Renzi e Toti per il Centro: ma ora Casini si tira indietro

Fino a una settimana fa erano appestati. Nel centrodestra si dimenticavano di invitarli ai vertici e nel Pd venivano guardati con gelido distacco. E invece oggi eccoli rivalutati, nel bel mezzo della scena, a dare le carte. Parliamo dei centristi, ovvero quella galassia di sigle, partitini e spezzoni che, anche per incapacità altrui, sono stati tra i protagonisti della rielezione al Quirinale di Sergio Mattarella. “Stanno venendo tutti a Canossa, a baciare la pantofola scudocrociata. Ci chiamano, ci blandiscono, chiedono consigli. E noi qua stiamo!”, sogghigna un deputato di vecchia fede diccì. Cambiamo di Giovanni Toti, Noi con l’Italia di Maurizio Lupi, Italia Viva di Matteo Renzi, l’Udc di Lorenzo Cesa, il Centro democratico di Bruno Tabacci, gli ex M5S: quelli che, partiti con in testa Mario Draghi e Pier Ferdinando Casini, sono stati abili a scivolare veloci sul Mattarella-bis. Con l’aiuto delle sponde centriste degli altri partiti. L’area di Luigi Di Maio nei 5 Stelle; tre quarti del Pd; la corrente “ministeriale” di FI; i “giorgettiani” e i governatori nella Lega. Sullo sfondo anche Carlo Calenda.

Questa galassia ora guarda a un nuovo grande centro, una federazione di partiti che punta al 10%. Qualcuno vuole Casini come “federatore”, ma lui (per ora) si fa da parte: “Ho già dato”. “Ci saranno diversi primus inter pares”, dice Paolo Romani. Matteo Salvini, intanto, per uccidere il neonato in culla lancia l’idea di una federazione di centrodestra. Per avere chance il progetto centrista prevede, però, il ritorno al proporzionale. Su cui ormai, come affetto da una sindrome di Stoccolma, sta virando il Pd, ma pure FI e Lega. Sono già fissati incontri, come quello tra Toti e Renzi. Possibile anche già un vertice d’area, con tutti quanti. “Si apre un periodo molto interessante”, dice Renzi. “Le coalizioni non ci sono più, ci sono i partiti”, il sunto di Osvaldo Napoli. “Questa è la vittoria dell’onda lunga dell’eternità democristiana…”, gongola Paolo Cirino Pomicino.

Il voto? Meglio l’agnello da Razzi&C.

Tra una scheda bianca e un voto a Rocco Siffredi, i grandi elettori avranno dovuto pur mangiare e rilassarsi, no? Uno di questi momenti “defaticanti” è stato immortalato in un video – datato mercoledì 26 gennaio – che da ieri infiamma le chat dei parlamentari sardi. E non solo quelle. Protagonisti, tra gli altri, Vittorio Sgarbi, Antonio Razzi, Carlo Doria, fedelissimo di Christian Solinas.

Una compagnia di giro che già aveva fatto parlare di sé mesi fa all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Sassari (allora c’era anche Elisabetta Casellati, assente giustificata quel mercoledì). Sullo sfondo, nella sala, la senatrice sardista-leghista Lina Lunesu; il forzista Emilio Floris; Giuseppe Cucca, neo-acquisto di Italia Viva, l’eurodeputato leghista Angelo Ciocca. Tema della serata: che ce frega dell’elezione, noi stiamo bene qui. A tenere banco è Sgarbi, che dice: “Non c’è fretta. Ai cittadini non gliene frega niente. Noi siamo qui, ogni sera una cena. Io direi che possiamo votare il 14 febbraio. Inutile correre. Cerchiamo dei nomi, ne bocciamo qualcuno, facciamo delle terne. Prudenza, lenti”.

Lo soccorre Razzi, che dopo i complimenti all’agnello appena ingurgitato, regala la perla: “La casa, se si costruisce in fretta, cade”. A Doria la sintesi: “Venticinque votazioni, 25 pranzi. Cazzo ce ne frega”.

Un filmato diventato un fatto politico, col presidente del Partito Sardo d’Azione, Antonio Moro, che ieri ha rotto col compagno di partito Solinas, capo-corrente dei presenti: “La travagliata settimana romana ha certificato la distanza che corre tra i sardisti e alcuni eletti con il Psd’Az. Marchiamo pertanto la distanza politica e personale da atteggiamenti e comportamenti inopportuni e irrispettosi”. Raggiunto dal Fatto, Sgarbi regala il colpo di scena: “Il filmato è apocrifo. Era una burla, fatta per prendere in giro Razzi. Vi mando il video serio”. E su Razzi aggiunge: “Non ho rapporti con lui. Ho fatto una serie di battute che erano l’opposto del mio pensiero”. Sgarbi in effetti ha mandato un secondo video, girato nello stesso luogo poco dopo il primo, in cui attacca l’indolenza dei parlamentari: “L’idea di questi parlamentari che ritardano il voto è insopportabile. Ho finto per un attimo di dare ragione a Razzi”. E, mentre parte l’inno della Brigata Sassari, l’inquadratura si allarga e appaiono i senatori Cucca, Gennaro Migliore (Iv) e Tommaso Cerno (Pd), insieme al giornalista del Foglio Salvatore Merlo. Anche loro lì, a gustarsi l’agnello.

Salvini dimezzato va da B.: la Lega vuole prendersi FI

Per provare a uscire dall’angolo, Matteo Salvini usa lo strumento che gli piace di più: il citofono. E stavolta, dopo aver sondato (e bruciato) una decina di candidati per il Colle, si rivolge a Silvio Berlusconi. Vuole fare asse con lui contro Giorgia Meloni che ha preso in mano la coalizione (“va rifondata”) rinnegando la leadership del leghista. Così, ieri pomeriggio, Salvini è andato a trovare per un paio d’ore Berlusconi ad Arcore. Durante l’incontro ha proposto al leader di Forza Italia l’idea già lanciata in mattinata sul Giornale di famiglia e che ribadirà oggi nel consiglio federale della Lega a Milano: una federazione di centrodestra sul modello del Partito Repubblicano americano. Idea che serve a Salvini soprattutto per fermare il tentativo di Meloni di prendersi la leadership. Anche se da FI frenano: se Berlusconi fa sapere di essere stato “il primo a proporla”, ieri non ha dato al leghista alcuna rassicurazione. E il partito è spaccato in due: l’ala filo leghista del Senato accoglierebbe con piacere la federazione, quella governista fa muro.

