Autopsia della fu stampa

Pubblichiamo in esclusiva il referto autoptico dell’informazione italiana, venuta a mancare all’affetto dei suoi cari, ma ancora attivissima a piangere la “morte della politica” per nascondere la propria.

L’amuleto. “Per un Draghi al Quirinale. Cinque mesi sono tanti, ma è ora di costruire un whatever it takes per spedire Draghi al Colle” (rag. Claudio Cerasa, Foglio, 24.8).

Buona questa. “Draghi al Quirinale e Franco premier: la strategia M5S” (Stampa, 28.10).

Ne avesse azzeccato uno. “Salvini, Meloni e Conte: lo strano trio che vuole Draghi al Quirinale” (Repubblica, 2.11).

Logica cartesiana/1. “Il timore dei partiti: governo al capolinea se Draghi non va al Colle” (Stefano Cappellini, Repubblica.it, 12.11).

Tutto normale. “Draghi al Quirinale serve per tornare alla normalità” (Marco Damilano, Espresso, 21.11).

Al primo colpo. “Draghi eletto al primo scrutinio, Cartabia premier e poi presidente dopo il settennato di Draghi” (Paolo Mieli, Tagadà, La7, 25.11).

Wanna Marchi. “Draghi al Colle conviene a tutti, anche a chi non lo vuole” (Domani, 3.12).

Il Grandissimo Elettore. “Il premier al Colle: la scelta di Bonomi” (Francesco Verderami, Corriere, 18.12).

È fatta. “‘Cartabia premier e Draghi al Colle’. C’è il patto per convincere le Camere” (Stampa, 22.12).

Adotta un nonno/1. “Il cambio di stagione da SuperMario a ‘nonno d’Italia’. Ha trovato un nome che rimanda al valore nazionale, la famiglia come patria, con echi da Manzoni a Banfi… L’implicita prossima uscita di scena da Palazzo Chigi e il ritmo dell’entrata in scena del nonno d’Italia al Quirinale in una strana atmosfera da grande futuro dietro le spalle… Delegittimarlo… sarà difficile. Si possono delegittimare i padri, mai i nonni” (Francesco Merlo, Repubblica, 23.12).

L’angelo del focolare. “‘Io, un nonno al servizio del Paese’: dalla Bce al focolare degli italiani” (Mario Ajello, Messaggero, 23.12).

Effetto dominus. “Draghi è il solo dominus dei partiti, quindi può andare al Quirinale” (Salvatore Vassallo, Domani, 23.12).

Senza di lui il diluvio. “O la maggioranza manda Draghi al Quirinale oppure salta tutto” (Domani, 23.12).

Adotta un nonno/2. “Draghi disegna il suo Quirinale: nasce il ‘nonnopresidenzialismo’” (Foglio, 23.12).

Adotta un nonno/3. “Non mandate nonno Draghi ai giardinetti… Dopo la sua quasi subliminale ‘discesa in campo’, al momento è il candidato più credibile per il Colle” (Massimo Giannini, Stampa, 24.12).

Ecco il nuovo governo. “Totopremier. Con Draghi al Quirinale… in pole Cartabia, Franco, Franceschini, Giorgetti e Carfagna” (Stampa, 24.12).

Non avrai altro dio/1. “Verrà l’ora in cui a tutti sarà chiaro che per il Colle c’è solo il premier” (rag. Cerasa, Foglio, 28.12).

Non avrai altro dio/2. “Solo Draghi può farcela” (Antonio Polito, Corriere, 28.12).

San Mario Incoronato. “Il ritorno della politica. Draghi ha cambiato schema e frenato il dominio dell’economia. L’elezione al Colle il coronamento” (Guido Maria Brera, Stampa, 29.12).

Il portafortuna. “SuperMario verso il Colle. Anche Renzi lo spinge” (Claudia Fusani, Riformista, 29.12).

Eran 300, eran giovani e forti. “Sondaggio: sono 300 i parlamentari che vogliono Draghi al Colle” (Foglio, 31.12).

Tutti per uno. “Il patto per eleggere Draghi. L’asse M5S-Pd-LeU si allarga ai leghisti fedeli a Giorgetti e ai centristi Renzi e Toti. Meloni spera che col premier al Quirinale si vada al voto” (Stampa, 5.1).

Quello giusto. “Il Cav. può passare alla storia spianando la strada al migliore, Draghi” (Franco Debenedetti, Foglio, 5.1).

Quelli giusti. “Intesa Salvini-Meloni: prima Silvio, poi Mario” (Pietro Senaldi, Libero, 6.1).

Tovarish Mariov. “In Italia la sinistra c’è: si chiama SuperMario” (Michele Prospero, 6.1).

Come s’offre. “Draghi ai partiti: io ci sono, tocca a voi” (Cuzzocrea, Stampa, 14.1).

Spingitori. “Alleanza per Draghi. La settimana prossima incontro Pd-M5S-LeU per spingere SuperMario” (Annalisa Cuzzocrea, Stampa, 16.1).

Patto ricco mi ci ficco. “Il patto di legislatura: meno tecnici al governo con Draghi al Quirinale” (Messaggero, 17.1).

I dragogrilli. “I 5Stelle inchiodano Conte su Draghi” (Giornale, 17.1).

Colao Meravigliao. “L’ipotesi di Colao premier con Draghi al Colle” (Messaggero, 19.1).

Fattore Metsola. “Il partito di Draghi lavora alla stessa larghissima maggioranza che ha spinto Metsola alla guida del Parlamento europeo” (rag. Cerasa, Foglio, 19.1).

Ripartenza. “Si riparte da Draghi” (Stampa, 19.1).

L’Invariabile. “Ci sarebbe una invariabile che rende oziosi i giri di valzer e di parole intorno alla scelta del prossimo presidente. L’invariabile si chiama Mario Draghi” (Carlo Verdelli, Corriere, 20.1).

The Mario After. “Palazzo Chigi: è già dopo Draghi?” (Stampa, 20.1).

M5D. “Ecco il Movimento 5Draghi” (Foglio, 20.1).

È ufficiale. “Berlusconi ha già deciso: il centrodestra voterà Draghi” (Paolo Mieli, Tagadà, La7, 20.1).

Tandem. “Il piano B.: salgono le quote del tandem Draghi-Cartabia” (Libero, 20.1).

Petaloso. “Petalo dopo petalo, l’ultimo sarà quello di Draghi” (Alessandro De Angelis, Huffington Post, 21.1).

Mai più senza. “L’Italia non può rinunciare a Draghi” (Ajello, Messaggero, 21.1).

La somma che fa il totale. “La somma delle percentuali di chi vorrebbe Draghi al Quirinale e di chi lo vorrebbe a Palazzo Chigi è probabilmente 100… Una ragione in più per mandare Draghi al Quirinale alla prima votazione” (Franco Debenedetti, Foglio, 21.1).

Todo Mario. “Tutte le strade che portano a Draghi”, “Il negoziatore Draghi”, “Il partito di Draghi”, “Chigi dopo Draghi” (Foglio, 21.1).

Rassegnatevi. “I partiti si stanno rassegnando a mandare Draghi al Quirinale” (Daniela Preziosi, Domani, 21.1).

Soccorso nano/1. “Il Cav. punta su Draghi” (Claudia Fusani, Riformista, 21.1).

Ci siamo. “I dubbiosi tra i dem ora virano sull’ex capo della Bce” (Maria Teresa Meli, Corriere, 21.1). “Le grandi manovre su Palazzo Chigi. Spinta per una squadra in stile Draghi. I nomi di Cartabia e Colao” (Corriere, 21.1.).

Ha già traslocato. “Passi avanti su Draghi, si cerca il sostituto” (Cuzzocrea, Stampa, 21.1). “Si rafforza l’ipotesi Draghi: anche i deputati M5S convinti ad appoggiarlo” (Stampa, 21.1).

