La Bce non cede a Berlino (per ora): a giugno, se serve, faremo più acquisti

Fino al 5 agosto si può continuare come se nulla fosse, ma la Banca centrale europea non pare volersi preoccupare della sentenza della Corte costituzionale tedesca che le chiede, entro quella data, di giustificare il suo operato quanto al cosiddetto Quantitative easing, il programma di acquisti di titoli pubblici e privati realizzato tra 2015 e 2018 e ripreso a settembre scorso.

La Bce, in sostanza, continua a ritenere che, non essendo vincolata da giurisdizioni nazionali, quella sentenza sia un problema della Germania: se la vedessero loro sul come venirne fuori (ma è irrealistico pensare che le istituzioni tedesche possano non tener conto dei loro giudici costituzionali). Insomma, la guerra tra Francoforte (la Bce oggi a guida francese) e Berlino attorno a quale assetto dare ai rapporti interni all’Eurozona non accenna a placarsi.

La Banca centrale, per ora, non cede e lo si desume da due segnali: 1) la pubblicazione dei verbali del consiglio direttivo della Bce del 30 aprile, a cinque giorni da una sentenza di cui tutti capivano la portata e i contorni; 2) le parole di ieri del capo economista Philip Lane, che sottintendono che la banca centrale ritiene che le sue operazioni debbano semmai aumentare.

Partiamo da queste ultime. Il mandato della Bce è la stabilità dei prezzi, finora indicata in un’inflazione poco sotto il 2%: obiettivo fallito, al ribasso, da anni. Lane ha sostenuto che la bassa inflazione probabilmente sarà “più persistente” e di quel che si era abituati a pensare “con le banche centrali che chiudono i gap di inflazione su un orizzonte di tempo più ampio”. Insomma, le azioni della Bce per riportare la dinamica dei prezzi verso il 2% rischiano di durare a lungo.

Ma come andranno avanti? È il centro della contestazione tedesca che chiede “proporzionalità” – secondo il peso all’interno del capitale della Bce (capital key) – negli interventi di Francoforte. Una scelta che, se avallata dalla banca centrale, lascerebbe alla mercè dei mercati molti Paesi, primo dei quali l’Italia: in sostanza Berlino agli Stati più deboli indica il Mes (cioè la Troika), Francoforte la via di una sostanziale monetizzazione del deficit. E qui veniamo ai verbali del 30 aprile.

Il board della banca centrale parla del programma PEPP, il piano di acquisti anti-pandemia che è il fratello sregolato del Quantitative easing: una sorta di spauracchio per i falchi tedeschi. Ne parla a cinque giorni dalla sentenza delle “toghe rosse” di Karlsruhe e dice questo: la Bce adeguerà le misure messe in campo in base alle necessità e in particolare è “pronta a incrementare le dimensioni del programma PEPP” se, sulla base delle informazioni “disponibili prima del vertice di giugno, stabilisse che le dimensioni dello stimolo si stessero rivelando inferiori al necessario”.

Insomma, se necessario la Bce comprerà anche di più, e fin da giugno, rispetto ai 750 miliardi fino a fine anno indicati inizialmente. La guerra, però, è solo all’inizio. Berlino ha appena dato il via libera al Recovery Fund da 500 miliardi anche per trovare una forma di “pace” con Francoforte: un piano europeo ora c’è, la Bce smetta di immischiarsi. L’unica incognita è la posizione francese: la governatrice Christine Lagarde è poco banchiere e molto politico.

Per il turismo è il tracollo: presenze al livello del 1978

Circola tra gli addetti ai lavori uno studio sul turismo nel dopo-Covid che lascia senza fiato. In una ventina di pagine di simulazioni e dati molto dettagliati, gli analisti di Thrends, società specializzata in strategie per l’economia delle vacanze, arrivano a una conclusione catastrofica: nel 2020 l’industria dello svago che ora assicura all’Italia tra il 13 e il 14 per cento della ricchezza nazionale (Pil) fa un balzo indietro di più di quarant’anni tornando ai livelli del 1978: da 218 milioni le presenze turistiche scenderebbero a 154 milioni, proprio come alla fine degli anni Settanta del secolo passato.

In soldoni significa 18 miliardi di spesa turistica in fumo: 9,2 per gli stranieri che non vengono, 8,8 per gli italiani che non se la sentono di andare in vacanza o non hanno più i soldi per farlo. Tutto da rifare per albergatori, operatori turistici, agenzie. Con un doppio handicap, però: essere costretti a navigare a vista e per di più senza un adeguato sostegno dello Stato su cui erano certi di poter contare.

