Minisci e la segnalata di Prestipino “Michele dice che è molto brava”

Francesco Minisci, già presidente e oggi nel Comitato Direttivo dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, non disdegnava le raccomandazioni o segnalazioni che dir si voglia.

Se c’era da aiutare un’amica dell’attuale Procuratore Capo di Roma o un sostituto che non riusciva a diventare aggiunto, lui chiamava Luca Palamara e tutto si risolveva. Sostituto procuratore a Roma, Minisci diventa presidente dell’Anm il 24 marzo del 2018. A Palamara, leader della sua corrente Unicost nonché potente consigliere del Csm, scriveva nel 2017: “Caro Luca, ti apprezzo e ti stimo sempre di più, e non è solo questione di affetto, ma di riconoscimento del fatto che sei l’unico ad avere il coraggio e la capacità di dire certe cose, con i tempi, i modi e l’autorevolezza del leader. Un abbraccio”. Il leader replicava distratto: “Anche io Ciccio ti chiamo appena finisce plenum e parliamo prima della giunta”, dell’Anm.

Il 24 luglio 2017 Minisci perora il passaggio fuori ruolo al ministero (dove poi andrà nel 2018 anche con altre spinte su altri magistrati) per una collega romana: “Vediamo se si riesce ad aiutare Letizia Golfieri per un fuori ruolo”. Poi il 14 febbraio 2018 a Palamara chiede anche: “Per Presidente Sezione Tribunale Messina c’è Romeo, che Michele dice che è in quell’Ufficio ed è molto brava”.

Laura Romeo è un giudice del lavoro di Messina che allora voleva diventare presidente della sua sezione. Mentre Michele è Prestipino, oggi procuratore capo di Roma, originario del messinese. Allora era il procuratore aggiunto più vicino al capo Giuseppe Pignatone ed era un superiore di Minisci che si fida del suo parere tecnico. Il 12 marzo 2018 scrive a Palamara: “Questa settimana dovrebbe esserci Presidente sezione lavoro Messina”. E Palamara “Si l’ho messo”. Minisci insiste: “Verifica se ci sono le condizioni”. Il 21 marzo 2018 un rinforzino: “Domani dovrebbe esserci Presidente sezione lavoro Messina. Come si mettono le cose?” e Palamara “Sto facendo di tutto”. Minisci aggiunge: “Me lo ha chiesto Michele, ci tiene”. Palamara esausto: “Lo so. Ma tutti i nostri mi chiedono conti. Romeo troppo giovane”. La dottoressa Romeo è classe 1974 ed era indigesta ai ‘nostri’ di Messina di Unicost perché era di Magistratura Indipendente. La segretaria di Unicost Messina, il procuratore aggiunto Giovannella Scaminaci, preferiva Beatrice Catarsini e scrive a Palamara il 12 marzo 2018: “la cosa essenziale è che non venga preferita Laura Romeo che è una giovanissima di MI”. Palamara il 12 aprile 2018 le indora la pillola: “Purtroppo in previsione di Patti e Messina ho dovuto cedere per la Romeo”. Nessun riferimento a curriculum o competenza. Stando almeno alla chat di Palamara, la logica era cedere su un fronte per vincere su altre due nomine. Sempre il 12 aprile 2018 Minisci scrive a Palamara: “Prestipino è contento”. Il leader di Unicost scrive: “Digli che l’ho fatto per lui. Mandami numero”.

Minisci invia il contatto di Prestipino a Palamara che lo usa per inviare un sms criptico da signore: “Un abbraccio…”. Prestipino risponde: “Grazie Luca davvero grazie”.

Il procuratore Prestipino spiega: “La collega Romeo è una persona in gambissima, la conosco come conosco bene i colleghi di Messina, essendo stato procuratore a Reggio. Non ricordo bene ma non ho difficoltà a dire che, se anche avessi ringraziato Palamara, lo avrei fatto perché era stata nominata una persona valida. Non faccio parte di correnti e non c’è nessuna logica di appartenenza. Solo contentezza per una nomina giusta. Avrò pensato o fatto messaggi simili per la nomina di altri che stimo”. Un terzo concorrente, Fabio Conti, ha fatto ricorso al Tar del Lazio contro il Csm e in primo grado nel 2019 ha ottenuto l’annullamento della delibera di nomina. Pochi giorni fa è stata depositata la sentenza del Consiglio di Stato (estensore Urso, presidente Severini) che ha ribaltato il verdetto dando ragione al Csm. La nomina di Laura Romeo è stata giusta e corretta.

Minisci comunque faceva segnalazioni seguendo logiche non correntizie come dimostra il caso di Tescaroli.

Nonostante una carriera invidiabile (Luca Tescaroli da ‘giudice ragazzino’ partì dal Veneto per andare a Caltanissetta dopo le stragi del 1992, ha subito un attentato nel 1997, ha condotto indagini importanti come ‘Mafia Capitale’) non veniva mai considerato. Al Csm non lo proponevano nemmeno nella rosa per diventare aggiunto. Mai per nessuna sede. Le sue domande per aggiunto a Palermo, Catania, Catanzaro, Venezia, Roma o per la Dna non avevano nemmeno un voto in commissione.

A ottobre 2017 Francesco Minisci lo mette in contatto con Palamara. Il 30 novembre 2017 alle 9 di mattina lo accompagna al cospetto del leader al Csm. Nella chat con Minisci il consigliere commenta che il povero Tescaroli non era sostenuto nemmeno dalla sua corrente, Area, quella di sinistra. Come finisce? Dopo il tocco del Re Mida Palamara, Tescaroli, che se lo merita da anni, ottiene il posto da aggiunto (a Firenze) all’unanimità.

