Judith Kerr: è meraviglioso (ri)scoprire la sua magia

Judith Kerr ci ha lasciato precisamente un anno fa, poco prima di spegnere 96 candeline, ma il suo talento nel trasmettere la meraviglia delle piccole cose, la magia dell’imprevisto, la potenza dell’immaginazione, la spensieratezza dell’infanzia, resta immortale. La traduzione del suo ultimo albo illustrato, Al parco con mamma, è così sorpresa gradita e dono prezioso. Ebrea, figlia di un intellettuale antinazista, fuggita da Berlino nel ’33 con la famiglia alla volta di Londra (che non ha più lasciato), è mondialmente nota per Quando Hitler rubò il coniglio rosa, storia della sua infanzia, Una tigre all’ora del té e la serie con al centro la gatta Mog. Qui immagina mamma e figlioletto al parco: lei, stressata, si distrae al cellulare con un’amica e ogni sua affermazione anticipa le (pericolose!) avventure che il piccolo sta per sperimentare ma di cui lei non si accorge. Per esempio quando confida di sentirsi “sempre sospesa” lui, in volo su un cigno che lo ha salvato dalle acque di un laghetto, precipita nel vuoto nel tentativo di afferrare un palloncino ma trova, che fortuna!, appiglio a un ramo in fiore. I giovani lettori adoreranno le peripezie del protagonista, mentre noi realizzeremo che, se alziamo gli occhi, c’è tutto un mondo da scoprire. Se siamo coi pargoli spegniamo i telefoni e apriamoci alla curiosità. Meglio.

 

Al parco con mamma

Judith Kerr

Pagine: 32

Prezzo: 13

Editore HarperCollins

Itinerari, sicurezza e termoscanner: il Parco archeologico riprende la sua vita

“Abbiamo sempre lavorato nell’ottica del museo come un centro culturale e sociale. Abbiamo sempre puntato sull’inclusione. E adesso è il momento di rincominciare da qui”. Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco archeologico di Paestum e Velia, è stato tra i primi in Italia a tagliare il nostro rosso per inaugurare la fase 2 della cultura. Lo ha fatto insieme ai ragazzi autistici residenti in zona, che hanno così potuto riprendere il progetto realizzato in collaborazione con l’associazione Cilento4all Il Tulipano, attraverso un percorso educativo pensato ad hoc con il supporto di un’agenda visiva. “Ripartiamo dalla missione sociale del museo – fa sapere il direttore – Paestum e Velia devono essere un patrimonio di tutti, ora più che mai”. Si riparte dalla qualità, senza l’ambasce per le 440mila visite annue che al momento sono destinate a diminuire. Fa ben sperare il legame col territorio, il primo destinatario in questa fase dell’offerta culturale del Parco. Bellezza, storia e natura sono a disposizione della cittadinanza per tutto l’anno, con un abbonamento da 20 euro. La fruizione in sicurezza dei siti archeologici, che da tempo si collocano tra i primi 20 musei statali più visitati nel nostro Paese, è garantita da ingressi contingentati e termoscanner. Per evitare assembramenti nell’area archeologica di 20 ettari, è stato ideato un itinerario fisso e unidirezionale. Inoltre, per monitorare il flusso, è stata sviluppata un’applicazione su cellulare che notifica ai visitatori e al personale con un messaggio la mancata distanza di almeno 1,5 metri. Gli eventi in calendario al momento sono sospesi, ma restano confermate la mostra Poseidonia città d’acqua. Archeologia e Cambiamenti climatici e il videomapping sulla facciata principale del tempio di Nettuno Metamorfosi di Alessandra Franco. “Abbiamo voluto dare un servizio alla comunità – spiega Gabriel Zuchtriegel – qui le persone possono vedere qualcosa di straordinario, di bello, imparare e vivere un momento di relax”.

 

Basta mummie: riaprono i musei (anche l’Egizio)

Che felicità: riaprono i musei civici in Italia! Le collezioni del fondo permanente sono di nuovo accessibili ai visitatori che decideranno di nutrire questa ripartenza anche con la bellezza dell’arte. Meno compatta, invece, è la decisione delle esposizioni temporanee. Molte hanno deciso di riaprire, slanciandosi fino a settembre e cercando di sfruttare al massimo l’onda di questa bizzarra estate, dove i tanti che non potranno partire per le vacanze resteranno nelle proprie città e Regioni.

