Quotidiani I giovani non leggono spesso, da martedì proveremo a convincerli di più

 

Buongiorno, ho 44 anni e ogni giorno, da molti anni, mi reco dal mio edicolante di fiducia Stefano: due chiacchiere, una battuta e il Fatto Quotidiano per cominciare la mia giornata lavorativa. Sempre lo stesso rituale, nei tempi e nei percorsi. Eppure mi accorgo che c’è qualcosa che manca in quell’edicola, qualcosa che non c’è da diverso tempo: i giovani. E non mi riferisco ai giovanissimi (i bambini che trascinano i genitori per comprare pupazzi o figurine), ma alla generazione over 20 e under 40, la generazione degli universitari, dei neolaureati, dei giovani lavoratori, di tutte quelle persone che avrebbero bisogno di sapere di ciò che accade, se non nel mondo, almeno in Italia e, se non Italia, almeno nella loro città. Un sapere che influirà sul loro stesso futuro. E invece nulla. Solo vecchi (lo dico con profondo rispetto) e colf che acquistano giornali per i loro assistiti (anch’essi vecchi). E quindi mi chiedo, invece di finanziare i giornali (seguendo il vostro virtuoso esempio), perché lo Stato non invita i giovani a leggere di più i quotidiani, magari con bonus cultura o altro? Incoraggiandoli così ad approfondire, a capire, a ragionare. Leggere un giornale è come seguire il libretto di istruzioni di un Lego: ti fa capire esattamente dove vanno messi i pezzi.

Nicola Minardi

 

Caro Nicola, non molto tempo fa mi sono trovato in un’aula universitaria della Sapienza di Roma, facoltà di Scienze politiche. E quando è stato chiesto ai circa 200 studenti presenti alla lezione quanti fossero i lettori di giornali, soltanto uno ha alzato la mano. Uno su duecento. Tutte le indagini di mercato vanno in questa direzione, i giornali sono ormai appannaggio di una generazione over 50 se non over 60. Colpa nostra, sicuramente, perché non siamo in grado di parlare un linguaggio accattivante (ma in realtà le imprese editoriali che ci hanno provato in passato non sono andate granché bene). Colpa, o responsabilità, della comunicazione digitale, quella “autocomunicazione di massa” di cui parla il sociologo Manuel Castells che ha reso tutti protagonisti del grande spazio pubblico internettiano. Ma i giornali servono ancora (del resto perché tutti i talk show sono pieni di giornalisti della carta stampata?), aiutano a formare un punto di vista complessivo, a selezionare le notizie. Il governo potrebbe fare molto, certamente. La sua proposta è già una indicazione. Facilitare l’acquisto di prodotti culturali, di giornali, di libri, la fruizione degli spettacoli. Per gli studenti e per i giovani in generale si potrebbe pensare a una Carta con un borsellino da spendere in tal senso. In attesa del governo, però, noi intanto iniziamo da soli. Da mertedì avrete tra le mani un nuovo Fatto, un bel giornale in edicola, una offerta digitale multipla e anche un’offerta particolare per giovani e studenti. Non basterà, certamente, ma intanto iniziamo.

Salvatore Cannavò

Come educare l’algoritmo

Siamo nel mezzo di una rivoluzione che non ha precedenti, la rivoluzione digitale: i Big Data e l’Intelligenza Artificiale. Rivoluzione in parte culturale (ma i bit faranno molto più di quanto i caratteri mobili di Gutenberg abbiano fatto in 565 anni, in termini di spostamento degli equilibri del potere, di accesso alla conoscenza e del suo trasferimento dalle mani di pochi a comunità sempre più larghe) e in parte industriale (ma il cambiamento di paradigma, più forte di quello dovuto alla macchina a vapore di Watt, modificherà la struttura profonda delle relazioni umane e sociali: lavoro, interazioni tra uomo, natura e i suoi stessi artefatti), essa condivide speranze e rischi di entrambe.

Una rivoluzione che sta rendendo la nostra vita sempre più dipendente da grandi masse di dati. Fra meno di tre anni il tempo di raddoppio, tempo in cui gli abitanti del pianeta generano una quantità di dati uguale a quella prodotta in tutta la loro storia fino a quel momento, sarà passato, grazie ai 150 miliardi di nuovi dispositivi in Rete, da circa un anno di oggi a 12 ore. Una quantità di dati che nel 2019 è stata di 5mila miliardi di gigabyte!