Soccorso nano/2. “Berlusconi: voci di un passo indietro, con indicazione per Draghi” (Verderami, Corriere, 21.1).

Favorito. “Quirinale, ora il favorito è Draghi” (Stefano Cappellini, Repubblica, 21.1).

Incastro. “L’incastro degli incarichi. L’ipotesi di Casini come alternativa a Draghi” (Verderami, Corriere, 22.1).

Avanzi. “Partiti in tilt, avanza Draghi” (Repubblica, 22.1).

Nonno in fuga. “Credo che la Senectus ciceroniana, fatta di sapienza e autorità, sia adatta al ruolo di neutralità e garanzia che la Costituzione assegna al ‘nonno d’Italia’, come ha detto Mario Draghi… nonno lucido e saggio che lunedì eleggeremo” (Merlo, Repubblica, 22.1).

Schema Oronzo Canà. “Quando Berlusconi si convincerà che… il Colle resta precluso, è ragionevole immaginare una larga convergenza su Draghi. È lo schema a cui sta lavorando Enrico Letta” (Francesco Bei, Repubblica, 22.1).

Un bel guadagno. “Chi ci guadagna con Draghi al Colle (tutti): Meloni, Letta, Renzi, Salvini, Conte, il Cav. Perché il reset draghiano conviene a ogni leader” (rag. Cerasa, Foglio, 22.1).

Allucinazioni. “Gli italiani vedono Draghi sul Colle” (Stampa, 22.1).

Come no. “Grillo gela Conte e apre a Draghi” (Repubblica, 23.1).

Tomba. “Lo slalom del premier tra i veti dei partiti” (Repubblica, 23.1).

Lo vota pure lo Spirito Santo. “Il ‘Creator Spiritus’ che manca alla politica… Tutto si può permettere l’Italia di oggi, meno che di lasciare in panchina l’uomo che le sta ridando credibilità e fiducia, dopo averla rappresentata ai più alti livelli alla Bce” (Giannini, Stampa, 23.1).

Caos creativo. “Il rischio caos che potrebbe portare al premier” (Verderami, Corriere, 23.1).

Ha capito tutto. “Belloni premier: la trattativa che può aprire la via a Draghi” (Tommaso Ciriaco, Repubblica, 24.1).

DeBenedixit. “PERCHÉ DRAGHI” (Domani, 24.1).

Logica cartesiana/2. “Se Draghi non trasloca al Colle, a rischio anche il governo” (Alessandra Sardoni, Foglio, 24.1).

Chiamami, Mario. “SuperMario si può salvare se fa almeno tre telefonate” (De Angelis, Stampa, 24.1).

Decide lui. “Solo con Mattarella o Amato, Draghi può restare premier” (Stampa, 24.1).

Così schivo. “Draghi resiste al pressing di chi lo invita a ‘trattare’” (Corriere, 24.1).

È un bel Presidente! “Il nome favorito resta, fin qui, quello del premier, per caratura internazionale, indipendenza, sondaggi, curriculum, ma gli gioca contro giusto l’importanza del ruolo di skipper Pnrr” (Gianni Riotta, Stampa, 24.1).

Partita doppia. “Il bivio Casini-Draghi tra 4° e 7° voto” (Verderami, Corriere, 24.1).

Ah saperlo. “Si può rinunciare a Draghi?” (Foglio, 25.1).

Manca poco. “Per convinzione o per consunzione: 24 ore per capire come si arriverà a Draghi al Colle” (De Angelis, Huffington, 25.1).

Referendum. “Il Quirinale ora è un referendum su Draghi” (rag. Cerasa, Foglio, 25.1).

Logica cartesiana/3. “Se Draghi non va al Quirinale rischia di cadere il governo” (Massimo Giannini, Otto e mezzo, La7, 25.1).

Venghino belle signore! “I mercati votano Draghi” (Stampa, 25.1).

Povera stella. “Draghi si affida a Letta, è l’ultima speranza per tentare la scalata al Quirinale. Salvini non chiude del tutto. I tentativi di un colloquio telefonico con Berlusconi” (Stampa, 26.1).

Assassini. “Perché è ancora possibile una prova di maturità per Salvini”, “Chi avrà l’onore di appuntarsi il draghicidio sul CV politico? Le possibilità che Draghi faccia il passo da Palazzo Chigi al Colle sono ancora alte” (rag. Cerasa, Foglio, 26.1).

Buona la quinta. “Ora il premier si muove sottotraccia per rientrare in gioco al 5° scrutinio” (Ciriaco, Repubblica, 26.1).

L’oracolo Giggino. “Rabbia 5S su Conte, si muove Di Maio: calma, si arriverà a Draghi per inerzia” (Giornale, 26.1).

L’ideona. “Draghi per vincere minacci di mollare” (Vittorio Feltri, Libero, 26.1).

Respira ancora. “La candidatura Draghi non è ancora morta: se parte, nessuno la ferma” (Dubbio, 27.1).

La guerra mondiale. “Draghi è comunque una figura centrale e difficilmente sacrificabile senza provocare contraccolpi anche sul piano internazionale” (Massimo Franco, Corriere, 27.1).

Che carino. “È deciso ad andare avanti chiunque venga eletto” (Corriere, 27.1).

Inutile votare. “L’esito è scontato: sarà Mario Draghi il prossimo capo dello Stato” (Paolo Mieli, Piazzapulita, La7, 27.1).

Il Divino Rutelma. “Io dico Draghi” (Francesco Rutelli, Repubblica, 27.1).

En plein. “Ora la sfida è tra Draghi e Casini” (Stampa, 27.1).

E le risalite. “Risale Draghi” (Stampa, 28.1).

Inconsolabili. “Perché Salvini vince solo con Draghi” (rag. Cerasa, Foglio, 28.1). “L’unico modo per uscire dallo stallo alla messicana è Draghi” (Giuliano Ferrara, ibidem).

Dai che ce la fa. “La telefonata di Draghi a Berlusconi: prove di disgelo con FI. La speranza che si aggiunga a Meloni” (Ciriaco, Repubblica, 28.1).

Il jolly. “Ma sul tavolo restano le carte Casini e Draghi” (Verderami, Corriere, 28.1).

Tonno Inevitabile. “L’alternativa al meno peggio. L’inevitabile Draghi” (Nadia Urbinati, Domani, 28.1).

Mi ha cercato nessuno? “Lo stupore di Draghi: ‘Mi atterrò alla decisione del Parlamento, salvo che qualcuno faccia una mossa decisiva’” (Stampa, 29.1).

Ultima speme/1. “Colle, l’accordo è più vicino. Ancora in campo Draghi e Casini” (Messaggero, 29.1).

Ultima speme/2. “È probabile che Draghi la spunti sui concorrenti e si insedi sul Colle, l’unico non politico più bravo dei politici” (Feltri, Libero, 29.1).

Ultima speme/3. “Le carte di Draghi: resta in corsa”, “Forza Draghi, un elogio di chi ci ha provato”, “Draghi è il ‘portone di sicurezza’ di Salvini” (rag. Cerasa, Foglio, 29.1).

Cerrrto che è lui! “Secondo me sarà Draghi” (rag. Cerasa, Damilano e De Angelis, MaratonaMentana La7, 29.1, tardo pomeriggio).

Roberto Fico (presidente della Camera, 30.1): “Comunico il risultato della votazione: presenti e votanti 983, astenuti nessuno, hanno ottenuto voti Mattarella 759, Nordio 90, Di Matteo 37, Berlusconi 9, Belloni 6, Casini 5, Draghi 5”..

“Il fumo di Mastroianni, la fiducia di Carlo e Bonco”

Ha girato insieme a Mastroianni (“Quando sul set non lo trovavamo, bastava seguire la scia delle sigarette”); è con Verdone in uno dei suoi film più riusciti, Stasera a casa di Alice (“Carlo è raro come uomo e artista”). Ha esordito infante sulla copertina di Vogue. Ultra ventenne ha azzerato tutto, è atterrata a Los Angeles, ha conosciuto la grandi produzioni, il centro delle stelle, delle follie, dello stress. Dell’ego. Della solitudine (“lì ognuno è per sé”). Eppure in Italia tutti la ricordano per i tre mesi passati in tv con Boncompagni a Non è la Rai (“Ho sbagliato ad andare via”). Oggi Yvonne Sciò è regista di documentari: “Si rende conto?”.