Annettere Forza Italia – con un partito che potrebbe avere un nome nuovo – permetterebbe al leghista di superare Meloni e proporsi come prima forza politica del Paese. Tant’è che la federazione del centrodestra viene vista come fumo negli occhi da Fratelli d’Italia: “Consiglierei a Salvini di prendersi un periodo di pausa invece di sparare queste idee” attacca Ignazio La Russa. Meloni, invece, a Quarta Repubblica va giù durissima contro gli (ex) alleati: “Quel che ha fatto Salvini accettando il bis di Mattarella è folle – dice la leader di FdI – l’ho scoperto solo dalle agenzie, non era meglio Gianni Letta di Mattarella?”. Poi spiega che la coalizione per lei non c’è più: “Ora non intendo fare buon viso a cattivo gioco. Io non mi piego e non mi adeguo, mi alleo solo con gli italiani e vedremo se saremo alleati nel 2023”. Da FdI dedicano a Salvini parole al veleno: “La federazione serve alla Lega per allearsi col Pd – attacca un dirigente meloniano – saremo noi il vero centrodestra”. Scontro che si ripeterà presto anche sulla legge elettorale: se nella Lega e in Forza Italia si inizia a parlare di proporzionale, Meloni si oppone duramente. Il quadro politico quindi potrebbe andare presto verso le due destre, una di Lega e FI e una di FdI. La proposta della federazione sarà lanciata oggi da Salvini al consiglio federale, dopo aver analizzato la sconfitta sul Quirinale.

Poco spazio all’autocritica (“sono stato troppo leale”) e molto al futuro con l’idea di un grande contenitore di centrodestra che guardi verso il centro escludendo “gli estremismi”, ma tagli fuori i centristi responsabili del “tradimento” durante l’elezione del Capo dello Stato. “Avevano un disegno – spiega Edoardo Rixi, fedelissimo di Salvini – eleggere Casini per costruire un polo di centro: se vogliono fare il partito con Renzi, sono fuori dal centrodestra”. Durante il consiglio federale, Salvini non dovrebbe rilanciare i congressi e rimandare ancora l’assemblea nazionale già annullata a dicembre. Il motivo ufficiale è che le normative sul green pass lo impediscono, ma in via Bellerio vogliono silenziare i malumori che provengono dalle Regioni del Nord, a partire dal Veneto e Lombardia dove militanti, dirigenti e governatori contestano a Salvini “una gestione fallimentare”. Ed è proprio sui territori che si sta consumando il divorzio tra le due destre. Il tavolo sulle amministrative è saltato e in città come Verona, Lucca, Como, La Spezia e Palermo, Lega e FdI potrebbero andare divisi. Il primo caso è scoppiato in Liguria con il leghista Rixi che ha minacciato la sfiducia aToti accusato di aver “accoltellato” il centrodestra e di aver incontrato l’ex governatore Pd Claudio Burlando.

“Destabilizzati dal Premier”

Più volte si sono sottolineate le analogie tra i loro governi. Mario Monti e Mario Draghi, entrambi ex banchieri centrali invocati come salvatori della Patria da una certa politica (e da quasi tutta la stampa italiana). La partita del Quirinale offre però a Monti, oggi senatore a vita, l’occasione per esplicitare tutte le sue perplessità sul comportamento del premier, accusato di aver “destabilizzato” il suo stesso governo.

Parlando a In Onda, su La7, Monti è netto: “Io ho esercitato i compiti e le decisioni fino alla fine del governo, non mi è venuto in mente neanche per un attimo, neanche quando la popolarità del governo scendeva, di lasciare”. Un siluro contro le ambizioni di Draghi, che invece ha sgomitato per essere eletto al Colle: “Il presidente, per ragioni sue, ha fatto sapere che sarebbe stato disposto a passare ad altro incarico, a metà dei due anni sui quali gli abbiamo dato la fiducia”. Insomma Draghi ha fatto capire “che sarebbe andato ben volentieri al Quirinale”: “Per il governo è stato un po’ destabilizzante avere a che fare con quell’ambizione” e tutto ciò è “una cosa diversa dal naturale atteggiamento di un presidente del Consiglio in carica”.

“È Draghi”: stampa più morta della politica

Pubblichiamo in esclusiva il referto autoptico dell’informazione italiana, venuta a mancare all’affetto dei suoi cari, ma ancora attivissima a piangere la “morte della politica” per nascondere la propria.

L’amuleto. “Per un Draghi al Quirinale. Cinque mesi sono tanti, ma è ora di costruire un whatever it takes per spedire Draghi al Colle” (rag. Claudio Cerasa, Foglio, 24.8).

Buona questa. “Draghi al Quirinale e Franco premier: la strategia M5S” (Stampa, 28.10).

Ne avesse azzeccato uno. “Salvini, Meloni e Conte: lo strano trio che vuole Draghi al Quirinale” (Repubblica, 2.11).

Logica cartesiana/1. “Il timore dei partiti: governo al capolinea se Draghi non va al Colle” (Stefano Cappellini, Repubblica.it, 12.11).

Tutto normale. “Draghi al Quirinale serve per tornare alla normalità” (Marco Damilano, Espresso, 21.11).

Al primo colpo. “Draghi eletto al primo scrutinio, Cartabia premier e poi presidente dopo il settennato di Draghi” (Paolo Mieli, Tagadà, La7, 25.11).

Wanna Marchi. “Draghi al Colle conviene a tutti, anche a chi non lo vuole” (Domani, 3.12).

Il Grandissimo Elettore. “Il premier al Colle: la scelta di Bonomi” (Francesco Verderami, Corriere, 18.12).

È fatta. “‘Cartabia premier e Draghi al Colle’. C’è il patto per convincere le Camere” (Stampa, 22.12).

Adotta un nonno/1. “Il cambio di stagione da SuperMario a ‘nonno d’Italia’. Ha trovato un nome che rimanda al valore nazionale, la famiglia come patria, con echi da Manzoni a Banfi… L’implicita prossima uscita di scena da Palazzo Chigi e il ritmo dell’entrata in scena del nonno d’Italia al Quirinale in una strana atmosfera da grande futuro dietro le spalle… Delegittimarlo… sarà difficile. Si possono delegittimare i padri, mai i nonni” (Francesco Merlo, Repubblica, 23.12).