L’intelligenza artificiale (AI) è lo strumento per estrarre, da questa enorme massa di dati, informazione e conoscenza, facendone un ingrediente potente, prezioso e cruciale dei processi decisionali. Essa mira a decodificare il codice dell’intelligenza umana nella sua capacità di imparare e auto-addestrarsi, e sta facendo progressi mozzafiato. La nostra vita ne sarà profondamente modificata e, data la prevedibile futura pervasività dell’AI nella società, è legittimo e necessario chiedersi come questa nuova tecnologia debba essere modellata per aiutarci a conservare i nostri valori e in particolare a rafforzare la democrazia costituzionale.

La concentrazione di potenza digitale oggi è una minaccia potenziale per la democrazia e per i mercati. L’esperienza di un’Internet senza leggi e il fragile rapporto tra tecnologia e legge sollevano entrambi la stessa domanda chiave sul ruolo del digitale nella democrazia: quali, fra le sfide che l’AI ci lancia, possono essere lasciate nel campo esclusivo dell’etica e quali devono essere invece affrontate con regole operative efficienti, che includano in modo comprensivo tutta la legittimità del processo democratico? È indispensabile una nuova cultura che incorpori nella progettazione stessa dell’AI principi etici, fra cui democrazia, Stato di diritto e diritti umani; i tre pilastri portanti delle costituzioni liberali occidentali. Per questo ci si deve chiedere come questa nuova tecnologia (che chiamiamo ‘intelligenza’ artificiale solo per ricordare quell’irraggiungibile modello che è il cervello umano, la cui intelligenza è capace di cose che nessuna macchina saprà mai fare), debba essere disegnata per garantirci la sopravvivenza e il rafforzamento di quella triade di valori portanti delle funzioni fondamentali della società: dall’educazione a salute, scienza e business, fino ai più astratti diritto, sicurezza e anche discorso politico e processi decisionali democratici.

Tra gli scienziati non c’è una definizione concordata di AI; si può rozzamente pensarla come una generica tecnologia software che abbia almeno una di queste capacità: percezione, processi decisionali, previsione, estrazione automatica della conoscenza dai pattern di correlazione dei dati, comunicazione interattiva, ragionamento logico (questo include il Machine Learning).

(…) La società controllata dai dati è già lì: programmi concepiti per proteggere i cittadini dal terrorismo, hanno finito per influenzare la politica economica e dell’immigrazione, il mercato immobiliare e persino i programmi scolastici. Algoritmi di deep learning applicati alle reti sociali sono già stati utilizzati per esercitare controllo sociale: ogni cittadino cinese riceverà un ‘punteggio del cittadino’, che determinerà a quali condizioni può ottenere prestiti, lavoro o visti di viaggio in altri Paesi; il monitoraggio individuale ha portato a esperimenti online su prezzi personalizzati; Amazon ha brevettato un software che gli consente di consegnare i prodotti una piccola frazione di tempo prima che i clienti li ordinino. Il Grande Fratello Orwelliano è realtà: cittadini programmati in una società programmata; oggi, gli algoritmi sanno bene che cosa facciamo, cosa pensiamo e come ci sentiamo, forse meglio dei nostri amici e familiari o persino di noi stessi. E le soluzioni che ci sono proposte si adattano così bene che le decisioni che ne risultano ci paiono nostre, anche se in realtà non lo sono.

I nostri valori: libero pensiero, libertà di scelta, democrazia sono dunque stati violati? Il punto vero è altrove: supponiamo di avere una macchina super-intelligente con conoscenze e capacità sovrumane; seguiremmo le sue istruzioni? È chiaro che i problemi del mondo non sono diminuiti, nonostante lo tsunami di dati e l’uso d’informazioni personalizzate; anzi! La pace del mondo è fragile; i cambiamenti climatici a lungo termine porteranno probabilmente alla più grande perdita di specie (incluso l’uomo) dall’estinzione dei dinosauri; siamo lontani dall’aver superato la crisi finanziaria e il suo impatto sull’economia; si stima che la criminalità informatica provochi una perdita annuale di 3 trilioni di dollari; Stati e terroristi si stanno preparando per la guerra informatica.

In un mondo in così rapido cambiamento, anche una super-intelligenza non può prendere decisioni perfette: il fatto è che la complessità sistemica (entropia) aumenta più velocemente del volume di dati, che a sua volta cresce più rapidamente della nostra capacità di elaborarli e trasferirli (costi energetici). La manipolazione dei processi decisionali della democrazia con algoritmi, per quanto potenti e raffinati, mina la possibilità dell’emergente ‘intelligenza collettiva’, che sola può adattarsi in modo flessibile alle sfide di questo mondo complesso. Affinché essa funzioni, ricerca d’informazioni e processi decisionali devono però avvenire in modo indipendente. Giudizi e decisioni predeterminati da algoritmi non porterebbero a null’altro che un lavaggio del cervello collettivo!