A prima vista il decreto Rilancio, non sembra avaro con il settore delle vacanze destinando a esso circa 4 miliardi di euro. Ma non è tutto oro quel che luccica, anzi. Di quei 4 miliardi più della metà, 2 miliardi e 400 milioni, sono per il bonus vacanza, un sistema pensato per incentivare gli italiani con un reddito medio-basso, con un Isee (l’indicatore della situazione economica) inferiore a 40 mila euro. Per il ministro della Cultura e del Turismo, Dario Franceschini (Pd), il bonus è il perno su cui far ruotare la strategia del dopo Covid. Ma gli imprenditori che grazie a quel sistema dovrebbero ripartire danno un giudizio diverso e opposto: esso serve a poco o a nulla, non farà affatto la differenza e quasi sicuramente sarà usato poco.

Tra albergatori e operatori turistici circola un’altra definizione del beneficio fiscale di Franceschini, spregiativa e un po’ classista: non bonus vacanza, ma la “vacanza di cittadinanza” con un richiamo evidente al discusso Reddito di cittadinanza (che però funziona in modo diverso ed è un’altra cosa). Secondo la valutazione di molti imprenditori turistici il bonus del ministro sarebbe propaganda per una campagna elettorale che in Italia non finisce mai.

Il bonus vale 500 euro per una famiglia composta da almeno 3 persone, scende a 300 se le persone sono 2 e a 150 per i single. Albergatori, agriturismi e Bed&Breakfast devono anticipare al cliente l’80 per cento della somma che poi potranno recuperare come credito d’imposta nei mesi futuri. A parte il meccanismo barocco di funzionamento, quel che non va giù agli imprenditori è che quel sistema li priva del denaro fresco di cui mai come in questo momento avrebbero bisogno per pagare i fornitori, le bollette e tutte le spese necessarie per il riavviamento. In pratica il bonus li trasforma obtorto collo in finanziatori delle vacanze dei clienti.

Non è l’unico punto che divide imprenditori e ministro. Anche sui criteri di spesa del restante miliardo e 600 milioni c’è parecchia maretta. Tra le varie voci è previsto un fondo per il turismo di 150 milioni di euro, 50 per il 2020 e 100 per l’anno successivo, con l’obiettivo di preservare l’italianità delle imprese usando uno scudo economico in grado di metterle al riparo dalle probabili incursioni di conquista da parte di gruppi stranieri. Ma gli alberghi in Italia sono 30 mila circa, in media ognuno di essi vale una trentina di milioni e 50 milioni pubblici per difenderli tutti più che una diga sono un kleenex. Idem lo stanziamento di 25 milioni di euro per agenzie turistiche e tour operator: le agenzie sono quasi 10 mila, i tour operator un centinaio, fatta la divisione a ognuno tocca una mancetta di 2.500 euro.

Mentre lo Stato delude di fatto l’industria delle vacanze, che prima del Covid non se la passava male, al ministero di Franceschini si concentrano sull’Enit, l’ente del turismo sparito dai radar durante tutta la fase del lockdown. Il decreto del governo prevede sia nominato un nuovo amministratore delegato, al posto del leghista Giorgio Palmucci, e due nuovi consiglieri in sostituzione di quelli di Forza Italia e di Fratelli d’Italia. Molto attivo per la nomina l’entourage di Nicola Zingaretti, segretario Pd e governatore del Lazio.

La sottosegretaria Lorenza Bonaccorsi, già assessore al turismo nella Regione Lazio, spinge il direttore Giovanni Bastianelli, mentre l’ex direttrice del Turismo della stessa Regione, Flaminia Santarelli, è stata nel frattempo nominata Direttore generale del ministero.

“Dillinger è morto”, solo Piccoli poteva affrontare un film così

“L’isolamento in una camera dove per sopravvivere è necessario portare una maschera ricorda molto le condizioni di vita dell’uomo contemporaneo”. Chissà se Marco Ferreri avrebbe girato Dillinger è morto, il film più radicale del cinema italiano, senza Michel Piccoli. Nelle sequenze iniziali Piccoli indossa una maschera antigas (altro che Attilio Fontana), ascolta un passo di Marcuse da cui abbiamo preso la citazione, poi va a casa. Nel cuore della notte si prepara la cena, ascolta Lucio Dalla e Jimmy Fontana, monta una vecchia pistola, la pittura di rosso a pallini rosa, fa l’amore con la serva – allora si chiamavano così –, spara alla moglie (una Anita Pallenberg, irresistibile e neghittosa), sale in auto e guida fino a Portovenere, da dove si imbarca per i mari del Sud. Il film dal budget irrisorio è girato quasi per intero nell’appartamento di Mario Schifano, dove nel giro di 90 minuti Piccoli pronuncia sì e no 100 parole. Per reggere da solo una simile detonazione di nichilismo ci voleva una fisicità uguale e contraria, una presenza tanto plastica quanto sorniona, un sex appeal resiliente alla maschera antigas come al grembiule da cucina, altrimenti quel capolavoro di ombre e silenzi non sarebbe mai stato tale.