L’angelo del focolare. “‘Io, un nonno al servizio del Paese’: dalla Bce al focolare degli italiani” (Mario Ajello, Messaggero, 23.12).

Effetto dominus. “Draghi è il solo dominus dei partiti, quindi può andare al Quirinale” (Salvatore Vassallo, Domani, 23.12).

Senza di lui il diluvio. “O la maggioranza manda Draghi al Quirinale oppure salta tutto” (Domani, 23.12).

Adotta un nonno/2. “Draghi disegna il suo Quirinale: nasce il ‘nonnopresidenzialismo’” (Foglio, 23.12).

Adotta un nonno/3. “Non mandate nonno Draghi ai giardinetti… Dopo la sua quasi subliminale ‘discesa in campo’, al momento è il candidato più credibile per il Colle” (Massimo Giannini, Stampa, 24.12).

Ecco il nuovo governo. “Totopremier. Con Draghi al Quirinale… in pole Cartabia, Franco, Franceschini, Giorgetti e Carfagna” (Stampa, 24.12).

Non avrai altro dio/1. “Verrà l’ora in cui a tutti sarà chiaro che per il Colle c’è solo il premier” (rag. Cerasa, Foglio, 28.12).

Non avrai altro dio/2. “Solo Draghi può farcela” (Antonio Polito, Corriere, 28.12).

San Mario Incoronato. “Il ritorno della politica. Draghi ha cambiato schema e frenato il dominio dell’economia. L’elezione al Colle il coronamento” (Guido Maria Brera, Stampa, 29.12).

Il portafortuna. “SuperMario verso il Colle. Anche Renzi lo spinge” (Claudia Fusani, Riformista, 29.12).

Eran 300, eran giovani e forti. “Sondaggio: sono 300 i parlamentari che vogliono Draghi al Colle” (Foglio, 31.12).

Tutti per uno. “Il patto per eleggere Draghi. L’asse M5S-Pd-LeU si allarga ai leghisti fedeli a Giorgetti e ai centristi Renzi e Toti. Meloni spera che col premier al Quirinale si vada al voto” (Stampa, 5.1).

Quello giusto. “Il Cav. può passare alla storia spianando la strada al migliore, Draghi” (Franco Debenedetti, Foglio, 5.1).

Quelli giusti. “Intesa Salvini-Meloni: prima Silvio, poi Mario” (Pietro Senaldi, Libero, 6.1).

Tovarish Mariov. “In Italia la sinistra c’è: si chiama SuperMario” (Michele Prospero, 6.1).

Come s’offre. “Draghi ai partiti: io ci sono, tocca a voi” (Cuzzocrea, Stampa, 14.1).

Spingitori. “Alleanza per Draghi. La settimana prossima incontro Pd-M5S-LeU per spingere SuperMario” (Annalisa Cuzzocrea, Stampa, 16.1).

Patto ricco mi ci ficco. “Il patto di legislatura: meno tecnici al governo con Draghi al Quirinale” (Messaggero, 17.1).

I dragogrilli. “I 5Stelle inchiodano Conte su Draghi” (Giornale, 17.1).

Colao Meravigliao. “L’ipotesi di Colao premier con Draghi al Colle” (Messaggero, 19.1).

Fattore Metsola. “Il partito di Draghi lavora alla stessa larghissima maggioranza che ha spinto Metsola alla guida del Parlamento europeo” (rag. Cerasa, Foglio, 19.1).

Ripartenza. “Si riparte da Draghi” (Stampa, 19.1).

L’Invariabile. “Ci sarebbe una invariabile che rende oziosi i giri di valzer e di parole intorno alla scelta del prossimo presidente. L’invariabile si chiama Mario Draghi” (Carlo Verdelli, Corriere, 20.1).

The Mario After. “Palazzo Chigi: è già dopo Draghi?” (Stampa, 20.1).

M5D. “Ecco il Movimento 5Draghi” (Foglio, 20.1).

È ufficiale. “Berlusconi ha già deciso: il centrodestra voterà Draghi” (Paolo Mieli, Tagadà, La7, 20.1).

Tandem. “Il piano B.: salgono le quote del tandem Draghi-Cartabia” (Libero, 20.1).

Petaloso. “Petalo dopo petalo, l’ultimo sarà quello di Draghi” (Alessandro De Angelis, Huffington Post, 21.1).

Mai più senza. “L’Italia non può rinunciare a Draghi” (Ajello, Messaggero, 21.1).

La somma che fa il totale. “La somma delle percentuali di chi vorrebbe Draghi al Quirinale e di chi lo vorrebbe a Palazzo Chigi è probabilmente 100… Una ragione in più per mandare Draghi al Quirinale alla prima votazione” (Franco Debenedetti, Foglio, 21.1).

Todo Mario. “Tutte le strade che portano a Draghi”, “Il negoziatore Draghi”, “Il partito di Draghi”, “Chigi dopo Draghi” (Foglio, 21.1).

Rassegnatevi. “I partiti si stanno rassegnando a mandare Draghi al Quirinale” (Daniela Preziosi, Domani, 21.1).

Soccorso nano/1. “Il Cav. punta su Draghi” (Claudia Fusani, Riformista, 21.1).

Ci siamo. “I dubbiosi tra i dem ora virano sull’ex capo della Bce” (Maria Teresa Meli, Corriere, 21.1). “Le grandi manovre su Palazzo Chigi. Spinta per una squadra in stile Draghi. I nomi di Cartabia e Colao” (Corriere, 21.1.).

Ha già traslocato. “Passi avanti su Draghi, si cerca il sostituto” (Cuzzocrea, Stampa, 21.1). “Si rafforza l’ipotesi Draghi: anche i deputati M5S convinti ad appoggiarlo” (Stampa, 21.1).

Soccorso nano/2. “Berlusconi: voci di un passo indietro, con indicazione per Draghi” (Verderami, Corriere, 21.1).

Favorito. “Quirinale, ora il favorito è Draghi” (Stefano Cappellini, Repubblica, 21.1).

Incastro. “L’incastro degli incarichi. L’ipotesi di Casini come alternativa a Draghi” (Verderami, Corriere, 22.1).