Lo dica lei.

Rispetto ai registi veri, seri, mi sento il nulla.

Esagerata.

I miei sono documentari molto belli, però non sono neanche l’ombra di certi mostri.

Cosa le danno?

Una sicurezza che non avevo.

Cioè?

Ho passato la vita e la carriera ad affrontare i giudizi estetici: sei troppo magra, sei troppo rossa, hai troppe lentiggini.

Uno strazio.

Pure a Los Angeles mi mettevo in coda per provini infiniti per il numero dei presenti.

Ai provini come sul bus.

In alcuni casi ci ritrovavamo in 200, poi piano piano sforbiciavano a 100, 50, fino ad arrivare alla short list; (ci pensa) una volta ero a un provino per una serie di Aaron Spelling (guru della tv)…

E…?

Eravamo in tre e ci guardavamo in maniera particolare, tipo: magari cadi e ti rompi una gamba.

Differenza tra provini statunitensi e italiani.

Negli Stati Uniti tutti gli attori devono passare dalla forca della prova, anche uno come Tom Cruise per Eyes Wide Shut; (pausa) in quel caso ne ho sostenuti due.

Insomma, in Italia.

C’è maggiore leggerezza, meno sacralità; ultimamente ho sostenuto un altro provino. Tremavo. E ho pensato: “Passano gli anni ma non ci si abitua”.

Com’è andato?

(Sorride) Ho sbagliato: mi sono volutamente imbruttita, poi lì ho trovato solo delle fighe.

Il suo primo set…

Ho girato una serie per la tv, con protagonista Giuliano Gemma; in realtà il vero esordio è grazie a Verdone: ho adorato lavorare con lui, Carlo riesce a costruire atmosfere umane di grande armonia, e dirige in maniera forte ma non invadente; (ci pensa) simile a Nanni Loy.

Con Loy ha trovato Mastroianni….

Non voleva essere appellato “maestro”; se ripenso a Mastroianni ancora lo vedo seduto vicino ai camerini, con la sigaretta lunga e stretta, il cappello, mentre mangia porchetta; (pausa) era di una cortesia difficile da ritrovare. Quella era un’altra Italia.

L’ha vissuta…

Sin da bambina perché mamma era una giornalista e scriveva di moda, lirica e balletto: con lei ho conosciuto personalità come Nureyev o Menotti.

Come è arrivata allo spettacolo?

Non c’è una data: già a 5 anni prestavo il mio volto per Vogue o a campagne pubblicitarie; (sorride) ricordo mamma che mi trascinava, e io ragazzina che urlavo: “Non voglio diventare come Brooke Shields”.

Cosa temeva?

Parlo molto, a volte a macchinetta, ma sono timida e non credo mai di essere all’altezza.

E ai tempi di Boncompagni?

Temevo la troppa popolarità.

Si spaventava.

Quando sono andata via ho avuto la sensazione di essere trattata come una morta.

Addirittura.

Con la tv entri talmente tanto nell’intimità delle persone da distorcere ogni realtà.

Ha sbagliato a lasciare.

Sì, però desideravo crescere; quando sono partita per gli Stati Uniti la mia agente urlava: “Sei pazza”.

Boncompagni…

Per lui ero un animale strano, mi beccava a leggere Osho o ascoltare Albinoni e non mi inquadrava; (ride) era fissato con i surgelati e me ne regalava una quantità improbabile, così tanti che non entravano nel frigo.

E…

Era un uomo meravigliosamente cinico, però mi coinvolgeva in cene in cui restavo avvolta dallo stupore.

Tradotto?

Mi diceva: “Vieni con me”. E magari mi trovavo a tavola davanti a Monica Vitti.

Un rimpianto?

Non sono mai stata presa seriamente.

Come mai?

L’aspetto estetico conta.

Dagli Stati Uniti è partito il #Metoo.

Personaggi come Epstein e Weinstein li ho conosciuti; già allora non mi piacevano e come diceva Courtney Love: “Se fai l’attrice, non andare nella stanza di Weinstein, o sai cosa potrà accadere”.

Com’è stare in California?

Difficilissimo.

Senza se…

È necessaria autosufficienza.

E lei?

Lo sono diventata. Altrimenti oggi non sarei regista.

Firenze si attacca alla Ruota e getta “Il Ponte” per strada

Parlare di Firenze vuol dire parlare di spazio pubblico e democrazia: dell’involuzione che inghiotte entrambi, che li consuma e li umilia. Durante le feste di Natale, il Comune aveva fatto montare – dopo anni di tentativi – una enorme ruota panoramica in un piccolo parco ottocentesco, a pochi passi dalla rinascimentale Fortezza da Basso. Una roba da Luna Park strapaesano, salutata come la manna da una città consegnata mani e piedi al turismo, e dunque ora provatissima dalla sua crisi dovuta alla pandemia.

I permessi richiesti dal Comune alla Soprintendenza erano temporanei, la richiesta esplicitamente limitata alle festività: ciò nonostante, il sindaco Nardella ha chiesto di prorogarne la presenza, e ovviamente il soprintendente ha risposto di no. Apriti cielo. Il presidente di Confartigianato, per esempio, ha dichiarato: “Lo stop alla ruota va ad allungare la lista delle partite su cui la città rischia di rimanere paralizzata. Penso alla vicenda dello stadio, alle pensiline della tramvia, ai parcheggi interrati in centro, alla riconversione di tanti luoghi. È l’ennesimo simbolo di una città che ha paura della modernità, non certo per demeriti dell’amministrazione, che ci ha provato fino all’ultimo. Occorre superare la logica della città-museo, se questo significa chiudersi al presente. Firenze si merita di guardare avanti”.

È, questo, un perfetto selfie della classe dirigente della città: convinta davvero che la ruota panoramica sia un’alternativa alla città museo, quando invece ne è ovviamente l’estremo sintomo di decomposizione. La confusione tra la modernità e la vita di rendita, tra il consumo speculativo del territorio e l’imprenditoria aperta al futuro, tra la spettacolarizzazione del passato e la produzione di futuro, è una confusione culturale e politica, ed è quella che legittima questa amministrazione mediocrissima, incapace di una idea che sia una.

Non per caso, il Pd vota in questi giorni una mozione che impegna la giunta ad “attivarsi per individuare un’area nella città̀ di Firenze dove possa essere collocata la ruota panoramica, anche in modo permanente e comunque per un periodo idoneo a soddisfare la domanda dei cittadini e dei visitatori”. Perché non in Piazza del Duomo? Sarebbe perfetta, all’ombra della Cupola: permetterebbe almeno di confrontare la qualità del Rinascimento con quella dei suoi sfruttatori.

Dal canto suo, Nardella rispolvera i toni e i contenuti di Renzi sindaco, attaccando la soprintendenza in quanto non legittimata dal consenso popolare: “Le città chi le deve governare, i sindaci eletti dai cittadini o altre persone che non rispondono ai cittadini e rispondono a se stessi?”. E qua si spalanca l’abisso di una visione padronale del governo del territorio: in un momento in cui le voci più alte e illuminate (da papa Francesco a Greta) ci dicono che non siamo padroni, ma custodi, e che dobbiamo garantire gli interessi di chi non vota (le prossime generazioni, non ancora nate), Nardella invoca il diritto di modificare il volto storico della città (permanentemente, chiede il suo partito) a colpi di governo della maggioranza. Una visione miope, che scardina il lungimirante articolo 9 della Costituzione, che consegna alla Repubblica (e non solo alla politica, alle maggioranze) il compito della tutela, accogliendo e proiettando nel futuro il sistema delle soprintendenze, sorta di magistratura del territorio.