(…) Siamo a un bivio. Big data, AI, cibernetica ed economia comportamentale stanno plasmando la nostra società, nel bene e nel male. Se tali tecnologie diffuse non saranno rese compatibili con i valori fondamentali della nostra società, causeranno danni ingenti; come una società automatizzata con caratteristiche totalitarie, con un’intelligenza artificiale centralizzata che controlla che cosa sappiamo, ciò che pensiamo e come agiamo.

Se li adattiamo ai nostri valori, i frutti della rivoluzione digitale possono beneficiare l’economia, il governo, i cittadini. Che cosa stiamo aspettando?

 

L’allarme sommosse per far male a Conte

Titolo sulla Stampa di ieri: “Giorgetti: attenti il paese esplode”. Caspita, vediamo come mai il leghista dal volto umano è così agitato. Domanda: “L’hanno sentita dire: ‘Così finisce male’. Si mette a minacciare un’insurrezione adesso?”. Giorgetti: “Ma quale insurrezione. Però in giro c’è tanta gente davvero disperata e i politici dovrebbero dare l’esempio invece di soffiare sul fuoco. Devono stare attenti, il paese esplode. Farei critiche ma con equilibrio, evitando le pagliacciate”. Altro titolo, del Giornale: “Allarme rivolte sociali: ‘Disordini mai visti’”. Leggiamo: “C’è il rischio di una crescente esasperazione sociale basata sull’insoddisfazione della popolazione che potrebbe portare a forme di rivolte su una scala senza precedenti. La previsione choc è contenuta nell’ultimo rapporto di Kelony, la prima agenzia di risk-rating a livello mondiale”. Caspita. Apprendiamo che il capo di questa prodigiosa macchina da guerra è quel Genséric Cantournet, già capo della sicurezza Rai cacciato da Viale Mazzini per palese conflitto d’interessi con la società paterna di cacciatori di teste. Quindi, in era Covid, congedato in tutta fretta da Repubblica (che era stato chiamato a sanificare), per incaute dichiarazioni su amuchina e gruppo Gedi. Ora guida un colosso “a livello mondiale” che, leggiamo, ha raggranellato ben 400 mila euro grazie a 170 investitori (la Cia gli fa un baffo). Intendiamoci è lo stesso Viminale, con una circolare ai prefetti di aprile, a tenere alta la guardia sul rischio di “gravi tensioni” per effetto della crisi coronavirus, economica e sociale. Cosa però assai diversa da un esponente leghista che nel chiedere alla politica di abbassare i toni è il primo a smentire ipotesi insurrezionali. Per non parlare delle profezie di un’agenzia “mondiale” con dati reputazionali tutti da verificare. Confondere desiderio e realtà può essere legittimo. Spargere allarmi di piazze in rivolta, per mandare a casa Conte, molto meno.

Lo zombie del Covid-19

Durante questi lunghi tre mesi, dal 21 febbraio, giorno in cui è stato diagnosticato nel nostro laboratorio il primo caso italiano di Covid-19, di cose strane ne abbiamo viste tante.
Fra queste ci ha particolarmente incuriositi una, seppur ridotta, casistica di pazienti che, anche dopo un mese dalla scomparsa dei sintomi, continuano a essere positivi al test del tampone. Si è ipotizzato che il virus avesse dei “santuari” dove potesse nascondersi a infezioni “atipiche”. La soluzione era molto più banale. Ma, confessiamo, non ci avevamo pensato.
Lo evidenzia uno studio di ricercatori della Corea del Sud. Il KCDC (Centro coreano per il controllo delle malattie) ha condotto una ricerca su 108 casi e indagini epidemiologiche su altri 285 allo scopo di stabilire se i pazienti debbano andare in quarantena per 14 giorni dopo essere stati dimessi dagli ospedali. È stato evidenziato che il tampone può dare esito positivo, non per la presenza del virus vivo e infettante, ma per il permanere di pezzetti di virus morto, ancora per molti giorni dopo la sua totale uccisione.
Il fenomeno è spiegabile tecnicamente, poiché le tecniche di biologia molecolare identificano il genoma del virus (la sua anima), ma non indicano se si tratti di un virus vivo o morto. Purtuttavia resta ancora da spiegare perché un numero molto ridotto di pazienti torni a essere positivo dopo un lungo periodo di negatività.