Avanzi. “Partiti in tilt, avanza Draghi” (Repubblica, 22.1).

Nonno in fuga. “Credo che la Senectus ciceroniana, fatta di sapienza e autorità, sia adatta al ruolo di neutralità e garanzia che la Costituzione assegna al ‘nonno d’Italia’, come ha detto Mario Draghi… nonno lucido e saggio che lunedì eleggeremo” (Merlo, Repubblica, 22.1).

Schema Oronzo Canà. “Quando Berlusconi si convincerà che… il Colle resta precluso, è ragionevole immaginare una larga convergenza su Draghi. È lo schema a cui sta lavorando Enrico Letta” (Francesco Bei, Repubblica, 22.1).

Un bel guadagno. “Chi ci guadagna con Draghi al Colle (tutti): Meloni, Letta, Renzi, Salvini, Conte, il Cav. Perché il reset draghiano conviene a ogni leader” (rag. Cerasa, Foglio, 22.1).

Allucinazioni. “Gli italiani vedono Draghi sul Colle” (Stampa, 22.1).

Come no. “Grillo gela Conte e apre a Draghi” (Repubblica, 23.1).

Tomba. “Lo slalom del premier tra i veti dei partiti” (Repubblica, 23.1).

Lo vota pure lo Spirito Santo. “Il ‘Creator Spiritus’ che manca alla politica… Tutto si può permettere l’Italia di oggi, meno che di lasciare in panchina l’uomo che le sta ridando credibilità e fiducia, dopo averla rappresentata ai più alti livelli alla Bce” (Giannini, Stampa, 23.1).

Caos creativo. “Il rischio caos che potrebbe portare al premier” (Verderami, Corriere, 23.1).

Ha capito tutto. “Belloni premier: la trattativa che può aprire la via a Draghi” (Tommaso Ciriaco, Repubblica, 24.1).

DeBenedixit. “PERCHÉ DRAGHI” (Domani, 24.1).

Logica cartesiana/2. “Se Draghi non trasloca al Colle, a rischio anche il governo” (Alessandra Sardoni, Foglio, 24.1).

Chiamami, Mario. “SuperMario si può salvare se fa almeno tre telefonate” (De Angelis, Stampa, 24.1).

Decide lui. “Solo con Mattarella o Amato, Draghi può restare premier” (Stampa, 24.1).

Così schivo. “Draghi resiste al pressing di chi lo invita a ‘trattare’” (Corriere, 24.1).

È un bel Presidente! “Il nome favorito resta, fin qui, quello del premier, per caratura internazionale, indipendenza, sondaggi, curriculum, ma gli gioca contro giusto l’importanza del ruolo di skipper Pnrr” (Gianni Riotta, Stampa, 24.1).

Partita doppia. “Il bivio Casini-Draghi tra 4° e 7° voto” (Verderami, Corriere, 24.1).

Ah saperlo. “Si può rinunciare a Draghi?” (Foglio, 25.1).

Manca poco. “Per convinzione o per consunzione: 24 ore per capire come si arriverà a Draghi al Colle” (De Angelis, Huffington, 25.1).

Referendum. “Il Quirinale ora è un referendum su Draghi” (rag. Cerasa, Foglio, 25.1).

Logica cartesiana/3. “Se Draghi non va al Quirinale rischia di cadere il governo” (Massimo Giannini, Otto e mezzo, La7, 25.1).

Venghino belle signore! “I mercati votano Draghi” (Stampa, 25.1).

Povera stella. “Draghi si affida a Letta, è l’ultima speranza per tentare la scalata al Quirinale. Salvini non chiude del tutto. I tentativi di un colloquio telefonico con Berlusconi” (Stampa, 26.1).

Assassini. “Perché è ancora possibile una prova di maturità per Salvini”, “Chi avrà l’onore di appuntarsi il draghicidio sul CV politico? Le possibilità che Draghi faccia il passo da Palazzo Chigi al Colle sono ancora alte” (rag. Cerasa, Foglio, 26.1).

Buona la quinta. “Ora il premier si muove sottotraccia per rientrare in gioco al 5° scrutinio” (Ciriaco, Repubblica, 26.1).

L’oracolo Giggino. “Rabbia 5S su Conte, si muove Di Maio: calma, si arriverà a Draghi per inerzia” (Giornale, 26.1).

L’ideona. “Draghi per vincere minacci di mollare” (Vittorio Feltri, Libero, 26.1).

Respira ancora. “La candidatura Draghi non è ancora morta: se parte, nessuno la ferma” (Dubbio, 27.1).

La guerra mondiale. “Draghi è comunque una figura centrale e difficilmente sacrificabile senza provocare contraccolpi anche sul piano internazionale” (Massimo Franco, Corriere, 27.1).

Che carino. “È deciso ad andare avanti chiunque venga eletto” (Corriere, 27.1).

Inutile votare. “L’esito è scontato: sarà Mario Draghi il prossimo capo dello Stato” (Paolo Mieli, Piazzapulita, La7, 27.1).

Il Divino Rutelma. “Io dico Draghi” (Francesco Rutelli, Repubblica, 27.1).

En plein. “Ora la sfida è tra Draghi e Casini” (Stampa, 27.1).

E le risalite. “Risale Draghi” (Stampa, 28.1).

Inconsolabili. “Perché Salvini vince solo con Draghi” (rag. Cerasa, Foglio, 28.1). “L’unico modo per uscire dallo stallo alla messicana è Draghi” (Giuliano Ferrara, ibidem).

Dai che ce la fa. “La telefonata di Draghi a Berlusconi: prove di disgelo con FI. La speranza che si aggiunga a Meloni” (Ciriaco, Repubblica, 28.1).

Il jolly. “Ma sul tavolo restano le carte Casini e Draghi” (Verderami, Corriere, 28.1).

Tonno Inevitabile. “L’alternativa al meno peggio. L’inevitabile Draghi” (Nadia Urbinati, Domani, 28.1).

Mi ha cercato nessuno? “Lo stupore di Draghi: ‘Mi atterrò alla decisione del Parlamento, salvo che qualcuno faccia una mossa decisiva’” (Stampa, 29.1).

Ultima speme/1. “Colle, l’accordo è più vicino. Ancora in campo Draghi e Casini” (Messaggero, 29.1).