Del resto, come governa Nardella lo spazio pubblico quando non ha il “freno” provvidenziale della Soprintendenza? Prendiamo il caso clamoroso dell’“Andrea del Sarto”, la Società di Mutuo Soccorso, che occupa (attraverso alterne vicende e mutamenti vari) l’immobile in cui è nata nel 1897, e che nel 2016 è stato ceduto dallo Stato al Comune. Ebbene, incalzata dagli esposti di Fratelli d’Italia (che ancora non digerisce la permanenza di questa realtà, che affonda le radici nel movimento operaio, in un edificio che poi divenne Casa del Fascio…) alla Corte dei Conti, l’amministrazione Nardella ha deciso che la soluzione alla situazione di morosità dell’associazione sia lo sfratto esecutivo, da far eseguire alla forza pubblica il prossimo primo febbraio.

A finire sfrattata sarà anche la redazione della gloriosa rivista Il Ponte, fondata da Piero Calamandrei nell’aprile del 1945, che in quei locali ha sede e biblioteca. La redazione commenta con amara sobrietà che “è veramente curioso l’atteggiamento di un’amministrazione comunale che si è molto preoccupata per la permanenza in città della ruota panoramica e non si preoccupa minimamente di sbattere per strada pezzi della storia fiorentina”. E quale storia: il cuore pulsante della Firenze resistenziale, liberal-socialista, azionista.

Nel 1924 furono i fascisti a gettare per la via i libri e le carte del Circolo di Cultura dei Rosselli e di Calamandrei: un secolo dopo sarà la pallida giunta “democratica” di Nardella a fare altrettanto con gli eredi di quella storia?

Arabia Saudita. Diamanti e delitti con la Thailandia la pace è fatta

Arabia Saudita e Thailandia hanno annunciato la ripresa dei rapporti diplomatici, dopo oltre tre decenni di relazioni congelate legate a un furto di gioielli da un palazzo saudita. Il riavvicinamento è avvenuto durante la visita ufficiale del premier thailandese Prayuth Chan-Ocha nel regno, che ha segnato l’incontro di più alto livello da quando le relazioni si sono inasprite per lo scandalo del 1989: un furto di gioielli milionario che ha portato a una serie di misteriosi omicidi ed è diventato noto come l’affare “Blue Diamond”. Protagonista del disgelo il principe ereditario Mohammed Bin Salman che ha accettato di seppellire l’ascia di guerra e rafforzare i legami economici, di sicurezza e politici fra le due nazioni. MbS si è avventurato in territorio diplomatico dove in precedenza il governo si era rifiutato di andare. Nel 1989, un inestimabile diamante blu da 50 carati era tra le gemme e i gioielli del valore stimato di 20 milioni di dollari, rubati da un cameriere thailandese dal palazzo di un principe saudita. Il regno da allora smise di rilasciare i visti per centinaia di migliaia di lavoratori thailandesi, sospese i permessi a migliaia di musulmani thailandesi che speravano di compiere l’annuale pellegrinaggio hajj alla Mecca e intimò i suoi cittadini di non recarsi in Thailandia.

Negli anni tre diplomatici di Riad incaricati di recuperare la refurtiva sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco a Bangkok e anche un uomo d’affari saudita coinvolto nella ricerca che viveva nella capitale thailandese è misteriosamente scomparso. Nessuno è mai stato condannato per gli omicidi. La polizia thailandese sostiene di aver risolto il caso, ma molti gioielli rispediti a Riad erano falsi. Il leggendario Blu Diamond e le altre gemme non sono mai state ritrovate. Privata dalla disputa di miliardi di dollari di entrate turistiche e rimesse dei lavoratori di cui c’è un disperato bisogno, Bangkok da tempo cercava di ricucire le relazioni con la ricca Arabia Saudita. MBS è sempre più concentrato sulla conquista di alleati all’estero e sul ricucire le spaccature con i rivali regionali, tra cui Iran, Qatar, Turchia e Pakistan.

 

Nell’Emirato islamico l’unica certezza adesso è la fame nera

“Non abbiamo più niente da mangiare. Ho perso mia figlia. Sono stata obbligata a venderla per 30.000 afghani”, si dispera Rokhaya. 30.000 afghani sono circa 250 euro. “Ho appena depositato una richiesta di aiuto ai talebani – continua, agitando le braccia, gridando – ma loro aiutano solo chi vogliono. Ci stanno uccidendo”. La crisi alimentare in Afghanistan è drammatica. In questa domenica di fine gennaio, una folla affamata si è riunita a Herat. Una donna viene fuori dalla mischia con l’hijab strappato e il viso coperto di graffi. Altre donne, avvolte nei loro burqa o niqab, restano intrappolate nella folla. Alcune inciampano, svengono. I bambini piangono. Gli uomini vengono alle mani.

Chi cade viene calpestato. Il 23 gennaio scorso, più di mille persone hanno sfondato il cancello del ministero per i rifugiati di Herat per chiedere aiuto ai talebani, almeno il minimo vitale per sopravvivere all’inverno. Diverse persone sono rimaste ferite. Neanche gli spari di avvertimento dei kalashnikov dei talebani sono riusciti a allontanare la folla. “Il 97% degli afghani ha bisogno di aiuto, ma non abbiamo i mezzi per aiutarli. Su cento persone nel bisogno, abbiamo quando basta per aiutarne dieci”, ha detto un responsabile talebano che ha accolto Mediapart nel suo ufficio, un paio d’ore prima dell’assalto. Assicurando: “La situazione è sotto controllo. Sappiamo come dirigere il Paese”. Il funzionario diceva di riporre le sue speranze nel ritorno degli aiuti umanitari, che si sarebbe discusso nel primo vertice internazionale tra rappresentanti del governo talebano (tutti uomini) e alcuni governi occidentali apertosi lunedì scorso, a Oslo: “Dopo le cose andranno meglio. Certe persone sono sfollate per via della guerra – continuava il talebano – ma la grande maggioranza lo è a causa della crisi economica e l’aumento dei prezzi”. Le scene di caos che si sono svolte a Herat, sotto lo sguardo impotente, se non passivo, delle autorità talebane, descrivono l’abisso di disperazione in cui è sprofondato l’Afghanistan a sei mesi dal ritiro delle truppe statunitensi e dal ritorno trionfante dei fondamentalisti islamici. Da allora nel Paese vige la repressione. In un primo tempo, il regime di Kabul ha preso di mira soprattutto le forze di sicurezza del governo precedente, con un numero imprecisato di esecuzioni sommarie (più di cento a fine novembre solo nelle quattro province, su 34, in cui l’Ong Human Rights Watch ha potuto indagare) e di incarcerazioni. Ora la repressione si sta concentrando in particolare sul mondo dell’educazione e della cultura. Circa 150 testate giornalistiche sono state chiuse e i loro giornalisti arrestati e picchiati. A Bamiyan, la città principale dell’Hazaradjat, provincia del centro dell’Afghanistan famosa per i Buddha giganti distrutti dai talebani nel 2001, gli archeologi afghani, solo una manciata, che facevano del loro meglio per proteggere il patrimonio storico della regione, sono fuggiti. I talebani hanno saccheggiato i loro uffici dopo la conquista di Kabul, il 15 agosto 2021. “I miei colleghi afghani del museo di Kabul, del Dipartimento dei monumenti storici, gli archeologi, molti professori delle università di Kabul e Herat sono in difficoltà. Hanno ricevuto minacce di morte a ripetizione”, riferisce un’ex consulente spagnola del ministero afghano della Cultura. Il 4 ottobre 2021 il ministero dell’Educazione interna ha deciso di invalidare i diplomi di scuola secondaria conseguiti negli ultimi vent’anni e di assumere solo insegnanti che inculcheranno i valori islamici ai futuri studenti.