Ben chiare le regole: mascherina&guanti (che ormai è diventata una sola parola, un marchio dei nostri tempi) e poi prenotazione obbligatoria, ingressi contingentati, misurazione della temperatura all’entrata e bollinatura a terra per segnare il percorso da seguire e la distanza da tenere.

A oggi, 22 maggio, a Roma si è potuto tornare ad ammirare la nivea soavità dei marmi di Antonio Canova a Palazzo Braschi, il maestro della pop art Jim Dine a Palazzo delle Esposizioni, e la Gnam, che sul patio d’ingresso ha posizionato l’installazione Open! di Marti Guixè. Allontanandoci dalla capitale, a Torino ha riaperto i battenti Camera, il centro italiano per la fotografia, a Merano il Kunst Meran con l’attuale mostra Risentimento. Un sentimento del nostro tempo?, e a Genova Palazzo Ducale con Il secondo principio di un artista chiamato Banksy. E ancora, i visitatori hanno già potuto gironzolare (sempre ordinatamente, però) nel Parco Archeologico di Pompei, così come tra le sale del Museo di San Domenico di Forlì per l’esposizione Ulisse, l’arte e il mito e al Museo Diocesano di Padova per il percorso dedicato alle sculture in terracotta del Rinascimento Da Donatello a Riccio. Soprattutto, però, a Bergamo (finalmente) si potrà da oggi accedere ai musei civici nel fine settimana.

Da lunedì, altra settimana di riaperture: in Sicilia, si potrà visitare la Valle dei Templi di Agrigento, Selinunte, Siracusa e Taormina e, dall’indomani, anche gli scavi di Pompei; mentre giovedì 28 rinnova il percorso espositivo dedicato a Taddeo di Bartolo alla Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia, data in cui sarà possibile anche entrare al Colosseo e a Palazzo Pitti. Il 29 inaugura, invece, al Mann di Nuoro la mostra Il regno segreto. Sardegna-Piemonte: una visione post-coloniale, mentre il 30 riapre felicemente la Pinacoteca Ambrosiana a Milano (a oggi, l’unica riapertura certa in città, dove ancora stanno terminando le verifiche tecniche per un graduale ritorno dal 26).

Il 1° giugno torna Tomás Saraceno a Palazzo Strozzi a Firenze, e il 2 anche il divino Raffaello alle Scuderie del Quirinale aspetta i visitatori, che sempre a Roma potranno recarsi ai Fori Imperiali e ai Mercati di Traiano. A Venezia, la Collezione Peggy Guggenheim riapre le porte di Palazzo Venier dei Leoni e non manca all’appello nel giorno della festa della Repubblica il Museo Egizio di Torino. Il 3, tornano alla vita anche gli Uffizi. A partire da giugno, infatti, la riapertura museale sarà per lo più completa su scala nazionale, mentre non c’è una data certa per i Musei Vaticani. Alcune esposizioni, tuttavia, hanno scelto di non (o non hanno potuto) riaprire. Tra queste, Monet a Palazzo Albergati a Bologna, il Mia Photo Fair al The Mall di Milano e I marmi Torlonia ai Musei Capitolini a Roma.

 

Sul mare d’Irlanda, la follia distrugge il finto paradiso della famiglia perfetta

Sul mare grigio d’Irlanda, a un’ora d’auto da Dublino, una speculazione edilizia ha gonfiato una bolla d’illusioni per le famigliole della classe medio-bassa. Villette a schiera per sentirsi finalmente a casa propria. Gli Spain, Pat e Jenny e due figli, Emma e Jack, ci credono e ne comprano una. Ma in un paio d’anni il paradiso si trasforma in deserto. La bolla esplode. Arriva la crisi del 2008, le ditte falliscono, le costruzioni non vengono completate e loro si ritrovano a vivere isolati, in compagnie di poche altre famiglie sfigate come la loro. Ma i due, Pat e Jenny, si ostinano a volere la felicità perfetta. Stanno insieme da ragazzi. Il classico grande amore, con la spruzzata di un eterno pensiero positivo. Sempre e comunque.