Michel Piccoli è stato l’uomo dalle missioni esistenziali impossibili, ha reso verosimile non saper scegliere tra Lea Massari e Romy Schneider, è stato il Questore di Parigi a cui, quando viene annunciato “Abbiamo arrestato un pazzo che dice di essere lei” non fa una piega: “Ah. E mi somiglia?”. Per le generazioni che hanno amato il cinema andando al cinema, quando il buio in sala confinava con l’occulto, ha dell’incredibile che la scomparsa di Michel Piccoli sia passata così sottotono, che abbia fatto “ritorno a casa” senza particolari omaggi, quasi nell’indifferenza, come nel capolavoro di Manoel de Oliveira. Ma forse non c’è niente di strano, è l’ennesima conferma dell’eclissi della politica degli autori e dei loro feticci. Si chiamava Piccoli, ma era un grande. Un grandissimo di un cinema che non esiste più.

Gramellini, il finto ingenuo anti-Raggi

Massimo Gramellini attacca sul Corriere Virginia Raggi: tra gli effetti della pandemia ci sarebbe la sua intenzione di ricandidarsi a sindaco di Roma. I romani sono stati chiusi in casa e vista dal balcone Roma era bellissima, “non prendendo la macchina, nessuno si lamentava più dei crateri stradali”, non prendendo il bus… e via con l’elenco dei luoghi comuni. Ma la satira non dovrebbe scavare a fondo, “minacciare davvero l’ordine della realtà”? Il finto buonismo di Gramellini ha stufato. Troppo parziali le sue tesi e mai una domanda sui problemi reali, profondi: perché il vecchio potere romano non sopporta la Raggi? Perché i costruttori, padroni di giornali, ce l’hanno con lei? Perché l’attacco ai Casamonica è avvenuto nella sua consiliatura? Perché s’ostacolava la regolarità degli appalti e Virginia l’ha imposta? Eccetera. I romani hanno capito che ritardi nei lavori, per garantire legalità, sono accettabili. C’è fiducia nella Raggi. Ma a Gramellini non piace. Ci salveranno gli ingenui, recita un suo libro: purché non sia finta ingenuità, aggiungo, utile a forze dichiarate avverse, e di fatto protette. Fai bei sogni, Gramellini; ma poi svegliati, prendi il caffè e racconta la realtà com’è: senza avallare con le omissioni vecchi poteri romani che odiano la Raggi perché gli è ostile.

Silvio e la visione del Mes da vicino

Da qualche settimana, Silvio Berlusconi non si dà pace. Non sono gli antichi vizi che lo assillano, ma un per così dire, malinteso. Non si capacità che l’Italia non ricorra ai prestiti “sanitari” del Meccanismo europeo di stabilità. “Il Mes? Non riesco a capire questa discussione. È davvero incredibile, ci sono interessi allo 0,1% e senza condizioni. Sembra fatto apposta per noi. Abbiamo un bisogno drammatico di risorse da mettere nel sistema economico, soldi praticamente gratis. Si tratta di un atto di solidarietà dell’Europa. Dire no è anti europeo”, ha detto ieri. Il nostro lo va peraltro ripetendo da mesi, senza che nessuno dell’entourage lo metta sull’avviso. Quelli del Mes hanno un tasso vantaggioso, ma sono pur sempre prestiti, non soldi regalati: aumentano il debito (e con un creditore privilegiato) e vanno restituiti. Ma lui niente: “Il Mes è così conveniente che noi non dovremmo avere dubbi nell’accettarlo”. Certo, la visione del Mes da vicino potrebbe portare il nostro a rendersi conto che i dubbi ce li hanno tutti i grandi Paesi europei, che infatti – dalla Spagna al Portogallo alla Francia (e financo alla Grecia) – hanno fatto sapere che non ne vogliono sapere. O forse sono tutti “anti europei”.