Altro che la bestia, basta il corriere

Stavolta neanche Salvini avrebbe sperato tanto. E neanche su un giornale di centrodestra, figurarsi nelle moderate pagine del Corriere della Sera. E invece il quotidiano di Via Solferino ieri sembrava l’edizione cartacea della Padania, del tutto appiattito sul piagnisteo leghista riguardo all’accusa al sistema sanitario lombardo pronunciata alla Camera dal 5Stelle Riccardo Ricciardi due giorni fa. Roba da far lacrimare dalla commozione Fontana e Gallera. Titolo in prima, replicato a pagina 2: “Attacco M5S alla Lombardia” (facendo passare l’accusa come un colpo basso ai lombardi e non come una critica alla politica della Regione). Titolo della “Nota” di Massimo Franco: “Un attacco scomposto che certifica un M5S diviso” (un po’ di garbo quando si parla di Bertolaso e compagnia, su). Sotto, intervista a Giancarlo Giorgetti: “Chiedono collaborazione e provocano sui morti”. Corsivo di Venanzio Postiglione: “Milano e la Lombardia: i teatrini politici non aiutano a capire” (signora mia). In pratica, la versione leghista elevata alla quarta. Il Carroccio prenda nota: per un po’ di propaganda a volte non serve neanche scomodare la Bestia.

Bilanci oscuri e legami politici: il potere passa per le fondazioni

Un censimento ufficiale ancora non c’è. Ma in attesa che, per conto del Parlamento, il manipolo di magistrati della Commissione di garanzia ricostruisca la galassia di fondazioni collegate con i partiti – e quindi soggette agli stessi obblighi di trasparenza previsti dalla Spazzacorrotti – è tempo di un primo bilancio. Openpolis, in collaborazione con Report, ha intanto provato a mappare il rapporto strettissimo che esiste tra i ruoli chiave assegnati dalla politica e l’appartenenza a 153 think tank. Che contano e pesano tantissimo, ma che di tirare fuori gli elenchi dei donatori privati non ci pensano proprio nella stragrande maggioranza dei casi.

Tutte le fondazioni. Dal rapporto “Cogito ergo sum” emerge che negli ultimi 10 anni si è registrato un boom di fondazioni nate con l’unico scopo di fare aggregazione politica o di preparare l’ascesa di qualcuno. Come nel caso della Fondazione Open, la cassaforte che ha finanziato la scalata di Matteo Renzi ai Palazzi. Ma quello che più impressiona è la potenza di fuoco di alcuni di questi pensatoi che, in un caso su due, hanno tra i propri “soci” parlamentari di ogni colore, un network di 120 eletti tra Camera e Senato.

Tra questi, la maggior parte ha scelto la Fondazione Italia-Usa che ha al proprio interno rappresentanti di tutti i principali partiti, dal Pd alla Lega, passando per M5S e Forza Italia. Tra i parlamentari c’è chi diversifica, come Piero Fassino, che oltre a far parte di Italia-Usa presiede anche il Centro studi politica internazionale, fa parte dell’Istituto Gramsci, del Centro per un futuro sostenibile e della fondazione Aldo Aniasi. O Maurizio Gasparri (Fondazione Alleanza nazionale, Fondazione Giuseppe Tatarella, Italia protagonista).

Al governo. Italianieuropei, il think tank di Massimo D’Alema, è il più rappresentato nel governo Conte II, con i ministri Boccia, Speranza e Provenzano oltre che la sottosegretaria Guerra. E ha sorpassato persino la Casaleggio ora che i ministri pentastellati Catalfo e Patuanelli hanno lasciato i loro incarichi nell’associazione. Ma a Palazzo Chigi è ben rappresentata anche l’associazione Dems di Andrea Orlando (con Antonio Misiani e Andrea Martella), mentre il ministro dell’Università Manfredi è sia nella fondazione Attua (fondata da Gianni Pittella), sia in Merita Meridione – Italia, in quanto primo firmatario del manifesto scritto da Claudio De Vincenti.

Il ministro Gualtieri non è da meno facendo parte del Centro studi politica internazionale e della Fondazione Istituto Gramsci.

Arcuri&c.Non stupisce più di tanto quindi che ben 11 persone che orbitano intorno alla galassia delle fondazioni siano state chiamate anche a guidare la macchina dell’emergenza coronavirus. Tra tutti il commissario Domenico Arcuri, manager pubblico che molto deve a Massimo D’Alema che lo volle a Sviluppo Italia. Dove è restato anche in epoca di centrodestra: sarà anche un caso, ma Arcuri è nel comitato di presidenza dell’Associazione Civita, presieduta dall’eminenza azzurra Gianni Letta.

Nella sua struttura commissariale un ruolo di assoluto rilievo ce l’ha il capo di gabinetto del ministro della Salute Massimo Paolucci, anche lui legato alla Fondazione Italianieuropei. E che dire di Enrico Giovannini che è entrato nella task force di Vittorio Colao? È membro di Asvis, della Scuola di politiche, di Merita Meridione dell’ex ministro Claudio De Vincenti e del Forum Disuguaglianze e Diversità.