Finché una mattina vengono ritrovati tutti cadaveri. Uccisi. Anzi no, Jenny è moribonda, respira ancora. I bimbi sono stati soffocati con un cuscino, al piano di sopra. La cucina, di sotto, è invece un Grand Guignol, tra il marito finito a coltellate e la moglie stesa con un colpo alla testa. L’indagine viene affidata a Mick Kennedy, soprannominato Scorcher ché fa sempre gol. Il suo partner è un novellino della classe proletaria, l’acuto Richie Curran. I due scoprono subito il maggiore indiziato: un amico degli Spain che da un anno e passa osservava la famiglia da un edificio abbandonato. A inchiodarlo prove e confessione. Epperò, come in ogni thriller che scandaglia i segreti della psiche, le certezze vacillano e i due poliziotti indagano pure su Pat. Tana French ha il passo lungo ma mai lento e noioso. E tra i dolorosi ricordi familiari di Scorcher e le faide alla Omicidi di Dublino, assembla una trama molto avvincente.

 

Il rifugio

Tana French

Pagine: 647

Prezzo: 22

Editore: Einaudi

Gavillucci, il fischietto svela i segreti del calcio

L’uomo nero è il nemico. È il mostro della cultura popolare, un film, una canzone. O solo un ex arbitro, Claudio Gavillucci da Latina, fatto fuori dal sistema. I tifosi se lo ricordano, per tutti è il fischietto che ha detto no al razzismo durante Sampdoria-Napoli del 13 maggio 2018, per gli odiosi cori sul Vesuvio o sul colera. Quella fu la sua penultima gara fra i professionisti: poche settimane dopo sarebbe stato dismesso dall’Associazione italiana arbitri, la casta dei fischietti, di cui adesso smaschera i segreti.

La sua biografia (L’uomo nero – Le verità di un arbitro scomodo, Chiarelettere editore) è come un giallo in cui si arriva alla fine senza scoprire l’assassino. Anzi, l’assassino sì, ma non il movente. La tesi dell’allontanamento per lo stop a quella partita solletica gli istinti di complottisti, napoletani feriti, anti-juventini cronici. Lui stesso vi ammicca, quando ricorda di essere stato il primo a prendere una decisione simile, oppure cita Matteo Salvini, all’epoca ministro dell’Interno. Ma aggiunge anche che al momento di quella gara era già in fondo alla graduatoria. L’uomo nero non parla di razzismo: è una storia ancora più inquietante, di un uomo qualunque, licenziato da un giorno all’altro senza motivo. Il libro attraversa l’angoscia del processo kafkiano subito dall’ex arbitro. Ma è proprio qui che il condannato diventa accusatore, con tanto di prove. Sono le schede di valutazione degli arbitri, che nessuno aveva mai visto. Alla sbarra ci finisce l’Aia e il suo padre padrone, Marcello Nicchi. Il “sistema”, insomma. Gavillucci racconta come funziona. Quanto guadagnano, tanti soldi, anche 120-150 mila euro a stagione in Serie A, ma spiccioli nei campionati minori, nemmeno 50 euro a gara fra i dilettanti. E tanto è faticosa la scalata, quanto rovinosa la caduta: chi viene bocciato perde tutto in un giorno. È quello che è successo a lui, ultimo per 0,016 in una classifica segreta e insindacabile. Dove i migliori, gli internazionali, risultano infallibili, pagano solo i più deboli. Un esempio su tutti: la disastrosa prestazione di Daniele Orsato nella famosa Inter-Juventus che consegnò ai bianconeri lo scudetto, fu valutata buona, la sua forma ottima, ampia l’affidabilità. È la stessa gara su cui l’ex procuratore Figc, Giuseppe Pecoraro, ha dichiarato di non aver potuto ascoltare l’audio registrato dal Var in occasione della mancata espulsione di Pjanic. Tutto si tiene. Gavillucci svela anche che un arbitro viene penalizzato ogni volta che ricorre al Var, anche se lo fa nel modo giusto.

Cambierete idea sugli arbitri: bersaglio dei tifosi, padroni del destino delle squadre, ma ignare pedine nelle mani del loro presidente Nicchi. Un dio intoccabile che può concederti una carezza paterna o punirti severamente, e che dopo 11 anni si ricandiderà per il quarto mandato. La carriera di Gavillucci, che nel 2011 quando non era famoso era stato sfiorato suo malgrado dall’ombra del calcioscommesse (solo perché per mantenersi lavorava per un’agenzia di betting inglese) è finita così. L’Aia, spalleggiata dalla Figc, si è opposta al reintegro. Perché, alla fine non lo dice nemmeno lui. Come spiega nel libro, “gli arbitri non possono parlare”. Mai.