Una nuova legge per l’autonomia

 

“La libertà di stampa è stata all’origine della stessa libertà politica”

(da “Un secolo di giornalismo italiano” di Giancarlo Tartaglia – Mondadori Education, 2008 – pag. XVIII)

 

Nelle guerre di carta fra i giornali dei “padroni”, fa specie vedere le testate di destra o centrodestra che attaccano quelle di sinistra o centrosinistra. Non solo perché le prime orbitano nell’area berlusconiana, il regno del conflitto di interessi, il feudo del vecchio partito-azienda. E quindi parlano – come si suol dire – di corda in casa dell’impiccato. Ma fa specie soprattutto perché, per usare una metafora più evangelica, guardano la pagliuzza nell’occhio altrui e non si accorgono (o fingono di non accorgersi) della trave nel proprio. In ogni caso, sempre di “padroni” si tratta; gruppi di potere, economico e finanziario, che fanno i giornali non per mecenatismo culturale o civile bensì per curare i propri affari: dall’auto all’edilizia, dalle tv ai computer, dalle energie alternative alle cliniche private o alle residenze sanitarie.

Si dirà che, da che mondo è mondo, è sempre stato così. E in parte è anche vero. Ma non è comunque un buon motivo per continuare sulla stessa china. Siamo arrivati ormai a una colonizzazione pressoché totale della stampa, a una sudditanza cronica, a una subalternità subliminale. Il peggio è che, in questa crisi generale del mercato, noi giornalisti rischiamo l’assuefazione, la dipendenza, l’asservimento più o meno inconsapevole. Mentre dovremmo difendere la nostra indipendenza e autonomia, nell’interesse dei lettori e della nostra stessa sopravvivenza. A cominciare, magari, dalla tutela di quella specie rara dei giornali senza padroni (e senza finanziamenti pubblici) che rappresentano un baluardo per tutti, un termine di confronto, uno schermo o uno scudo protettivo.

Nessuno può impedire a un’azienda o a un imprenditore di possedere o acquistare una testata. Il problema è che, in nome del pluralismo dell’informazione e della libera concorrenza, bisognerebbe assicurare le condizioni minime per far convivere sul mercato i giornali indipendenti, pubblicati da quella razza in estinzione degli “editori puri” o dalle cooperative di giornalisti. Per esempio, vietando gli “incroci” oltre un certo tetto di fatturato; imponendo limiti più rigorosi alle concentrazioni; favorendo “un’equa distribuzione delle risorse pubblicitarie”, come auspicava già il presidente Ciampi nel messaggio con cui nel 2003 rinviò alle Camere la famigerata legge Gasparri sulla riforma televisiva.

Sono passati quasi vent’anni e la situazione è complessivamente peggiorata a danno dei giornali, anche in seguito all’impatto di Internet, dei social network e delle fake news. Ma nel frattempo la nostra classe politica, incapace perfino di rinnovare l’Agcom in prorogatio da un anno, non s’è fatta carico di una nuova legge per regolare il sistema dell’informazione, di cui la Rai è un cardine fondamentale. E così la Grande industria si appropria di un quotidiano d’opinione come la Repubblica e una delle testate più antiche del Sud, La Gazzetta del Mezzogiorno, rischia addirittura il fallimento. Mentre occorrerebbe uno Statuto dell’impresa editoriale – come ha proposto da tempo la Federazione nazionale della Stampa – che impedisca le commistioni degli “editori impuri”, o quantomeno le disciplini e le renda più trasparenti, imponendo un filtro fra le proprietà e le redazioni, attraverso l’istituto delle Fondazioni, dei Comitati dei Saggi o dei Garanti. Certo, c’è l’epidemia di coronavirus. L’emergenza sanitaria non è finita. E quella economica minaccia la stabilità sociale. Ma non ne usciremo bene se non sarà risolta anche l’emergenza dell’informazione.

Il fanciullino eterno esiste: è una medusa

Ripubblichiamo l’articolo di Massimo Fini, uscito ieri con una serie di imperdonabili errori di impaginazione, di cui ci scusiamo.

C’è un simpatico e affascinante animaletto chiamato Turritopsis Dohrnii. È una medusa di piccolissime dimensioni, 3,2 mm di diametro per l’individuo adulto. A scoprire la straordinaria e affascinante particolarità della Turritopsis fu un biologo tedesco, Christian Sommer, che alla fine degli Anni 80 stava facendo delle ricerche nel mar di Rapallo, anche se questa medusa è originaria del Pacifico e attraverso la navigazione dei mercantili è arrivata in Italia. Che cosa rende straordinaria la Turritopsis? Questa medusa dopo aver raggiunto la maturità sessuale, ed essere quindi diventata a tutti gli effetti adulta, regredisce poi a uno stato infantile, per poi ricominciare questo ciclo.