Nel mirino dei talebani, anche le religioni diverse dall’Islam sunnita: il 5 ottobre scorso, il tempio sikh di Kabul è stato saccheggiato da uomini armati, facendo fuggire gli ultimi fedeli indù e sikh. In questo clima di repressione, il regime “sta dando qualche segno di moderazione per mostrare la sua buona volontà alla popolazione – spiega Karim Pakzad, specialista dell’Afghanistan all’Iris, l’Istituto per le relazioni internazionali e strategiche –, ma non funziona”. I talebani hanno diramato alcune fatwa, dei decreti religiosi. Una di queste vieta ai miliziani di tagliare i capelli degli uomini giudicati non islamici, una pratica in vigore dal 1996 al 2001. Un’altra autorizza le donne a allontanarsi fino a 72 chilometri dal loro domicilio, se accompagnate da un uomo della loro famiglia. Una misura condannata dalla comunità internazionale, ma vista dai talebani come una concessione alle donne, che fino ad ora non potevano neanche andare al mercato da sole. A marzo le ragazze potranno tornare a scuola. La verità è che nel Paese “regna un’atmosfera di paura e terrore”, ha dichiarato Faizullah Jalal, il docente di diritto all’università di Kabul che è stato arrestato l’8 gennaio scorso per aver pubblicato dei commenti critici contro i talebani sui social. Alla repressione, si aggiunge la crisi umanitaria. La brusca interruzione degli aiuti internazionali che mantenevano in vita il Paese e il congelamento delle riserve della Banca centrale afghana da parte degli Stati Uniti (9,5 miliardi di dollari) stanno provocando “una delle più gravi catastrofi umanitarie al mondo” secondo le parole di Martin Griffiths, sottosegretario generale dell’Onu agli Affari esteri. “Il numero di persone che soffre la fame è senza precedenti: 23 milioni di afghani, più della metà della popolazione, non sanno se potranno ancora procurarsi da mangiare – spiega Isabelle Moussard Carlsen, responsabile dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA) sul sito Défis humanitaire –. Un bambino su due soffre di malnutrizione. Non ho mai visto nulla di simile”. Nell’ovest dell’Afghanistan, a Herat, la terza città più grande del Paese, detta la “Firenze dell’Afghanistan” per la ricchezza del suo patrimonio architettonico, le persone stanno già morendo di fame. Nei campi profughi, dove si sopravvive in rifugi di fortuna e nel fango, “la situazione peggiora ogni giorno di più”, riferisce un operatore umanitario. Alcune di queste persone si sono ritrovate a vivere per strada a causa della guerra, perché le loro case sono andate distrutte. Altre erano già in difficoltà a causa della povertà endemica dell’Afghanistan. Gli effetti del riscaldamento climatico sono a loro volta devastanti.

Da anni il Paese, essenzialmente rurale, già afflitto da decenni di conflitti e distruzioni, soffre per la siccità persistente. A Herat la disperazione è tale che i genitori non esitano neanche più a vendere le proprie bambine dandole in spose a chi paga pur di non morire di fame, riferiscono diversi testimoni a Mediapart. “Per quanto mi riguarda, non lo farò mai”, osserva Amina, che scosta il burqa per mostrarci i suoi occhi scuri. Amina ha 35 anni e cinque figli, di cui quattro bambine, che ha avuto con un uomo di 45 anni più vecchio di lei. Non voleva sposarlo, ma i suoi genitori non le hanno lasciato scelta: “È malato e troppo anziano per lavorare”, dice. Quindi sta a lei lavorare e occuparsi della casa. Insieme alle altre donne, Amina è seduta per terra davanti agli uffici del ministero per i rifugiati, aspettando che qualcuno la riaccompagni al campo. Dopo giorni di attesa nel freddo, con le temperature che scendono sotto lo zero, finalmente lei e le altre possono ripartire con quel minimo vitale che avevano sperato, fornito dall’Alto commissariato per i rifugiati: coperte per riscaldarsi, secchi per andare a prendere l’acqua al fiume, una pentola, un fornello per cucinare. Amina è arrivata a Herat dopo essere stata mandata via di forza dall’Iran. Mentre Kabul cadeva senza resistere nelle mani degli islamisti, lei e la sua famiglia avevano raggiunto Mashhad, dove vivono alcuni suoi cugini. Era stata felice all’epoca. La giovane donna non parla né in bene né in male dei talebani. Chiede solo di vivere in pace e al sicuro. Il giorno prima, nel quartiere sciita di Herat, un minibus era saltato in aria nell’esplosione della bomba che era stata posta sotto il veicolo. Sette persone avevano perso la vita, di cui quattro donne. Nove erano rimaste ferite.

(Traduzione di Luana De Micco)

Ferrovie e Pnrr. Per il ministero esistono solo le Fs e le grandi opere: il Sud illuso ancora una volta

Afine dicembre il ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili ha pubblicato il “Documento strategico della mobilità ferroviaria di passeggeri e merci”, che espone gli orientamenti del governo in termini di organizzazione del sistema su ferro.

Vista la intitolazione, l’incauto lettore si sarebbe atteso un documento di ampio respiro per delineare le tendenze, gli obiettivi e le strategie di governo di un settore tanto importante per la transizione ecologica, quanto complesso. La definizione di una strategia nazionale per lo sviluppo del sistema ferroviario intercetta numerose tematiche – la regolazione dei servizi regionali o la governance dei treni merci e di quelli passeggeri a lunga percorrenza, che operano in larga misura in un contesto di liberalizzazione – e altrettanto numerosi operatori: non solo le Ferrovie dello Stato e il gestore di rete RFI, ma anche le concessionarie delle reti minori, le imprese pubbliche (Trenitalia, Trenord) e private (Ntv, operatori merci) che usano la rete, sino agli utenti finali. Invece, il documento si focalizza quasi unicamente sui temi più strettamente infrastrutturali, in un contesto nel quale la dotazione di infrastrutture di trasporto è vista come elemento-chiave per lo sviluppo dei territori e in particolare del Mezzogiorno. Come se essere collegati a una ferrovia (naturalmente ad Alta Velocità) sia fattore sufficiente, se non unico, per lo sviluppo e la lotta alle disparità territoriali, a prescindere da ogni altra considerazione: quantità e qualità dei servizi di trasporto erogati, le tariffe applicate o le forme di integrazione con altre modalità di trasporto.

Di più: le sole infrastrutture di cui parla il documento sono quelle date in concessione ad Rfi, tanto che persino nei grafici e nelle tabelle di analisi del settore emergono lacune clamorose, derivanti dalla mancata analisi di fenomeni concorrenti. Ad esempio, nell’analisi del traffico passeggeri regionali il documento evidenzia tra il 2010 ed il 2011 un repentino calo, da imputare in realtà non tanto ad andamenti reali, quanto più banalmente allo scorporo delle attività di Trenord dalle statistiche delle Fs. Per ovviare a problematiche di questo genere, sarebbe bastato consultare le statistiche annuali dell’Istat, anziché quelle aziendali di Fs, ma tant’è: l’impressione generale è che le strategie nazionali per la mobilità ferroviaria trascurino ogni altro soggetto coinvolto nel settore.

Erano anni che il Ministero non pubblicava documenti tanto allineati con i desideri delle Ferrovie dello Stato: è un grosso passo indietro, che rileva un’imbarazzante subalternità culturale del dicastero, che si limita a far propri gli orientamenti del concessionario di rete. Ne deriva, naturalmente, una forte propensione alla spesa in nuove infrastrutture, che nell’onda dell’entusiasmo per il Pnrr – non sempre ben riposto – è destinato a tradursi in un notevole flusso di investimenti per nuove linee ferroviarie. Da questo approccio è lecito attendersi costi elevati e certi (a meno di ulteriori rincari) e lunghi tempi di realizzazione, con esiti incerti, soprattutto sui fronti della transizione ecologica, del contrasto alle disparità territoriali e dello sviluppo sociale ed economico del Sud, che richiederebbero risposte ben più rapide, circostanziate e radicate nei contesti locali.