Così va il mondo nella magistratura italiana. Qualcuno si ostina a non capirlo. Il 9 aprile 2018, dopo la sentenza Trattativa che aveva dato ragione a Antonino Di Matteo, il pm di Palermo rilascia alcune dichiarazioni. Minisci chiede l’opinione di Palamara e quello: “L’ANM lo deve bastonare. È una vergogna quello che ha fatto. Fossi stato io mi avebbero lapidato”. Il riferimento è alle interviste, non agli atti. Minisci non bastona nessuno ma ci pensano i politici di ogni colore. Il pm della Trattativa fa notare il silenzio di Csm e Anm in tv da Lucia Annunziata e il 23 aprile 2018 – dopo le dichiarazioni tiepide nei suoi confronti del presidente Anm Minisci, il consigliere Csm Palamara gli scrive: “Buone le dichiarazioni su Di Matteo”.

Basentini chiedeva a Luca Palamara il “suo” procuratore

Francesco Basentini nel gennaio del 2018 chattava con Luca Palamara alla vigilia della nomina del Procuratore capo di Potenza. Basentini era dispiaciuto di vedere nominare dal Csm il pm Francesco Curcio, poi nominato. Basentini chiedeva a Palamara di fare qualcosa in favore di Luigi D’Alessio, protagonista dell’indagine contro l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano. Francesco Basentini, 55 anni, è nato a Potenza ed è sempre stato di area Unicost, la corrente centrista dei magistrati che aveva Luca Palamara come leader. Curcio, 62 anni, ha condotto indagini importanti prima contro la camorra e poi insieme a Henry John Woodcock con l’aggiunto Vincenzo Piscitelli, ha portato avanti indagini importanti come quelle su Finmeccanica o sulla P4.

Magistrato ingombrante e di area Magistratura democratica, avrebbe potuto fare ombra a Basentini che, non sappiamo per quale preciso motivo, si lamenta della sua nomina con Palamara. L’allora procuratore aggiunto invece aveva avuto il suo momento di gloria mediatica nel 2016 con il “petrol-gate” che aveva portato alle dimissioni di un ministro del governo Renzi: Federica Guidi, non indagata, intercettata casualmente con il compagno di allora, Gianluca Gemelli, indagato a Potenza e poi prosciolto a Roma su richiesta del pm Felici. Basentini era allora lontano dalle prime pagine dei giornali come accadeva due anni prima quando sentiva a sommarie informazioni Maria Elena Boschi per ricostruire la storia di un emendamento.

L’11 gennaio del 2018 alle 11 e 30 Basentini scrive a Palamara su whatsapp: “Luca, ho saputo che oggi la Comm. proporrà Curcio. ahimé… Non si riesce a fare proprio nulla per D’Alessio?”.

Il magistrato preferito da Basentini in quel momento è Luigi D’Alessio, anche lui area Md, procuratore capo di Locri dal 2013. D’Alessio diverrà famoso anche lui 9 mesi dopo quando chiederà gli arresti domiciliari (poi revocati dai giudici) per il sindaco di Riace Mimmo Lucano.

Quando Basentini scrive se si possa fare qualcosa per D’Alessio perché la commissione incarichi direttivi del Csm sta per proporre Curcio “ahimé” Palamara replica: “Si purtroppo è così”.

Palamara aggiunge “Ti devo parlare però” e Basentini prudente: “Quando vuoi, chiamami su whatsapp”, non intercettabile salvo l’uso del trojan, che però sarà iniettato al cellulare di Palamara dai pm di Perugia solo un anno e mezzo dopo. Le chat di whatsapp sono state recuperate e depositate a disposizione della Procura, del ministero e del Csm per le rispettive competenze, alla fine di maggio 2019 quando Palamara è stato indagato e perquisito.

Poi passano quattro mesi e la vita di Basentini cambia. Il M5S vince le elezioni e Bonafede lo sceglie, al posto di Antonino Di Matteo, per il Dap, incarico lasciato dopo lo scandalo delle scarcerazioni dei boss il primo maggio scorso. Basentini, come è evidente dalle chat, non è stato nominato grazie alla sua corrente o grazie a Palamara che lo scopre a cose fatte il 20 giugno 2019.

Al ministero altri potevano parlare bene di lui. In testa il vice-capo gabinetto di Bonafede: Leonardo Pucci, compagno di studi universitari di Bonafede e poi assistente del professor Giuseppe Conte a Firenze dal 2002 al 2009, giudice del lavoro a Potenza dal 2009 al 2015. Pucci però all’Adn Kronos ha spiegato “Conosco Basentini ma non sono stato il suo sponsor”.

La nomina non è farina del suo sacco, ma Palamara il 20 giugno 2018 si congratula: “Grande Francesco”. Basentini replica: “Grazie Luca!! Spero di vederti a Roma”. Ricambiato da un “Ti aspetto”.

Il 31 luglio si scambiano messaggi per fissare un appuntamento dopo ferragosto.

Poi il 30 ottobre Palamara scrive a Basentini: “Grande Francesco hai qualche riscontro su quella cosa? Un abbraccio”. Alle 21 e 30 il capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria replica: “Luca, quello non ha fatto domanda per Roma ma per Reggio Calabria”. Si tratta probabilmente del trasferimento di un agente della Polizia Penitenziaria o di qualcosa di simile. Basentini scrive a Palamara: “Mi dai il numero di matricola!?”. Palamara gli invia un file e scrive alle 10 di sera: “Grazie un abbraccio” con chiusura di Basentini alle 11 e mezza di notte: “Grazie Luca, ti farò sapere”.

Poi non succede comunque nulla. Basentini oggi potrebbe tornare a Potenza sotto il procuratore “Curcio ahimè”? Al Fatto l’ex capo Dap spiega: “Non torno a Potenza e le dico che con Curcio, che non conoscevo prima, ci ho lavorato purtroppo solo pochi mesi imparando a conoscere un’ottima persona e un miglior magistrato”. Quanto all’agente con la matricola inviata da Palamara “Non ho disposto alcun trasferimento né avevo il potere di farlo”.

E sul suo destino spiega di essere nelle mani del Csm: “Ho chiesto il rientro in ruolo il giorno delle dimissioni”. Ora il Consiglio dovrà bandire una sorta di concorso virtuale, come accade quando i magistrati rientrano in ruolo, per vedere dove c’è un posto alla sua altezza vacante. Potenza è piena, ahimé.