Non è l’eterna giovinezza di Dorian Gray nel famoso Ritratto di Oscar Wilde, perché Dorian rimane immobilizzato nella sua bellezza, mentre la sua decrepitezza sia morale che fisica è riflessa dal ritratto che tiene nascosto in camera. Insomma Dorian è un soggetto statico, un giovane vecchio.

Non è nemmeno il mito dell’allungamento della vita fino a condizioni ed età indecenti che è una “classica trappola della ragione” da molti punti di vista, estetico, psicologico oltre che economico, per cui se si continua su questa linea in futuro, ma è un futuro che è diventato quasi un presente, un manipolo ridotto di giovani dovrà mantenere una legione di vecchi.

Non è nemmeno un ritorno al passato, “una macchina che riavvolge il tempo”, per dirla con Ivano Fossati. Perché non è logicamente possibile. Se io mi facessi riportare da questa macchina, poniamo, nel Cinquecento la mia stessa presenza o anche un solo semplice gesto come spostare un bicchiere cambierebbe tutta la storia successiva. E se io mi facessi riportare indietro ai miei sedici anni troverei gli stessi amici, le stesse cose, la stessa situazione di allora.

Non è la condizione della Turritopsis. Poniamo che io oggi sia una Turritopsis di quarant’anni: fra vent’anni ne avrei venti ma in un altro contesto, che non è ovviamente quello di oggi. L’esistenza della Turritopsis è dinamica, va avanti e indietro, dalla giovinezza alla vecchiaia, dalla vecchiaia alla giovinezza. Immaginiamo che la Turritopsis sia un uomo. Non è immortale (altro terrificante mito soprattutto della Modernità, ma coltivato anche dagli antichi col pantheon degli Dei), sia nella sua fase ascendente che discendente può essere colpito da malattie letali, da uno spigolo fatale di uno sportello in cucina e da qualsiasi altro accidente di cui è cosparsa la vita di un uomo.

Forse la vicenda della Turritopsis ha qualche somiglianza con l’eterno ritorno di Nietzsche (“tutto ciò che sarà è già stato, tutto ciò che è stato sarà”), ma nella concezione di Nietzsche il Tempo è fatto da “eterni presenti” che sono contemporanei (il mio primo bacio esiste contemporaneamente a me che in quest’attimo scrivo). Una concezione abbastanza terrificante a cui lo stesso Nietzsche si avvicina e si ritrae spaventato, perché avrebbe tolto senso al suo stesso filosofare. Comunque la Turritopsis, a differenza dell’eterno ritorno, a differenza del Big Bang della fisica che alla concezione nicciana somiglia assai, non è statica ma dinamica, per dirla volgarmente alla toscana “va su e giù come la pelle dei coglioni”.

Attualmente il maggior studioso della Turritopsis Dohrnii è lo scienziato giapponese Shin Kubota dell’Università di Tokio. Se io fossi il reggitore del mondo finanzierei la ricerca di Shin Kubota con enormi somme, per capire se il meccanismo che rende la Turritopsis qual è può essere trasferito sull’essere umano invece di spendere miliardi per andare su Marte o raggiungere qualche altra galassia nel tentativo di consolarci di non essere soli in questo inesplicabile Universo o per trovare un vaccino contro il Covid-19 che, pompato com’è (intendo il vaccino non il Covid), invece di rassicurarci finisce per terrorizzarci ulteriormente ed è comunque inutile perché il virus, per difendersi, cambierà composizione mentre la Turritopsis, nella sua essenza, rimane sempre lo stesso soggetto.

Il “metodo Falcone” è sempre attuale

“Non c’è tempo da perdere, bisogna mettere da parte le guerre tra il Csm, l’Anm, il guardasigilli, i partiti. Cosa Nostra delinque senza soste, mentre noi litighiamo senza soste”. A quattro giorni dalla strage di Capaci, Giovanni Falcone affida a un giornalista parole drammatiche e premonitrici. Lo fa a commento di quei segnali di ferocia mafiosa che, dopo l’omicidio dell’europarlamentare Salvo Lima, si intensificano, rendendo ancora più convulsa la delicata transizione politico-economica dell’Italia del 1992. Ma quelle parole non possono cristallizzarsi in un passato lontano. Richiamano una questione che ciclicamente si ripropone: l’idoneità delle risorse istituzionali nella sfida alle forme più insidiose di criminalità per i diritti e la democrazia. Sull’appello di Falcone alla “compattezza” degli organi dello Stato sembra calato il velo dell’oblio. A dirlo è la cronaca di maggio 2020. Le postazioni-chiave del “sistema giustizia” sono attraversate da asprezze e conflitti di ogni tipo. Basti pensare alla mozione di sfiducia verso il Guardasigilli, in seguito a provvedimenti di scarcerazione per motivi di emergenza sanitaria. O ancor più, alla pubblicazione di stralci di una indagine perugina su condotte di componenti del Consiglio superiore della magistratura. Una vicenda che svelerebbe storie di trame, rancori e miserie umane, per brama di potere, carriera o vantaggi personali. Come tale in grado di screditare un organo di rilevanza costituzionale, chiamato a difendere l’autonomia di tanti giudici e pubblici ministeri lontani anni luce da certe logiche e impegnati in delicate funzioni.