 

L’uomo nero

Claudio Gavillucci con D’Alessandro e Ferrante

Pagine: 208

Prezzo: 14

Editore: Chiarelettere

“Lo Steinway”, il gioiellino di animazione dell’Archivio Luce

Non tutta la pandemia vien per nuocere, a patto di aguzzare gli occhi: Lo Steinway di Massimo Ottoni è un cortometraggio di animazione superlativo, e potete vederlo gratuitamente sul sito dell’Archivio Luce (www.archivioluce.com).

Girato in stop-motion e disegni animati, prodotto da Istituto Luce-Cinecittà con Centro Sperimentale di Cinematografia, è stato realizzato nel 2016, presentato in una trentina di festival internazionali e sovente premiato, dai Nastri a Giffoni: arriva sul web in occasione dell’anniversario dell’entrata dell’Italia nella Prima guerra mondiale, il 24 maggio 1915.

Ispirati dal racconto di Andrea Molesini, decine di pupazzi, paesaggi e nature sono stati ricostruiti al millimetro e hanno posato per nove mesi davanti una troupe di giovani creativi al Cineporto di Torino. Ne viene un gioiello di preziosa fattura e profonda empatia, che tra le trincee della Grande guerra fa della musica, complice il pianoforte del titolo e la colonna sonora di Fabio Barovero, la partitura di una fratellanza universale: sarebbe molto piaciuto a Ermanno Olmi, di cui riecheggia l’afflato umanista di Torneranno i prati.

Tra Storia e utopia, i soldati austriaci trovano in un rudere un vecchio piano e lo portano nella trincea: un commilitone ex concertista saprà valorizzarlo, guadagnandosi la non belligeranza, e fagiani e vino marzemino, dei dirimpettai italiani. Quando è grande cinema le dimensioni con contano: Lo Steinway in soli 17 minuti e 20 secondi ha licenza di incantare.

“Snowpiercer”, con Bong Joon-ho: quel che resta di noi è salito su un treno

Nel 2004 Bong Joon-ho, il regista del film premio Oscar 2020 Parasite, entra in una fumetteria di Seul e comincia a sfogliare Le Transperceneige, una graphic novel post-apocalittica francese. Da quell’incontro casuale nascerà Snowpiercer, girato proprio da Bong, con Chris Evans e Tilda Swinton. E dal 25 maggio, su Netflix, sarà disponibile una serie tv che con il film del regista sudcoreano condivide sia il titolo sia l’ambientazione.

Siamo su un treno, lo Snowpiercer appunto: un treno con a bordo 3.000 persone, tutto ciò che rimane dell’umanità dopo che il tentativo disperato di fermare riscaldamento globale ha portato la temperatura a -117 gradi.

Lo Snowpiercer ha 1.001 vagoni e gira in tondo, all’infinito, grazie a un motore perpetuo. I passeggeri sono divisi in classi. In prima viaggiano i finanziatori, quelli che hanno dato al misterioso Mr. Wilford, il capo del treno e quindi del mondo, i soldi per costruire Snowpiercer. Qui si vive più che bene: saune, boeuf bourguignon, grandi feste e follie varie… Almeno finché dura, perché il treno è un ecosistema fragilissimo e basta un niente (una valanga, per esempio) per metterlo in crisi. E poi ci sono la seconda classe, la terza e gli ultimi vagoni, il fondo, dov’è imprigionato chi non ha pagato il biglietto e per sopravvivere è costretto a mangiare barrette prodotte macinando gli scarafaggi.

Il film di Bong Joon-ho era ambientato 15 anni dopo la glaciazione e si svolgeva principalmente nel fondo, fra i poveracci che progettano la rivoluzione.

La serie di Graeme Manson, con Jennifer Connelly, si colloca invece sette anni dopo l’apocalisse e ha un taglio più crime. Segue le vicende di Layton, il capo dei ribelli, un ex detective che viene assoldato da Mr. Wilford per indagare sugli omicidi che stanno mettendo in pericolo il fragile equilibrio a bordo di Snowpiercer.