Ultima speme/2. “È probabile che Draghi la spunti sui concorrenti e si insedi sul Colle, l’unico non politico più bravo dei politici” (Feltri, Libero, 29.1).

Ultima speme/3. “Le carte di Draghi: resta in corsa”, “Forza Draghi, un elogio di chi ci ha provato”, “Draghi è il ‘portone di sicurezza’ di Salvini” (rag. Cerasa, Foglio, 29.1).

Cerrrto che è lui! “Secondo me sarà Draghi” (rag. Cerasa, Damilano e De Angelis, MaratonaMentana La7, 29.1, tardo pomeriggio).

Roberto Fico (presidente della Camera, 30.1): “Comunico il risultato della votazione: presenti e votanti 983, astenuti nessuno, hanno ottenuto voti Mattarella 759, Nordio 90, Di Matteo 37, Berlusconi 9, Belloni 6, Casini 5, Draghi 5”..

Da bibitaro a statista come Moro: le élite incensano “Giggino”

Lo chiamavano bibitaro, ne decantavano il curriculum tra risatine e colpi di gomito, tenevano la contabilità dei congiuntivi sbagliati, delle pronunce goffe e delle sortite in balcone. Non più: Luigi Di Maio è diventato uno statista. La stampa e l’opinione pubblica liberal sono finalmente persuase dalle qualità del ragazzo. Che nel frattempo si è fatto uomo: fino all’altroieri era “Giggino”, ora ha “lo standing” del ministro.

Leggete com’è rotonda e flautata l’analisi di Repubblica, che ieri lo confrontava con Giuseppe Conte, “l’azzimato Avvocato del Popolo con la pochette a quattro punte”, la cui “parabola discendente incrocia quella di Di Maio, che ora punta di nuovo verso l’alto”. Una rivoluzione: “Il rampante ‘capo politico’ che dopo la rottura con Salvini non voleva l’accordo con i vecchi nemici del Pd, l’arrogante candidato premier che invocava l’impeachment di Mattarella, lo spregiudicato capopopolo che andava in macchina a Parigi con il subcomandante Dibba per solidarizzare con i gilet gialli contro il feroce Macron è come se fosse stato inghiottito da un buco nero”. Tutto d’un botto. “Al suo posto c’è un altro Di Maio, che parla il linguaggio felpato dei dorotei, però ha dimostrato la lealtà di un ministro moroteo, ma anche l’astuzia di un luogotenente andreottiano”. Com’è accaduto? “Saranno stati i due anni di tirocinio alla Farnesina, sarà stata la sua spettacolare capacità di adattamento”, o la spettacolare capacità di adattamento di chi scrive sui giornali. D’altra parte, sostiene il direttore Maurizio Molinari, Di Maio è uno degli araldi dello “schieramento arcobaleno anti-sovanista in grado di privare Salvini, Conte e Meloni dei voti necessari per imporsi”, dunque uno dei più grandi elettori di Sergio Mattarella e un garante della stabilità dell’intero sistema politico. Repubblica è il giornale che più di tutti lo ha detestato e ora più forte batte le mani: “Tempismo e nervi saldi, ha imparato la vera politica”, si legge nel pagellone post-Colle: “È stato sostenitore dello spostamento di Draghi al Quirinale, in un’ottica di stabilizzazione del sistema e di rassicurazione delle inquietudini che si sono affacciate all’orizzonte internazionale; ha tenuto testa alla destra, senza strepiti; e si è reso indipendente anche dalle scelte di Conte.”

Addirittura Linkiesta di Christian Rocca, bastione digitale della destra Pd, sempre caustico nei confronti di chi aveva sconfitto la povertà a mani nude, lo promuove con un sette e mezzo: “Piccoli leader crescono”, il titolo. “Vita facile” però: “Bastava dichiarare il contrario esatto di ciò che aveva appena dichiarato Conte”. Come si voleva dimostrare. Il Giornale di casa Berlusconi già il 15 gennaio anticipava il “piccolo miracolo politico” di Di Maio con parole dense di ammirazione: “Il ministro degli Esteri ha appena 35 anni e non ha più intenzione di fare altri passi indietro”. Mentre il Corriere della Sera ne celebrava “il basso profilo di chi è andato a lezione dalla vecchia politica”.

Alla fine di questo straordinario e repentino percorso di redenzione, si assiste a fenomeni paranormali. I “dimaiani” sono a tutti gli effetti una categoria politica. Il povero senatore Sergio Battelli era chiamato “peone” fino a tre giorni fa dagli stessi siti che ora mettono le sue dichiarazioni in home page (ieri su Repubblica tuonava: “No al MinCulPop interno”!). Come in un’allucinazione, arrivano i messaggi di solidarietà di Renato Brunetta (Forza Italia), Andrea Marcucci (Pd) e Maria Elena Boschi (Iv) contro il “tweet bombing” di cui è vittima sui social (da profili di troll intercontinentali, pare). Proprio Meb, la più fiera ex nemica, gli fa da scudo contro la macchina del fango: “Cambiano i destinatari, ma non i metodi”.

La palma della debibitarizzazione è del giurista Sabino Cassese. Lui che avvertiva della minaccia democratica rappresentata dai grillini, si è felicemente ravveduto ieri sera su La7: “Le dichiarazioni di Di Maio possono essere quelle di un vecchio notabile della Dc di settant’anni”. Inteso come complimento. Che Paese meraviglioso, dove “bibitaro” è un insulto e “democristiano” una patente di maturità.

“Su Belloni blocco trasversale. Però di Letta mi fido ancora”

Giura di non avere nulla da rimproverarsi, anzi: “Abbiamo centrato il primo obiettivo, assicurare la piena continuità dell’azione di governo ed evitare il rischio di un cambio di esecutivo. Abbiamo indotto al ritiro Silvio Berlusconi e abbiamo evitato che sul Colle si arrivasse a compromessi al ribasso”. Ma la partita del Quirinale è valsa a Giuseppe Conte strascichi politici in serie. Così vale la pena farsela raccontare, dal suo punto di vista.

Partiamo da sabato 22 gennaio, il giorno del ritiro di Berlusconi dalla corsa al Colle.

Il ritiro di Berlusconi, e contestualmente il suo invito al premier Draghi a proseguire nell’azione di governo, ha costituito un primo punto di chiarezza delle trattative. Il M5S, con il suo no a quella candidatura, ha scongiurato che il Parlamento e il Paese si spaccassero. Non poteva garantire l’unità nazionale.