Anche oggi, come nel 1992, la vulnerabilità degli organi dello Stato è un regalo alle mafie. E i rischi aumentano in tempo di crisi socio-economica per effetto delle misure anti-contagio. In queste settimane, molti tra imprenditori e commercianti non riescono a far fronte a stipendi, canoni d’affitto e oneri fiscali; e il ritorno alla normalità non è prevedibile che avvenga in tempi brevi. Così il crimine organizzato si sta attrezzando. Secondo gli esperti, in particolare su tre versanti: la “caccia” alle aziende in “stato di necessità”; l’intercettazione delle somme stanziate dallo Stato per il soccorso alle imprese; il reclutamento nelle cosche di giovani bisognosi che hanno perso il lavoro in realtà già depresse. Si tratta di manovre che si sviluppano con la complicità di amministratori pubblici, liberi professionisti, politici. E, per contrastarle, al circuito investigativo-giudiziario non bastano preparazione e determinazione, occorre la fiducia delle persone oneste. Proprio nella parabola professionale e umana di Giovanni Falcone troviamo un esempio utile in questi giorni difficili. Come uomo di Stato, nonostante minacce e ostacoli interni al suo stesso mondo, non si rassegnò mai all’isolamento e al vittimismo. Ebbe la forza di promuovere nuove strategie processuali, dopo decenni di piena immunità per i capi mafia. Lo fece senza farsi deprimere dai limiti anche culturali di un ambiente giudiziario allora, privo di ogni sostegno nella società civile. E quella combattività la coniugò con la lucidità nell’immaginare il futuro. Non a caso, le intuizioni di Falcone sono alla base di leggi ancora fondamentali nel contrasto ad ogni forma di crimine organizzato. Ne sono prova le direzioni distrettuali e la direzione nazionale antimafia (ora anche antiterrorismo), nonché le norme sui collaboratori di giustizia e sull’ordinamento penitenziario (art.41 bis). Il “metodo Falcone” è un’eredità preziosa. Ha contaminato i corpi speciali della nostra polizia giudiziaria, ormai tra i più attrezzati al mondo nel prevenire e contrastare le economie criminali. Anche per questo il nostro Paese è pronto a fugare quei sospetti ingenerosi, seminati da una parte della stampa europea, secondo cui gli aiuti di Bruxelles all’Italia per il “dopo pandemia” finirebbero nelle casse delle mafie. In realtà, proprio quel know how investigativo andrebbe esportato nel continente e dovrebbe informare una cooperazione giudiziaria tra diversi paesi, in grado di diventare la “risorsa in più” per sconfiggere gli appetiti mafiosi nel mercato finanziario e immobiliare che ormai da anni incidono sulla qualità delle nostre democrazie. Nella “eclissi” della Prima Repubblica, Falcone ebbe pure il coraggio di ripensare al ruolo della magistratura nel sistema costituzionale. Lo fece dialogando da pari a pari con la politica e affrontando non solo le critiche argomentate ma anche gli ostracismi e le invettive dei colleghi. Non tutte le sue indicazioni erano condivisibili. Ma il pensiero di Falcone dimostrò l’importanza, in una società esigente e complessa, del magistrato dotato di forte senso della realtà, disponibilità a lavorare con gli altri e, soprattutto, senso della autonomia dai centri di potere. Sono qualità ancora indispensabili. Quelle che giustificano la sua soggezione soltanto alla legge.