Soldi pubblici. Ma poi le fondazioni sono una forza anche nelle partecipate e nelle Autorità indipendenti. Dal rapporto Openpolis emerge intanto che 11 società pubbliche (della caratura di Rai, Eni, Enel, Leonardo-Finmeccanica, Poste e Cassa depositi e prestiti) sono collegate tra loro da 35 persone che appartengono a 26 dei think tank, fondazioni e associazioni censiti, a partire da Aspen Institute Italia (presidente Giulio Tremonti) e Astrid (presidente Franco Bassanini). Che hanno bilanci di tutto rispetto, ma soprattutto che ricevono in molti casi finanziamenti da strutture che hanno collegamenti con il pubblico: il Centro studi politica internazionale ha ricevuto oltre mezzo milione in contributi dalla pubblica amministrazione, di cui 137 mila euro dal ministero degli Affari esteri. Nello stesso anno, il 2018, la fondazione Gramsci ha ricevuto un totale di 400 mila euro in contributi, di cui oltre 300 mila dal ministero dei Beni culturali.

Eppure tra gli oltre 150 soggetti, che rappresentano attraverso i loro associati la classe dirigente del Paese, soltanto in nove (e non si tratta di giganti) pubblicano l’elenco dei donatori privati: sono Fare Futuro (Adolfo Urso), Fondazione Change (Giovanni Toti); l’Associazione di area radicale Certi Diritti, Libertàeguale (Enrico Morando), Rousseau (Davide Casaleggio), Costruiamo il futuro (Maurizio Lupi), Dems (Andrea Orlando), Fondazione DC (Gianfranco Rotondi).

Del resto, come fa notare il rapporto di Openpolis, per sfuggire alla catalogazione di associazione politica, l’associazione vicina alla Lega a/simmetrie ha rinunciato ad avere nel suo board il deputato del Carroccio Alberto Bagnai.

In alto i Cv: bibitari, bariste e braccianti

Molto prima di diventare un meme vivente e uno dei più apprezzati comici italiani in tempo di Covid, Vincenzo De Luca aveva iniziato a mostrare il suo talento teatrale con le dirette sulla rete salernitana LiraTv.

Uno dei suoi monologhi più celebri è la lettura del curriculum di Luigi Di Maio: “Svolgo la professione libera di webmaster”, ghigna De Luca, arrotando le erre e sibilando le esse. Le smorfie, le pause e la pronuncia da caratterista non sono riproducibili su carta. “Ho avuto – continua il governatore – la possibilità di cimentarmi come steward presso la tribuna autorità dello stadio San Paolo di Napoli”. Pausa, smorfia. “Poi assistente regista”. Pausa. “Tecnico riparatore dei computer, agente commerciale, manovale presso un’impresa edilizia”. Pausa. Finito l’elenco, inizia la perculatio vera e propria: “Tutta questa roba in 28 anni di vita… Ora, a un certo punto la sua vocazione l’aveva scoperta: manovale presso un’impresa edilizia. Avrebbe pure avuto un’ottima carriera perché dopo un anno sarebbe diventato carpentiere. Però si è perso per strada”.

La clip va vista, è un pezzo di teatro fenomenale. Ma De Luca è anche un uomo di sinistra, un ex comunista, da giovane era allievo di Pietro Ingrao, frequentava l’ala operaista del Pci. In mezzo alle sue battute cela un principio che fa rabbrividire: se un ex carpentiere aspira a diventare premier è un segnale, come dice De Luca, “del livello di degenerazione raggiunto in Italia”.

Il tema è tornato attuale nelle ultime ore, per via di un’invettiva di Giorgia Meloni: “Dicono che Teresa Bellanova (ministra dell’Agricoltura, ndr) non può essere criticata perché da giovane faceva la bracciante. Non mi è chiaro perché il fatto che io da giovane abbia fatto la cameriera sia da una vita un motivo di derisione da parte della sinistra”. Qui siamo sul fronte opposto: ho lavorato, umilmente, quindi esisto.

Meloni lo rivendica da anni nelle sue interviste: “Ho fatto tutti i tipi di lavoro, dalla cameriera alla barman del Piper”. Ed è stata pure baby sitter della figlia di Fiorello, in un curriculum che farebbe invidia al bibitaro Di Maio. Bene, brava. L’orgoglio è giustificato. Ma nel merito, che c’azzecca? Se la battaglia politica su cui si scontra Meloni riguarda la regolarizzazione dei migranti, cosa c’entrano i lavori fatti in adolescenza?

Un discorso che vale anche al contrario: Bellanova da ragazza – non è chiaro quanto a lungo – ha conosciuto sulla sua pelle il caporalato e le serre dei braccianti pugliesi. Poi la fatica tra i campi, che le fa davvero onore, è stata molto opportunamente enfatizzata nella costruzione della carriera politica della ministra renziana. Anche perché è l’unica nota rossa di una biografia che ha inesorabilmente virato verso destra.