 

Vincono Montalbano e “La Casa di Carta”

In quarantena abbiamo passato molto più tempo del solito davanti agli schermi di televisione e pc. Secondo un’elaborazione dei dati Auditel realizzata dallo Studio Frasi, durante il lockdown si sono raggiunti picchi di 15 milioni di spettatori medi e le ore di streaming hanno superato quota 140 milioni. Ma cosa hanno guardato gli italiani? Per scoprirlo abbiamo chiesto a Parrot Analytics, una società americana che monitora i consumi dei prodotti televisivi, di stilare una top ten per Il Fatto Quotidiano.

La classifica esprime la popolarità di un titolo in un certo periodo (nel nostro caso dal 9 marzo al 10 maggio 2020) ed è basata sulle Demand Expressions, un indice che prende in considerazione fattori quali il numero di streaming, i download, le interazioni sui social network e le ricerche su Internet. Al primo posto, favorita dalla quarta stagione uscita il 3 aprile in pieno lockdown, c’è La Casa di Carta, che precede di misura Il Trono di Spade. A fine marzo Sky ha messo a disposizione le otto stagioni del Trono on demand e creato un canale dedicato: in molti, evidentemente, ne hanno approfittato per recuperare i capitoli mancanti della saga più seguita degli ultimi anni. Chiude il podio di Parrot Analytics il teen drama Riverdale, disponibile sia su Netflix sia sui canali Mediaset (la quarta stagione è in onda Premium Stories dall’11 marzo).

La classifica prosegue con tre titoli molto longevi: Grey’s Anatomy e The Walking Dead, entrambi su Fox, e Le Regole del Delitto Perfetto. In settima posizione compare, invece, The Mandalorian, l’unica nuova serie che è riuscita a conquistare un posto nella top ten. Il primo episodio dello spin-off di Guerre Stellari è andato in onda su Italia 1, mentre la serie completa è su Disney+, la piattaforma streaming disponibile anche in Italia dal 24 marzo. Completano il ranking Shameless, Better Call Saul (il prequel di Breaking Bad) e Westworld, che avuto un’impennata dal 16 marzo dopo l’uscita della terza stagione su Sky Atlantic e Now Tv.

I dati di Parrot Analytics costituiscono un buon indizio ma non una prova decisiva, per almeno tre ragioni: esprimono la popolarità di un titolo – non quanto è stato visto – e tendono a favorire lo streaming rispetto ai canali tradizionali e i titoli più vecchi rispetto a quelli nuovi. Qualche esempio? The Last Dance, la docuserie su Michael Jordan che è già diventata un cult, occupa soltanto la 124esima posizione, mentre ZeroZeroZero, basata sul libro di Roberto Saviano e lanciata su Sky a metà febbraio, è in 139esima.

Per capire davvero cosa abbiamo guardato in quarantena occorre integrare questa classifica con altre informazioni. Secondo i dati forniti dalla Rai, le serie tv più viste sui canali tradizionali dal 9 marzo a 16 maggio sono state, nell’ordine, le nuove puntate de Il Commissario Montalbano (9,8 milioni di spettatori medi e il 36,4% di share), Doc – Nelle tue Mani con Luca Argentero, Don Matteo 12 e la nuova Vivi e Lascia Vivere con Elena Sofia Ricci. In streaming su RaiPlay si confermano Doc – Nelle tue Mani (1,9 milioni di ore e 5,1 milioni di streaming) e Don Matteo, mentre al terzo posto sale Bella da Morire, miniserie con Cristiana Capotondi nei panni dell’ispettrice di polizia Eva Cantini.

Sui canali generalisti Mediaset, oltre a I Simpson, le serie più viste sono state Csi: Miami, Csi: Scena del crimine, La Signora in Giallo e Big Bang Theory. Su Sky la nuova Diavoli (un milione di spettatori a settimana fra lineare e on demand), ZeroZeroZero, Yellowstone con Kevin Costner e la terza stagione di Babylon Berlin. Netflix, come Amazon Prime Video, non divulga dati di questo genere. Alcune indicazioni utili, però, le fornisce la top ten dei titoli più visti del giorno disponibile sulla piattaforma: nell’ultimo periodo le più gettonate sono state The Last Dance, le spagnole Vis a Vis e White Lines ideate da Álex Pina (La Casa di Carta), i teen drama Skam, Non ho mai… e Summertime.