Inail: “In tre mesi 43.399 infortuni da contagio, 171 mortali. Quasi la metà dalla Lombardia”

Le denunce di infortunio da contagio Covid arrivate all’Inail in meno di tre mesi sono state 43.399 con 171 casi mortali: l’Istituto ha diffuso le denunce di infortunio professionale legate al contagio aggiornate fino al 15 maggio spiegando che i casi mortali riguardano per circa la metà personale sanitario o socio-assistenziale con infermieri e medici tra le categorie più colpite. Tra i morti oltre otto su dieci sono uomini. Rispetto alla rilevazione del 4 maggio, primo giorno della fase due, quando le denunce erano 37.352, ci sono circa 6.000 casi in più anche se probabilmente la grande parte di riferisce ancora alla fase del lockdown

L’Inail sottolinea che nove decessi su dieci legati al Covid denunciati riguardano lavoratori con più di 50 anni. L’età media dei lavoratori che hanno contratto il virus, spiega, è di 47 anni per entrambi i sessi, ma sale a 59 anni per i casi mortali.

Il 70,8% dei decessi riguarda lavoratori tra i 50 e i 64 anni mentre il 19,3% si riferisce a over 64. Il 71,7% dei contagiati è donna e il 28,3% di sesso maschile, ma il rapporto tra i generi si inverte nei casi mortali. I decessi degli uomini, infatti, avverte l’Istituto, sono pari all’82,5% del totale.

Guardando alle denunce complessive gli stranieri sono il 15,3% (otto su 10 sono donne) del totale mentre gli italiani sono l’84,7% (sette su 10 sono donne). Oltre l’80% delle denunce arriva dalle aree del Nord (55,7% da Nord Ovest e il 24,7% da Nord Est) con più di una denuncia su tre che arriva dalla sola Lombardia (34,9%). Solo il 12% delle denunce di contagio arriva dal Centro mentre il 5,9% arriva dal Sud e il 2,2% dalle Isole. Il Nord ha la stragrande maggioranza delle denunce di casi mortali da contagio con quasi il 72% del totale (57,9% nel Nord Ovest, 14% nel Nord Est, il 43,9% nella sola Lombardia). L’11,1% delle denunce di infortunio mortale di Covid arriva dal Centro, mentre il 15,2% si riferisce al Sud e l’1,8% alle Isole.

Soffiano sul fuoco di rivolta: “Ora no, d’autunno si vedrà”

Protestano i cassintegrati che ancora aspettano la cassa integrazione e rumoreggiano gli imprenditori, specie piccoli e medi, che combattono con le banche per avere i prestiti garantiti dal governo. Scendono in piazza gli infermieri a Torino, i ristoratori nei giorni scorsi un po’ ovunque, operatori del turismo, maestri presepiai e altre categorie a Napoli, i braccianti stranieri organizzati dal sindacato Usb in Puglia. Ieri i carrelli della spesa della Brigata Franca Rame e della “Camera del lavoro e del non lavoro” sono arrivati sotto l’assessorato alle Politiche sociali di Milano per un flash mob per “contestare la politica dei buoni spesa che – dicono – vanno dati a tutti”.

La crisi economica che accompagna l’emergenza Covid- 19 è drammatica, inaudita, morde milioni di persone e di famiglie letteralmente distrutte dal lockdown di questi due mesi e mezzo. E c’è chi parla e scrive di rivolte e preconizza violenze, magari anche la guerra civile: “C’è il rischio di una crescente esasperazione sociale basata sull’insoddisfazione delle popolazioni che potrebbe portare a varie forme di rivolta su scala senza precedenti”. La fosca previsione era sulla prima pagina del Giornale berlusconiano di ieri. Il “dossier choc” viene da Kelony, “la prima agenzia di risk-rating a livello mondiale”. Il numero uno di Kelony è Genséric Cantournet, ex gendarme francese, ex dirigente Telecom, già a capo della security della Rai di Antonio Campo Dall’Orto dalla quale si dimise nel 2017 dopo che l’Anac aveva rilevato che era stato selezionato da una società di cacciatori di teste guidata da suo padre, Bernard. Gli è andata ancora peggio a Repubblica : ingaggiato per proteggere i giornalisti dal nuovo Coronavirus, gli hanno rescisso il contratto dopo un’intervista a La Verità in cui sottolineava che negli uffici del gruppo Gedi non c’era “nemmeno l’amuchina”. Insomma l’uomo giusto per delineare scenari sulla sicurezza dal Paese. Scrive Il Giornale riferendo le sue analisi: “Da un lato un’accelerazione del numero di procedimenti giudiziari, rappresentativi dello stato di diritto e della democrazia. Dall’altro un nuovo ‘stato di emergenza’ che per fronteggiare l’emergenza ordine pubblico potrebbe nuovamente ‘rafforzare misure di eccezione contrarie alle libertà individuali’”. Elementi che secondo il quotidiano potrebbero far saltare un “equilibrio fragile perché le disuguaglianze sociali precedenti all’emergenza Covid-19 sono state amplificate”. Insomma da una parte ci sono coloro che hanno perso il lavoro, dall’altra le categorie privilegiate, chi continua a percepire lo stipendio. Da qui al disastro è un attimo, secondo questo report, che addirittura evoca una “dittatura sanitaria”.

Il 12 maggio l’autorevole Stampa di Torino titolava in prima pagina: “Il Nord a rischio di tensioni sociali – Governo in ritardo, il 70 per cento teme conflitti. E a pagina 8: “La crisi farà scoppiare rivolte al Nord”. Era un sondaggio di Alessandra Ghisleri, Euromedia Resarch, secondo il quale il 64 per cento degli italiani “si dichiara consapevole del rischio di importanti tensioni sociali soprattutto nella parte più produttiva del paese”. Sono andati a chiedere: “Secondo lei c’è il rischio di importanti rivolte sociali?”. Il metodo è scientifico, non c’è che dire.