Le battute di De Luca da una parte, i sudati curricula sventolati da Meloni e Terranova dall’altra, sono segnali di un vizio diffuso e un po’ strambo. Cosa si chiede ai politici? Che siano laureati? Che abbiano esperienza nei partiti e nelle amministrazioni? E però poi ci si lamenta di quelli “che non hanno mai fatto un lavoro vero in vita loro”? Forse sarebbe il caso, più semplicemente, di valutare se siano capaci oppure no.

Volevo solo inviare una lettera: incubo kafkiano in fila alle Poste

“Che fa, minaccia?”. Mi avverte la dirigente dell’Ufficio postale che se scriverò lei ha buoni testimoni che ne difenderanno l’onore e la correttezza. E infatti i colleghi in coro la rassicurano: “Abbiamo ascoltato, tranquilla. È una minaccia”.

Ripongo la lettera raccomandata nella giacca ed esco. Sono le 19:20. E anche il quinto tentativo di spedire una lettera è andato buca. Rifletto su cosa ho sbagliato, dove la mia strategia è fallita. Da una settimana ho in mente di assolvere al dovere: inviare una lettera raccomandata. Nell’era Covid ho proceduto con meticoloso ordine, tentando di non lasciare nulla al caso.

Giorno 1. La mia prima preoccupazione è stata di scovare un ufficio aperto. Molti uffici postali hanno infatti ancora i battenti chiusi. Quelli più grandi fungono da hub, e raccolgono il popolo secondo lo schema della fila perpetua. Bisogna essere in salute, gambe forti e tanta tenacia. È una prima scrematura naturale, una selezione darwiniana. Il mio macellaio mi ha appena riferito che si è visto chiedere dei prestiti (“anticipi in conto pensione”) dai vecchietti che non se la sono sentita di sfidare il cordone umano di via Taranto, l’ufficio di Roma est più vicino al mio rione (il Celio) per ritirare la pensione. “Mi chiedono 150 euro di anticipo, ci campano una settimana, nella speranza che il loro sportello riapra. Non ce la fanno ad arrivare fin laggiù”, mi dice. Via Taranto è anche la mia destinazione… Decido anzitutto un sopralluogo esplorativo.

Giorno 2. La fila vista il giorno prima era così lunga che si espandeva fin verso via La Spezia lasciandosi alle spalle piazza San Giovanni. L’ora in cui l’esplorazione era stata compiuta era infame: dieci e trenta del mattino. Il peggio del peggio. Quindi al secondo giorno, come quei topi d’appartamento che verificano le abitudini della vittima, mi sono appostato nell’ora che ho pensato migliore. Alle 14, appena dopo il pranzo. Attesa delusa: ventotto minuti ho resistito prima di lasciare il tronco di una giovane acacia sotto la quale avevo trovato riparo dal sole.

Giorno 3. È la giornata clou. Valuto che debba capire la durata presumibile della fila, conteggiando il tempo di esaurimento. Arrendermi dopo mezz’ora, come ho fatto, è stupido. Quindi arrivo di pomeriggio, perché l’ufficio è aperto fino alle 19 e misuro a passi la distanza che separa l’acacia, dove mi ero accampato il giorno prima, dall’ingresso. Sono 58 passi. Ogni passo un metro. A quell’ora sono 58 persone per una ventina di sportelli. Un’ora in fila o poco più.

Giorno 4. È il giorno più brutto, vicino alla resa. Perché l’acacia, che era il punto da cui partiva la mia valutazione cronometrica, l’ho ritrovata superata all’indietro da un serpentone assai più fitto e drammaticamente più lungo.