 

Viaggi, parole e note: è in scena P.J. Harvey – A Dog Called Money

Parole, immagini e note. Niente di più semplice, niente di più complesso se a crearsi è vera poesia animata da sincero impegno socio-politico. L’identificazione di un connubio artistico fra i più felici dei nostri tempi è quasi immediata: P.J. Harvey e Seamus Murphy. Traducendo per i meno esperti: una delle divine del rock alternativo britannico (riduzione per necessità semplificativa) accanto a uno dei più talentuosi fotoreporter contemporanei. Insieme hanno dato forma a una creatura documentaria che sfugge alla chiusura in un genere cinematografico aprendosi al medley, anzi alla vera jam session, per rimanere in ambito musicale.

E il titolo del film, diretto dallo stesso Murphy, non induce in tentazioni da velleità manieristiche: P.J.Harvey – A Dog Called Money, ovvero quel cane chiamato denaro non solo abbaia, ma azzanna di avidità almeno quanto la frase che P.J. – per gli amici Polly – Harvey si trovò a pronunciare alcuni anni fa: “Ho sentito che vent’anni fa si poteva pagare ed entrare in un cinema con dei proiettili”. Il luogo descritto rimandava alla Kabul sotto assedio, ma poteva riguardare il Kosovo bombardato come pure la Washington D.C. abitata da presidenti guerrafondai, non per ultimo l’attuale che certamente non gode i favori di Polly & Seamus. Ma la loro collaborazione, seppur parli al presente, riguarda immaginari del recente passato, collocati esattamente nelle tre località citate, luoghi marchiati da dolore e contraddizioni e per questo ai loro sguardi di assoluto interesse. Difatti l’ispirazione di A Dog Called Money nasce dagli appunti di tre viaggi intrapresi da Harvey e Murphy tra il 2011 e il 2014, rispettivamente in Kosovo, Afghanistan e Washington D.C.: se Seamus fotografava i territori di guerra (anche concettuale come nel caso americano), Polly raccoglieva pensieri e idee per le canzoni che sarebbero successivamente confluite nel suo nono album, The Hope Six Demolition Project, pubblicato nell’aprile 2016.

Un album peraltro registrato durante session “pubbliche” a pagamento: la gente, infatti, poteva assistere al “gesto creativo musicale” durato 5 settimane presso la casa londinese di Polly osservando da un vetro e ascoltando tramite mini-microfoni. Testimone di quegli attimi di magia è lo stesso Seamus che fotografa, riprende e recupera dalla memoria le immagini dei viaggi che stanno alla base di note e parole. Il mescolamento di questo miracoloso materiale ha sortito A Dog Called Money, un’ibridazione non nuova (pensiamo alle collaborazioni fra Enzo Avitabile e il compianto Jonathan Demme, a Marty Scorsese su Bob Dylan e non solo..) ma sempre innovativa perché riguarda espressioni spontanee e personalissime. Il film è on demand in prémière assoluta ed esclusiva a partire da ieri su http://wantedcinema.eu/wantedzone/, siglando l’inaugurazione della sala virtuale Wanted Zone creata dal distributore Wanted Cinema.

“Mia madre avrebbe potuto salvare Pavese”

“Solo recentemente mia madre ci ha confidato, con doloroso rimpianto, che in quel lontano agosto 1950, poco prima del suicidio, aveva dovuto riordinare le carte del Diario (il futuro Mestiere di vivere) scompaginate da una folata di vento nella stanza dello zio Cesare e che, per quel senso di profondo rispetto e riservatezza, non aveva voluto leggere le ultime frasi che lui vi aveva scritto – ‘Non parole. Un gesto. Non scriverò più’ – che lasciavano pochi dubbi su ciò che sarebbe successo”.

Così, a settant’anni dalla morte di Cesare Pavese, avvenuta il 27 agosto del 1950, Maurizio Cossa, figlio di Maria Luisa, una delle due nipoti dello scrittore, rievoca i giorni di quella brutta estate in cui lo scrittore di Santo Stefano Belbo, dove era nato nel 1908, si tolse la vita all’Hotel Roma di Torino.

