Fino al 5 agosto si può continuare come se nulla fosse, ma la Banca centrale europea non pare volersi preoccupare della sentenza della Corte costituzionale tedesca che le chiede, entro quella data, di giustificare il suo operato quanto al cosiddetto Quantitative easing, il programma di acquisti di titoli pubblici e privati realizzato tra 2015 e 2018 e ripreso a settembre scorso.
La Bce, in sostanza, continua a ritenere che, non essendo vincolata da giurisdizioni nazionali, quella sentenza sia un problema della Germania: se la vedessero loro sul come venirne fuori (ma è irrealistico pensare che le istituzioni tedesche possano non tener conto dei loro giudici costituzionali). Insomma, la guerra tra Francoforte (la Bce oggi a guida francese) e Berlino attorno a quale assetto dare ai rapporti interni all’Eurozona non accenna a placarsi.
La Banca centrale, per ora, non cede e lo si desume da due segnali: 1) la pubblicazione dei verbali del consiglio direttivo della Bce del 30 aprile, a cinque giorni da una sentenza di cui tutti capivano la portata e i contorni; 2) le parole di ieri del capo economista Philip Lane, che sottintendono che la banca centrale ritiene che le sue operazioni debbano semmai aumentare.
Partiamo da queste ultime. Il mandato della Bce è la stabilità dei prezzi, finora indicata in un’inflazione poco sotto il 2%: obiettivo fallito, al ribasso, da anni. Lane ha sostenuto che la bassa inflazione probabilmente sarà “più persistente” e di quel che si era abituati a pensare “con le banche centrali che chiudono i gap di inflazione su un orizzonte di tempo più ampio”. Insomma, le azioni della Bce per riportare la dinamica dei prezzi verso il 2% rischiano di durare a lungo.
Ma come andranno avanti? È il centro della contestazione tedesca che chiede “proporzionalità” – secondo il peso all’interno del capitale della Bce (capital key) – negli interventi di Francoforte. Una scelta che, se avallata dalla banca centrale, lascerebbe alla mercè dei mercati molti Paesi, primo dei quali l’Italia: in sostanza Berlino agli Stati più deboli indica il Mes (cioè la Troika), Francoforte la via di una sostanziale monetizzazione del deficit. E qui veniamo ai verbali del 30 aprile.
Il board della banca centrale parla del programma PEPP, il piano di acquisti anti-pandemia che è il fratello sregolato del Quantitative easing: una sorta di spauracchio per i falchi tedeschi. Ne parla a cinque giorni dalla sentenza delle “toghe rosse” di Karlsruhe e dice questo: la Bce adeguerà le misure messe in campo in base alle necessità e in particolare è “pronta a incrementare le dimensioni del programma PEPP” se, sulla base delle informazioni “disponibili prima del vertice di giugno, stabilisse che le dimensioni dello stimolo si stessero rivelando inferiori al necessario”.
Insomma, se necessario la Bce comprerà anche di più, e fin da giugno, rispetto ai 750 miliardi fino a fine anno indicati inizialmente. La guerra, però, è solo all’inizio. Berlino ha appena dato il via libera al Recovery Fund da 500 miliardi anche per trovare una forma di “pace” con Francoforte: un piano europeo ora c’è, la Bce smetta di immischiarsi. L’unica incognita è la posizione francese: la governatrice Christine Lagarde è poco banchiere e molto politico.