Al Viminale, per il momento, non c’è particolare allarme. Questure e prefetture monitorano attentamente la situazione nelle varie province. Le tensioni ci sono e le vedono tutti, ma l’attenzione si concentra già sull’autunno, quando il malcontento potrebbe assumere una dimensione diversa, specie se l’iniezione di liquidità nell’economia non dovesse bastare.

Movida, il nemico numero 1 del primo weekend in fase 2

Assembramento da movida, ecco l’incubo del primo weekend della Fase 2 a locali aperti. Da Nord a Sud sindaci, prefetti e governatori corrono ai ripari.

Torino La preoccupazione è tale che la sindaca Appendino ha firmato ieri un’ordinanza per le “zone calde” della città: niente alcolici da asporto dopo le 19 e chiusura all’una per tutti i locali. L’aperitivo dovrà essere consumato dentro al locale o nel dehor, alla dovuta distanza di almeno un metro: “Non diciamo che non si devono vedere gli amici – spiega Appendino – ma è fondamentale che questo avvenga nel rispetto delle modalità con cui dovremmo convivere in questi mesi”. L’ordinanza è una sperimentazione: tra dieci giorni si farà un bilancio. I controlli delle forze dell’ordine saranno intensificati. Il prefetto Claudio Palomba punta sulla collaborazione dei cittadini: “Chiediamo senso di responsabilità a commercianti e clienti”. E il questore Giuseppe De Matteis precisa: “Dove non si rispetteranno le distanze e si creeranno assembramenti interverremo. Speriamo però non sia necessario”.

Milano Un “piano di intervento più deciso” per evitare la calca è stato chiesto già due giorni fa dal sindaco Sala al prefetto Renato Saccone. Sala intende chiudere “i locali che sono lontanissimi dal rispetto delle regole.” “Sulla questione movida – ha spiegato – purtroppo ero stato buon profeta: abbiamo un problema come tutte le città italiane, i ragazzi ma non solo loro hanno bisogno di socialità, ma questo comporta un rischio elevato”. Il piano anti-assembramenti prevede più pattuglie della polizia locale per strada e “severità con le multe”.

Padova Addetti alla sorveglianza fuori dai locali, servizio limitato ai clienti seduti, “delocalizzazione” dei bar che non hanno un dehor negli spazi aperti in periferia. È il piano elaborato in prefettura con Comune, esercenti e forze dell’ordine. “I piccoli locali che vivono di assembramenti sono quelli più in difficoltà – spiega Antonio Bressa, assessore al Commercio –. Penseremo anche a loro con delle iniziative estive”.

Roma Mille agenti di polizia locale in azione nei quartieri della movida e fino a 3.000 euro di multa per i trasgressori. Roma affronta il primo week-end della fase 2 tornando alla condizione pre-Covid, sul fronte degli orari di apertura e della somministrazione degli alcolici. Si punta in prevalenza sui controlli, che si annunciano serrati in particolare a Trastevere, San Lorenzo, Ponte Milvio, Pigneto, Centocelle, Ostiense e piazza Bologna. Intanto, la sindaca Virginia Raggi giovedì notte ha approvato in giunta l’attesa delibera dell’assessore Carlo Cafarotti che darà da lunedì la possibilità a ristoranti, bar e pub di posizionare tavolini all’aperto per il 35% dell’estensione del locale. Una concessione provvisoria, della durata di 12 mesi, che permetterà agli esercenti di sfruttare la bella stagione per recuperare parte degli incassi persi durante il lockdown, e ai cittadini di incontrarsi in sicurezza. Le maglie del provvedimento potrebbero essere allargate da un emendamento che i consiglieri M5s porteranno presto in Assemblea capitolina.

Napoli Vincenzo De Luca chiude alle 23 la movida, Luigi de Magistris vorrebbe tenerla aperta h 24, e anche gli orari dei baretti di Chiaia diventano terreno di scontro tra il presidente della Campania e il sindaco di Napoli (che ieri si sono incontrati da soli in Regione per la prima volta dopo anni). Qui bar e ristoranti hanno ripristinato il servizio ai tavoli e all’aperto soltanto l’altroieri. De Luca ha accompagnato questa decisione con l’emanazione di un’ordinanza rigida sugli orari di esercizio: chiusura alle 23 per evitare assembramenti proibiti. “È come scongiurare il rischio di rapine chiudendo le gioiellerie e le banche” ha commentato un operatore. E infatti molti a Napoli hanno preferito lasciare le saracinesche abbassate e i tavolini vuoti, in attesa di tempi migliori. “Sono completamente contrario alla chiusura anticipata” ha affermato De Magistris, “è sbagliato questo modo di procedere con le ordinanze regionali, sono i sindaci che devono regolamentare le città, io riaprirò tutto”.

Bari Il presidente della Puglia Michele Emiliano pare pensarla come De Luca. Se proseguono gli assembramenti in strada, ha detto, “sono pronto a emettere provvedimenti con i quali persino i locali rischiano di poter essere chiusi se non spiegano ai loro clienti che nell’esercizio si accede secondo le regole, con le mascherine, si consuma e poi ci si allontana immediatamente senza sostare all’esterno”.

Palermo Le foto degli assembramenti notturni hanno fatto il giro d’Italia, imponendo al sindaco Leoluca Orlando e al presidente della Regione Nello Musumeci di lanciare l’ultimatum contro “le passeggiate inutili”. Pena il ritorno a un parziale lockdown. Qualcuno, come Pietro Sutera, titolare di uno storico locale alla Vucciria, ha anticipato tutti chiudendo per l’impossibilità di fare rispettare il distanziamento sociale all’esterno.

Catania Qui la paura della pandemia sembra un lontano ricordo. Già da inizio maggio, strade e spiagge libere sono state prese d’assalto e il sindaco è stato costretto a interdire il borgo marinaro di San Giovanni Li Cuti. Il cuore della movida resta però legato a bar, pub e ristoranti. Attività obbligate, per ordinanza del primo cittadino, a chiudere entro l’una di notte. Ma il problema sono gli assembramenti esterni.