 

Mano libera ai concessionari sulle gare: a pagare saremo noi

Una recente sentenza della Corte Costituzionale (ottobre 2021) stabilisce che i concessionari autostradali e quelli che gestiscono reti (energia, acqua e poste) sono troppo penalizzati dall’obbligo di mettere a gara a società terze l’80% (il 60% per le concessioni autostradali) degli investimenti. Queste percentuali erano previste dalla disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativa a “lavori, servizi e forniture”, ora cancellata. Le utility dei servizi (A2A è una dei ricorrenti) e i gestori delle autostrade (l’Aiscat che le rappresenta tutte è un altro) da sempre lamentavano come troppo vincolante l’obbligo di dover “esternalizzare”, mediante gare, le percentuali sopra indicate, e di realizzare solo la restante parte di queste attività con società “in house” o controllate.

Le motivazioni di questa sentenza lasciano davvero perplessi, perché si appoggiano al concetto costituzionale di “libertà di impresa”, ma ignorano il contesto a cui si applica in questo caso, che non è paragonabile a un libero mercato, in cui valga il gioco della domanda e dell’offerta, con i conseguenti rischi, e i “segnali di prezzo” che possano determinare l’efficienza degli investimenti: il mercato delle imprese regolate è in larga misura determinato da decisioni pubbliche, anche per le tariffe, e a volte da Autorità indipendenti (per trasporti ed energia).

Anche le caratteristiche tecniche dei singoli investimenti sono spesso strettamente regolate, come lo sono i profitti, mediante appositi indicatori (costo medio del capitale ponderato ecc.). I profitti inoltre devono basarsi su una stima di “costi efficienti” degli investimenti, nel caso non ci sia la concorrenza a determinarne l’efficienza. Infatti il soggetto pubblico concedente/regolatore non può consentire che gli utenti (o i contribuenti, nel caso di sussidi) paghino investimenti che consentano extraprofitti. In pratica, il provvedimento farà crescere il campo d’azione delle aziende costruttrici che operano “in house”, cioè al di fuori dei mercati “normali”, aumentando le capacita di pressione politica dei concessionari.

La sentenza ignora la distinzione tra regolatori indipendenti e ministeri concedenti, svalutando il ruolo dei regolatori. Un segnale eloquente: i concessionari premono sempre per fare investimenti “in house”, perché generano profitti di fatto garantiti. Se questa possibilità si amplia, continueranno a premere per effettuarne il massimo possibile (anche quelli non necessari). Questo, a meno che la remunerazione dell’investimento sia soggetta a rischi reali, scenario che appare in generale irrealistico, per le ragioni sopra descritte. Si pensi per esempio alle riparazioni, spesso molto costose, necessarie per una rete idrica: i rischi di domanda sono remoti (un calo improvviso della popolazione?). Ma anche per le autostrade spesso la remunerazione degli investimenti è del tipo “a piè di lista” cioè lascia al concessionario solo il rischio di extra-costi, non quelli di calo della domanda. Ma anche in caso di rischi di domanda vi sono in genere meccanismi che li minimizzano.

Si può obiettare che il regolatore, come è chiamato ad impedire costi unitari eccessivi degli investimenti, così impedirà eccessi di capacità. Ma qui interviene proprio il peso politico dei concessionari: per esempio, minacceranno di chiudere, o di ridurre drasticamente il personale, delle imprese “in house”, e ovviamente il sindacato e gli enti locali premeranno perché ciò non avvenga.

Oltre a questi problemi, c’è la storica debolezza dei regolatori nel nostro paese, che consiglierebbe di non aumentarne troppo i compiti, e cioè di lasciare alla concorrenza tutto ciò che è ragionevole lasciare.

I regolatori si sono spesso infatti dimostrati distratti e generosi, sia nel definire il tasso di interesse garantito ai concessionari, sia per le verifiche dei livelli di manutenzione, (si pensi al caso delle reti idriche e autostradali), sia nell’evitare il costituirsi di imprese dominanti “per legge” (meno accettabili di quelle che si formano in mercati concorrenziali grazie alla capacità di innovare).

La strada da percorrere sembra dunque quella opposta: aumentare la concorrenza, soprattutto in quei settori in cui questa opera troppo poco, quali per esempio le grandi opere civili (di nuovo ci si riferisce alle autostrade).

Infine c’è da segnalare l’incentivo perverso a ridurre la concorrenza costituito dall’abbondanza di risorse legata al Pnrr: Dio non voglia che dal mercato emergano imprese più dinamiche ed efficienti di quelle italiane, capaci di aggiudicarsi (a beneficio degli utenti e dei contribuenti) una quota di quelle risorse che le nostre imprese regolate vedono già come acquisite.

Dopo 10 anni d’oro, forse soffrono anche le Borse: è fisiologico

Che siano i prodromi del Grande Crollo o solo una rapida correzione al ribasso da cui ripartire, le Borse da inizio anno hanno intrapreso la via della discesa. E tutto sommato è normale così. Il nuovo scenario della normalizzazione – che parte dagli Usa dove l’inflazione al 7% è tornata a livello degli Anni 80, e con la Fed che restringe la politica monetaria e prepara un rialzo dei tassi che andrà a chiudere l’epoca dei tassi a zero – non può che avere riflessi su quegli asset finanziari cresciuti a dismisura in un clima eccezionale di denaro gratis come è stato dalla crisi finanziaria del 2008 in poi.

E sono proprio i listini azionari, pressoché ovunque nel mondo, ad aver beneficiato del contesto macro-economico mai così accomodante. La regina della grande corsa al rialzo degli ultimi anni è stata Wall Street, da sempre faro-guida delle Borse mondiali. Basti vedere qualche dato per comprendere l’ampiezza del fenomeno che ha gonfiato per anni le quotazioni dei titoli, in particolare quelli cosiddetti ad alta crescita, come l’hi tech. Il “Nasdaq composite” ha toccato i suoi massimi, oltre i 15 mila punti, a novembre del 2021, salendo di ben 10 volte i valori post crisi finanziaria del 2008. Un’esplosione al rialzo mai vista nella Storia dell’indice dei titoli tech. L’S&P500 ha sfiorato i 5.000 punti dai poco meno di 700 del 2009. E così via con rialzi più contenuti ma sempre a tre cifre percentuali per le Borse europee.

Una corsa figlia dell’enorme liquidità affluita sui titoli azionari per i maxi-acquisti delle banche centrali di tutto il mondo, che hanno triplicato i loro bilanci, e grazie al denaro di fatto gratis che ha permesso a imprese e famiglie di indebitarsi a dismisura. Una mole di denaro che per essere investita non poteva che finire sulle Borse, dato che i rendimenti delle obbligazioni sono finiti sotto zero. Un clima in cui era il contesto esogeno più che la bontà dei conti aziendali a spingere il denaro fresco sulle Borse. E questo mentre l’economia reale, dopo le due recessioni post Grande crisi finanziaria, certo non mostrava tanta salute. Una divaricazione enorme tra il passo del Pil e la crescita folle degli investimenti finanziari, Borse in testa.

E così i giganti del tech sono diventate la nuova musa dei listini, ammaliando masse di piccoli investitori a cavalcarne l’onda. Certo le varie Apple, Google, Facebook, Amazon hanno, distruggendo ogni concorrenza, prodotto crescite di fatturato e utili stellari nell’ultimo decennio. Apple, salita sul trono della regina delle Borse, con il suo valore di 3mila miliardi di dollari di capitalizzazione raggiunti alla fine dello scorso anno ha visto crescere i ricavi in 10 anni da 65 miliardi a 365 miliardi di dollari, oltre le 5 volte. E i profitti da 14 miliardi a 95, con un margine netto sui ricavi del 25%. Una corsa senza soste certamente. Ma in Borsa c’è stato l’effetto esponenziale, tanto che il suo prezzo vale oggi quasi 8 volte il fatturato (era 3 volte dieci anni fa) e quasi 30 volte gli utili.