Come ha inciso sulle trattative?

Ha offerto un oggettivo vantaggio a noi e al fronte progressista. Venendo meno la candidatura più rappresentativa del centrodestra, qualsiasi altro nome riferibile a quell’area sarebbe stato meno forte. Ciò ha permesso di evitare di scontrarci su candidati di bandiera o di parte.

Lei è stato contattato da Berlusconi?

Non abbiamo avuto occasione di parlare.

Sostiene che volevate evitare candidature di bandiera. Ma quella di Andrea Riccardi, da lei proposta domenica 23 gennaio, cos’era?

La candidatura di Riccardi è nata da riflessioni di settimane prima con Enrico Letta e Roberto Speranza. Volevamo offrire subito ai partiti di centrodestra un profilo autorevole e super partes. Non era certo un candidato di bandiera.

Che ne pensava il centrodestra?

Il loro è stato un no immotivato.

Lunedì 24, primo giorno delle votazioni, voi del M5S, Pd e LeU avete indicato scheda bianca.

Visto che Riccardi non era un nome di bandiera, non lo abbiamo messo in votazione. Però abbiamo proseguito il confronto con i partiti di centrodestra, sollecitandoli a valutare altri profili. Ma loro martedì hanno presentato una propria rosa: Marcello Pera, Letizia Moratti e Carlo Nordio. Anche noi del fronte progressista avevamo una rosa di nomi, presentata al centrodestra. Ma non l’abbiamo formalizzata per cercare un accordo su personalità super partes.

Per Letta Draghi era super partes?

Tra le ipotesi c’era anche quella del premier. Ma su questo il M5S ha subito assunto una posizione molto chiara. Dovevamo evitare che il premier entrasse nel gioco delle varie candidature. E abbiamo subito cercare di fermare il piano trasversale di spostare l’attuale premier al Colle. Se fosse riuscito, oggi staremmo parlando di nuovi governi e caselle di ministeri da decidere.

Mercoledì c’era un accordo quasi chiuso su Pier Ferdinando Casini: conferma?

Il nome di Casini è sempre stato sul tavolo, ma ho chiarito subito che non rappresentava il candidato ideale del M5S.

Era un no trattabile…

Ho apprezzato il suo comportamento, non ha insistito quando ha saputo della nostra posizione. Anche se aveva un autorevole affidamento anche nelle nostre fila.

Lei ha provato ad accordarsi con la Lega su Franco Frattini e su Maria Elisabetta Casellati.

Sciocchezze. Con Letta e Speranza ci siamo sempre puntualmente aggiornati. Anche quando ho avuto incontri bilaterali, ho sempre riferito. E comunque Casellati è stata una candidatura messa in votazione all’improvviso, la mattina di venerdì.

E Frattini?

È uno dei nomi circolati, non concretamente formalizzato.

Il Pd era furioso perché lei trattava con la Lega…

Assolutamente no. Anche Letta ha avuto scambi bilaterali. E nella fase più calda lui e Speranza mi hanno dato mandato di portare avanti la trattativa con Salvini.

Come nasce la candidatura di Elisabetta Belloni?

Quelle di Belloni e di Paola Severino erano candidature di cui avevamo discusso, sia nel fronte progressista che con il centrodestra. Apparivano molto solide e affidabili, e offrivano l’occasione storica di portare una donna al Quirinale.

Pd e LeU non le hanno subito obiettato che Belloni dirigeva il Dis?

Nella rosa ciascuno poteva avere le sue preferenze, ma quel nome non è mai stato eliminato.

Venerdì Casellati viene bocciata dall’Aula.

Dopo quella votazione il centrodestra è andato in difficoltà, e ciò ci ha consentito di condurre un affondo. Io e Letta abbiamo incontrato Salvini, riproponendogli Belloni e Severino. Sullo sfondo c’era anche quella di Casini. Ma abbiamo aggiunto l’opzione di garanzia di un Mattarella bis: anche in base alle votazioni in Aula, si stava rivelando una concreta possibilità. Salvini si è preso del tempo per valutare i nomi femminili. Ma ci ha subito riferito della disponibilità di Fratelli d’Italia su Belloni.

La sera lei e Salvini annunciate che si lavora a una donna.

Nel tardo pomeriggio Salvini aveva sciolto positivamente la riserva su Belloni, confermando la disponibilità di Giorgia Meloni.

Secondo Letta, lei e Salvini avete dato vita a “un cortocircuito mediatico” su Belloni. Eravate usciti in modo concordato?

Assolutamente no. Ho rivisto le dichiarazioni. Né io né Salvini, né ancor prima Letta a Sky, avevamo fatto il nome della Belloni. Anche se era già ampiamente circolato sulla stampa.

Il tweet di venerdì sera di Beppe Grillo però la citava: glielo avete chiesto voi?

Con Beppe ho parlato io e abbiamo convenuto che la direttrice del Dis sarebbe stata un’ottima figura per la Presidenza della Repubblica. Ma bando all’ipocrisia, questa uscita non ha avuto influenza su una partita giocata da vari politici. Penso a a Matteo Renzi. Ma non solo.

Ha parlato anche Luigi Di Maio, quella sera. Voleva “bruciare” Belloni?

Di Maio dovrà rendere conto di diverse condotte, molto gravi. Ai nostri iscritti e alla nostra comunità.

Il tavolo serale con Pd e LeU pareva un inferno.

Nel Pd non c’era più la disponibilità su Belloni.

Perché?

Non entro nelle motivazioni del Pd. C’è stato un blocco trasversale.

Come arrivate a sabato mattina?

Ho preso atto della posizione del Pd. Ma visto l’accordo con i dem e con LeU, non ho mai pensato di rompere quell’asse politico per avventurarmi in una votazione che si presentava problematica anche nei numeri. Così, al vertice dei partiti di maggioranza di sabato mattina, ho invitato tutti a valutare, ancora, i nomi Belloni e Severino.

Ma nulla…

C’è stato un estremo tentativo di alcuni leader per la candidatura di Marta Cartabia. E io ho spiegato che era un nome su cui dovevo riservarmi un approfondimento interno. Quasi contemporaneamente si è appreso dell’atto di generosità di Mattarella. Poco prima Salvini aveva aperto al suo secondo mandato. Così abbiamo concordato tutti su quella opzione.