Mia zia con i 600 euro si è comprata Alitalia e Fca

Decreto Rilancio. Ieri pomeriggio, a mia zia sono arrivati i soldi, promessi dal governo Conte, che aveva richiesto in mattinata. 600 euro. Con i quali mia zia si è comprata Alitalia, azienda decotta, ma che riceverà 3 miliardi statali a breve; e Fca, che mia zia ha scippato alla Peugeot, facendola restare in mani italiane. Ha detto che ne riporterà in Italia la sede legale, che adesso è a Londra, e quella fiscale, che adesso è ad Amsterdam, perché trova ingiusto ricevere 6 miliardi di prestito dallo Stato e avere benefici fiscali all’estero. Repubblica, come al solito, non ne ha parlato. Mia zia, già che c’era, con quei 600 euro voleva pure comprarsi la scuola italiana: edifici fatiscenti, docenti sottopagati, precari e tutto; purtroppo, non è vendita. Ed è un peccato: voleva trasformarla in un complesso di acciaierie mortalmente inquinanti, diffuse su tutto il territorio nazionale.

Dipartimento Metafore Miste. “Fetido venticello della calunnia sparata a caso e un tanto al chilo che finisce per avvelenare tutti i pozzi”. Così Massimo Giannini, neo direttore de La Stampa-Fca, ha replicato al vicesegretario del Pd Andrea Orlando che chiedeva di vincolare a “impegni” il prestito statale alla ditta. Orlando era giustamente sconcertato dal problema della sede legale e fiscale di Fca, risolto poi da mia zia, e Giannini, furioso, ha cercato di distrarlo con una grottesca metafora mista. Rileggetela con calma: la calunnia, un venticello, sparata a caso e un tanto al chilo, che avvelena i pozzi. Ho sorriso della calunnia sparata come un venticello (scoreggia), di cui Giannini lamenta la poca mira (a caso e un tanto al chilo), ma così densa e ammorbante da scendere fin dentro i pozzi (tutti?) ad avvelenarne le acque. L’accrocco metaforico di Giannini è quasi superiore a quello, celeberrimo, di Quevedo: l’isola “dove mano d’uomo non ha mai messo piede”. Quando si dice il talento.

Un giorno ci chiederemo quale sia stata la stella polare, la guida ferma, la figura di riferimento in questo periodo storico di paura ed emergenza, e di sicuro ci verrà in mente Fontana. Per mesi, la stampa ha preso per il culo il governatore lumbard, un uomo che sta dove lo metti, dandogli dell’incapace. Ma non è stata incapacità: è che pianificare è incompatibile con l’attrattiva esercitata su di lui dall’imprevisto. “Lasciamo fare al caso, che è un grande artista”, diceva John Cage. Come fate a non capire? Fontana incarna l’angelo del bizzarro di Poe, il demone del contrattempo di Baudelaire. Ingrati!

C’è chi perlustra ogni giorno, come un tempo faceva coi bollettini di Borsa, le curve epidemiologiche. Sono basate su statistiche, ovvero probabilità. Vorrei ricordare a questi ansiosi che, da quando esiste l’antico monastero di Assisi, dove la vita scorre regolata metodicamente, nel silenzio benefico del chiostro non si è mai verificata una sola pestata di piedi, fra i frati, che abbia ubbidito a qualche legge probabilistica.

A New York, un giudice voleva far arrestare suo figlio dopo averlo sorpreso che fumava uno spinello. Quando un marito esagera in virtù civiche e in interpretazioni esuberanti del dovere, benedetta la moglie che gli dice: “Non fare l’imbecille”.

Mail box

 

Il film sulle stragi mafiose censurato da Rai Cinema

Vorrei sottoporre ai lettori del Fatto un piccolo quiz. Oggi la Rai, nei suoi vari canali, ricorderà il ventottesimo anniversario della strage di Capaci. Lo farà con interviste, immagini di repertorio… Lo farà, insomma, secondo tradizione, con quel tanto di retorica istituzionale e intento educativo che ben conosciamo. Ecco il quiz: qual è il titolo del film uscito nelle sale l’anno scorso, dedicato a Falcone e Borsellino “a 25 anni dalle stragi”, che mai Rai Cinema manderà in onda? Aggiungo un piccolissimo particolare, chiamiamola pure una inezia: Rai Cinema è co-produttrice della pellicola. E visto che io sono il regista del film, mi firmo con uno pseudonimo che mi pare originale: L’Innominato. Da non confondere, per carità, con l’Innominabile (ci mancherebbe oltre il danno pure la beffa ). Grazie per l’ospitalità.