Anche i tamponi mentono: “Il 30% può fallire”

A oggi non c’è altro modo: il tampone nasofaringeo resta il metodo più certo per capire se una persona è positiva al Covid-19. Eppure anche qua i margini di errore non sono pochi. Il che ci mette davanti a un nuovo problema: i falsi negativi che assieme agli asintomatici rappresentano un rischio per nuovi focolai. Il professor Massimo Galli è chiaro su questo: “A oggi il test con il tampone ha una percentuale di riuscita del 70%”.

Con un tale valore significa che tre persone su dieci rischiano di sfuggire al tracciamento. Molti sono i fattori di errore: l’uso superficiale del tampone, errori di laboratorio, metodologia sbagliata. Non solo. È necessario sapere in quale momento dell’infezione è giusto fare il tampone. In molti casi l’infezione prosegue oltre le sei settimane dall’insorgenza dei sintomi. Qui la carica virale è inferiore e sfugge al test. Quello che ancora non si sa è se a distanza di così tanto tempo una persona sia ancora contagiosa. In questo senso un recente studio pubblicato sul Journal of American Medical Association (Jama) per la prima volta svela l’evoluzione virale di Covid-19 nei vari test. E, come Galli, ribadisce l’incertezza nei risultati del tampone. Secondo uno screening fatto su 205 pazienti Covid, si legge nello studio, la positività al test nasofaringeo è risultata del 63%. Decisamente poco. Molto più alto e quindi più certo il test eseguito su campioni di lavaggio broncolaveolare (93%). Particolare confermato dallo stesso Galli. “È capitato – spiega – di avere un tampone negativo e di avere un risultato di positività nel lavaggio bronchiale”. In generale, illustra lo studio, i falsi negativi sono dovuti “a tempistiche inadeguate”. Il rischio è eseguire il test o troppo presto o troppo tardi. Secondo uno studio pubblicato dalla Johns Hopkins University il test eseguito a cinque giorni dall’insorgenza dei sintomi porta al 38% di falsi negativi, percentuale che scende al 20% se il tampone viene eseguito dopo otto giorni. Per questo il grafico sull’evoluzione virale pubblicato da Jama risulta fondamentale. I ricercatori hanno lavorato su diversi parametri: dal virus rilevato dai tamponi alla sua presenza nelle feci. Viene seguita anche la curva degli anticorpi. Una settimana prima dei sintomi, l’infezione inizia a galoppare, da qui e fino ai primi giorni della prima settimana di sintomi il virus è isolabile e visibile al microscopio elettronico, dopodiché si inabissa. Nel frattempo la curva che riguarda il test nasofaringeo raggiunge il picco alla fine della prima settimana. In questo momento il test molecolare può dare buoni risultati. La portata virale inizia a declinare all’inizio della seconda settimana fino a diventare impercettibile al test molecolare alla sesta settimana. A metà della terza settimana si osserva il picco degli anticorpi, con la linea degli IgG che prosegue oltre il mese. La presenza del virus nel lavaggio broncoalveolare resta alta per molto tempo.

Questo è il test che garantisce un risultato più certo. Poi si pone il problema di un virus che resta nel corpo per oltre un mese dall’insorgenza dei sintomi. Questo viene testimoniato nel grafico dalla curva delle feci che vanno oltre la sesta settimana. A questa data, il virus è depotenziato e non è più rilevabile da un test nasofaringeo. Un dato che non ci dice se la persona è ancora contagiosa. Una risposta a breve è fondamentale.

Nord, 8 anni in meno di vita “È un nuovo Dopoguerra”

I soldati in mimetica intenti a caricare le bare sui camion militari resteranno nella memoria della generazione che ha assistito al flagello. Storie e vite interrotte, racchiuse in immagini diventate il simbolo dell’impatto che il Covid-19 ha avuto sulla Lombardia e su Bergamo, in particolare. Un dolore collettivo che ora qualcuno ha tradotto in termini strettamente analitici. Il morbo di Wuhan si è abbattuto così ferocemente sulla Regione che, secondo uno studio del “Covid Crisi Lab” della Bocconi, nelle zone più colpite l’aspettativa di vita è diminuita fino a 8 anni. Per Simone Ghislandi, bergamasco, tra gli autori dello studio, “l’epidemia ha comportato per il Nord Italia i costi umani più alti mai visti dal Dopoguerra”.

Bergamo, Brescia, Cremona, Lodi e Piacenza. Sono le aree scandagliate dal report News from the front: Estimation of excess mortality and life expectancy in the majorepicenters of the Covid-19 pandemic in Italy. Utilizzando i dati dell’Istat sulla mortalità, i ricercatori hanno calcolato l’aspettativa di vita stagionale relativa al periodo 1° gennaio-15 aprile: rispetto al quinquennio 2015-2019, si legge, gli uomini hanno perso 7,8 anni di vita a Bergamo e 5,1 a Brescia mentre per le donne la diminuzione va dai 3,2 anni registrati a Piacenza fino ai 5,8 di Bergamo. Sempre lei, la provincia che ha oltre un terzo dei morti in eccesso di tutta la Lombardia: 5.686 quelli registrati in più sui 5 anni precedenti a fronte dei 3.671 di Brescia,1.756 di Cremona, 827 di Lodi e dei 906 di Piacenza. “Sono morti causate dall’ondata epidemica – spiega Ghislandi – possono essere dovute direttamente al virus, ma anche ai servizi ospedalieri congestionati o a fenomeni come l’aumento degli infarti di cui ha parlato la Società italiana di cardiologia. In ogni caso sono tutti decessi che hanno una relazione con il Covid-19”. L’età è il fattore di rischio più evidente: “In Lombardia gli over 70 – prosegue il docente – ha avuto66 volte più probabilità di morire agli under 60. Di 25 volte rispetto agli under 70”. E anche il genere ha un suo peso, visto che “gli uomini hanno un rischio maggiore, fino a 2,5 volte il quello delle donne”.