Numeri che si possono replicare per altri giganti del tech. Ora la nuova moda è Tesla con la sua auto elettrica. Pur caduta dai 1.200 dollari per azione di 2 mesi fa a 950 dollari, vale oggi in Borsa 950 miliardi di dollari. Che equivalgono a quasi 20 volte i suoi ricavi di fine 2021 e la bellezza di oltre 100 volte i suoi utili. Questo avendo venduto solo 1 milione di vetture contro gli oltre 8 milioni di Toyota, che invece vale in Borsa solo una volta i suoi ricavi. Potenza del sogno della crescita infinita, che ha fatto salire la società fondata da Elon Musk di oltre 10 volte il suo valore in soli due anni. La facile e incredibile ricchezza prodotta da chi ha investito sulle Borse fa a pugni con la crisi provocata all’economia reale dal Covid.

Mentre il Pil cadeva a rotta di collo nel 2020 e tornerà ai livelli pre-pandemia solo a fine 2022, le Borse ci hanno messo molto poco ad assorbire il colpo. Dopo la caduta iniziale di febbraio-marzo 2020, i listini hanno ripreso a macinare rialzi. Il Nasdaq era caduto di 1.800 punti da febbraio al 20 marzo, scendendo da 9.700 punti a 6.900. Un solo mese per assorbire il colpo della più grave pandemia della storia moderna ed ecco ripartire di slancio. Da marzo del 2020 a ieri il Nasdaq ha raddoppiato il suo valore.

Un fenomeno generalizzato. Basti vedere il nostro piccolo listino. Il Ftse/Mib dal 20 marzo 2020 è riscattato poderosamente in avanti salendo del 71% in meno di 2 anni. Con titoli come Mediobanca che scesa sotto i 5 euro nel marzo del 2020, mentre il Covid cominciava a mietere vittime, oggi è salita vicino ai 10 euro, tornando ai livelli post crisi finanziaria. Per non parlare di Intesa o UniCredit o di Ferrari, titolo cult a Piazza Affari, per il quale la pandemia non è mai di fatto esistita, dato che oggi il prezzo è di 202 euro per azione contro i 150 euro pre-pandemia.

Ora i media “mainstream” parlano preoccupati dei cali di Borsa. I titoli enfatici parlano di “miliardi bruciati” come se fosse l’anticamera della grande distruzione di ricchezza. Come al solito mancano la retrospettiva e la capacità di analizzare oltre la contingenza. Quei cali delle Borse sono un buffetto rispetto ai maxi-guadagni realizzati sia dopo la crisi del 2008 sia dopo la pandemia. Spesso sono proprio i grandi fondi pensione e istituzionali che hanno, grazie al volo storico dei listini, incamerato plusvalenze virtuali a tre cifre e che ora, con il contesto che muta, passano all’incasso alleggerendo le posizioni e portando a casa maxi-guadagni reali. Un atteggiamento assai razionale, non certo sprovveduto o di chi è in preda al panico. Gli stessi investitori istituzionali che finiranno per ricomprare gli stessi titoli domani, a prezzi più bassi, quando le Borse risaliranno. Che sia crollo o correzione, il guadagno vendendo e ricomprando a prezzi più bassi è assicurato. Altro che miliardi bruciati. La grande e malata finanziarizzazione del mondo moderno continua a scoppiare di ottima salute.

Embraco è morta: la sconfitta ridicola di quattro governi

No, questa non è una bella storia. Sentita mille volte sì, bella proprio no. In questi giorni chi vuole si presenta a firmare l’indennizzo: 7mila euro lordi dopo una vita di lavoro per la rinuncia a ogni pretesa nei confronti dell’azienda che muore, la fu Embraco a Riva presso Chieri, nel torinese. È così che finiscono quattro anni di lotte generose, speranze vane e promesse tradite: con un gemito, non con uno schianto.

Dal 22 gennaio i 377 operai rimasti – quasi tutti tra i 50 e i 60 anni – sono senza lavoro e senza cassa integrazione: resta l’assegno di disoccupazione e la speranza che qualcuno li ricollochi. Embraco è un fallimento industriale e politico e lo è a livello antropologico prima ancora che economico o amministrativo.

Era il 10 gennaio 2018 quando arrivò la lettera di licenziamento per gli allora 497 dipendenti dello stabilimento torinese: un pezzo di storia dell’industria italiana ieri, la plastica rappresentazione di cosa significhi stare dal lato sbagliato della globalizzazione oggi.

Fondata negli anni 70, la fabbrica di Riva presso Chieri produceva compressori: andava così bene che il colosso Whirlpool decise di comprarla nel 1986, tramite la controllata Embraco, per produrre pezzi per i suoi frigoriferi. Quando finisce il mondo della Guerra Fredda, però, essere un’eccellenza non basta più: è dal 2004 che la multinazionale Usa prova a portar via la produzione dall’Italia verso la Slovacchia e in Asia, dove il lavoro costa meno. Da allora, e per 14 anni, Whirlpool è stata lautamente pagata dallo Stato per non muoversi, finché nel 2018 anche quello non è bastato più e s’è avviato il disastro di oggi: gli occupati erano 2.200 negli anni d’oro, mille nel 2004, meno di 500 a gennaio 2018 quando arriva l’avviso di chiusura e parte questa nuova storia. Patetica, ridicola, dolorosa.

La prima promessa tradita è quella dell’allora ministro dello Sviluppo Carlo Calenda: l’insediamento di una nuova società, la Ventures, con capitali di Whirlpool e la supervisione di Invitalia. La società, spiegò Calenda in assemblea coi lavoratori, avrebbe assorbito tutti i dipendenti e avviato produzioni tecnologiche – strumenti per la pulizia e la manutenzione dei pannelli fotovoltaici – a partire dal gennaio 2019: e così la ex Embraco smantella e si porta via i macchinari, solo che al loro posto non arriva nulla.

Al governo a questo punto ci sono i gialloverdi, che promettono di nuovo di avviare la produzione con Ventures, ma anche stavolta nulla succede. Pochi mesi e siamo al governo Conte 2 (agosto 2019): nel frattempo i soldi di Whirpool per re-industrializzare il sito sono quasi finiti, non sempre è chiaro dove e perché. Arriva fatalmente la magistratura e dichiara il fallimento di Ventures: nell’estate 2020 parte la procedura concorsuale e i curatori attivano la Cig straordinaria per i lavoratori.

È il settembre 2020 quando il ministro Stefano Patuanelli e la sottosegretaria Alessandra Todde (entrambi M5S) presentano il progetto “Itacomp”, il polo italiano dei compressori per refrigerazione che dovrebbe unire la ex Embraco e la commissariata ACC Wanbao di Mel (Belluno), progetto da sostenere in avvio con capitali pubblici (Invitalia e le Regioni Piemonte e Veneto dovevano detenere il 70% del capitale iniziale). Qualche mese di annunci e siamo al febbraio 2021, governo Draghi, al posto di Patuanelli al Mise arriva Giancarlo Giorgetti: si dice che il leghista sia contrario al progetto Itacomp, ma una parola che sia una sul tema non l’ha detta mai. L’ultimo incontro con le parti sociali è dell’aprile 2021: la viceministra Todde si tiene sul vago. Nel luglio scorso scade la cassa straordinaria, la prorogano per sei mesi. Adesso è finita pure quella. Si chiude. Come centinaia di altri stabilimenti nella provincia. È così che finisce il mondo: con un gemito, non con uno schianto.

Sorpresa: affidare ai lavoratori le imprese in crisi funziona!

Èpossibile dare più potere ai lavoratori in un’economia di mercato funzionante? Secondo una certa vulgata, no. Ma, come spesso accade, la realtà si preoccupa di smentire i luoghi comuni. È il caso dei cosiddetti “workers buyout”, uno strumento di politica industriale che pian piano sta attirando l’attenzione e, soprattutto, pare funzionare.