Se qualcuno si fosse reso conto delle intenzioni di Pavese, che pensava da tempo al suicidio, l’autore di La luna e i falò avrebbe potuto essere salvato? Può essere. L’interrogativo, a ogni modo, è destinato a non avere risposta. E soprattutto è ingeneroso colpevolizzare quel “doloroso rimpianto”, innocente, per ciò che avrebbe potuto magari essere ma non fu.

Riportata nel saggio Cesare Pavese – Vita colline libri di Franco Vaccaneo, in uscita tra qualche settimana per la casa editrice Priuli & Verlucca, la testimonianza inedita di Cossa, intitolata “Un marziano a Torino”, è invece rilevante per comprendere la solitudine estrema di Pavese, spesso cercata e voluta da lui stesso.

Era un uomo solo anche in famiglia, nella casa della sorella Maria, quell’abitazione torinese di via Lamarmora in cui viveva con lei, il cognato e due nipoti, Cesarina e Maria Luisa, la madre di Cossa. Nato “qualche anno dopo la sua tragica morte”, scrive Cossa nel libro di Vaccaneo, “ho conosciuto la figura di Cesare Pavese solo attraverso le parole pudiche di Maria, mia nonna e sorella dello scrittore, e di mia madre e di mia zia Cesarina che avevano diviso per tanti anni la vita con lui”. Oggi si domanda: “Cosa c’entrava il grande intellettuale Pavese (in famiglia lo abbiamo sempre chiamato così, col cognome) con quella donna così diversa, tipico esempio della modesta sobrietà della piccola borghesia piemontese? E con la famigliola di lei, le bimbe che diventavano adolescenti, il cognato impiegato comunale, fascista per quieto vivere”? Forse c’entrava poco, se non altro sul piano intellettuale e politico, “ma credo che vi fosse un profondo rispetto reciproco, pur nella diversità. Il rispetto per valori condivisi di sobrietà, modestia nell’apparire, onestà”.

Sobrietà, modestia e rispetto per Cesare e le sue idee, nonostante le profonda differenza fra il modo di pensare dello scrittore e quello dei suoi famigliari. Pur essendo i Pavese molto cattolici, infatti, quando si trattò, dopo la morte di Cesare, di scegliere una sua frase da utilizzare per il suo biglietto funebre, si decise, dopo qualche contrasto, di usare quella meno ortodossa, almeno per i cattolici. L’episodio è accennato da Vaccaneo, fondatore e a lungo alla guida della Fondazione Pavese di Santo Stefano Belbo, in questo suo nuovo libro, che propone aspetti poco noti o sconosciuti, come la testimonianza del nipote Cossa sulla vita dell’intellettuale piemontese. Ricorda, sulla scorta delle memorie raccolte, che la sorella Maria e le sue figlie appuntarono tre brani tratti dai libri di Cesare. Quelle citazioni, che anni fa fecero ritenere addirittura che fossero state scritte e messe da parte dallo stesso Pavese poco prima di suicidarsi, recitano: “L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo di immortale: il ricordo che porta e il ricordo che lascia”; “ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti”; “ho cercato me stesso”. Venne comunque il momento di sceglierne una. Una cognata, la “mia prozia Federica, bigottissima”, rammenta Cossa, con ogni probabilità cercò di impedire che si optasse per la prima citazione, presa dai Dialoghi con Leucò. Fu quella, però, a finire sul ricordino funebre. La cognata Federica, del resto, scrive Cossa, era la parente che Pavese, in una lettera, prese in giro “per la sua fede cieca. Lui che era sempre alla ricerca di risposte, mai preconfezionate, anche su Dio, fu impietoso con le dozzinali certezze della cognata con cui pure aveva diviso la ‘casa in collina’ a Serralunga di Crea al tempo dello sfollamento”.

Il suicidio di Pavese, per i famigliari, afferma Cossa, fu “un vero trauma. Non se ne parlava mai… Il suicidio era (e forse è ancora) tabù. Interroga sulle colpe, magari anche quelle, certamente involontarie, dei parenti più stretti”.

Eppure il dramma pavesiano del mestiere di vivere, sostiene Vaccaneo, è la sua modernità: “Se Cesare Pavese è vissuto nella disperazione dentro la crisi più profonda e forse irrisolvibile del suo secolo, come quei cercatori d’oro che dal fango estraggono pepite d’oro, ha saputo distillare autentica poesia per farcene dono. Questa poesia, ancora oggi dopo settant’anni, ci aiuta e ci consola”.