Giorno 5. La mia raccomandata non può aspettare più e non è comprensibile questa mia riluttanza al sacrificio che in tempo di Covid è un dovere civile per un cittadino responsabile, come ci dice Giuseppe Conte. La fila è il nuovo tempo sospeso, è l’intervallo che separa i fatti dalle intenzioni. Sono divenuto un esperto. Col cassiere del supermercato è nata un’amicizia e grazie a lui conosco gli orari migliori. Ormai so che tra le sette e le otto della sera si può andare con buone speranze di trovare poca gente. Seguendo la strategia del supermercato ho replicato l’astuzia e sono giunto in via Taranto mezz’ora prima che chiudesse, anzi con trentotto minuti d’anticipo. Davanti a me solo sette persone. Poi sei, cinque, infine tre. Alle 19 sbuca però una intransigente impiegata. L’ufficio chiude. E noi? Gli ultimi tre rimasti in fila? “Ci spiace, chiude. Avete visto il cartello?”. Il cartello? È sistemato all’interno dell’ufficio, nell’atrio di ingresso. Noi siamo all’esterno per rispettare il distanziamento e non affollare, come ci chiede Giuseppe Conte. E siamo l’uno distante un metro dall’altro. Come possiamo leggere un avviso posto all’interno se ci fate restare all’esterno dell’edificio? “È chiuso, non c’è niente da fare”. Scovo nell’impiegato dietro allo sportello una lieve goduria, forse mi sbaglio. Gli chiedo: “Le sembra logico, corretto?”. Mi sorride sadico, sta veramente godendo. Chiedo allora di parlare con la dirigente, cerco il suo nome, “solo la matricola posso darle”, e ripeto la supplica. “Lei sa che alle 18:20 io sono uscita fuori e ho anticipato a tutti…”. Non sapevo, sono giunto alle 18:22. “Stiamo in sciopero rispetto allo straordinario”. Lo sciopero obbliga a staccare un secondo dopo l’orario di lavoro. Fila o non fila. Covid o non Covid. Scioperano i garantiti, coloro che lo stipendio lo ricevono e lo riceveranno. Buffo, no?

Allora è bene rievocare questa piccola via crucis, e scrivere di questa ferocia ritrovata. “Che fa, lei scrive? Che fa, minaccia?” chiede dunque la dirigente impegnata a buttarci fuori dall’ufficio quando ormai sono le 19:20 ed è già tempo di riprogrammare una nuova fila.

Il Pd cambia fase: “Basta essere responsabili”

“Basta con il Partito della responsabilità”. Il nuovo corso del Pd post-Covid si può riassumere con questa specie di auto-esortazione collettiva che risuona tra le stanze del Nazareno e i palazzi della politica che lentamente si ripopolano.

E l’Alfiere di sfondamento è il vicesegretario, Andrea Orlando. Che giovedì s’è preso l’onere e l’onore di attaccare il vicecapogruppo dei Cinque Stelle alla Camera, Ricciardi, autore di un intervento durissimo nei confronti della sanità lombarda, dopo l’informativa del premier Conte: “Risultato dell’intervento incendiario del collega del M5S alla Camera: peggiorare il clima in vista della conversione di decreti fondamentali per il Paese, ricompattare le opposizioni e rafforzare le opposizioni più estreme della destra. Ne valeva la pena?”. Un’uscita abbastanza inedita contro i colleghi di maggioranza, da parte dei Dem. Ma i sospetti si alimentano un po’ ogni giorno: “Non potete avvelenare il clima in questo modo. Volete buttare giù il governo? Bene, noi comunque cadiamo in piedi se si va a votare”, è il messaggio subliminale. Perché, è il ragionamento che si fa al Nazareno, alle urne chi rischia di spappolarsi sono i 5S.

Il Pd uno zoccolo duro, intorno al 20%, ce l’ha: non è entusiasmante, ma considerato il logorio di gruppo sfibrato da anni di battaglie interne, non è poco. Raccontano che in realtà dietro l’altolà di Orlando ci fosse pure una certa insofferenza nei confronti della dichiarazione improvvisa di Luigi Di Maio sul “superamento” del Codice appalti di mercoledì con incorporata adesione al modello del nuovo ponte di Genova. Una posizione che tocca un nervo scoperto nella maggioranza: tra Pd e 5S le posizioni divergono sia su come sbloccare i cantieri delle grandi opere, sia su come e con quali tempi modificare il codice appalti.

Tanto che la conseguenza più ovvia potrebbe essere l’accentramento di queste riforme a Palazzo Chigi. E il Pd ne soffre. Insomma, i Dem rischiano di trovarsi inchiodati nel loro ruolo più classico: quello del partito-sistema, che per mantenerlo, il sistema, dona sangue e alla fine si ritrova politicamente esangue. E allora, eccolo il cambio di strategia. La linea: “Noi abbiamo salvato Bonafede, anche se non ci piace. Ma questo non vuol dire che possiamo continuare a ingoiare tutto, mentre loro dicono la qualsiasi”. Anche la battaglia di Orlando contro il prestito a garanzia statale a Fca deriva da questa strategia di riposizionamento. Viene considerato un passaggio identitario. Orlando è il più adatto a giocare questo ruolo. Nicola Zingaretti all’inizio l’ha subìto, ora invece l’ha investito.

Mentre Renzi appare definitivamente depotenziato, la dinamica dentro la maggioranza si avvia a essere questa: la minaccia del voto da parte del Pd contro uscite definite eccessive dagli avversari. Una prova è in corso in questi giorni sulla scuola. Il casus belli è il concorso per docenti. Il ministro Azzolina lo vorrebbe normale con il quiz a crocette e i vari step da superare. Il Pd e Leu, vista la situazione, propone un concorso per titoli. Insomma un canale più diretto per le assunzioni.