L’Innominato

 

I pasticci sulla Maturità della ministra Azzolina

Non bastava la finzione di un esame di Stato ridotto alla sola prova orale (tanto valeva abolirlo). A Viale Trastevere hanno voluto strafare. I commissari interni dovranno produrre una autocertificazione medica nella quale dichiarano di essere di “sana e robusta costituzione” ovvero di non essere portatori del virus. Si poteva partorire una assurdità del genere? Come minimo aberrazione medica, scientifica, epistemologica. L’intento è evidente: liberare il ministero dell’Istruzione dal rischio di qualsiasi ricorso, con relativo risarcimento, da parte di chi (docenti, studenti, personale scolastico) nel corso degli esami potrebbe vantare la violazione dei propri diritti e il danno alla propria salute. Sono un vostro lettore da sempre, ma quanto accade nella scuola guidata dalla ministra Azzolina meriterebbe più attenzione.

Alberto Cioni

 

Combattere il Covid-19 come una squadra di calcio

Sono molto contento che siano stati aumentati i posti in terapia intensiva. Ma, essendo appassionato di calcio e volendo fare un paragone, mi sembra come se una squadra puntasse tutto sul suo portiere, dimenticando attaccanti, centrocampo, difensori… Oltre a incrementare le terapie intensive, bisognerebbe intervenire prima, educare la popolazione a un corretto comportamento, implementare i medici di base e l’assistenza domiciliare (centrocampo), intervenire sul ricovero (difensori). In questa prima fase dell’emergenza mi sembra che abbiamo lasciato solo il portiere a fare miracoli.

Armando Crispino

 

Diritto di replica

Con riferimento all’articolo di giovedì – “Turone ai politici: ‘Avete sbagliato? Dimissioni’” –, vi prego di precisare che non c’è stata nessuna mia intervista, come potrebbero far pensare il titolo e il virgolettato, e che non ho mai dichiarato all’autore né ad altri giornalisti del Fatto di aver indirizzato a qualcuno la frase “Avete sbagliato? Dimissioni”.

Giuliano Turone

 

In merito a un articolo di ieri, l’on. Luca Lotti precisa: “La frase che mi viene attribuita nel titolo ‘Ermini dice bugie’ da me non è stata pronunciata. Per essere corretti anche con i vostri lettori, vale la pena ricordare che l’altroieri, a seguito di un altro vostro articolo, ho diffuso una nota stampa in cui chiedevo al Fatto un chiarimento su una frase contro di me (‘Lotti vuole comandare il Csm’) usata come titolo nella vostra prima pagina e che voi avete attributo al vicepresidente del Csm David Ermini. Una frase che è lecito pensare che il vicepresidente del Csm non abbia pronunciato, visto che il virgolettato nel titolo in prima pagina non è stato ripreso nell’articolo. Questo peraltro è accaduto sia l’altroieri con la presunta frase di Ermini, sia ieri con la frase falsa a me attribuita. In conclusione, per quanto mi riguarda chiedo una rettifica, visto che la frase che mi viene attribuita (‘Ermini dice bugie’) da me non è stata pronunciata, né tantomeno era scritta nella mia nota stampa”.

Ufficio Stampa on. Luca Lotti

 

Se l’onorevole Lotti, oltre ai titoli, avesse letto con attenzione anche l’articolo, avrebbe scoperto un fatto dalla conseguenza ineluttabile: il vicepresidente del Csm, David Ermini, unico titolato a interpretare autenticamente il suo stesso pensiero, non ha smentito nulla di quanto dichiarato al “Fatto”. Non ha smentito né il testo, né il titolo. Onorevole Lotti, se ne faccia una ragione: quella che lei contesta non è una errata interpretazione delle dichiarazioni di Ermini, ma la corretta ricostruzione delle sue dichiarazioni. Ciò detto, prendiamo atto del fatto che lei non ha mai detto in modo testuale “Ermini dice bugie”, quindi pubblichiamo volentieri la sua rettifica. A questo punto però ci spieghi anche se – considerato che il vicepresidente Ermini non ha smentito una sola riga del nostro articolo – lei ritiene che abbia detto la verità.

A. Mass.

 

I nostri errori

Ieri, nel richiamo in prima del pezzo di Massimo Novelli su Pavese, abbiamo scritto “a 50 anni dalla morte”, anziché 70. Nella didascalia a corredo, poi, non abbiamo specificato che quella accanto allo scrittore è Constance Dowling. Ce ne scusiamo.

FQ

 

Nell’articolo di ieri sugli arresti in Sicilia per tangenti e sanità, abbiamo scritto che Antonino Candela è stato “premiato” da Mattarella. In realtà, la medaglia d’argento al merito della sanità è stata attribuita su proposta del ministero della Salute dopo apposita istruttoria. Il capo dello Stato si è limitato a consegnargliela.

FQ