinviando gli altri investimenti. La concessione dà sei mesi di tempo ad Autostrade per fare causa in seguito a modifiche contrattuali, com’è il caso del Milleproroghe, che scadono a fine giugno. E per questo ieri Atlantia ha “dato mandato ai legali di valutare tutte le iniziative necessarie per la tutela della società e del Gruppo, visti i gravi danni”.

La nota sostiene che non è ancora pervenuta alcuna risposta all’offerta inviata al ministero delle Infrastrutture il 5 marzo per chiudere la ferita aperta dal Morandi: un’offerta considerata dal governo quasi offensiva per la sua inconsistenza. Nel frattempo, però, il dossier resta bloccato. Il ministro Paola De Micheli ha consegnato a Palazzo Chigi il rapporto finale sulle inadempienze di Aspi a partire dal Morandi. La revoca è presa in considerazione, ma il governo non ha la forza di imboccare quella strada. L’alternativa ventilata nel dossier è l’uscita di scena di Atlantia, cioè dei Benetton, da Autostrade, con la vendita dell’intera quota. Ma la famiglia di Ponzano la valuta a prezzo pieno, intorno ai 7 miliardi. E così lo stallo continua. Mentre il Tesoro si prepara a concedere la garanzia. Rivolta di 5Stelle permettendo.

Aiuti di Stato nella Ue: ecco cosa fanno i nostri “concorrenti”

La recessione da Covid, la peggiore di sempre in tempo di pace, riscriverà la mappa economica e industriale del pianeta e, in larga parte, lo farà grazie all’intervento pubblico. L’Ue, proprio per far fronte alla crisi, ha sospeso l’usuale e rigido divieto agli aiuti di Stato e ha autorizzato, o si appresta a farlo, interventi per quasi 2.000 miliardi: ovviamente la potenza di fuoco degli Stati avrà effetto sul presente e sul futuro. Ecco, in breve, cosa stanno facendo Paesi europei simili all’Italia.

Germania. Circa la metà degli aiuti di Stato approvati dall’Ue riguardano Berlino, il cui Pil però vale meno di un quarto di quello dell’Unione. La banca per lo sviluppo KfW (simile alla nostra Cdp) e il nuovo fondo di stabilizzazione WSF hanno dispiegato garanzie pubbliche di ammontare virtualmente illimitato sui nuovi prestiti. In questo modo lo Stato è andato in soccorso dell’industria bancaria, che versa in fragili condizioni e negli anni scorsi è stata aiutata dal settore pubblico in modo massiccio. Il WSF, inoltre, può entrare direttamente nel capitale delle maggiori imprese in difficoltà fino a un totale di 100 miliardi di euro: l’esempio finora più eclatante è l’acquisto del 25% di Lufthansa, a cui lo Stato ha imposto diverse condizioni restrittive. E la KfW può fornire 100 miliardi di rifinanziamento in collaborazione con le banche commerciali. Lo Stato tedesco prende così le redini del credito. Berlino, inoltre, ha ampliato l’accesso alla Kurzarbeit (l’equivalente della cassa integrazione italiana) e ha approvato 50 miliardi di sussidi per le piccole imprese e per gli autonomi.

Francia. Anche il governo di Emmanuel Macron si è mosso su più fronti. Per quanto riguarda le garanzie sui prestiti e gli schemi di riassicurazione dei depositi, è stato approvato un pacchetto di 315 miliardi: di questi, 7 sono andati ad Air France-Klm (sempre con le dovute “condizioni”). La Ue ha dato il via libera anche a un prestito da 5 miliardi alla Renault: prima di dire il suo sì definitivo, però, il ministro dell’Economia Bruno Le Maire vuole adeguate garanzie dalla società. Se le case automobilistiche vogliono gli aiuti di Stato, infatti, in Francia devono impegnarsi “in tre direzioni: i veicoli elettrici, il rispetto dei subappaltatori e l’ubicazione in Francia delle attività tecnologicamente più avanzate” (forse è anche per questo che Peugeot, che sta per fondersi con Fca, non ha finora chiesto denaro pubblico). La manovra fiscale da 110 miliardi varata da Parigi ha dato respiro alla liquidità delle imprese attraverso il differimento del pagamento di contributi e imposte e il rimborso accelerato di crediti d’imposta. Sono state approvate misure specifiche per le realtà più piccole, con un fondo di solidarietà da 1,5 miliardi e uno stanziamento da 4 miliardi per le start-up. Infine, c’è uno stanziamento (fino a 20 miliardi) per ricapitalizzazioni o nazionalizzazioni di imprese in difficoltà, ancora da utilizzare.

Spagna. Madrid ha messo sul piatto 17,8 miliardi per la cassa integrazione e 2,2 miliardi per le imprese che, usufruendone, mantengono i livelli occupazionali. Anche il governo spagnolo ha offerto il suo sostegno alle banche: le garanzie pubbliche sui prestiti ammontano a 100 miliardi, a cui si aggiungono 2 miliardi per gli esportatori e ulteriori garanzie per gli agricoltori. Madrid ha poi potenziato la dotazione della banca pubblica ICO, con 10 miliardi disponibili per il credito e una linea speciale da 400 milioni per sostenere il turismo. Fra le imprese ad aggiudicarsi questi prestiti c’è anche la OHL, multinazionale edilizia, che ha ottenuto 140 milioni. Come in Italia, sono stati introdotti controlli più stringenti sugli investimenti esteri, ma c’è stata anche attenzione per le piccole realtà. I lavoratori autonomi sono stati esentati dal pagamento dei contributi per 980 milioni e insieme alle Pmi possono godere di un differimento delle imposte di sei mesi.

Gran Bretagna. Uscendo dalla zona euro (ma anche dall’Ue), la Gran Bretagna ha varato misure dirette per 27 miliardi di sterline a sostegno delle imprese, che includono esenzioni dalle tasse sulla proprietà, sussidi diretti e compensazioni per i congedi di malattia. La decisione più radicale è stata quella di pagare l’80% degli stipendi dei lavoratori autonomi e in congedo, almeno fino a maggio. Inoltre, il governo ha lanciato tre diverse linee di credito per facilitare l’accesso delle imprese ai prestiti: due dedicate alle Pmi e una alle società più grandi. Sono stati messi in campo, tra prestiti e garanzie statali, 330 miliardi di sterline. Ad aggiudicarsi ben 600 milioni di questi fondi è stata Ryanair, la compagnia aerea irlandese che ha a London Stansted la sua base principale. Ironia della sorte, perché proprio l’ad Michael O’Leary si era scagliato contro gli aiuti di Stato ai concorrenti, descrivendoli come una “distorsione del mercato” e definendo Lufthansa “uno zio ubriaco a un matrimonio”.

Insomma, tutti i Paesi europei si stanno muovendo, ma lo sforzo, essendo affidato ai bilanci nazionali, è per forza di cose asimmetrico. È una vera e propria corsa a salvare il settore privato, attraverso sussidi, prestiti, garanzie e ricapitalizzazioni. E di solito vince chi costruisce una macchina più potente e mette più benzina nel motore, ovvero, quasi sempre, chi ha più soldi da spendere.