Una situazione drammatica che potrebbe, però, migliorare nel corso del 2020: ipotizzando che una volta finita l’emergenza la mortalità ritorni a livelli fisiologici, la perdita di vita attesa a Bergamo si abbasserebbe a 3,5 anni per gli uomini e a 2,5 per le donne. “Questo perché, ameno di nuove ondate, da giugno la mortalità dovrebbe tornare alla normalità – prosegue Ghislandi – molte persone che sarebbero morte nel corso dell’anno lo hanno fatto già nei suoi primi 4 mesi”. Ma c’è un altro fattore con cui gli italiani dovranno fare i conti sin da ora: “È un dato di fatto – si legge nello studio firmato anche da Benedetta Scotti della Bocconi, Raya Muttarak e Markus Sauerberg del Vienna Institute of Demography – che dopo la prima ondata epidemica la mortalità prematura potrebbe aumentare come risultato dei lockdown e della conseguente crisi economica, fenomeno che è stato osservato ad esempio in Grecia e altrove in Europa dopo la crisi globale del 2008”. “Sappiamo che ci sarà una crisi – spiega il docente – Non ne conosciamo l’impatto. Ma ci sono stati casi in cui eventi di questo tipo hanno fatto aumentare il tasso di mortalità.”

Le bare sui camion militari da una parte, dall’altra i numeri. “Sono di Bergamo. La mia necessità era quella di far capire cosa sono state per noi quelle sei settimane. E per farlo serviva un’informazione sintetica basata su dati oggettivi che potesse essere letta anche dai ricercatori degli altri Paesi. In modo da fare un confronto con il passato”. Ritorna allora l’immagine dei camion incolonnati, che riportano a una metafora spesso abusata ma che in termini analitici ha un senso: “In uno dei grafici che abbiamo usato, che racconta l’andamento dell’aspettativa di vita dal 1900 al 2017 – prosegue Ghislandi – ci sono due grosse cadute: la prima arriva con l’epidemia di spagnola e della Prima guerra mondiale, l’altro lo trovi amo con la Seconda guerra mondiale. Ecco, ora dobbiamo fare i conti con le macerie lasciate dal Covid-19”.

“Un caso unico al mondo gestito male da arroganti”

“Quello che è accaduto alla Camera è intollerabile. Ricciardi si è limitato a mettere in fila dei fatti. La verità è che la sanità lombarda andrebbe commissariata, perché Fontana e Gallera sono completamente in tilt”. Prima di diventare europarlamentare del Pd, Pierfrancesco Majorino è stato consigliere comunale a Milano e capogruppo dem, mentre con Pisapia è stato assessore alle Politiche Sociali.

Majorino, è vietato parlar male della Lombardia?

Io non attacco la Lombardia, ma il modello di sanità lombarda portata avanti dal centrodestra. Che è risultato fallimentare. Ciò che è accaduto qui non può essere derubricato a semplice crisi sanitaria. È un caso di cui si discute in tutto il mondo. Se critico Fontana è perché voglio difendere la mia regione, non solo per quello che è accaduto, ma per ciò che può succedere, perché siamo ancora nel pieno dell’emergenza.

Fontana e Gallera non hanno mai fatto nessun mea culpa.

La loro arroganza e presunzione è sotto gli occhi di tutti. Sembra non abbiano coscienza di ciò che è successo e questo mi preoccupa per il futuro. È chiaro che il virus non l’ha portato Fontana, hanno giocato diversi fattori, a partire dagli scambi commerciali con la Cina. Ma poi gravi errori ci sono stati: il pasticcio sulle zone rosse, la scelta di giocare tutta la partita negli ospedali, le indicazioni alle Rsa arrivate solo il 30 marzo e, adesso, politiche incerte su test sierologici e tamponi, che rischiano di diventare un discrimine sociale se fatti solo a pagamento. Invece test e tamponi devono essere fatti a tappeto e in modo gratuito. La sanità lombarda costa 20 miliardi l’anno, mi aspetto un piano efficace di tracciamento territoriale.

Errori che vengono dal passato.

Io non demonizzo ideologicamente il rapporto pubblico/privato, pur con le sue opacità. In Lombardia abbiamo visto crescere esperienze ospedaliere straordinarie con prestazioni di eccellenza. Però sono stati dimenticati il territorio, l’assistenza domiciliare, la telemedicina e il supporto ai medici di base. Abbiamo buoni ospedali, manca tutto il resto. Lo stesso Giorgetti due anni fa disse che dai medici di base “non va più nessuno”. Una battuta quanto mai infelice.

Poi c’è la questione dell’ospedale in Fiera.

Una vicenda grottesca che sta finendo nel modo peggiore. L’abbiamo costruito? Allora usiamolo per alleggerire i reparti degli altri ospedali. Smantellarlo è un’idea sciagurata.

Dunque Gallera va commissariato?

Mi pare la soluzione migliore: ci vuole un medico o un tecnico che conosca bene la realtà lombarda.

E alla Camera si è sfiorata la rissa.

Trovo insopportabile quando la Lega dice “lasciate stare i nostri morti”. Ma le persone decedute non appartengono a nessuno. Questo è un vecchio vizio leghista, come quando Salvini si arroga il diritto di parlare a nome del Nord.

Il ministro Speranza ha dato ragione alla Lega.

Ho molta stima di lui. Forse si è fatto tradire dal caos in Aula.

I 10 (nuovi) peccati capitali della Regione “sorvegliata speciale”

È stata investita da uno “tsunami”. La regione dove il virus si è abbattuto provocando, per dirla con Giulio Gallera, un “fungo atomico”. L’epidemia di Covid-19 in Lombardia, con tutti morti che si porta dietro, è come un disastro aereo. “Non si può tornare indietro – dice Guido Marinoni, presidente dell’Ordine dei medici di Bergamo e membro del comitato degli esperti che affianca la giunta guidata da Attilio Fontana –, ma recuperare la scatola nera è indispensabile, per implementare la sicurezza”. E per questa Fase2. Ecco perché abbiamo deciso di aprire, a distanza di mesi, quella scatola nera. “I 10 errori della Regione Lombardia” li abbiamo descritti il 26 marzo. Cosa è cambiato?