Ma dietro c’è anche una questione politica. Paola De Micheli (Mit), e fedelissima di Zingaretti, causa la vicenda sblocca cantieri e codice appalti, è oggetto di appetiti e malumori. Ecco dunque l’alzata di scudi al Nazareno: “Se si tocca la De Micheli, salta pure qualcun altro”. Il riferirimento è proprio alla Azzolina. Quanto questa strategia regga, si vedrà. Perché si avvicina lo scontro finale: mentre il Pd in blocco vuole che l’Italia acceda al Mes, M5S continua a fare le barricate.

La task force non scova balle, ma stila linee guida per capirle

Di loro, stando al decreto istitutivo, ci sarà bisogno “fino al superamento dell’emergenza epidemiologica”, quindi chissà quando e comunque – anche se dovessimo uscirne presto – “per un periodo non inferiore a un anno”. Come a dire: mettetevi comodi, ché il lavoro da fare è tanto. Eppure secondo Riccardo Luna, uno degli otto esperti dell’Unità di monitoraggio per il contrasto alla diffusione di fake news, il più è fatto: “Noi abbiamo dato i nostri consigli, non credo ci sia bisogno di molto altro”.

La task force anti-balle messa in piedi dal Sottosegretario con delega all’Editoria Andrea Martella ha iniziato a lavorare la prima settimana di aprile; da allora una decina di riunioni in teleconferenza con l’obiettivo “di contrastare” la diffusione delle bufale “relative al Covid-19 sul web e sui social network”.

“Rigorosamente a titolo gratuito – sottolinea il professor Ruben Razzante, che si occupa di diritto e deontologia dell’informazione per la Cattolica di Milano, la Lumsa di Roma e la Pontificia Università della Santa Croce, e che a Pasqua giura “di aver lavorato dieci ore”.

Sbaglia però chi si immagina notti insonni vegliate al lume del rancore, con gli esperti curvi sui monitor a caccia di fake news su ospedali, malati, tamponi e decessi. E sì che di materiale per una task force anti-bufale, in questa emergenza, ce ne sarebbe stato parecchio, dalle mascherine bollate come “inutili” al virus creato da Bill Gates. Ma distinguere cosa è balla e cosa no non è semplice e soprattutto occuparsi soltanto di quelle create sul web presuppone, non senza velleità auto-assolutorie, che non valga la pena soffermarsi sulle fake news prodotte su rinomate testate nazionali o partorite direttamente da politici o istituzioni.

Per tutto questo verrà forse il tempo di altre task force; per ora, dice Luna, l’obiettivo è un altro: “Noi abbiamo appena consegnato al Sottosegretario un documento con una serie di consigli su cosa sono le fake news, come circolano e come il governo può contrastarle”. Il famoso ministero della verità? “Per nulla, anzi, si deve evitare ogni attività di censura. Il tema è, da una parte, uniformare e rendere più fruibili le comunicazioni istituzionali, che anche durante l’emergenza sono state contraddittorie. Dall’altra, si deve far crescere lo spirito critico degli utenti del web”.

Capire come è il problema. Le spunte blu che hanno autenticato sui social i profili “originali” di vip, giornali e politici sono un aiuto, “spot e campagne di sensibilizzazione istituzionale a un corretto uso della rete – dice Razzante – possono funzionare”. Il tentativo è quindi quello di condurre a miti consigli i vari Napalm51 dei social, per citare il celebre personaggio di Maurizio Crozza che passa le giornate a condividere in rete messaggi d’odio e notizie false. Nessuna segnalazione concreta però, nessun richiamo specifico a questo o quell’episodio: “Non ci siamo immersi in un’operatività del genere – è la conferma di Francesco Piccinini, direttore di Fanpage e componente della task force – anche per evitare strumentalizzazioni. Il nostro compito è fornire linee guida sia per chi naviga sia per chi produce contenuti. Abbiamo tenuto conto delle segnalazioni che ci arrivavano, ma senza concentrarci sul singolo caso e cercando piuttosto di trovare caratteristiche generali”.

Concetto ripetuto da David Puente (Open): “Non siamo lì per fare i censori o pensare nuove leggi. Forse siamo stati fatti passare per questo, ma è una fake news sulle fake news”. Consegnato il rapporto a Palazzo Chigi, non resta che aspettare: “Non so se ci consulteranno ancora, teoricamente restiamo in carica”, dice Puente. “Tanto nel decreto è scritto chiaro: tutto gratis, non ci tocca neanche il rimborso dei caffè”.