Di che parliamo? Un workers buyout è l’acquisizione di un’impresa (in crisi, fallita o a rischio di chiusura) da parte dei suoi stessi dipendenti. In Italia questo modello è inquadrato in una specifica cornice legislativa (la Legge Marcora) dal 1986. I risultati sono sorprendenti e fanno intravedere la possibilità di un nuovo tipo di intervento pubblico, a oggi ancora sottovalutato.

Una storia di workers buyout è quella della Cartiera Pirinoli di Roccavione (Cuneo), fallita nel 2012 e poi presidiata per tre anni dai lavoratori. Alcuni di loro, poi, acquisirono l’azienda con il sostegno della partecipata statale Cooperazione Finanza Impresa (Cfi) e della Legacoop. Ed è anche la storia dell’Alfa Engineering di Modena, che produce giunti isolanti monolitici. Nel 2008 la società venne travolta dalla crisi, ma il sostegno di Legacoop, Coopfond e Cfi, insieme ai fondi della cassa integrazione e mobilità, permise di costituire il capitale di una nuova cooperativa e rimettere l’azienda sui binari della produzione.

Nella loro forma moderna i workers buyout nascono negli Stati Uniti. Nel 1956, in un Paese sì capitalista, ma pragmatico, Louis Kelso, un avvocato di San Francisco, creò il primo Esop (employee stock ownership plan, piano di azionariato dei dipendenti). Nei decenni successivi si diede una forma più strutturata a questo strumento, che nel 1979 fu addirittura utilizzato per salvare la Chrysler.

Qualche anno dopo, fra 1981 e 1982, in un’Italia attraversata dalla crisi, un’intuizione simile la ebbe il ministro dell’Industria Giovanni Marcora (ex partigiano e promotore della legge sull’obiezione di coscienza alla leva): perché non utilizzare una parte dei fondi assistenziali del governo per costruire occupazione?

Marcora non fece in tempo a vedere la sua idea diventare realtà. Ma a due anni dalla sua morte, nel 1985, in Italia venne approvata una legge che istituiva il “Fondo destinato alla salvaguardia dell’occupazione attraverso la formazione di imprese cooperative tra dipendenti di aziende in crisi”. La Legge Marcora, per l’appunto.

Nel 1986 fu istituita Cooperazione Finanza Impresa (Cfi), la società pubblica che da allora gestisce il Fondo. Oggi, oltre al ministero dello Sviluppo Economico, Cfi ha come soci 325 cooperative, Invitalia e i fondi mutualistici di Agci, Confcooperative e Legacoop.

Cfi lavora con cooperative di produzione e lavoro e cooperative sociali, purché rispettino i limiti di piccola e media impresa. Una volta che un progetto è stato valutato positivamente e i lavoratori hanno messo a disposizione alcune risorse (come l’anticipo della mobilità o del Tfr), Cfi interviene con una partecipazione di minoranza. Ma attenzione: non si tratta di una nazionalizzazione mascherata. Infatti, la partecipazione può durare al massimo dieci anni, deve essere progressivamente rimborsata e deve essere “non superiore al valore del capitale sociale, delle riserve patrimoniali e del prestito sociale della cooperativa, nel limite massimo pari al doppio del capitale sociale versato dai soci dell’impresa”.

Cfi, che può erogare finanziamenti anche come capitale di debito, ha realizzato nella sua storia investimenti per oltre 300 milioni di euro, finanziando 562 cooperative, di cui 319 attraverso workers buyout (coinvolti oltre 10mila lavoratori per due terzi nell’industria). E sono proprio i numeri su questo strumento che fanno strizzare gli occhi. Balza all’occhio, ad esempio, la longevità media delle imprese rigenerate: 15,2 anni contro i 12 anni della media delle imprese italiane, come riportato da Aldo Viapiana su lavoce.info. Non parliamo di aziende che stanno in piedi per miracolo, dunque, ma che per la gran parte si inseriscono nei loro mercati di riferimento producendo occupazione e ricchezza.

Gli studi su questo fenomeno ne sottolineano l’effetto positivo sulle comunità locali. In un working paper dell’Euricse del 2015, Marcelo Vieta scrive che, “dove emergono imprese gestite dai lavoratori, i posti di lavoro sono salvati e le capacità produttive delle comunità sono preservate o migliorate”, perché i workers buyout tendono ad avvenire con maggiore frequenza durante le recessioni. Inoltre, “queste imprese contribuiscono alla prevenzione della ‘desertificazione’ delle regioni e agiscono come ‘ammortizzatori’ per i bisogni socio-economici delle comunità”.

“L’aspetto più importante è la motivazione dei lavoratori, che decidono di mettersi in gioco – dichiara al Fatto Camillo De Berardinis, amministratore delegato di Cfi – L’altro aspetto è il modello di intervento che mette a disposizione non solo risorse finanziarie ma anche competenze. Cfi non si limita a valutare le domande di finanziamento, ma assiste i lavoratori nella messa a punto del progetto e nella fase di start-up dell’impresa”.

I dati di Cfi letti dal Fatto mostrano che i workers buyout sono non soltanto efficaci, ma anche efficienti e comportano un notevole risparmio per le casse pubbliche: fra 2013 e 2019 il ritorno per lo Stato sul capitale impiegato è stato di 1 a 7. Com’è possibile? Semplice: un dipendente licenziato costa allo Stato decine di migliaia di euro di ammortizzatori sociali, mentre un workers buyout costa in media circa 12 mila euro a lavoratore e ha successo in circa l’80% dei casi. Insomma, far recuperare le aziende ai lavoratori è una politica attiva del lavoro che funziona e porta pure soldi all’erario: sempre Valpiana su lavoce.info ha calcolato che il fisco dal 1979 al 2018 ha incassato circa 3,3 miliardi da queste imprese.

Da qualche anno anche la politica sembra essersene resa conto. “C’è stata una certa continuità nel sostegno ai workers buyout da parte dei diversi governi succedutisi negli ultimi anni, che hanno progressivamente incrementato la dotazione di risorse – continua De Berardinis – Da settembre 2021 è pienamente operativa la ‘Nuova Marcora’, rafforzata e resa ancora più incisiva dal decreto del ministro dello Sviluppo economico del 4 gennaio 2021: da allora sono già stati deliberati 17 progetti per 7,5 milioni, soprattutto nell’industria. Nel 2022 prevediamo di finanziare 48 interventi fra i 24 e 25 milioni con un forte aumento degli investimenti totali e della dimensione media (da 350 mila a 600 mila euro) degli interventi”.

La riforma del 2021 ha allargato lo spazio di manovra per Cfi e ha abbassato dallo 0,8% a zero il tasso di interesse sui finanziamenti che essa può concedere. Non solo. La legge di Bilancio 2021 ha istituito un nuovo fondo per il sostegno al trasferimento di impresa, per cui sono stati stanziati 15 milioni in 3 anni. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, era il 1993, la Commissione Ue avviò contro l’Italia una procedura d’infrazione per violazione delle norme sugli aiuti di Stato proprio a riguardo dell’operato di Cfi. “I risultati di questi anni dimostrano l’efficacia di questo strumento – dice ancora De Berardinis – tanto che, da settembre 2021 c’è nel Regno Unito un’iniziativa di alcuni parlamentari laburisti per realizzare una legge che prenda spunto dalla Legge Marcora. Stiamo collaborando con loro e la proposta sta andando avanti: nei prossimi giorni parteciperemo a un incontro col ministro del Tesoro britannico”.

Il modello dei workers buyout è sicuramente da ampliare e perfezionare. Ma, ad oggi, è un’alternativa allo “Stato dei bonus”. Rappresenta la possibilità di uno Stato “guida”, che fa politica industriale dando ai lavoratori una prospettiva diversa rispetto al mero sostegno (temporaneo) al reddito. Uno strumento prezioso in questa fase critica.