1. Tamponi. La Regione Lombardia è ancora drammaticamente indietro nel numero di tamponi eseguiti. A livello nazionale è al 12° posto, con 64 test per 100 mila abitanti. La media ormai consolidata è di 12 mila tamponi al giorno. Di questi, solo il 50% è diagnostico, cioé eseguito per la prima volta. Con numeri così esigui è difficile aver un quadro epidemiologico chiaro. Rispetto alle segnalazioni di casi sospetti che arrivano alle Ats dai medici di base, è ancora forte il ritardo nell’esecuzione dei test. L’esempio più clamoroso è quello di Brescia: a fronte di 624 casi sospetti Covid segnalati tra il 18 e il 21 maggio, è stata eseguito un solo tampone. In tutto, dall’inizio della Fase2, dal 4 maggio, è stato testato – secondo un report riservato della Regione – soltanto 1 caso sospetto su 3. Scarseggiano i reagenti (sempre a Brescia, lo screening su 3 mila lavoratori si è dovuto bloccare e i campioni di sangue sono finiti nel congelatore, in attesa di tempi migliori). Infine, tardiva è stata la scelta di effettuare test prima a medici e infermieri. Risultato: record di operatori sanitari contagiati.

2. Contact tracing. Lo scopo è individuare in modo rapido possibili nuovi focolai. Anche qui, bersaglio mancato. Secondo il consigliere regionale Pd Samuele Astuti, per ogni contagio le Ats seguono solo due contatti. In Veneto, invece, fino a 12. Il mancato tracciamento epidemiologico è stata una delle cause delle diffusione esponenziale registrata nella Fase 1.

3. Test Sierologici. Sono partiti in ritardo e la Regione ha puntato su un solo test (Diasorin), con una gara di assegnazione finita anche sul tavolo della procura di Milano. Al 21 maggio i test eseguiti erano 113.709: molto pochi. Il 19% è risultato positivo, cioè 22 mila persone che dovranno essere testate con i tamponi. Una settimana fa, la Regione assicurava che entro massimo 48 ore a queste persone sarebbe stato effettuato il tampone. A oggi, non è dato sapere se questo sia successo e per quanti. Vi è poi la questione dei test rapidi, sostenuti a gran voce dal virologo Massimo Galli, ma bocciati dalla Regione. In alcuni comuni – come Cisliano – i sindaci hanno eseguito autonomamente test rapidi, individuando alte percentuali di positivi agli anticorpi. A queste persone l’Ats non ha ancora eseguito il tampone, non considerando valido il test sierologico rapido.

4. Rete sanitaria territoriale. Ormai è una certezza: la pressoché totale assenza di medicina del territorio è stata una delle cause che ha portato gli ospedali al collasso. In Veneto – ha spiegato il prof. Giorgio Palù – “i medici di base hanno fatto da filtro, tenendo a casa i positivi asintomatici”. Risultato: “Da noi si è ospedalizzato il 20% dei casi, in Lombardia il 66%, un dato altissimo per questa patologia che richiede nel 16% dei casi cure e nel 6% una intensività di cure”. Era il monito lasciato dalla Sars: più ricoveri si fanno, più il contagio si estende. Anche SarCov2 è un virus a diffusione nosocomiale. In più, delle tante persone che sono rimaste in isolamento domiciliare volontario, molte non sono state proprio raggiunte dai medici di base. Le Unità speciali di continuità assistenziale (Usca), a oggi, in Lombardia sono circa 50: il piano generale ne prevede 200.

5. Medici di base. “Lasciati in prima fila e disarmati, senza mascherine”, dice Marinoni. “Ancora oggi le difficoltà, specie a livello di gestione territoriale, sono molte”, spiega Marinoni. “E se dovesse riprendere forza il virus, la risposta del sistema sarebbe sempre la stessa”. Perché la rete dei medici di base e dei distretti è ormai smantellata da anni: “Modello Formigoni”.

6. Rsa e trasferimenti. La “strage dei nonni”, le delibere scellerate con cui si è sondata la disponibilità dei centri anziani ad accogliere pazienti Covid e dimessi Covid “in fase di negativizzazione”, il ritardato stop alle visite dei parenti e ai centri diurni. Su tutti questi errori, stanno indagando diverse procure. Ancora oggi non è stato possibile avere dati precisi sui numeri dei morti effettivi per Covid nelle Rsa, su quanti siano stati i trasferimenti, se e quanti tamponi siano stati effettuati prima di certificare la negativizzazione del paziente, se siano state rispettate le prerogative di sicurezza (strutture separate e personale dedicato). “Sulle Rsa rifarei tutto”, ha detto Gallera. Salvo poi ammettere, che forse le strutture “non avevano capacità di affrontare questi temi”. “Hanno esportato il contagio. Hanno agito sull’onda emotiva. Tutti dentro. Invece dovevano tenerne fuori il più possibile” (copyright Giorgio Palù).

7. Comunicazione. Lombardia Notizie Online, e la conferenza stampa a cui ci aveva abituato Gallera, ha ispirato in questi mesi pure la satira, tanto che pareva surreale. Invece era tutto vero. Emblematica la comunicazione – volutamente confusa o solo pasticciata? – che la Regione ha tenuto, fino a fine aprile, sui dati dei dimessi e dei guariti. “Le voci erano gonfiate”, ha spiegato Paolo Spada dell’Humanitas. Non sappiamo, poi, chi siano i nuovi casi, quali fasce di popolazione siano state sottoposte a tampone e a test. La piattaforma di telemonitoraggio non è più accessibile.

8. Comitato tecnico- scientifico. È stato convocato, da quando si è insediato, tre volte. Due volte per l’altro comitato che si occupa del territorio, e che affianca l’Unità di crisi.