Il M5S rischia davvero una scissione?

Non ho mai lavorato per procurare scissioni. È evidente che questo è il momento di un chiarimento. Una comunità di donne e uomini, anche nella diversità di opinioni, deve perseguire un’azione politica in modo coerente e compatto.

Come avverrà questo chiarimento?

Stabiliremo tempi e modi per un confronto trasparente.

Lei si fida ancora di Letta?

Io mi fido di Letta.

“Un rischio il bis al Colle: 14 anni tempo da regime”

Se l’eccezione – la rielezione di Giorgio Napolitano – diventa prassi – il bis di Sergio Mattarella, pur in un contesto di emergenza sanitaria, allora siamo davanti a una “forzatura costituzionale”. A dirlo è Gaetano Azzariti, costituzionalista della Sapienza preoccupato dalle scene di giubilo che ancora, a distanza di giorni, circondano il voto per il Quirinale.

Professor Azzariti, ritiene un’anomalia la rielezione di Mattarella?

Premetto che le mie osservazioni, da costituzionalista, non sono un giudizio sulla persona, anzi, ritengo Mattarella un profilo tra i più autorevoli tra quelli in campo. Ciò non toglie che ci siano delle preoccupazioni non per l’oggi, ma per il lungo periodo.

A cosa si riferisce?

Lo stesso presidente aveva più volte evidenziato la sua volontà di non farsi rieleggere. Se dal punto di vista costituzionale non c’è alcuno strappo né profilo di illegittimità, esiste però una delicata questione di opportunità relativa al necessario rispetto delle regole di base della democrazia. Principi fondamentali sottoposti a stress soprattutto se quella che era una eccezione, con la rielezione di Napolitano, diventa una prassi e dunque la regola.

La Costituzione non vieta il secondo mandato.

Ma è un problema di sensibilità democratica e riguarda il fatto che tutte le cariche monocratiche devono prevedere un mandato a tempo: è questa una regola aurea che non dovrebbe mai venir meno. Una temporaneità che nel caso del presidente della Repubblica è fissato in 7 anni. Un periodo non breve che, se viene superato, rischia di espandersi all’infinito: 7 più 7 fa 14, il tempo di un regime. Inoltre, una volta aperta la strada alla reiterazione si può ipotizzare – perché no? – persino un terzo mandato. Non c’è violazione costituzionale, ma si pone a rischio il sacro principio democratico della temporaneità delle cariche di vertice dello Stato.

Tanti danno per scontato che Mattarella non completi il secondo mandato.

Quando si elegge un presidente non lo si elegge per un anno o due, il termine è fissato in Costituzione, non è nella disponibilità della politica. Dopodiché, ovviamente, il presidente sarà libero di dimettersi quando vuole, ma sarebbe una scelta di Mattarella e nessuno può pensare a un mandato a termine. Sarebbe irrispettoso nei suoi confronti.

Mattarella avrebbe potuto sottrarsi?

È evidente che se quasi tutti i partiti chiedono al Capo dello Stato di “salvare” la Repubblica, è difficile venire meno all’impegno. Ma la responsabilità di questa situazione di crisi irrisolta è del sistema politico: abbiamo assistito a uno spettacolo poco edificante.

Come nel 2013?

Lì andò in modo diverso. Arrivammo alla rielezione di Napolitano dopo che il Parlamento aveva bruciato due candidati, Franco Marini e Romano Prodi. Ci fu una paralisi alimentata da prese di posizione politiche – ricordo che non fu neppure presa in considerazione la proposta di eleggere Stefano Rodotà – e si passò per quelle clamorose sconfitte in sede parlamentare che portarono alle dimissioni di Pier Luigi Bersani. Questa volta il panorama è stato molto più confuso, senza uno “sconfitto” che ci mettesse la faccia come fu allora Bersani. Salvini, che è quello che ha perso di più, si è intestato la rielezione di Mattarella. È più un insuccesso generato dall’incapacità di trovare un dialogo e fare sintesi da parte di tutti i soggetti politici.

Lei vorrebbe vietare la possibilità di un secondo mandato?

I Padri costituenti ne parlarono a lungo e alla fine fu deciso di non vietarlo espressamente. Se però vogliamo trarre una lezione da questi giorni è che forse bisognerebbe introdurre in maniera esplicita il divieto di reiterazione.

Covid, Cdm “light”: la scuola è al disastro, ma si può aspettare

Per dare un’idea della campagna elettorale già iniziata, i leghisti alla fine del Consiglio dei ministri di ieri hanno rivendicato, chiamandola “lodo di San Valentino” nella velina girata alle agenzie di stampa, l’anticipazione di cinque giorni (cinque) dell’apertura delle discoteche. La conferma dell’ultima chiusura, che riguarda anche concerti e feste all’aperto, risale a prima di Natale e scadeva ieri, insieme all’obbligo di mascherina. Mario Draghi e Roberto Speranza, dopo una breve incoraggiante relazione di quest’ultimo, hanno proposto di prorogare lo stop ancora per 15 giorni, in attesa che si consolidi il calo dei contagi e dei ricoveri. Giancarlo Giorgetti e Massimo Garavaglia, ministri leghisti dello Sviluppo economico e del Turismo, si sono messi di traverso. E così, fanno sapere, avrebbero “salvato” San Valentino. Stop solo per 10 giorni, finirà prima del 14 febbraio. Da oggi è in vigore l’obbligo vaccinale per gli ultracinquantenni, per ora rischiano la multa di 100 euro e dal 15 febbraio la sospensione dal lavoro.

Il governo ieri ha anche deciso la proroga, altrettanto breve, per l’obbligo di mascherina all’aperto in zona bianca. A entrambe provvederà Speranza con ordinanza, la riunione è durata mezz’ora e non avrebbe avuto senso scrivere un altro decreto legge per due misure così limitate. La copertura di una norma primaria dovrebbe arrivare domani. Su tutto il resto ieri non erano pronti, a cominciare dal groviglio su test e quarantene nelle scuole che sta complicando la vita a milioni di famiglie e ai presidi. Ne hanno discusso, dopo il Consiglio dei ministri, Draghi, Speranza e il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi. Il provvedimento però non arriverà prima di domani e nel frattempo è stata fermata anche la circolare Salute-Istruzione che avrebbe consentito il rientro in classe di bambini e ragazzi guariti dal Covid con il solo tampone negativo, senza certificato medico. Per il resto l’orientamento è uniformare la primaria (elementare) alla secondaria (medie e superiori) mandando le classi a casa in didattica a distanza (Dad) solo al terzo positivo; evitare la quarantena per chi è guarito o vaccinato da meno di 120 giorni o ha fatto il booster come è già previsto fuori dalle scuole con la cosiddetta autosorveglianza e ridurla da 10 a 5 giorni per chi è vaccinato o guarito da più di 4 mesi, senza però arrivare ad ammettere a scuola i positivi asintomatici come pure è stato chiesto dalle Regioni. I tecnici della Salute lo considerano un rischio eccessivo e assicurano che le quarantene scolastiche di queste settimane sono servite a contenere i contagi. Nel frattempo l’Istruzione ha fatto sapere che gli scritti degli esami di fine anno saranno in presenza.

Serve tempo anche per superare il sistema dei colori per le Regioni, che non ha più molto senso visto che le restrizioni in giallo e arancione sono poche e per lo più a carico esclusivo dei non vaccinati. Dovrebbe anche essere introdotta la distinzione dei ricoveri “per Covid” da quelli “con Covid”, dovuti cioè ad altre patologie, che comunque richiedono l’isolamento dei positivi dagli altri pazienti. Ieri il sottosegretario Pierpaolo Sileri ha detto di “credere” che lo stato d’emergenza non andrà oltre il 31 marzo, ma il green pass sì. Sono giorni importanti anche per il confronto tra Salute e Regioni sul recupero delle liste d’attesa per le cure non Covid rimandate a causa dell’emergenza; “Un’altra pandemia”, conferma Sileri ricordando “6-700 mila interventi chirurgici rinviati, un terzo delle diagnosi di cancro in meno, milioni di procedure e indagini diagnostiche non fatte”.

Un applauso e poi niente: la freddezza di Draghi e i ministri che già litigano

Giancarlo Giorgetti urla contro Roberto Speranza, Renato Brunetta se la prende con Roberto Garofoli. È gelido, e allo stesso tempo molto nervoso, il clima del primo Consiglio dei ministri dopo le giornate incandescenti, parossistiche, dell’elezione del presidente della Repubblica. Mario Draghi fa assolutamente finta di niente. Nulla concede ai componenti del suo governo, neanche in termini di stizza o delusione evidente, nel trovarsi di fronte alcuni di quelli che hanno alacremente lavorato per evitare il suo trasloco al Colle. A partire da Dario Franceschini, che appare particolarmente pimpante. D’altronde, si è battuto contro il premier al Quirinale, dopo mesi di conflitti. Alla fine, la ferma ostilità del Parlamento, gli ha dato ragione. Non dice nulla, resta in disparte, Luigi Di Maio, che ha lavorato invece fino alla fine per portarlo al Colle.

Stringe le mani a tutti, il premier, quasi a cercare un nuovo inizio. Il suo discorso introduttivo è costruito ad arte per mettere sotto al tappeto le tensioni. “Condivido gli obiettivi del Presidente Mattarella”, ancora in campo per “la stabilità e il bene del Paese”, dice in apertura, chiamando l’applauso per il rieletto capo dello Stato e ringraziandolo. I presenti applaudono. Fino a qui, la concordia, per quanto apparente, è possibile. Il premier ribadisce che le priorità citate da Mattarella nel suo brevissimo discorso dopo la rielezione, “la lotta alla pandemia” e “la ripresa della vita economica e sociale del Paese” sono “le stesse del governo”. Un po’ come se volesse ricordare le regole di ingaggio avute dal capo dello Stato ormai un anno fa, motivando di nuovo con loro la sua permanenza a Palazzo Chigi. Non a caso, dedica metà del suo intervento a ricordare che l’erogazione della seconda data del Pnnr dipende dal conseguimento di 45 traguardi e obiettivi per un contributo finanziario e di prestiti pari a 24,1 miliardi di euro. Anche questo un riferimento non casuale: Bruxelles tifava fermamente per la tenuta del quadro (Mattarella al Colle e Draghi premier).

Il tentativo di rimettere quasi le lancette indietro, di ritornare agli inizi, quando l’autorevolezza dell’ex Bce superava le resistenze dei membri del suo esecutivo non ha un gran successo. Il ministro della Pa Brunetta chiede abbastanza animatamente conto al sottosegretario Roberto Garofoli della norma per l’anagrafe dei dipendenti pubblici, già discussa nell’ultimo Cdm prima dell’elezione quirinalizia: doveva essere inserita nel decreto Ristori, che però non c’è nel testo bollinato. Ma è Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, che si prende la scena. Pone il tema della lista dei soggetti fragili ai quali consentire lo smart working. Serve un decreto ministeriale e lo stesso Brunetta spiega che si attende il parere del Consiglio superiore di sanità. Giorgetti ricorda di aver posto il tema a dicembre a Speranza e chiede di avere risposte mercoledì. “Ti rendi conto che non si può giocare con la vita delle persone?”, affonda il ministro della Salute, Speranza. C’è chi lo descrive arrabbiato come un “orso”. C’è chi minimizza. L’attacco di Giorgetti si inserisce in un discorso più ampio, nella “storica” battaglia della Lega rispetto a quello che viene considerato un eccessivo rigore, in primis della Salute. Tanto è vero che l’unica battuta che si registra è quella del ministro del Turismo, Massimo Garavaglia, nel caldeggiare la riapertura delle discoteche (la chiusura era prorogata di 15 giorni, dal primo febbraio): “Presidente – dice – ma pensa che il giorno di San Valentino i fidanzati mantengano il distanziamento sociale?”.

Giorgetti, che continua ad avere in agenda un incontro con Draghi e Salvini insieme, vuole inserire regole d’ingaggio diverse. E nel frattempo, rompere la sua personale solitudine di politico in un ministero molto tecnico.

Intanto, va detto che il decisionismo annunciato alla vigilia da Draghi si infrange alla prova dei fatti: ieri il Cdm dura 15 minuti, quello di domani sarà dedicato all’agenda dei prossimi 6 mesi. Poi, forse, il governo riprenderà a lavorare. Campagna elettorale permettendo.