9. Ospedale in Fiera. Anche sull’Astronave – e sui 21 milioni di euro di donazioni private, oltreché sui conti di Fondazione Fiera – la procura ha aperto un fascicolo. La struttura da 221 posti letto di terapia intensiva ha ospitato finora 25 pazienti. Le annunciate “sale operatorie complete e funzionanti” altro non sono che ambulatori. E si rischia la chiusura: la struttura non rientra nelle linee guida dell’Oms per gli ospedali Covid.

10. Analizzare gli errori. Per evitare di ripetere gli sbagli, sarebbe il passo più importante. E necessario. Per attuare una risposta rapida verso un nemico invisibile e sconosciuto il 21 febbraio. Oggi, in teoria, non più.

La Palamarata

Quello che pensiamo dell’inchiesta sul pm romano Luca Palamara, ex capocorrente di Unicost, che ha scoperchiato il vaso di Pandora del mega-scandalo del Csm e del Risiko delle Procure, l’abbiamo scritto un anno fa quando vennero fuori le prime conversazioni intercettate (anche col trojan horse) dalla Procura di Perugia: più che a un’indagine sulle presunte corruzioni del potentissimo magistrato romano, nel frattempo ridimensionate dagli stessi pm umbri, l’operazione faceva pensare a una gigantesca pesca a strascico per sventare la nomina a capo della Procura di Roma del Pg di Firenze Marcello Viola, sgradito al procuratore uscente Giuseppe Pignatone, che invece preferiva l’amico Francesco Lo Voi, attuale procuratore di Palermo. Le intercettazioni scoperchiarono un verminaio di spartizioni, maldicenze, dossieraggi, delazioni, imboscate, traffici di favori e influenze, simonie, complotti politici e correntizi per mandare (ma soprattutto per non mandare) tizio o caio nei posti chiave. Anche la Procura della Capitale, che vale molto più di un ministero, era oggetto di una guerra per bande: da un lato gli amici di Pignatone che spingevano per il suo fedelissimo Lo Voi, dall’altro gli amici di Palamara e dei parlamentari renziani Lotti e Ferri (quest’ultimo ex capo di MI) che spingevano per il “discontinuo” Viola. Il quale fu il più votato dalla commissione Incarichi direttivi del Csm e avrebbe prevalso nel voto finale al Plenum.

Ma a quel voto non si giunse mai perché, previo intervento del Quirinale, senza che su Viola emergesse nulla di men che corretto, si decise di azzerare tutto e di rivotare da capo. Così prevalse Michele Prestipino, braccio destro di Pignatone a Palermo, a Reggio Calabria e a Roma. E l’indagine, che sulle presunte corruzioni di Palamara non è ancora approdata neppure al processo, ha già sortito l’effetto che qualcuno sperava: garantire a Pignatone una morbida successione in totale “continuità” con la sua, premiando e coprendo errori, omissioni e fiaschi. Anche perché un anno fa, dal maremagno delle conversazioni intercettate, ne furono selezionate e trasmesse al Csm soltanto alcune: quelle funzionali al giro vincente. Solo ora, dopo il deposito integrale degli atti, saltano fuori anche quelle sfavorevoli. Ma i giornaloni – incassato il procuratore di Roma che sognavano con i loro editori – si guardano bene dal pubblicarle. Lo fanno il Fatto e la Verità, in beata solitudine. Ne vien fuori una magistratura associata che, salvo rare eccezioni, si comporta come le peggiori lobby (per non dire cosche).

E naturalmente prende di mira i pochi cani sciolti che si ostinano a non guardare in faccia nessuno: Woodcock, Di Matteo, Scarpinato e pochi altri. L’unica corrente che (almeno finora) ne esce benino è Autonomia e Indipendenza, fondata da Davigo e rappresentata al Csm anche da Ardita e Di Matteo. Per il resto, da quelle di destra a quelle di sinistra, è un museo degli orrori generale che completa il quadro parziale emerso un anno fa. Con una differenza: nel 2019 si dimisero il Pg della Cassazione e altri cinque membri del Csm; ora non si dimette nessuno, a parte il capo di gabinetto di Bonafede. E forse è inevitabile che sia così: se dovessero finire sotto procedimento disciplinare e/o lasciare i propri incarichi tutte le toghe “apicali” intercettate a dire o a fare qualcosa di men che commendevole, si creerebbe il deserto negli uffici giudiziari di mezza Italia. Le metastasi correntizie e carrieristiche sono ormai così ramificate che nemmeno il bisturi può stroncare il cancro. Fermo restando che chi ha commesso illeciti deontologici o penali deve finire dinanzi al Csm o in tribunale, urgono almeno sei riforme draconiane che chiudano al più presto la piaga purulenta e facciano sì che non si riapra mai più.
1) Smantellare la controriforma Castelli-Mastella del 2007 che accentrava (“verticalizzava”) tutti i poteri nelle mani dei procuratori capi e restituisca ai singoli pm quel potere “diffuso” che è garanzia di pluralismo e rende molto più difficile insabbiare indagini scomode. 2) Frenare gli appetiti carrieristici delle toghe abolendo la rotazione dei capi degli uffici dopo tot anni (chi fa bene resti anche a vita, chi fa male sia cacciato dal Csm perché è incapace, non perché è “scaduto”). 3) Sistema misto fra sorteggio ed elezione per la scelta dei membri togati del Csm (proposto da Bonafede, ma poi archiviato su richiesta di Pd e Anm), per lasciare al caso almeno la selezione dei candidati, fra i quali poi i magistrati eleggeranno i propri rappresentanti. 4) Divieto d’accesso alla quota “laica” del Csm per chi ha avuto ruoli politici (tipo Casellati ed Ermini). 5) Divieto per le toghe che hanno svolto incarichi extra di nomina politica di dirigere uffici giudiziari per almeno 5 anni (Raffaele Cantone, ottima persona, fu scelto da Renzi all’Anac: ora è meglio che non diventi procuratore di Perugia, competente sui reati dei colleghi romani). 6) Abolire il divieto di pubblicazione testuale degli atti d’indagine anche coperti da segreto, almeno su personaggi pubblici. Così la libera stampa potrà raccontare tutto senza censure. Ove mai esistesse.